"Perchè l'epicureo, il materialista Lucrezio apre il De Rerum Natura mediante l'invocazione a

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SAGGIO BREVE: PERCHÉ L’EPICUREO, IL MATERIALISTA LUCREZIO INIZIA LA SUA OPERA DE RERUM NATURA MEDIANTE UN’INVOCAZIONE AD UNA DEA?

Il De rerum Natura, unica opera dello scrittore arrivata a noi, è un poema didascalico in sei libri, in cui viene diffusamente trattata la dottrina Epicurea, concezione filosofica di origine ellenistica e di stampo prettamente materialistico. Peculiare appare la particolare fisica della dottrina, fondata sul’atomismo e sul clinamen, elemento che inserisce nella concezione tipicamente deterministica l’ammissione del libero arbitrio. Il ruolo dell’uomo viene quindi parzialmente svuotato di centralità e di impegno nel mondo; al contrario, in primo piano assurgono la ricerca del piacere individuale, lo scetticismo scientifico, il distacco delle divinità dalla vita terrena, spesso in contrasto con la morale ufficiale romana (l’epicureismo è infatti la filosofia dell’elite intellettuale).
Il poema si apre con un gioioso e vivificante inno a Venere, divinità simbolica della sensualità, della natura in movimento, del piacere e della bellezza. Alla divinità vengono attribuiti poteri vivificanti e pacificanti (il risveglio della natura, la sensualità naturale e gioiosa, l’amore in contrasto con lo spirito bellicoso) e Lucrezio chiede di fare altrettanto con la sua opera, rendendola piacevole e viva entrando così in contrasto con la dottrina del Maestro epicureo, che non ammetteva che le divinità si occupassero di altro dalla contemplazione, e con il resto del poema, che ha come obiettivo l’abbattere le superstizioni proprie della religio.
E’credibile che una scelta di questo tipo sia almeno parzialmente da attribuire alla tradizione: Lucrezio, per rendere conforme e quindi accettabile dalla morale comune romana la sua opera, non può prescindere da un’invocazione proemiale ad una divinità. Probabilmente, la motivazione principale è che Venere assume un ruolo funzionale al proseguio del poema: “Venere, hominum divumque voluptas, è la rappresentazione allegorica dell’istinto amoroso che spinge gli esseri viventi alla procreazione e alla trasmissione della vita nell’universo.” (Paratore). Del resto, Lucrezio non manca di designare allegoricamente con il nome delle divinità ciò che ad esse è pertinente. Le numerosissime occorrenze di Venere per indicare l’amore, sia nel senso erotico sia di vero e proprio atto sessuale metterebbero in rilievo questo stesso valore allegorico: la dea diviene così simbolo della voluptas in motu, del piacere dinamico che si consegue realizzando il desiderio dell’eros.
L’inno si vale per l’appunto di immagini della natura benigna come rigoglio di vita, cieli sereni, e liberi spazi popolati da uccelli canori. Tra tutti i temi gioiosi ed espansivi spicca quello della procreazione: tutta la natura è eccitata da una forza cosmica universale che ha per fine la continuazione della specie, a cui contribuiscono il sorriso del paesaggio, il clima primaverile e la dolce trepidazione amorosa. La scena d’amore fra Venere e Marte rappresenterebbe infatti il culmine della rappresentazione della brama dei sensi: l’amore viene infatti spogliato materialisticamente di ogni aspetto nobile e sentimentale.
Alcune interpretazioni contrastanti (Bignone) vedono, diversamente, in Venere la rappresentazione del piacere catastematico e aratassico. L’inadeguatezza della tesi appare per il contrasto con l’evidente carattere sensuale e istintivo dell’invocazione (sono gli animali a rispondere all’innata necessità di procreazione).
Si è anche tentato di attribuire a Venere e a Marte un simbolismo delle forze contrastanti della filìa e del neikos (amore e discordia, odio) di empedoclea memoria, o i principi costruttivo e distruttivo che regolano l’incessante alternarsi di vita e morte (Giancotti). Ciò appare forzato in quanto in Venere “va scorto l’insieme delle forze di natura, senza possibilità di arbitrarie discriminazioni fra principio costruttivo e distruttivo.” (Paratore).

Francesco Di Plinio – V G

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