Il tema della morte nelle opere di Montale

Materie:Tesina
Categoria:Italiano

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Testo

RELAZIONE DI ITALIANO N°2, APRILE 2000
ISTITUTO TECNICO INDUSTRIALE "F.CORNI"
LICEO SCIENTIFICO-TECNOLOGICO
LETTERATURA:
IL TEMA DELLA MORTE NELLE OPERE DI
EUGENIO MONTALE
Studente: Marco Bernabei
Classe: V A l.s.t
Scuola: I.T.I.S Fermo Corni
Materia: Italiano
Prof.ssa: C.Pincelli …….…………
INTRODUZIONE
In questa seconda relazione di italiano, ho voluto affrontare il tema della morte nelle opere di Eugenio Montale. Egli è considerato uno dei maggiori, se non addirittura il più importante dei poeti italiani del pieno Novecento. Le sue prime poesie risentono di un consistente influsso della crisi di inizio secolo: lo si nota bene sia dal nuovo linguaggio costituito da parole non ricercate, e quindi in disaccordo con quello della maggior parte dei poeti del secolo precedente; e dai temi trattati, spesso volti a mostrare l’aridità, il senso di vuoto nella vita umana di quel periodo storico.
Ciò nonostante non è difficile riscontrare somiglianze, come mostrerò, con grandi poeti a lui precedenti come Leopardi, Foscolo e Pascoli: si tratta di analogie stilistiche, riprese di metafore già utilizzate, affinità tematiche. Per questo motivo ho scelto proprio Montale per continuare la mia trattazione del tema della morte, dopo averlo visto in Pascoli. Esso è presente, anche in questo caso, sia in forma esplicita che implicita, ed è spesso legato all’esposizione di idee filosofiche ed escatologiche. Montale fu un grande studioso ed appassionato di filosofia, e per questo motivo sono frequenti i temi ad essa legati.
Ho suddiviso questa “tesina” in tre parti: la prima è incentrata sul concetto del “male di vivere”, la seconda è destinata propriamente all’idea della morte, mentre la terza e ultima parte riguarda ciò che Montale pensa del dopo-la-morte, della fine del mondo e di Dio.
Anche in questo caso ho utilizzato per la stesura della relazione, libri di testo, critiche e studi riguardanti il poeta che ho preso in esame. Non ho riportato alcuna analisi di poesia per intero; ho invece proposto un’argomentazione di quanto detto di volta in volta, mediante poesie o passi delle medesime che ho ritenuto più opportuni.
Marco Bernabei
PRIMA PARTE: IL “MALE DI VIVERE”
Quando Montale, attorno agli anni venti, scrive:
“Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato”
(Da “Ossi di seppia”, “Spesso il male di vivere ho incontrato”)
mostra stilisticamente la più drammatica testimonianza della crisi spirituale dell’uomo moderno, in un mondo che pare sul punto di sgretolarsi e dissolversi.
Il male di vivere del poeta ligure non è una recidiva “malattia romantica”; è piuttosto il tentativo di testimoniare il malessere, l’impotenza dell’intellettuale e della cultura che sa di aver perso i propri punti di riferimento storico e le proprie basi conoscitive.
Ma il male di vivere è anche l’incapacità dell’uomo di comunicare, è isolamento, vita soffocata. E’ il male dell’essere, in quanto ci impedisce di avere delle certezze, di conoscere la realtà e noi stessi. Il nulla alle mie spalle il vuoto dietro/di me, recita un’altra poesia; di qui il senso di finitezza, di impotenza, di non vita, di esperienza del nulla; e dunque negatività, inutilità, aridità. Il titolo stesso della prima raccolta poetica montaliana richiama emblematicamente, nella scelta di questo relitto del mare e delle spiagge che è l’osso di seppia, cose inaridite, prosciugate, senza vita; il che è già un modo per suggerire una filosofia della vita. Per uscire da questa rete che ci stringe, dal nulla dell’uomo, la poesia di Montale esclude la falsità; in essa non c’è posto per gli eroi e i superuomini dannunziani, occorre vivere la propria contraddizione senza scappatoie, accettare con lucidità e consapevolezza la propria condizione di angoscia e di sconfitta; al poeta, quindi, non può che aspettare il compito di descrivere la negatività del mondo: Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Nonostante tutto il poeta non deve rinunziare alla vita. E’ la vita che si incarica di sfuggirgli. Dunque l’uomo non deve mai indietreggiare nei confronti della realtà, ma nello stesso tempo deve avere la coscienza dei propri limiti.
Nella prima raccolta di poesie montaliane, Ossi di seppia, è ben riscontrabile questo tema del male di vivere nel simbolismo del paesaggio ligure: esso è aspro, brullo, “petroso”, fatto di muri che si sgretolano e di cocci aguzzi di bottiglia, per di più ritratto spesso nella calura del disteso mezzogiorno: “La distruzione meridiana è il segno esterno più significativo di questa figura che è: lo sciogliersi della vita” (Contini).
C’è tuttavia un motivo chiaramente positivo in questo primo libro ed è il tema del mare: ad esso il poeta si rivolge come ad un “padre”; lo invoca come una grande, viva e pura realtà, è ciò che non finisce, è la metafora dell’essere. In questo modo si stabilisce una dialettica tra gli elementi negativi della petraia e quelli positivi dati dal mare: da una parte la stasi, l’aridità; dall’altra la vita.
Tutta la poesia di Montale è comunque incentrata su questa idea di negatività: nel Sogno del prigioniero dal libro Bufera, ad esempio, si rappresenta l’alienazione in cui si dibatte l’uomo contemporaneo, prigioniero di una società che non gli consente altra scelta se non quella di essere farcitore o farcito. La lirica si conclude peraltro con un toccante invito alla speranza: L’attesa è lunga, / il mio sogno di te non finito.
Importante è notare anche l’insistenza nell’insegnamento morale proposto da Montale: è una moralità laica, che spinge ad aderire a dei valori, ma che dubita della possibilità che i valori s’incarnino nella storia, forse perché li vede troppo più in alto.
Allo stesso modo anche in Satura abbiamo un forte richiamo al male di vivere e alla necessità del suo superamento. Il titolo dell’ultima delle quattro opere fondamentali di Montale (Ossi di seppia, Occasioni, Bufera e Satura) testimonia proprio il farsi e il disfarsi della realtà quotidiana: è proprio questo il tema topico del libro. Ad esso si collega il motivo delle “balbuzie” del linguaggio, originate dalla comunicazione di massa; se infatti la comunicazione è “di massa”, le persone singole non s’intendono più: “Tutto fa pensare che l’uomo d’oggi sia più che mai un estraneo vivente tra estranei” e la comunicazione non avviene più tra “uomini veri ma tra i loro duplicati” Satura richiama l’antica satira latina e i suoi caratteri: varietà di stili e contenuti, critica dei vizi della società, parodia dei temi alti e impegnativi.
Per concludere: “Il mondo sembra essere preso in una oscillazione continua e inarrestabile; e questa oscillazione imprime alle cose un moto vertiginoso, che rende tutto instabile, apparente e inapparente, lungo la linea d’ombra, lungo il precario confine fra l’essere e il nulla. Come è possibile decidere, o anche solo vivere, in questa impermanenza?” (F.Rella). L’età del moderno, l’età della metropoli, impone infatti il regime temporale della sorpresa e dello choc, e l’animo, come dice Montale, rimane informe, il soggetto non è più in grado di dare una forma, una figura alla sua esperienza.

SECONDA PARTE: IL TEMA DELLA MORTE
Il mondo del nostro tempo, e del tempo di Montale, una così grande sorta di babele di linguaggi e messaggi (si pensi ai grandi networks e alla rete delle comunicazioni planetarie) sembra non prospettare alcuna fine, alcuna preoccupazione per ciò che prima o poi porterà tutti gli uomini ad allontanarvisi probabilmente con un po’ di paura: la morte. Il poeta ligure non è disposto però ad ignorarla, al contrario sente “l’appressamento della morte” e la necessità di poetare e a volte filosofare su di essa.
Ho fatto notare, nella prima parte, l’importanza simbolica del mare come rappresentante l’essere; la Baldissone scrive che la fitta presenza sia descrittivo-naturalistica che metaforica dell’acqua è una chiara e scoperta espressione dell’inconscio che riporta ad una condizione amniotica, essa assume il significato di un ritorno al punto originario, cioè al seno materno. Tale processo costituisce l’ultimo atto di difesa creato dalla fantasia di Montale . Ed allora la presenza della morte, costante anche nell’ultima raccolta del Quaderno di quattro anni, assume un significato ben preciso: “Tuffarsi nella morte è come ritornare nel ventre materno dopo essersi liberati di chi avrebbe potuto punire questa colpa”, cioè di Dio; la sua uccisione, nella logica dell’inconscio e del linguaggio di Montale “consiste nel dire che non c’è, e permette al poeta di “prepararsi lentamente, decisamente e scrupolosamente per il grande affare” (il ritorno nel ventre materno).
Da un punto di vista più strettamente legato alla letteratura, è importante rilevare alcune somiglianze, come già avevo preannunciato nell’introduzione, con Foscolo e Leopardi. Il rapporto memoria-morte è veramente molto stretto ed è elemento importante e ricorrente nella poetica di tutti e tre i poeti: Montale insiste in particolar modo sulla impossibile rievocazione degli estinti e tende a confondere il buio della memoria con la vera morte (e qui si rifà a Foscolo), è però presente anche l’aspetto del rimpianto dell’assente e della sua irraggiungibile lontananza nella memoria (e quindi con riferimento a Leopardi).
Propongo ora una riflessione su una poesia di Montale, Carnevale di Gerti dal libro Occasioni, per affrontare più da vicino questo tema:
...E’ Carnevale
il Dicembre s’indugia ancora?...
E il Natale verrà e il giorno dell’Anno
che sfolla le caserme e ti riporta
gli amici spersi, e questo Carnevale
pur esso tornerà che ora ci sfugge
tra i muri che si fendono già. Chiedi
tu di fermare il tempo sul paese
che attorno si dilata?...
Chiedi di trattenere le campane
d’argento sopra il borgo e il suono rauco
delle colombe?...
La tua vita è quaggiù dove rimbombano
le ruote dei cariaggi senza posa
e nulla torna se non forse in questi
disguidi del possibile. Ritorna
là fra i morti balocchi ove è negato pur morire...
Si può ben notare in questa poesia la presenza contemporanea di verbi che indicano stasi e di quelli che indicano moto (sono entrambi scritti in corsivo), essi esprimono molto bene il senso del trascorrere temporale come processo continuo e irreversibile, e per questo fissità e dinamicità non hanno funzione oppositiva all’interno dell’irrequieto sentimento del tempo montaliano, ma rappresentano le due forme con le quali il reale, consumato dal tempo, si presenta come uguale e insieme diverso da ciò che era: l’impassibile trascorrere del tempo degrada ogni cosa, ne causa la consunzione; non ha sosta questo processo e non si sa dove condurrà.
Risulta ora chiaro che una vita legata ad una realtà continuamente sottoposta a “sgretolamento” non può che essere una vita mortificata assai simile alla morte. E infatti morte e vita sono non solo accostate ma addirittura unite in un’unica immagine:
il lungo colloquio coi poveri morti, la cenere il vento
il vento che tarda, la morte, la morte che vive!
(da Notizie dall’Amiata)
la morte non ha altra voce
di quella che spande la vita.
(da Palio)
...o si sceglie la vita
che muta ed ignora: altra morte.
(da Templi di Bellosguardo)
Nelle Occasioni si incupisce il senso dell’esistenza che passa, tanto che il consumarsi del tempo presente rientra in diverse poesie:.
La rondine vi porta
fili d’erba, non vuole che la vita passi
(da Lindau)
...oltre le sue
pupille ormai remote, solo due
fasci di luci in croce!
E il tempo passa.
(da La canna che dispiuma)
...nell’ora
che abbuia sempre più tardi
...Non si cede
voce, leggenda o destino.
Ma è tardi, sempre più tardi.
(da Dora Markus 2)

E’ importante, in conclusione, rilevare lo stretto legame tra tempo che passa, memoria che svanisce e la conseguente morte dei cari nella mente degli uomini: la vera morte delle persone.
TERZA PARTE: LA VITA DOPO LA MORTE
Dopo la pubblicazione di Ossi di seppia (1925), la poesia di Montale cambia decisamente linguaggio e contenuti: si passa a quello che si chiama “secondo tempo montaliano”.
Se il primo libro, Ossi di Seppia, tratta per lo più del rapporto che il poeta ha con la natura ligure, le successive opere trattano di un rapporto particolare, metafisico e un po’ dantesco, con delle donne che diventano vere e proprie protagoniste, delle presenze salvatrici. Scompare l’importante elemento del mare e in generale l’ambientazione non è più all’aperto ma al chiuso; si tratta in prevalenza di ambienti domestici nei quali Montale riconosce degli oggetti familiari, pregni di significato, che rappresentano precisi momenti di vita, e quindi strettamente legati alla memoria.
La figura della donna è molto idealizzata ma mantiene più le caratteristiche della persona umana che dell’angelo o dello spirito; nelle liriche della Bufera compare Clizia come sorta di messaggera tra il poeta e Dio, un Dio invisibile e misterioso nella cui assenza, o meglio muta presenza, si svolge il dramma della storia umana.
Apparire, sparire, ritornare, ritrovare, riconoscere, attendere, sono tutti verbi ricorrenti nelle poesie del secondo tempo di Montale: questo nuovo lessico è mirato ad evidenziare proprio il tema dell’attesa della donna-angelo, al quale argomento viene ora data un’importanza fondamentale.
L’apparizione è una forma imprecisa e diminuita del ritorno poiché, per ripetere le parole di Montale: “In sé la visitatrice non può tornare, ha da tempo cessato di esistere come tale” e per questo ogni apparizione vale non solo come ricordo ma anche come invito a ricordare.
“…il suo compito di inconsapevole Cristofora non le consente altro trionfo che non sia l’insuccesso di quaggiù: lontananza, dolore, vaghe fantomatiche riapparizioni. quel tanto di presenza che sia per chi la riceve un memento, un’ammonizione” (da Su Giorno e Notte: una lettera).
“…questa apparizione è certamente un’apparizione che somiglia sempre più a un angelo cristiano, ma non potrei dire di essere andato oltre.” (dal Dialogo con Pier Annibale Danovi in scrittori su nastro”).
L’apparire è verbo tipico di questo presentarsi della figura femminile, che ne alleggerisce e sfuma l’evidenza fisica e si correla strettamente con altri verbi come sparire e dileguarsi.
Montale non è credente, ma spesso canta il tema religioso sottoforma di una domanda che si pone di fronte al mistero, escludendo, però, ogni risposta positiva.
Oltrevita e aldilà sono termini ingannevoli che rimuovono solo temporaneamente il problema della morte e del dopo-la-morte, eppure sono misteriosi: Montale dice di essere teoricamente contrario alla sopravvivenza, ma in pratica, per cultura cristiana ereditata, non riesce a sottrarsi all’idea che qualcosa dell’uomo possa continuare a vivere; nonostante questo, Dio continua, come la verità, a rimanere assente e ogni fede ultraterrena appare impossibile. L’oltretomba è infatti strano e inquietante; i viventi sono i nati-morti, già morti senza saperlo; la morte è un viaggio studiato a fondo senza saperne nulla; lassù-laggiù appaiono ormai termini senza significato.
In “La vita oscilla” tratta dal “Quaderno di quattro anni” leggiamo:
La vita oscilla
tra il sublime e l’immondo
con qualche propensione
per il secondo.
Ne sapremo di più
dopo le elezioni
che si terranno lassù
o laggiù o in nessun luogo
perché siamo già eletti
tutti quanti
e chi non lo fu
sta assai meglio quaggiù
e anche quando se ne accorge
è troppo tardi
les jeux son faits
dice il croupier per l’ultima volta
e il suo cucchiaione
spazza le carte.
La “teologia montaliana” non è esattamente una teologia negativa e apofatica, ovvero che intende raggiungere la miglior conoscenza di Dio dicendo ciò che egli non è, in quanto per il poeta Dio può essere nominato e definito anche con diversi epiteti; si può dire di tutto a chi è abissalmente e “leopardianamente” indifferente agli uomini e alle loro vicende, così non si può parlare di una divinità che assiste o che si oppone alle sue creature, ma si può provare a dare ugualmente un’identità all’Ente Supremo, attribuendogli addirittura il ruolo di un impietoso croupier munito di cucchiaione spazzatutto.
E’ proprio a causa di questa sua concezione teologica che Montale avvicina a sé la divinità tramite degli intermediari: Clizia è l’immagine principale, l’elemento poetico nel quale si realizza pienamente tale figura, unica possibilità metafisica, quella di vedere Dio in una persona umana, che abbiamo per conoscerlo.
Questi angeli possono “sconfortare” la teoria che la vita sia improbabile e “nient’affatto opportuna” (ossia contingente), e possono far sospettare l’esistenza di un mondo sottratto alla necessità. Così, per quanto strano possa apparire, in queste figure può abitare la speranza dell’uomo o addirittura la sua fede.
Ho tanta fede in te
che durerà
[…]
so che oltre il visibile e il tangibile
non è vita possibile ma l’oltrevita
è forse l’altra faccia della morte
che portammo rinchiusa in noi per anni e anni.
Ho tanta fede in me
e l’hai riaccesa tu senza volerlo
senza saperlo perché in ogni rottame
della vita di qui è un trabocchetto
di cui nulla sappiamo ed era forse
in attesa di noi spersi e incapaci
di dargli un senso.
Ho tanta fede che mi brucia: certo
chi mi vedrà dirà è un uomo di cenere
senza accorgersi che era una rinascita?
E’ interessante cercare di capire come mai questa fede compaia improvvisa e inaspettata, trasformando un “uomo di cenere” in un uomo nuovo della “rinascita”, proprio in uno degli ultimi testi di Montale; forse la poesia, che ha ostinatamente messo in risalto gli aspetti più inconsueti e particolari della vita degli uomini, è riuscita solo in quel momento ad aprire loro gli occhi verso un significato della vita che alla filosofia era sempre sfuggito.
Ciò che affiora da questi ultimi versi di Montale, era già stato detto in una bellissima poesia giovanile pubblicata postuma:
La tua forma più vera
non capisce ormai nei limiti
della carne: t’è forza di confonderti
con altre vite e riplasmarti tutta
in un ritmo di gioia; la tua scorza
di un dì non ti appartiene più. Sarai
rifatta dall’oblìo, distrutta dal ricordo,
creatura d’un attimo. E saprai
i paradisi ambigui dove manca
ogni esistenza; seguici nel Centro
delle parvenze: (ti rivuole il Nulla).
La strana fede dell’ultimo Montale lo ha ricondotto a questo testo, una delle sue prime poesie, quella forse più aperta ad una possibile felicità. Questo componimento narra di “paradisi ambigui” ma felici, in cui uscendo dai propri limiti non si entra nell’insensato e nell’angoscia, ma in rapporto con “altre vite” in un “ritmo di gioia”. L’oblìo, la dimenticanza, non è visto allora come forza distruttrice, ma come forza creatrice del nuovo, opponendosi al ricordo come abitudine e staticità, come “morto reliquiario” se vogliamo usare un’altra espressione montaliana. Il “dopo-la-morte” sembra allora essere in bilico tra una vera esistenza e un’immagine onirica, in cui le parvenze, le sensazioni, cercano di strappare al Nulla il destino degli uomini; l’uso delle parentesi sta ad indicare l’affermazione di una verità che va tenuta in sordina, che è sì realtà ma alla quale ci si cerca di opporre: ti rivuole il Nulla ma tu seguici al centro delle parvenze.
Tutta la nuova produzione montaliana si accentra ora sul tema dell’attesa di una fine del mondo, a volte proposta come veglia, che contrasta l’idea di un eterno presente ripetitivo; in questa nuova prospettiva le poesie delle “Occasioni” e della “Bufera” volgono lo sguardo verso il futuro, un tempo che diviene attesa o di una catastrofe bellica adombrata già dal nostro periodo storico, o di una salvezza metafisica, della quale poco si può dire, e che s’incarna nella figura poetica femminile dell’angelo messaggero.
Poco importa che la storia intesa come storia lineare, che ha un futuro, un punto di arrivo e che non è la ripetizione continua di un presente che ritorna, si debba misurare con due parametri divergenti: la calamità come momento finale di un processo involutivo, e la salvezza come momento finale di un processo di evoluzione, ciò che importa veramente è la coscienza del fatto che per questo nostro mondo è prevista una fine, una meta, se pur in bilico tra salvezza e catastrofe.
E’ significativo che proprio le poesie conclusive della “Bufera” presentino, per quanto divaricati, entrambi i piani dell’attesa, quasi che il poeta volesse evidenziare l’impossibilità, anche per coloro che da molti anni si interrogano sul futuro del mondo, di riuscire ad afferrare il destino ultimo dell’essere.
Riguardo alla produzione letteraria possiamo scegliere, dalla Bufera, due poesie di esempio, nella prima delle quali viene trattato il tema del ritrovamento di un segno che indica la catastrofe conclusiva; mentre nell’altra l’attesa della salvezza finale proiettata sullo sfondo di un presente catastrofico:
Questo che a notte balugina
nella calotta del mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato,
non è lume di chiesa o d’officina
che alimenti chierico rosso o nero.
Solo quest’iride posso
lasciarti a testimonianza
d’una fede che fu combattuta,
[…]
Conservane la cipria nello specchietto
quando spenta ogni lampada
la sardana si farà infernale
e un ombroso Lucifero scenderà…
[…]
Non è un’eredità, un portafortuna
che può reggere all’urto dei monsoni
sul fil di ragno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l’estinzione.
Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti.
[da Piccolo testamento in La bufera]
Unico segno che il protagonista può lasciare all’interlocutrice è un’”iride” di ricordi e di emozioni, di sentimenti legati alle esperienze belliche. Non si tratta di un’eredità che regge “all’urto dei monsoni / sul fil della memoria”, poiché la storia può durare solo nella “cenere” del suo lento consumarsi, dove il bene si esaurisce, così come la vita può continuare solo dopo l’estinzione. Lucifero è allegoria di una catastrofe che deve accadere, forse una guerra che sconvolgerà l’umanità e che ne causerà la morte; unica certezza è il segno dato dalla “traccia” del pensiero: un “lume” che fievolmente luccica, di notte, nella mente del poeta, e che è simbolo di una scelta morale che ha fatto in piena solitudine; chi riconosce tale segno non può sbagliare a ritrovare la donna.
Ben diversa è la situazione che ci viene mostrata in “Sogno del prigioniero”, in cui la fine è la salvezza, la gioia, la conclusione di un’attesa che si prolunga per molto tempo, ma che poi cessa e compensa l’angoscia del presente: “L’attesa è lunga / il mio sogno di te non è finito”.
Non sono rare, nelle poesie dell’ultimo Montale, le indicazioni di tipo biblico-apocalittico, che contribuiscono a dare ai componimenti della Bufera un’idea di prospettiva del tempo finale, come sciagura lungamente preparata e prevista capace di trasformere il mondo:
…e ancora le stesse grida e i lunghi
pianti sulla veranda
se rimbomba improvviso…
e si destano i chiostri e gli ospedali
a un lacerìo di trombe.
[da Giorno e notte]
-ma buio, per noi, e terrore
e crolli di altane e di ponti
su noi come Giona sepolti
nel ventre della balena-
…e la penitenza
s’inizia fin d’ora nel cupo
singulto di valli e dirupi
dell’altra Emergenza.
[da Ballata scritta in una clinica]
L’ora della tortura e dei lamenti
che s’abbatté sul mondo…
il dì dell’Ira che più volte il gallo
annunciò agli spergiuri,
[da L’orto]
Sebbene Montale cerchi di indagare e filosofare sulla fine dei tempi, non indugia nell’esprimere l’impossibilità di arrivare a tesi certe in questo ambito: l’escatolgia, la dottrina filosofica o religiosa che riguarda i destini ultimi dell’umanità, perde così il suo apparente rigorismo scientifico e ogni teoria appare una briciola destinata a sparire:
L’unica scienza che resti in piedi
l’escatologia
non è una scienza, è un fatto
di tutti i giorni.
Si tratta di briciole che se ne vanno
senza essere sostituite.
Montale afferma che abbiamo amato il nulla disperatamente, “il nulla, l’assolutamente nulla dietro di noi”, ma a nulla è servito quest’amore, che non è che il segno di un’aberrazione, come ogni amore: quella che ci spinge ostinatamente “a pensare con teste umane quando si entra / nel disumano”, nell’infinito, nell’illimitato, nella morte e nell’oltrevita; in questo modo mentiamo a noi stessi credendo di poterci dare delle risposte che non sono, in realtà, afferrabili dall’uomo.

CONCLUSIONE
Anche in questa seconda relazione di italiano ho cercato di studiare il tema della morte con ampio respiro sugli argomenti correlati, in modo da poter fornire al lettore una larga veduta conoscitiva delle opere montaliane.
Nonostante alcuni punti, contenuti soprattutto nella terza parte, possano essere risultati un po’ difficili a causa delle riflessioni filosofiche del poeta, spero di essere stato chiaro e comprensibile, e di aver svolto un lavoro buono e completo.
Marco Bernabei

-FINE-

BIBLIOGRAFIA
• Di Sacco P.-Baglio M.-Perillo D.-Serìo M.: SCRITTURE vol.6, Ed.Scolastiche Bruno Mondadori; Varese 1997;
• Treré S.-Galleati G.: NUOVI ITINERARI NELLA COMUNICAZIONE LETTERARIA, Editore Bulgarini; Firenze 1995;
• Ceserani R.-De Federicis L.: IL MATERIALE E L’IMMAGINARIO vol.5, Loescher Editore; Torino 1993;
• Rella F.: LA COGNIZIONE DEL MALE, Editori riuniti, Roma 1985;
• Graziosi G.: IL TEMPO IN MONTALE, La nuova Italia;Firenze 1978;
• Taffon G.: L’ATELIER DI MONTALE, Edizioni dell’Ateneo; 1990.
*****
INDICE
• INTRODUZIONE…………………………………………………………….pag.1
• PRIMA PARTE: IL “MALE DI VIVERE”…………………………………..pag.2
• SECONDA PARTE: IL TEMA DELLA MORTE……………………………pag.5
• TERZA PARTE: LA VITA DOPO LA MORTE……………………………..pag.8
• CONCLUSIONE……………………………………………………………..pag.17
• BIBLIOGRAFIA……………………………………………………………..pag.18
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