Ungaretti

Materie:Tesina
Categoria:Italiano

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Testo

Thomas Merton ha scritto: “Io penso che Ungaretti sia scoinvolgente, la sua intensità ti annienta.”
Ungaretti inserisce, per la prima volta in modo coerente e integrale, la poesia italiana entro le prospettive del simbolismo europeo; trovando un punto di incontro tra avanguardia e tradizione fino ad apparire il poeta moderno e novecentesco per eccellenza. Anche le origini di Ungaretti sono decentrate rispetto all’ orizzonte della cultura nazionale egli non ha dietro di sé un omogeneo retroterra cittadino (come era la Trieste di Saba), ma si forma in un crogiuolo di razze e di culture diverse, di esperienze internazionali dominate dalla letteratura e dall’arte francese dell’ inizio del secolo. Nato ad Alessandria d’Egitto nel 1888, apparteneva ad una famiglia emigrata di Lucca: il padre lavorava come operaio al canale di Suez. Nella vivacissima città egiziana si rivela essenziale l’incontro con Enrico Pea, che con altri rivoluzionari, anticonformisti, ribelli, anarchici, diede vita alle leggendarie riunioni della “baraccha rossa” una casa di legno a due piani,ricoperta di lamiera e dipinta di rosso,luogo di ritrovo per sovversivi e fuoriusciti, ove potè dare sfogo al suo temperamento anarchico, alla sua passione sociale, all’istintiva passione per le ingiustizie. Nessuna meraviglia che, al momento di lasciare l’Africa, Ungaretti trovi più congeniale e più coerente con la propria storia proseguire, dopo una sosta fiorentina brevissima, per Parigi. Conosce Apollinaire, Picasso; e queste nuove esperienze le confronta, le fonde con le suggestioni e le convinzioni ricavate dalle sue letture: Leopardi, Baudelaire, Mallarmè, Nietzsche. In occasione di una mostra futurista prende contatto con i principali esponenti del gruppo fiorentino (Papini, Soffici, Palazzeschi), grazie ai quali pubblica nel 1915 le sue prime poesie su “Lacerba”. In Francia condivide, con gli amici, il senso di una crisi di fiducia nella società e l’angoscia di sentirsi impotente a risolvere i grandi problemi della civiltà declinante. Ma soprattutto gli si chiarisce la vocazione poetica, la quale fiorisce in lui con la convinzione che l’uomo, nella poesia, potrà riscattarsi e ritrovarsi. Ungaretti amerà la Francia provando quasi per essa il primo amore di patria: è la terra dell’arte, della poesia, degli amici, della speranza di civiltà. Nel 1914 si trasferisce a Milano, e si dichiara interventista tanto che all’entrata in guerra parte come soldato semplice nel 19° reggimento di fanteria ed è inviato a combattere sul Carso. Durante questa esperienza prendono la loro forma originale e inconfondibile le liriche pubblicate ad Udine alla fine del 1916, con il titolo “Il porto sepolto”. Nella primavera del 1918 il suo reggimento passa a combattere in Francia, e alla fine della guerra egli rimane a Parigi come corrispondente del giornale fascista “ Il Popolo d’Italia” e poi come adetto all’ ufficio stampa dell’ ambasciata italiana. Nel 1919 esce “Allegria di naufraghi” che confluirà con la precedente raccolta nel volume “L’allegria”(1931), che comprende la prima frase della produzione poetica Ungarettiana. Nel 1921 si trasferisce a Roma, per lavorare presso il Ministero degli Esteri. Dopo la vita giovanile irregolare, gli anni venti rappresentano per lui un ritorno all’ordine sia dal punto di vista privato che da quello culturale, alla sua piena adesione al fascismo si accompagna intorno al 1928 una vera e propria conversione religiosa. La sua fama di poeta raggiunge il culmine con la pubblicazione, nel 1933, di “Sentimento del tempo”. Nel 1936, viene chiamato ad insegnare letteratura italiana all’ università di san Paolo di Brasile, vi rimane con la famiglia fino al 1942, ma questi sono anni amareggiati dalla perdita del fratello e da quella del figlio Antonietto, eventi che trovano eco nei versi de “Il dolore”. Rientra in Italia, viene nominato accademico di Italia e professore di letteratura italiana moderna e contemporanea all’ università di Roma. Con il crollo del fascismo si adatta al nuovo clima del dopoguerra, ponendosi come grande vecchio della letteratura italiana rispettato e stimato da tutti, poeta ufficiale ma pronto a ripercorrere con sapienza le forme più diverse della tradizione poetica. Oltre a pubblicare nuove raccolte e volumi compie numerosi viaggi e la sua inesauribile vitalità viene turbata dalla morte della moglie, nel 1958. Riconosciuto in tutto il mondo dopo l’uscita nel 1969 della raccolta completa dei suoi versi “Vita di un uomo”, compie un ultimo faticoso viaggio a New York all’ inizio del 1970 e muore a Milano la notte tra il primo e il due giugno di quell’anno. I funerali si svolgono a Roma ed è salutato con ultime e bellissime parole da Carlo Bò :“Giovani della mia generazione, in anni oscuri di totale delusione politica e sociale, sarebbero stati pronti a dare la vita per Ungaretti, e cioè per la Poesia.”
L’ Italia nella prima guerra mondiale e il soldato Ungaretti
La Grande Guerra ha inizio per gli Imperi coloniali il 10 luglio 1914. L’Italia, giovane regno con un esercito poco attrezzato e male addestrato, ma pieno di retorica e sogni di gloria, ci entra il 24 maggio 1915. Il giovane soldato Giuseppe Ungaretti è partito come volontario. Credeva nella necessità della guerra, sperava che fosse breve e portasse onore alla Patria. Ma non è così. La guerra, per chi non la fa sui giornali o nei salotti, per chi non è un ricco privilegiato, un industriale, un ufficiale di alto rango, è solo una serie infinita di orrori. Come ogni altro essere umano, Ungaretti si sente fragile, ha paura di morire, è sconfortato. Il suo reggimento viene ricostituito centinaia di volte, perché ogni assalto lascia sul terreno un gran numero di morti; dopo ogni assalto bisogna rifarlo da capo! È uno sterminio costante e privo di senso.
Il soldato Ungaretti sente l’urgenza di scrivere, ma non vuole tenere un diario. Allora scrive su ciò che ha sottomano: pezzi di cartolina già pasticciati, la carta che avvolge le munizioni. Mette data e luogo e, sotto, una poesia. Conserva tutto nel tascapane. Le parole nascono alla luce incerta dei riflettori puntati contro la trincea nemica; a lume di candela in una delle tante caverne del Carso.
Dirà poi, riguardo le sue prime poesie: “La guerra improvvisamente mi rivela il linguaggio. Cioè io dovevo dire in fretta perché il tempo poteva mancare, e nel modo più tragico… in fretta dire quello che sentivo e quindi se dovevo dirlo in fretta lo dovevo dire con poche parole, e se lo dovevo dire con poche parole lo dovevo dire con parole che avessero avuto un’intensità straordinaria di significato”.
La Grande Guerra è diversa da tutte le precedenti. La seconda Rivoluzione Industriale ha portato armi “migliori”: fucili a ripetizione, mitragliatrici, gas asfissianti, carri armati e persino sottomarini. L’esercito italiano è impreparato a questa guerra, semplicemente non la sa fare; gli assalti all’arma bianca, se ci sono, si risolvono in una carneficina; le battaglie non spostano il fronte di molto, si muore come mosche per prendere una collina o cento metri di terra lungo i fiumi; e si torna indietro il giorno dopo. È una guerra logorante, priva di trionfi, interminabile. Questa lunghissima alba ha effetti profondi sui soldati al fronte. Per alcuni è un vero e proprio danno mentale: sono frequenti la depressione, gli attacchi di panico, il rifiuto della realtà; c’è chi si taglia le dita, una mano, una gamba, o si acceca un occhio, pur di scamparla, pur di tornare a casa -- meglio tornare vivi senza un pezzo che interi in una bara. Il poeta Ungaretti cambia pelle. La tragedia quotidiana fa sparire la retorica della guerra come i sogni al risveglio. Altro che “Cinque Maggio” di Alessandro Manzoni, la glorificazione del grande condottiero Napoleone e delle sue battaglie, altro che eroi omerici, qui non c’è traccia di Achille o Ettore, non suonano le fanfare d’orgoglio, la morte non è mai gloriosa, e nemmeno c’è il Nemico, non vi è traccia di odio. Ungaretti è un uomo solo in mezzo ad altri uomini soli. Sa di essere fragile, ciascun soldato lo sa. Ma ciascun soldato sente qualcosa di nuovo in sé: è l’amore per la vita, per chi si riconosce uguale nel pericolo, per chi è disarmato nonostante tutte le armi. Nel 1918 la guerra ha fine. L’Italia vince, senza fare una gran figura, e conquista le terre irredenti (o meglio, le grandi potenze vincitrici permettono al Regno d’Italia di metterci le mani) nonché il diritto ad avere un impero coloniale (o meglio, le grandi potenze chiudono gli occhi su ciò che il Re combina in Africa). Il soldato Ungaretti torna a casa, ha lo strazio ancora nel cuore e gli anni che seguiranno la guerra non saranno facili.

Il primo Ungaretti: L’Allegria
La raccolta “L’Allegria” costituisce il primo momento della poesia di Ungaretti e si articola in cinque parti (Ultime, il Porto sepolto, Naufragi, Girovago, Prime), formatesi in momenti diversi: dalle prime poesie apparse su “Lacerba” nel 1915 (poi indicate come Ultime, perchè considerate le ultime prima della vera poesia successiva), a quelle nate dall’ esperienza della guerra del Carso e pubblicate nella raccolta il “Porto sepolto”, apparsa a Udine nel dicembre 1916, alle successive poesie di guerre raccolte insieme alle precedenti e a nuove poesie (per questo indicate come Prime) nel volume “Allegria di naufragi” pubblicate a Parigi nel 1921.
I primi componimenti, scritti tra il 14 e il 15 mostrano come Ungaretti cercasse fin dall’inizio una concentrazione assoluta della parola: poche immagini essenziali, sfumature sottili del paesaggio. In questo periodo lacerbiano e parafuturista troviamo il componimento Eterno:
Tra un fiore colto e un altro donato
L’ inesprimibile nulla
Due versicoli che, nella loro spoglia ma canora nudità segnano già in apertura i precisi confini di una ricerca istintivamente ben formata. A questa data Ungaretti ha già impostato la parte essenziale della sua rivoluzione. Il futurismo è appena dietro le spalle: non ne ha ritenuto la retorica delle macchine, ma sì l’ appello a puntare sulla riduzione all’ essenziale del linguaggio poetico. Il giovane poeta, reduce da un bagno nella Senna, guarda per ora a quella zona assai mobile dove la tradizione simbolista si disfa e, celebrando i suoi ultimi trionfi, si versa e al tempo stesso si disperde nei mille rivoli di una poetica dell’ essenza pura (molto Apollinaire, ad esempio). “Tra un fiore colto ed un altro donato” lo sguardo s’arrischia a scoprire la presenza di un Ente indefinito e misterioso: “l’insopprimibile nulla”.
Oppure ritroviamo Agonia:
Morire come le allodole
assetate sul miraggio
O come la quaglia
passato al mare
nei primi cespugli
perché di volare
non ha più voglia
Ma non vivere di lamento
come un cardellino accecato.
Il messaggio è chiaro: meglio una morte dovuta all’azione che una vita passata a lamentarsi …Non importa che l’azione sia antieroica, si può anche morire di sete inseguendo un miraggio…
Ma è la guerra Mondiale a spingere il poeta a un confronto lacerante tra il proprio io di uomo e di combattente e una realtà esterna ostile e minacciosa, in cui la distruzione bellica sembra identificarsi con l’estranea indifferenza della natura. La poesia è allora un modo per affermare, comunque, nel vuoto minaccioso in cui si presentano le cose e il mondo, la dignità tragica di un destino umano e collettivo, come per riconoscere se stessi dopo il diluvio. La guerra appare qui qualcosa di assoluto, una necessità inevitabile:
Veglia
Cima Quattro, il 23 Dicembre 1915
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita.
Versi in cui la guerra si rivela in tutto l’orrore della sua crudeltà: la vicinanza con il cadavere sfigurato e deformato di un compagno caduto nella notte sconvolta e allucinata. L’ossessiva continuità tematica è ribadita dall’uso ricorrente dei participi passati che costituiscono la struttura portante del componimento; ricollegandosi nella forma, alla parola conclusiva del primo verso (nottata), essi assolvono ad una funzione di rima (buttato, massacrato, digrignata, penetrata).
Nel paesaggio percorso dalle macchine belliche, nella violenza insieme biologica e artificiale che in esso si scatena, l’essere umano si ritrova allo stato nudo, è ridotto ala sua essenza, al grado zero della vita che coincide con quello delle aride pietre del Carso.
San Martino Del Carso
Valloncello dell’ Albero Isolato il 27 agosto 1916
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
E’ il mio cuore
il paese più straziato.
In questo azzeramento dell’essere l’io rafferma tragicamente la propria vitalità, insiste a cercarsi e a cercare valori segreti e inafferrabili (attraverso le analogie che sa trovare tra la sua stessa condizione e le diverse apparenze del paesaggio), ad attaccarsi a brandelli di illusioni che permettono la sopravvivenza. L’amore per la vita, per chi si riconosce uguale nel pericolo è espresso in Fratelli
Fratelli
Mariano il 15 luglio 1916
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli.
Continuando ad esaminare la raccolta, lo stesso titolo Il Porto Sepolto (ricavato da una leggenda diffusa ad Alessandria su di un antico porto sepolto dalla sabbia) vuole alludere a “ciò che di segreto rimane a noi indecifrabile”, alla funzione della poesia come scavo alla ricerca di “un nulla d’ inesauribile segreto”
Il Porto Sepolto
Mariano il 29 giugno 1916
Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’ inesauribile segreto
Il titolo Allegria allude a sua volta alla paradossale vitalità che si afferma in mezzo alla morte e alla distruzione, alla forza “allegra” della sopravvivenza nel vuoto e nel naufragio. La guerra gli consente di raggiungere la coscienza di una rinnovata identità, che ricongiunge al presente le esperienze vissute nel passato.
I Fiumi
Cotici il 16 agosto 1916
Mi tengo a quest’albero mutilato
Abbandonato in questa dolina
Che ha il languore
Di un circo
Prima o dopo lo spettacolo
E guardo
Il passaggio quieto
Delle nuvole sulla luna
Stamani mi sono disteso
In un’urna d’acqua
E come una reliquia
Ho riposato
L’Isonzo scorrendo
Mi levigava
Come un suo sasso
Ho tirato su
Le mie quattro ossa
E me ne sono andato
Come un acrobata
Sull’acqua
Mi sono accoccolato
Vicino ai miei panni
Sudici di guerra
E come un beduino
Mi sono chinato a ricevere
Il sole
Questo è l’Isonzo
E qui meglio
Mi sono riconosciuto
Una docile fibra
Dell’universo
Il mio supplizio
È quando
Non mi credo
In armonia
Ma quelle occulte
Mani
Che m’intridono
Mi regalano
La rara
Felicità
Ho ripassato
Le epoche
Della mia vita
Questi sono
I miei fiumi
Questo è il Serchio
Al quale hanno attinto
Duemil’anni forse
Di gente mia campagnola
E mio padre e mia madre.
Questo è il Nilo
Che mi ha visto
Nascere e crescere
E ardere d’inconsapevolezza
Nelle distese pianure
Questa è la Senna
E in quel suo torbido
Mi sono rimescolato
E mi sono conosciuto
Questi sono i miei fiumi
Contati nell’Isonzo
Questa è la mia nostalgia
Che in ognuno
Mi traspare
Ora ch’è notte
Che la mia vita mi pare
Una corolla
Di tenebre
Immergersi nella corrente dell’Isonzo equivale a ricordare tutti gli altri fiumi che hanno segnato l’esperienza Ungarettiana. L’acqua è un evidente simbolo della vita, che dalle sue origini ancestrali (richiamate dal Serchio, il fiume della sua gente, giunge alla chiarezza del presente (rappresentata dall’Isonzo), alla maturazione dell’uomo che la guerra ha dolorosamente determinato. In mezzo, ugualmente emblematici, ci sono gli altri due fiumi: il Nilo che rievoca l’infanzia e la prima giovinezza africana; la Senna, che richiama gli anni parigini della formazione artistica, con la scoperta della propria vocazione letteraria. Lo scorrere dell’acqua compie un opera di purificazione e di trasformazione, riducendo l’individuo ad una realtà minerale e riconducendolo alla natura primigenia, tanto da assimilarlo a un “sasso” del fiume. Fiumi della realtà che sono fiumi della memoria, le cui acque zampillano in un unica sorgente di vita e di poesia.
Sullo sfondo desolato della guerra, l’Allegria prende vigorosamente atto del silenzio a cui la modernità pare condannare la parola poetica, del bisogno di scrollarsi di dosso tanto linguaggio consunto, e insieme della radicale solitudine e impotenza della parola di fronte a un mondo in cui la distruzione è un fatto naturale, connaturato al vivere stesso. La minaccia del silenzio non conduce Ungaretti a una critica della poesia e della storia, ma a una concentrazione della poesia in un punto assoluto, che sprigiona la sua forza da poche frantumate parole che affermano la tragica vitalità dell’ io, della storia, dell’ universo.
Ungaretti porta alle estreme conseguenze il procedimento dell’ analogia, egli mette a contatto immagini lontane senza fini. Sul piano tecnico distrugge il verso tradizionale, la parola viene fatta risuonare nella sua autonomia e nella sua purezza, inserita in versi brevi o addirittura isolata fino a farla coincidere con la misura del verso. Si hanno componimenti brevissimi fino alla celebre Mattina.
Mattina
Santa Maria La longa 26 gennaio 1917
M’illumino
d’immenso
La presenza del poeta (“M”) appare investita da una luce violenta (illumino), che riverbera dall’intera estensione dello spazio. In questo modo l’individuo partecipa della vita del tutto, il relativo si identifica con l’infinito e l’eterno. Il carattere momentaneo di una improvvisa folgorazione e “illuminazione” è reso dal titolo Mattina, che indica il momento contigente di una miracolosa comunicazione con l’infinito. Tra il titolo e il testo esiste un rapporto di corrispondenza analogica che riguarda i legami fra il finito e l’infinito il mortale e l’immortale.
Soldati
Bosco di Courton luglio 1918
Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie.
Anche in questa poesia il titolo entra a far parte integrante del testo, risultando un elemento essenziale per la sua comprensione. Esso costituisce il punto di riferimento del procedimento analogico, che assimila la vita del soldato alla fragilità di una foglia di autunno. L’intera poesia è formata da un complemento di paragone: le foglie nascono e muoiono, allo stesso modo si susseguono le generazioni degli uomini. Dopo il “come” vi è un enjambement che coinvolge l’idea di stabilità del verbo “stare”.
Sentimento del tempo e l’ ultimo Ungaretti
Le poesie scritte a partire dal 1919 e inserite nel Sentimento del tempo rappresentano un sostanziale mutamento delle prospettive, anche per quanto riguarda le soluzioni stilistiche e formali. Alla poetica dell’attimo si sostituisce una diversa percezione del tempo, che viene adesso inteso come continuità e durata. Un ritorno all’ordine restaurando parzialmente versi tradizionali, come l’endecasillabo e tornando anche alla punteggiatura. Lo stesso Ungaretti chiarisce:
“L’endecasillabo nasce immediatamente dopo la guerra. Cioè quella preoccupazione che avevo durante la guerra, che era una preoccupazione dovuta anche alla circostanze di arrivare a dire nel minor tempo possibile il massimo di quanto si potesse dire-quindi con l’uso più parco di parole che fosse possibile - è un momento superato. Insomma, io avevo, disponevo di maggior tempo. Non avevo più bisogno di spezzare l’endecasillabo come, avevo fatto spinto dalle circostanze. L’endecasillabo tornava a costituirsi in un modo normale: cioè le parole venivano a mettersi non una sotto l’ altra o separate da isole di silenzi, ma una accanto all’altra”.
Non cercavo il verso di Jacopone o quello di Dante,o quello di Petrarca, o quello di Guittone, o quello del Tasso, o quello del Cavalcanti, o quello del Leopardi: cercavo in loro il canto. Non era l’endecasillabo del tale, non il novenario, era il settenario, era il canto italiano, era il canto della lingua italiana che cercavo nella sua costanza attraverso i secoli, attraverso voci così numerose e così diverse di timbro e così gelose della propria novità e così singolari ciascuna nell’esprimere pensieri e sentimenti: era il battito del mio cuore che volevo sentire in armonia con il battito del cuore dei miei maggiori di una terra disperatamente amata. Nacquero così, dal ’19 al ’25, Le Stagioni, La fine di Crono, Sirene, Inno alla Morte, e altre poesie nelle quali, aiutandomi quanto più potevo coll’orecchio, e coll’anima, cercai di accordare in chiave d’oggi un antico strumento musicale che, reso così nuovo a noi familiare, hanno in seguito, bene o male adottato tutti.
(Ragioni d’una poesia)
Due sono le esperienze di base a cui la sua nuova poesia si riferisce: in un primo momento il fascino del barocco e di Roma, città barocca per eccellenza, in cui il poeta sperimenta l’orrore del vuoto e il ricostruirsi vertiginoso dello spazio, in una violenta brama di creatività; in un secondo momento l’ esperienza religiosa, legata alla “conversone”, che lo mette più direttamente in rapporto con la suggestione della poesia religiosa medievale e barocca, per compiere un percorso di iniziazione, come in una pratica cerimoniale.
I componimenti migliori sono in realtà quelli in cui pur nelle sue forme ampie e distese, la parola di un Ungaretti si libera dal peso di eccessivi riflessi e analogie, evita di muovere intorno a in afferrabili segreti, si interroga sulla nuda solitudine dell’ uomo di fronte al male e alla morte, sulla vanità della propria voce e del proprio stesso esistere: si ha così un risultato assai alto, come La Madre.

La Madre
E il cuore quando d'un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d'ombra
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all'eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m'avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d'avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.
L’autore rivolgendosi alla madre, esalta il ruolo di tutte le madri nella vita degli uomini sia quando essi sono in vita sia dopo la morte. La madre che ci ha messo al mondo e aiutato in vita, dopo la morte interviene nuovamente per ottenere il perdono di Dio e impetrare la grazia divina affinché il figlio sia perdonato e ammesso in Paradiso.
Il testo è diviso in quattro strofe di diversa lunghezza: due quartine, una terzina e due distici. I versi, endecasillabi e settenari, non sono rimati.
Nel primo enunciato, che corrisponde alla prima strofa, il poeta afferma con certezza che nell'attimo della sua morte la madre gli sarà nuovamente accanto e, come quando era un bambino bisognoso della sua guida, lo condurrà per mano al cospetto di Dio («muro d’ombra» è l'indefinibile barriera che separa la vita terrena da quella eterna).
Quando il cuore cesserà di battere e la morte farà scomparire quel confine impalpabile come un velo che separa l'uomo da Dio, tu madre mi guiderai fino al Signore tenendomi per mano, come eri solita fare quando eri in vita.
Nel secondo enunciato, che occupa la seconda quartina, il poeta rappresenta la madre inginocchiata davanti all’Eterno. Ella se ne sta così immobile ed è tanto assorta nella preghiera che è simile ad una statua. Qui l’aggettivo «decisa» esprime tutta la determinazione della madre di ottenere da Dio il perdono per il figlio. I verbi, ora al futuro («sarai») ora all’imperfetto («eri»; «vedeva») scandiscono il passare della scena dal futuro rispetto al momento in cui il poeta scrive alla vita passata della madre.
Inginocchiata decisa ad ottenere da Dio che mi accetti in Paradiso, starai davanti all'Eterno immobile come una statua, così come egli ti vedeva, assorta in preghiera, quando eri ancora viva. La madre occupa la scena anche nel terzo enunciato: ella alzerà a fatica (tremante) le vecchie braccia, ripetendo lo stesso gesto di quando spirò, dicendo:" Mio Dio eccomi sono pronta a venire da te". Dalla poesia emerge anche la ritrovata fede cristiana di Ungaretti: egli si immagina sottoposto al giudizio divino, che è necessario per la serenità e la tranquillità della madre, devota credente. Essa funge infatti da mediatrice fra il Padre eterno e il penitente Ungaretti.
Nel 1947 dalla sventura e dalla desolazione nasce la raccolta il Dolore, con poesie composte a partire dal ’37 per la morte del fratello e soprattutto per quella del figlio, e con altre composte a Roma nel 1944 durante i giorni dell’occupazione nazista.
“Il Dolore è il libro che più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili stretto alla gola se ne parlassi mi parrebbe di essere impudico. Quel dolore non finirà di straziarmi”.
Il Dolore può essere definito come il libro più petrarchesco, quello che rivela con maggiore evidenza la sua struttura di diario patetico, risolvendosi, quale specchio di vita in immediata confessione autobiografica. (Giorno per giorno 1940-1946)
Mi porteranno gli anni
Chissà quali altri orrori,
Ma ti sentivo accanto,
M'avresti consolato...
(da Giorno per giorno)

Questi versi dedicati al figlio scomparso preannunciano altri dolori (la tragedia della guerra) e mettono in evidenza la consapevolezza di non poter avere accanto chi l’ avrebbe potuto consolare.
Con Roma Occupata (1943-1944) e I Ricordi (1942-1946) la tragedia individuale si risolve in quella dell’ intera nazione. Le immagini della guerra danno la dimensione di uno sconvolgimento apocalittico, in cui gli stessi toni biblici del linguaggio ripropongono il valore di una fede religiosa o la richiesta di un umana solidarietà, cui affidare le sorti di un’ intera civiltà minacciata.
Nel 1950 viene pubblicata La Terra Promessa, la quale comprende i frammenti di un più ampio progetto, iniziato nel 1935 ma rimasto ad uno stadio di abbozzo. La vicenda avrebbe dovuto rappresentare lo sbarco di Enea, le sue imprese gloriose, l’ amore di Didone e la morte dell’ eroina, con un disegno allegorico capace di riflettere le tematiche di fondo della poesia ungarettiana (la ricerca di una nuova “terra” per sfuggire alla legge del tempo, il contrasto tra il dovere e la passione, con l’ approdo finale nella morte).
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Esempio



  


  1. michela

    sostengo l'esame di italiano all'università di macerata