Tesina su Elsa Morante

Materie:Tesina
Categoria:Italiano

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Testo

ELSA MORANTE
“LA GRANDE SOLITARIA” così è stata definita da Franco Fortini all’indomani dell’uscita del suo ultimo romanzo “Aracoeli”, intendendo sottolineare l’estaneità di questa scrittrice a scuole e movimenti, forte di un itinerario narrativo indipendente rispetto agli orientamenti del tempo. L’aggettivo usato da Fortini è largamente condiviso dalla critica, vedendo in lei una grande narratrice: Gyorgy Lukacs scrisse nella “Rinascita”, “Elsa Morante mi sembra uno dei massimi talenti di scrittore che io conosca”.
BIOGRAFIA
Elsa Morante nasce a Roma il 18 agosto del 1912 da madre ebrea e vive la sua infanzia in casa di Augusto Morante, che era il suo padre burocratico essendo lei nata da una relazione extaconiugale della madre. Elsa non frequenta le scuole elementari per problemi di salute e per questo viene ospitata temporaneamente dalla madrina, essa stessa dice: “ero una bambina anemica; la mia faccia, fra i riccioli color ala di corvo, era pallida come quella di una bambola lavata, e i miei occhi celesti erano cerchiati di nero. Venne un giorno una lontana parente, che aveva per sua sorte favolosa sposato un conte ricchissimo. Ella mi guardò con pietà e disse: la porto a vivere con me, nel mio giardino”. In seguito Elsa si iscrive al ginnasio e, dopo aver conseguito il diploma, lascia la famiglia e va a vivere per conto proprio. Per problemi economici è costretta ad abbandonare l’università, dove era iscritta alla facoltà di lettere, e si mantiene dando lezioni private di italiano e latino, aiutando gli studenti a compilare tesi di laurea e pubblicando poesie e racconti su riviste. Attorno al 1930 inizia a collaborare al “Corriere dei Piccoli” e a “I diritti della scuola”, sul quale esce nel 1935 a puntate il romanzo Qualcuno bussa alla porta. Nel 1936 conosce Alberto Moravia con cui stabilirà in seguito una relazione, da questo periodo risale un quaderno di scuola intitolato Lettere ad Antonio,diario personale di fatti reali e sogni. Tra il 1936 e il 1940 collabora al “Meridiano di Roma”con i racconti: L’uomo dagli occhiali, Il gioco segreto, La nonna e Via dell’Angelo poi raccolti nei volumi Il gioco segreto e Lo scialle andaluso. Intanto collabora al settimanale “Oggi” sul quale pubblica dei racconti e cura una rubrica chiamata “Giardino d’infanzia”. Inoltre traduce Scrapbook di Katherine Mansfield.
Il 14 aprile 1941 Elsa sposa Alberto Moravia con il quale avrà un rapporto intenso ma che dopo alcuni anni andrà deteriorandosi con la conseguente separazione dei due scrittori che si concluderà nel 1962. Tra il 1941 e il 1943 scrive il quaderno di scuola intitolato Narciso e un insieme di progetti di lavoro, testi abbozzati e poesie che vengono raccolte ne Versi poesie e altre cose molte delle quali rifiutate. Nel 1942 esce la fiaba , il cui nucleo originale risale al ginnasio, Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina illustrata dalla stessa Morante. In questo periodo inizia la stesura di uno dei suoi più importanti romanzi, Menzogna e sortilegio che originariamente era intitolato Vita di mia nonna, poi pubblicato nel 1948, grazie all’interessamento di Natalia Ginzburg, anno in cui vince il premio Viareggio proprio con questo romanzo. Attorno al 1943 si stabilisce a Fondi, un paese della Ciociaria, poiché Alberto Moravia era stato accusato di attività antifasciste. In seguito scrive il racconto Il soldato siciliano, raccolto nel volume Lo scialle andaluso, con il quale inaugura la collaborazione con l’Europeo su cui uscirà anche Mia moglie. Nel 1950 inizia a collaborare con la RAI curando la rubrica settimanale di critica cinematografica intitolata “Cronache del cinema”, interrompondola però di lì a due anni per le ingerenze dei dirigenti. In questo stesso anno comincia la collaborazione con il settimanale “Il Mondo”, nel quele cura la rubrica “Rosso e Bianco”. Inizia a lavorare a Nerina, un romanzo d’amore presto abbandonato che confluirà nel racconto Donna Amalia. Nel 1951 scrive Lo scialle andaluso che verrà poi pubblicato nel 1953. Nel 1952 comincia la stesura del romanzo L’isola di Arturo, pubblicato dalla Einaudi nel 1957, con il quale la Morante vincerà il premio Strega. Nel 1958 esce la raccolta di poesie Alibi ed Elsa comincia, interrompendosi tuttavia nel 1961, a lavorare a un romanzo intitolato Senza i conforti della religione: la storia della caduta di un idolo, la fine di una divinità-fratello distrutta dalla malattia. Nel 1959 compie un viaggio negli Stati Uniti, fermandosi a New York e a Washington; durante il soggiorno incontra un giovane pittore newyorkese, Bill Morrow, con il quale instaurerà un’intensa amicizia. In seguito l’artista deciderà di lasciare gli Stati Uniti per trasferirsi definitivamente a Roma. In un numero di “Nuovi Argomenti” escono come “saggio sul romanzo” nove risposte ad alcuni quesiti letterari posti dalla rivista; in seguito tali risposte furono raccolte in Pro o contro la bomba atomica, uscito nel 1987. Nel 1960 parte insieme a Moravia per Rio de Janeiro, dove era stata invitata per il 31° congresso internazionale del Pen Club, nel 1961 si reca invece in India dove la attendono Moravia e Pasolini: insieme visitano Calcutta, Madras, Bombay e il Sud del paese. Dopo la tragica morte dell’amico Bill Morrow, avvenuta a New York nel 1962, e la pubblicazione della raccolta Lo scialle andaluso nel 1963, Elsa non riesce a portare a termine altri progetti. A chi le chiede notizie sul suo lavoro, dice di scrivere pochissimo. Nel 1965 compie un secondo viaggio negli Stati Uniti, di lì raggiunge il Messico, dove vive e lavora il fratello Aldo, spostandosi poi nello Yucatan. Attorno al 1966 compone i poemi e le canzoni che andranno a formare Il mondo salvato dai ragazzini, edito nel 1968. Una raccolta diretta “all’unico pubblico che oramai sia forse capace di ascoltare le parole dei poeti”, i ragazzi, che lei considera ingenui custodi dell’unica felicità possibile, quella dell’innocenza astorica e barbara. Nel 1969 prepara per i classici dell’Arte Rizzoli il saggio introduttivo sul Beato Angelico dal titolo Il beato propagandista del Paradiso. Tra la fine del 1970 e l’inizio del 1971 la Morante comincia a formulare l’idea de La storia, che si può considerare un’”Iliade dei giorni nostri”, nata in seguito alla lettura dei greci ritrovati tra le pagine dei quaderni di Simon Weil. La stesura del romanzo la impiego fino al 1973, venendo poi pubblicato nel 1974. Nel 1975 comincia un romanzo dal titolo Superman, ma il progetto viene subito accantonato. Il complesso romanzo Aracoeli viene cominciato nel 1976 e la terrà impegnata per cinque anni.
Nel 1980 viene ricoverata e operata in una clinica dopo essersi banalmente rotta un femore. Termina nel 1981 Aracoeli che uscirà l’anno successivo, ma i problemi alla gamba la costringono a restare immobile a letto e a farsi ricoverare in una clinica di Zurigo. Le sue condizioni fisiche migliorano ma presto la sua salute torna a peggiorare impedendole di camminare. Nell’aprile del 1983 tenta il suicidio, viene trovata priva di sensi e portata in ospedale dove è sottoposta ad un intervento chirurgico per una idroencefalia. Le cure non danno i risultati sperati e il 25 novembre 1985 Elsa muore d’infarto.
OPERE
MENZOGNA E SORTILEGIO
Pubblicato nel 1948, il romanzo è la storia di Elisa, protagonista narrante, che rimasta sola e priva di contatti col mondo, cerca di ricostruire le vicende della sua infanzia e di capire la figura della madre che, innamorata del ricco cugino Edoardo, aveva finito con lo sposare un giovane di modesta condizione, date le preferenze di Edoardo per la prostituta Rosaria. Ma sarà proprio questa, dopo tragiche vicende, ad ospitare Elisa, rimasta sola, nella sua casa.
La Morante ricava la presentazione da una società meridionale pezzente e fastosa, dove una misera quotidianità è occultata e riscattata, nell’autoillusione dei personaggi, dall’apparenza e dalla recita che sono nel contempo “menzogna” e narcisistico rituale, “sortilegio” appunto. Il romanzo è tutto volto a illustrare una fuga dalla realtà, il groviglio di mistificazioni e illusioni attraverso i quali i protagonisti cercano di muovere e mascherare la loro squallida esistenza. La scrittura che utilizza la scrittrice è sontuosa e ricca di colori e indugia nello scavo psicologico alterando i piani temporali e contrapponendo i punti di vista dei personaggi.
LA STORIA
Uscito nel 1974, incontrando un immenso successo popolare ma anche la violenta opposizione dell’establishment, il libro racconta l’odissea bellica dell’Italia e del mondo, opponendo alla storia l’umile microcosmo di una famiglia romana. Attraverso le vicende della vedova Ida Ramundo, maestra elementare che vive a Roma col figlio Nino e col piccolo Useppe, nato da un forzato rapporto con un soldato tedesco. Nino, prima fascista poi partigiano e infine contrabbandiere, muore tragicamente. In seguito tocca la stessa sorte ad Useppe, per malattia. Ida infine si ritrova in manicomio. Il Ferroni disse: “la Morante intende formulare un’esplicita condanna della Storia con la S maiuscola, del suo movimento distruttivo e fatale, e rivendica il valore della storia delle vittime, di tutte le cavie che non sanno il perché della loro morte, fatta di vicende marginali, ma di una tragicità ancora più profonda e marginale. Servendosi di parole del Vangelo di Luca, oppone ai protagonisti, ai dotti e ai savi, i piccoli, l’umanità più umile e indifesa; ed inserisce questo orizzonte ideologico in una narrazione legata a schemi del romanzo popolare ottocentesco, a forme limguistiche semplici e piane, con una ricerca di identificazione positiva con i personaggi, e con forti abbandoni sentimentali e patetici”.
Romanzo composito, con pagine autenticamente poetiche e nel contempo con vistose ricerche di facili effetti e con compiacimenti populistici, la Storia, scatenò un vivace dibattito fra ammiratori e no.
L’ISOLA DI ARTURO
La Morante riesce, con questo romanzo, a mitizzare il quotidiano, a viverlo con valenze simboliche o trasfiguranti. Esso è ambientato nell’isola di Procida e il protagonista narratore, Arturo, ormai adulto, rievoca il suo passato. Orfano di madre, Arturo vive un’infanzia libera e felice in un contesto paesaggistico di mediterranea bellezza. L’unico compagno-amico è il padre, Wilhelm Gerace, per il quale il ragazzo nutre un’adorante ammirazione motivata dalla sua nordica bionda bellezza e dalle sue misteriose assenze. Da uno dei suoi viaggi, un giorno, il padre ritorna con una giovanissima sposa, Nunziatina, verso la quale l’adolescente nutre via via complessi sentimenti,: gelosia, competitività e infine attrazione. Nunziatina finisce poi con l’assumere nei riguardi di Arturo il ruolo di madre che non aveva avuto. La svolta nella vita di Arturo avviene quando egli scopre che i misteriosi viaggi del padre, per i quali egli pensava favolose destinazioni, sono motivati dalle sue relazioni omosessuali. Arturo quindi decide di abbandonare l’isola: ne conserverà la memoria di paradiso perduto.
Nella rappresentazione dell’infanzia di Arturo, libera e “secondo natura”, la Morante esprime un motivo di fondo che in vario modo percorre tutta la sua produzione: il sogno, la struggente nostalgia di una vita libera e piena, l’utopia di uno stato di natura; ma assieme a questo c’è la dolente coscienza che il crescere e l’uscire dall’infanzia comportano disincanto. La simmetrica contrapposizione tra l’infanzia e la maturità di Arturo, cioè tra l’innocenza e la consapevolezza, si carica di un preciso significato: la libera infanzia nella solarità mediterranea dell’isola, l’avventura giornaliera sono inesorabilmente destinate a crollare, e cedere il posto al principio di realtà e quindi alla delusione.
Un passo che descrive la situazione di Arturo, è sicuramente quello che si trova nel capitolo su “Le Certezze Assolute”:
“Fra i molti insegnamenti, poi, che ricevevo dalle mie letture, spontaneamente io sceglievo i più affascinanti, e cioè quegli insegnamenti che rispondevano meglio al mio sentimento naturale della vita. Con essi, e in più con le prime certezze che m’aveva già ispirato la persona di mio padre, si formò dunque nella mia coscienza, o fantasia, una specie di codice della Verità Assoluta, le cui leggi più importanti si potrebbero elencare così:
I. L’AUTORITÀ DEL PADRE È SACRA!
II. LA VERA GRANDEZZA VIRILE CONSISTE NEL CORAGGIO DELL’AZIONE, NEL DISPREZZO DEL PERICOLO, E NEL VALORE MOSTRATO IN COMBATTIMENTO.
III. LA PEGGIOR BASSEZZA È IL TRADIMENTO. SE POI SI TRADISCE IL PROPRIO PADRE O IL PROPRIO CAPO, O UN AMICO ECC., SI ARRIVA ALL’INFIMO DELLA VILTÀ!
IV. NESSUN CONCITTADINO VIVENTE DELL’ISOLA DI PROCIDA È DEGNO DI WILHELM GERACE E DI SUO FIGLIO ARTURO. PER UN GERACE DAR CONFIDENZA A UN CONCITTADINO SIGNIFICHEREBBE DEGRADARSI.
V. NESSUN AFFETTO NELLA VITA UGUAGLIA QUELLO DELLA MADRE.
VI. LE PROVE PIÙ EVIDENTI E TUTTE LE ESPERIENZE UMANE DIMOSTREREBBERO CHE DIO NON ESISTE.
“LA LEGGE QUARTA”
La legge quarta, a me suggerita dall’atteggiamento di mio padre, fu, evidentemente, insieme forse a una mia inclinazione naturale, la causa originaria della mia solitudine procidana. Mi sembra di rivedere la mia piccola figura di allora che si aggira, al porto, fra il traffico e il movimento della gente, con un’aria di superiorità differente e scontrosa, come un forestiero capitato in mezzo a un popolo ostile. Il carattere più mortificante che notavo, in quel popolo, era la perpetua dipendenza di tutti dalla necessità pratica; e un tale carattere faceva risaltare ancora meglio la specie diversa e gloriosa di mio padre! Non soltanto i poveri, là, ma anche i ricchi, sembravano perennemente occupati dei loro interessi o guadagni presenti: tutti quanti, dai piccoli straccioni che si azzuffavano per una moneta, o per un avanzo di pane, o per un sassolino colorato, fino ai proprietari di barche da pesca, che discutevano sul prezzo del pesce come se questo fosse il valore più importante della loro esistenza. Nessuno, fra tutti loro, evidentemente, si interessava di libri, o di grandi azioni! A volte, i ragazzini della scuola venivano schierati su uno spiazzo dal maestro per le esercitazioni premilitari. Ma il maestro era un grassone linfatico, i ragazzini non dimostravano né capacità né entusiasmo; e tutto lo spettacolo, dalle divise, ai gesti, alle maniere, appariva così poco marziale, a mio giudizio, che io ne distoglievo subito lo sguardo con un senso di pena. Mi sarei fatto rosso dalla vergogna, se mio padre, soppravvenendo in quel momento, mi avesse sorpreso a guardare certe scene e certi personaggi!
“IL PIROSCAFO” (ultimo capitolo del libro)
… Dalla campagna, già si udivano cantare i galletti. E d’un tratto, un rimpianto sconsolato mi si appesantì nel cuore, al pensiero del mattino che si sarebbe levato sull’isola, uguale agli altri giorni: le botteghe che si aprivano, le capre che uscivano dai capanni, la matrigna e Carminiello che scendevano nella cucina… Se, almeno, fosse durato sempre il presente inverno, malaticcio e smorto, sull’isola! Ma no, anche l’estate, invece, sarebbe tornata immancabilmente, uguale al solito. Non la si può uccidere, essa è un drago invulnerabile che sempre rinasce, con la sua fanciullezza meravigliosa. Ed era un’orrida gelosia che mi amareggiava, questa: di pensare all’isola di nuovo infuocata dall’estate, senza di me! La rena sarà di nuovo calda, i colori si riaccenderanno nelle grotte, i migratori, di ritorno dall’Africa, ripasseranno il cielo… E in simile festa adorata, nessuno: neppure un qualsiasi passero, o una minima formica, o un infimo pesciolino del mare, si lagnerà di questa ingiustizia: che l’estate sia tornata sull’isola, senza Arturo! In tutta l’immensa natura, qua intorno, non resterà neppure un pensiero per A.G. come se, per di qua, un Arturo Gerace non ci fosse passato mai!
Mi stesi, nella mia coperta, su quei sassi bagnati e lividi, e chiusi gli occhi, fingendo per un poco di essere tornato indietro, a quella bella, passata stagione; e di trovarmi disteso sulla rena della mia spiaggetta; e che quel vicino fruscìo fosse il mare sereno e fresco di là a basso, pronto a ricevere la Torpediniera delle Antille. Il fuoco di quella infinita stagione puerile mi montò al sangue, con una passione terribile che quasi mi faceva mancare. E l’unico amore mio di quegli anni tornò a salutarmi. Gli dissi ad alta voce, come se davvero lui fosse lì accosto: - Addio, pà.
Subitaneo, il ricordo della sua persona mi accorse alla mente: non come una figura precisa, ma come una specie di nube che avanzava carica d’oro, azzurro torbido; o come un sapore amaro; o un vocìo quasi di folla, ma invece erano gli echi numerosi dei suoi richiami e parole, che ritornavano da ogni punto della mia vita. E certi tratti proprio di lui, ma quasi trascurabili: una sua alzata di spalle; un suo ridere distratto; oppure la forma grande e negletta delle sue unghie; le giunture delle sue dita; o un suo ginocchio graffiato dagli scogli… ritornavano isolati, a farmi battere il cuore, quasi unici simboli perfetti di una grazia molteplice, misteriosa, senza fine… E di un dolore che mi si faceva più acerbo per questo motivo: perché sentivo che esso era una cosa fanciullesca; pari ad un incontro di correnti turbinose, esso si precipitava tutto quanto in questo presente, breve passaggio d’addio! E dopo, lo avrei dimenticato, naturalmente, tradito. Di qui sarei passato a un’altra età, e avrei riguardato a lui come a una favola.
Ormai gli perdonavo ogni cosa. Anche la sua partenza con un altro. E per fino quel suo severo discorso finale, nel quale, alla presenza di Stella, m’aveva chiamato, oltre al resto, “rubacuori e Don Giovanni”; e che lì per lì mi aveva offeso non poco.(…)
Già, però, il marinario, ai piedi della scaletta, stacciava i nostri biglietti per il controllo; già Silvestro saliva, assieme a me, la scaletta. La sirena dava il fischio della partenza.
Come fui sul sedile accanto a Silvestro, nascosi il volto sul braccio, contro lo schienale. E dissi a Silvestro:- Senti. Non mi va di vedere Procida mentre s’allontana, e si confonde, diventa come una cosa grigia… Preferisco fingere che non sia mai esistita. Perciò, fino al momento che non se ne vede più niente, sarà meglio ch’io non guardi là. Tu avvisami, a quel momento.
E rimasi col viso sul braccio, quasi in un malore senza nessun pensiero, finchè Silvestro mi scosse con delicatezza, e mi disse: - Arturo, su, puoi svegliarti.
Intorno alla nostra nave, la marina era tutta uniforme, sconfinata come un oceano. L’isola non si vedeva più.
ARACOELI
Questo romanzo racconta l’ossessiva e fallimentare ricerca della madre, Aracoeli appunto, fatta dal protagonista narrante Manuele, triste e solitario, goffo, omosessuale; come altri romanzi della Morante, si incentra quindi su oscuri grovigli interiori collegati al rapporto con la madre, con la vita familiare, con la donna. Ma soprattutto è un romanzo di radicale pessimismo, di constatazione e analisi della sconfitta: innoltrandosi nei meandri della memoria, Manuele non trova né risarcimento né i paradisi perditi dell’infanzia, ma constata ancora una volta il male di vivere.
Il nesso tra vissuto e produzione letteraria nel caso di Elsa Morante è particolarmente evidente e il diagramma delle sue tematiche (il vagheggiamento di una vita libera e totale, l’impegno, la coscienza dello scaccodel vivere) rivela e illustra il diagramma di una vita.

ELSA VISTA DA CESARE GARBOLI
Dal proprio lettore, come dal proprio critico, Elsa Morante si aspetta un rapporto diretto e frontale. Desidera essere riconosciuta subito in viso, da sguardi che non s’attardino a spiarla attraverso lenti o schermi. Ammette certe mediazioni, anzi le sottintende, le implica, scherzando con le allusioni e i misteri, con simboli ed enigmi, e con grazie e civetterie. Tutto le riesce facile, da questa parte, le viene spontaneo come a una naturale virtuosa. La musica, i movimenti della Morante sono da flauto magico. Ma tanto vale dirlo subito: sotto trucchi e giochi, questa scrittrice nasconde lineamenti assoluti ed eccezionali.
Fuori da ogni tracciato, estranea a qualsiasi tradizione consacrata nel Novecento, è intanto la figura tecnica: esotica e familiare, naturale e iperbolica, la scrittura della Morante non lascia intravedere modelli. Sfugge alla famiglia dei “prosatori d’arte” italiani come a qualsiasi altra parentela di ceppo illustre. Non paga debiti al neorealismo coevo. Sarebbe impossibile inquadrarla nei soliti disegni, nelle organizzazioni manualistiche della letteratura. È nata da sé stessa, Elsa Morante, e tutto fa credere che i suoi due romanzi, Menzogna a sortilegio (1948) e al più tardo L’isola di Arturo (1957) si sia accinta con la stessa eccitazione, la stessa avidità obliosa e vitale con la quale una ragazza si appresterebbe ad una festa, a un convito.(…)
Articolo: “l’Unità” Lunedì 25 settembre 1995
I segreti della letteratura al femminile
di Sandro Onofri
Quando Elsa Morante si sentiva definire “poetessa”, si arrabbiava. Sosteneva infatti che la distinzione tra poeti e poetesse non aveva senso. Esistono, diceva, poeti uomini e poeti donne. Poi precisava sprezzantemente che ci sono invece “le poetesse” e “i poetessi”, i quali però non hanno molto a che fare con la poesia. Questo per dire che la distinzione tra i sessi in letteratura, e nell’arte in genere, non ha ragione di essere. L’artista, e forse la scrittore soprattutto, immergendosi in quel processo mimetico che è il fatto principale di ogni atto creativo, assume su di sé la natura del suo personaggio. E nel fare questo, essere uomo o donna davvero poco importa. Anche se, come spesso succede, chi scrive dà al suo protagonista il suo stesso sesso, in realtà poi il mondo che rappresenta non discrimina nessuna sensibilità. Per esempio Iduzza, protagonista della Storia, o Elisa, il personaggio principale di Menzogna e Sortilegio, vivono sulla pagina mitologie che non sono solo femminili, ma universali. E la stessa Morante non ha avuto difficoltà a calarsi negli altri due suoi romanzi, L’isola di Arturo e il bellissimo, forse il suo più complesso e riuscito Aracoeli, in protagonisti maschili. Questo, ovviamente, quando ci si trova davanti ad artisti autentici, come è il caso di Elsa Morante, appunto. Il discorso cambia alquanto nel caso dei vari “poetessi” e “poetesse”, i cui personaggi restano invischiati nel mondo piccolo cui l’ideologia del loro creatore o creatrice li ha condannati, e non riescono a sollevarsi in nessun modo. In tal senso, mi colpisce solo relativamente lo stupore che traspare da certi servizi giornalistici in cui, dopo i successi dei romanzi di Susanna Tamaro e Maria Teresa Di Lascia, si constata che proprio dalla letteratura femminile sono giunti i testi più nuovi e originali degli ultimi anni. Non mi sorprende per vari motivi. Per quelli che ho detto prima, innanzi tutto. E poi perché comunque la letteratura scritta da donne ha ormai in questo secolo una sua tradizione, che solo in Italia ha portato i libri di Matilde Serao, della stessa Morante e di Ortese, mentre per quanto riguarda la letteratura straniera sono ormai tanti i nomi che hanno fatto scuola (per uomini e per donne), da Virginia Wolf a Flannery O’Connor. Dunque Tamaro e Di Lascia, a cui aggiungerei la sfrontata sensibilità di Silvia Balestra (e, poco prima di loro, la vivacità stilistica di Lidia Ravera e Sandra Petrignani) non rappresentano per me una sorpresa. Semmai l’aspetto più interessante consiste in altro, e cioè che nei romanzi delle scrittrici italiane si respira una solidarietà tra autore e personaggio che dà una forza, questa sì, inedita alle storie raccontate. Nella maggior parte dei romanzi composti dalle nostre scrittrici ( anche quando non mancano di nodi insoluti al loro interno, come è appunto il caso sia di Va’ dove ti porta il cuore sia di Passaggio in ombra) c’è una conoscenza vera e reale degli ambienti descritti e dei caratteri rappresentati, c’è curiosità, freschezza nel raccontare, c’è quell’intimità con le figure create che nasce solo da una profonda conoscenza. Questo mi pare un fatto degno di essere sottolineato, per il quale c’è una ragione essenzialmente storica. Le donne vengono da una stagione in cui l’esperienza femminista, o comunque una mentalità basata sull’aggregazione, le ha portate a incontrarsi, confrontarsi, conoscere storie e vite, mettersi in crisi, condividere miti ed aspettative, a trovare insomma la forza di un immaginare comune. Gli uomini invece no, si sono chiusi, hanno smesso di ricercare, fanno insomma la letteratura (ma ci sono, in questo caso, molti casi “maschili” anche tra le scrittrici). Va’ dove ti porta il cuore e Passaggio in ombra sono due romanzi molto diversi, per la sensibilità delle loro autrici e dell’idea di narrativa che li muove. Eppure in entrambi mi ha colpito un’aderenza alla realtà dei personaggi portata fino al limite che l’ironia deve comunque imporre. Una voglia di raccontare il mondo che non si preoccupa tanto (e fa bene) di controllare equilibri e evitare eccessi, per sciogliersi dai lacci teorici e programmatici in cui molta narrativa ha finito negli ultimi anni per impantanarsi.

Esempio



  


  1. luciano

    il commento di "A una bambina" di Elsa Morante

  2. luciana

    tesina terza media elsa morante e neorealismo

  3. antonio

    parafrasi, commento e analisi del testo della poesia a una bambina di elsa morante.

  4. roberta

    commento della poesia " A una bambina" di Elsa Morante

  5. vincenza

    commento della poesia "A una bambina di Elsa Morante

  6. giovanni

    A una bambina Elsa Morante parafrasi e commento

  7. jhliuvougvol

    commento a una bambina di elsa morante

  8. giacomo rossi

    commento poesia a una bambina di elsa morante

  9. giada rossi

    commento poesia a una bambina di elsa morante

  10. MARSELA

    IL RACCONTO DONNA AMALIA DI ELSA MORANTE IL LIBRO