Metamorfosi di Ovidio

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Testo

IL MATRIMONIO CONTRASTATO

Il coronamento dell’amore dovrebbe essere rappresentato dal matrimonio, che, con l’unione dei due sposi, trasforma l’attesa e il desiderio amoroso in un insieme di esperienze, di gioie e dolori condivisi. Raramente la felicità dell’amore coniugale diventa materia di riflessione e rappresentazione letteraria, ma ciò avviene, ad esempio, quando questa intima rete di abitudini si spezza per la scomparsa del coniuge. Gli scrittori più spesso sottolineano i problemi legati al matrimonio, il ruolo autoritario assunto, soprattutto nell’Ottocento, dalla figura del marito, gli aspetti sgradevoli della convivenza, la noia delle consuetudini, ecc…
Stendhal, nel suo libro Dell’amore, individua sostanzialmente due tipi di sentimento amoroso: l’amore- passione e l’amore- vanità. Il primo nasce da una forte emozione, è irrazionale e subito, come una febbre improvvisa, fa soffrire; il secondo è invece frutto d’imitazione, nasce da una scelta dell’individuo, è ricercato allo scopo di ricavarne piacere. L’amore- passione è un “colpo di fulmine” causato da forze superiori (il destino, la fatalità); l’amore- vanità è costruito lentamente attraverso un calcolato corteggiamento. Il primo ha spiccate caratteristiche antisociali e anticonformistiche: spesso il desiderio di chi ama appassionatamente si scontra con la disapprovazione o i divieti della comunità e della famiglia. L’amore di vanità, invece, cerca il consenso della gente, mostra la persona amata come un oggetto o un ornamento di cui va fiero. La volontà contrastata di due giovani che desiderano unirsi in matrimonio è fonte di trame fin dall’epoca Romana, esempi ne sono Ovidio e la sua “Piramo e Tisbe”, Terenzio con l’“Andria”e l’”Hecyra” che ha attinto con la contaminatio da Menandro, commediografo greco, per poi passare a tragediografi come Shakespeare con “Romeo e Giulietta” e “Amleto” e giungere infine a scrittori più recenti, come, ad esempio, Stendhal, che dà vita a Lucine Leuwen, che, folgorato da uno sguardo intravisto dietro ad una finestra, cade da cavallo.
Mentre l’amore di vanità ha senso solo se si possiede l’oggetto ambito, l’amore- passione si alimenta della sua assenza: più la persona amata è lontana, più il desiderio si fa intenso; più l’amore è contrastato, più diventa grande e invincibile, come nel sonetto foscoliano “Meritamente, però ch’io potrei”.
Con il fidanzamento la dimensione individuale dell’amore deve fare i conti con quella sociale. Essa assume i modi, i tempi stabiliti dalla comunità, si sottopone a proibizioni e a controlli, accetta le regole di uno scambio economico, fatto di reciproci vantaggi e convenienze, tra le famiglie dei due innamorati. Tutto questo complesso cerimoniale è scavalcato disinvoltamente dal protagonista di La coscienza di Zeno. Ma il suo inconsueto fidanzamento non ha nulla della sfida romantica al sistema di divieti e convenzioni che ingabbiano l’amore- passione. Al contrario, il giovane Zeno ambisce, con la sua triplice richiesta di matrimonio, alla normalità; egli vuole al più presto essere accettato all’interno del piccolo, rituale mondo borghese.

LA NOTTE, IL CASUS

Nell’immaginario umano la notte, con la sua oscurità ora inquietante e paurosa, ora protettiva e riposante, rappresenta da sempre una dimensione “altra”, nettamente contrapposta al giorno, dominio della luce, della chiarezza razionale, di ciò che è noto e consueto. La notte quindi si rivela lo scenario più adatto al segreto, agli incontri degli innamorati contrastati che devono essere celati dalle tenebre alla vista di tutti. E’ questo lo sfondo della metamorfosi ovidiana di Piramo e Tisbe che si svolge nel silenzio, lontano da anima viva. Shakespeare si rifà alla tradizione classica considerando la notte come il momento d’incontro dei suoi innamorati; ne è esempio l’incontro notturno tra Romeo e Giulietta.
Ma è il romanticismo che scopre nella notte un’arcana suggestione, una profonda e misteriosa bellezza, e se ne appropria, riconoscendo in essa la propria autentica, congeniale dimensione. La notte romantica, tuttavia, non è solo uno scenario suggestivo; è immagine sensibile, metafora dell’infinito, di quella dimensione assoluta (il Tutto, l’Essere) che i grandi romantici europei intuiscono e verso la quale si protendono, al di là del mondo limitato e in autentico in cui l’uomo è costretto a vivere. Il silenzio e la solitudine della notte, spesso abitata dalla presenza mitica ed enigmatica della luna, l’oscurità infinita in cui si sfumano tutti i contorni, isolano l’individuo dai suoi simili, lo dispongono alla riflessione esistenziale di fronte alle grandi forze della natura (Leopardi, “Canto notturno”, “Alla luna”), così come al pensiero d’amore (Leopardi, “La sera del dì di festa”; Berchet, “Il trovatore”; Puskin, “Tatjana, soave Tatjana”). Proprio per questo la notte è anche il momento del sospirato congiungersi degli amanti. Quella realtà “altra”, più profonda, che la tenebra della notte rivela e dischiude, si configura come il regno dell’ignoto, dell’irrazionale, del mistero: è dunque la dimensione propizia agli eventi soprannaturali e inquietanti, all’apparizione di spettri e demoni. Nell’”Inno” di Novalis è la notte a ricondurre la morta Sophie; notturna è la lugubre scena demoniaca in “Kubla Khan” di Coleridge; di notte riappare il fantasma della fanciulla amata nella ballata Sul Reno di Brentano; ancora di notte entra in scena la sinistra “maschera” del vecchio duca nell’ “Ernani”di Hugo. Di qui l’ambientazione notturna del romanzo nero, gotico, dell’orrore: nella notte hanno luogo il patto col diavolo (Lewis, “Il monaco”; Marlowe, “Doctor Faustus”), la creazione del mostro (Shelley, “Frankenstein”), l’arrivo della nave stregata che reca a bordo il vampiro (Stoker, “Dracula”). Se ci spostiamo in avanti nel Novecento, è proprio di notte che viene impensatamente trovato, ferito e abbattuto dalla contraerea, l’angelo dell’omonimo racconto di Savinio; mentre se si va ancora più indietro si trova Dante che fa il suo ingresso nella selva oscura e incontra le tre fiere.
Se il volgersi alla notte appare come l’ingresso in un mondo nuovo e sconosciuto, come meta della tensione a uscire da sé, a superare i limiti dell’esistenza individuale; e se a questo si aggiunge che la notte è per sua natura il tempo del sonno, della quiete e del riposo dopo i travagli e le fatiche della giornata, si comprende facilmente come essa tenda a identificarsi con la morte. In questo schema rientra anche la metamorfosi di Ovidio inerente Piramo e Tisbe: proprio durante la notte che avrebbe dovuto nascondere il loro congiungimento, a causa di un equivoco, i due innamorati trovano la morte. Anche altre poesie possono identificare la notte con la morte, ad esempio, l’ “Inno alla notte”, “Alla sera” e anche “La mia sera” di Pascoli, in cui il discendere della pace serale si fa simbolo di una regressione alla non- esistenza prenatale, e “La sera fiesolana” di D’Annunzio, dove la lenta metamorfosi della sera che trapassa nella notte è detta “pura morte”. Quest’ultima poesia, assieme al “Raccoglimento” di Baudelaire si orienta sulla sera, più ancora che sulla notte, in quanto stato di passaggio, graduale e inafferrabile divenire, immagine mitica di metamorfosi.
Per quanto riguarda il casus, che nell’episodio ovidiano di Piramo e Tisbe coincide con l’arrivo della belva, la fuga di Tisbe e l’equivoco che ne consegue, il maggiore esempio di ripresa di questa componente si trova in Shakespeare, ancora una volta in “Romeo e Giulietta”. Gli equivoci nella storia sono principalmente sfortunati eventi che inducono i protagonisti a sbagliare. Per esempio, è sfortuna che Romeo si innamori di Giulietta, figlia della famiglia nemica e ciò causerà prima i loro incontri segreti e successivamente la loro morte; è sfortuna l’assassinio di mano sua di Tebaldo e la conseguente fuga; infine è sfortuna il fatto che egli non riceva in tempo il messaggio di Padre Laurence. Allo stesso modo, è sfortuna il fatto che prima Romeo creda che Giulietta sia morta e che questa si risvegli troppo tardi, quando il veleno sta già facendo effetto su Romeo. Il casus è presente anche in altre tragedie di Shakespeare , anche se riveste un ruolo meno determinante; ad esempio, in “Othello”, “Macbeth” e “Re Lear”, i protagonisti fanno degli errori fatali che non possono essere rimediati in nessun modo determinando delle conseguenze catastrofiche.

IL TONO FIABESCO

Il termine fiaba, come il francese fable e l’italiano favola. Deriva dal latino classico fabula, attraverso una forma del latino volgare flaba, non attestata; flaba nel significato di racconto, discorso inverosimile, frutto d’immaginazione, di pura invenzione, fandonia, frottola. Il significato generale di fiaba indica un racconto fantastico di origine popolare, in cui il meraviglioso e il magico (fate, folletti, maghi, streghe, metamorfosi, bacchette magiche, ecc… abbia una parte predominante; ne sono protagonisti, indistintamente, uomini, animali e oggetti magici. La fiaba si differenzia dalla favola, che è piuttosto una breve narrazione in cui si fingono atti o parole di animali o di cose inanimate, e sotto il velo d questa finzione si ricopre una verità (è infatti sempre presente un carattere didascalico e un fine moraleggiante); le sono propri il ricorso all’allegoria tipica di civiltà già mature, l’aspirazione ad una tutta umana saggezza ed esemplarità, che non rifugge talvolta da motivi satirici appuntati contro determinati tipi umani, precise strutture sociali, particolari costumi. La fiaba sembra invece collocarsi tra i più remoti prodotti del folklore, prossima alle forme simboliche e al mito. I suoi caratteri tipici, comuni ad altre forme di tradizione popolare (miti leggende, saghe, credenze, proverbi, ballate, ecc…), sono l’impersonalità, il suo nascere non per un singolo atto di creazione individuale, ma il suo sussistere come prodotto collettivo indipendente dal narratore, il quale può beninteso variarla, ma non la inventa. Al pari di miti e leggende le è propria una natura ripetitiva, la fissità e limitatezza dei suoi temi immutabili. Il mito rispetto alla fiaba, il mito possiede però una forte carica religiosa e la dimensione sacrale di un sapere segreto trasmesso sottoforma di racconti riguardanti gli dei e gli eroi a un gruppo di iniziati. Nel racconto fiabesco, invece, il meraviglioso e soprannaturale non mira a rivelare la verità; il suo contenuto è immaginario e ha per fine il semplice diletto dell’ascoltatore.
Motivi fiabeschi si rintracciano nell’epopea babilonese nel Gilgamesh e nella Bibbia. Ma è nel lontano Oriente, considerato dagli “indianisti” la vera cultura della fiaba, che si hanno precoci raccolte di novelle, favole e fiabe come il Pancatantra ([Il testo] in cinque parti) databile tra il II e il VI secolo dell’era cristiana, la Brhatkathamanjari (Il mazzo di fiori della Brhatkatha) di Ksemendra e il Kathasaritsagara (L’oceano delle novelle simili a fiumi) di Somadeva, entrambe del XI secolo, ma ricavate dalla Brahatkatha (Il gran romanzo) di Gunadhya, un’opera del II- III secolo d.C. Anche le celebri Mille e una notte, che nella loro vulgata attuale sono una compilazione anonima sorta in Egitto alla fine del XIV secolo, risalgono ad una più antica e perduta visione araba (sec. X) di un originale persiano, il quale a sua volta doveva attingere indubbiamente a fonti indiane (lo straordinario influsso che tale raccolta esercitò in Occidente, penetrando addirittura negli infimi strati della letteratura popolare, discende dalla vivace traduzione francese datane dal Galland, 1704- 17).
Il Occidente, il mondo classico, che tanto si esercitò nella favola, ha conservato tracce del genere fiabesco: innanzitutto le Metamorfosi di Ovidio richiamano motivi fiabeschi nell’episodio di Piramo e Tisbe, come l’ambientazione in un paesaggio esotico; la bella fabella (dalle remotissime ascendenze mitiche e dall’incipit davvero fiabesco: ) di Amore e Psiche che, tra la fine del IV e il principio del VI libro, occupa il centro delle Metamorfosi di Apuleio. Ma anche nei primi tre libri gli oscuri sortilegi delle maghe tessale determinano un irreale e pauroso clima fiabesco. Secondo alcuni studiosi essi imiterebbero il Satyricon di Petronio (I sec. d.C.), ove non mancano racconti magici (Sat. 62, 63). Estranea ai motivi fiabeschi presenti nel romanzo apuleiano sembra invece l’ironia beffarda profusa da Luciano (o dallo Pseudo Luciano) nel quasi coevo Lucio o L’asino.
Fiaba o elementi fiabeschi si possono rintracciare nei romanzi del ciclo bretone, nella gran congerie dei libri di novelle (Il Pecorone di ser Giovanni Fiorentino, oppure le Novelle del Sercambi) e persino nei poemi in ottave (dal Mambriano del Cieco di Ferrara, ai più celebri esemplari).

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