Livio, Ab Urbe condita, XXX, 20, 1-7 (il ritorno di Annibale in patria)

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Testo

Livio
Ab Urbe Condita, XXX
20, 1-7

Si dice che (Annibale) abbia ascoltato le parole degli ambasciatori digrignando i denti e gemendo e trattenendo a stento le lacrime. Dopo che fu esposta l’ambasciata, disse: «Coloro che già da tempo tentavano di trascinarmi via da qui, vietando di mandarmi nuove reclute e denaro, mi richiamano, non in modo velato ma palese. Quindi non il popolo romano, così tante volte sconfitto e messo in fuga, vinse Annibale, ma il senato dei Cartaginesi con malignità ed invidia. E Publio Scipione esulterà per questa infamia del mio ritorno e (ne) sarà orgoglioso non tanto quanto Annone che, dal momento che non poté con altro mezzo, oppresse la mia famiglia con la rovina di Cartagine». Proprio prevedendo con attenzione questa circostanza, aveva preparato in precedenza le navi. E così, distribuita un’inutile schiera di soldati, in apparenza come truppe di presidio, nelle poco numerose città del territorio dei Bruzzii, le quali erano tenute sottomesse più dalla paura che dalla fedeltà, trasferì in Africa quanto rimaneva del nerbo dell’esercito, dopo aver ucciso crudelmente nello stesso tempio molti uomini di stirpe italica che, rifiutando di seguirlo in Africa, si erano ritirati nel tempio di Giunone Lacinia, inviolato fino a quel giorno.
Riportano che di rado qualche altro, che lascia la patria per l’esilio, si fosse allontanato tanto triste quanto Annibale che partiva dalla terra dei nemici. (Riportano) che più volte si voltò indietro a guardare le coste dell’Italia e, accusando dei e uomini, dopo aver maledetto sé e la sua stessa persona, perché non aveva condotto i suoi soldati ancora grondanti di sangue dalla vittoria di Canne a Roma.

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