Il Nome della Rosa

Materie:Scheda libro
Categoria:Italiano

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Testo

“Il nome della rosa” è una delle ultime opere che si possono definire classiche. Scritto nel 1980, “il nome della rosa” è riuscito ad avere oltre che ad un alto apprezzamento da parte della critica anche un vastissimo consenso tra i lettori. Questo grazie all’abilità dell’autore che è riuscito a suscitare interesse nel lettore grazie a descrizioni d’ambientazione particolareggiate, intriganti scene d’azione, intelligenti dialoghi con sottili dosi d’umorismo che spesso hanno un duplice effetto allusivo e quasi mai portano un singolo messaggio. Non è facile capire che tipo di romanzo sia “il nome della rosa”:c’è chi lo definisce semplicemente un romanzo storico; altri lo vedono come un giallo; filosofi ed intellettuali vanno oltre queste singole definizioni, pensando il romanzo come un trattato filosofico. Ma come scrive Umberto Eco in un suo commento d’appendice al romanzo, la storia è stata ideata senza alcun obiettivo prefissato. Ha semplicemente voluto “raccontare il Medio Evo per mezzo della bocca di un cronista dell’epoca”. Sicuramente possiamo pensare al romanzo come storico. I momenti interni della narrativa sono legati con i grandi eventi della Storia. A volte sono presenti approfondimenti troppo profondi che potrebbero stancare un lettore poco esperto. Il testo è in larga parte anche un gran ragionamento filosofico implicito sulla religione, l’ordine sociale del 1200 e sulla storia di allora in generale. L’autore non si disperde mai in monologhi di ragionamenti interiori; quello che esprime lo fa per mezzo dei dialoghi dei personaggi, dei loro racconti, dei ragionamenti che il protagonista fa.
“Il nome della rosa” è un manoscritto. Umberto Eco(come racconta all’inizio del romanzo) ebbe tra le mani questo manoscritto il 16 agosto 1968: Le manuscript de Dom Adso de Melk. Il libro dovuto alla penna di tale abate Vallet asseriva di riprodurre fedelmente un manoscritto del XIV secolo. Eco si trovava a Praga in attesa di una persona cara e fu qui che egli lesse il libro e ne rimase tanto affascinato da farne subito una traduzione. Purtroppo il manoscritto non rimase in suo possesso per molto: la persona con cui viaggiava, infatti, portò con sé il libro e ad Eco rimasero solo i pochi appunti che egli aveva preso e tradotto. Egli tuttavia non smise di cercare il romanzo. Dopo molti tentativi, nel 1970 a Buenos Aires sui banchi di un piccolo libraio antiquario, trovò la versione tradotta di un libretto di Milo Temesvar e qui lesse copiose citazioni del manoscritto di Adso e ritenne che fosse giusto riprodurre gli eventi di cui narrava. Adso scriveva in latino perfetto senza l’uso del volgare, così Eco decise di riprodurre il romanzo in italiano perfetto lasciando inoltre alcune frasi in latino.
Il manoscritto di Adso è diviso in sette giorni e ciascun giorno in periodi corrispondenti a ore liturgiche:
Mattutino: tra le 2.30 e le 3 del mattino
Laudi: tra le 5 e le 6 del mattino
Prima: verso le 7.30, poco prima dell’aurora
Terza: verso le 9
Sesta: mezzogiorno
Nona: tra le 2 e le 3 pomeridiane
Vespro: verso le4.30, al tramonto (la regola prescrive di far cena quando ancora non è scesa la tenebra).
Compieta: verso le 6 (entro le 7 i monaci vanno a coricarsi).
La vicenda si svolge alla fine del novembre 1327 in un’abbazia il cui nome e la collocazione vengono tenui segreti da Adso.
In quel periodo si era venuta a creare tra impero e chiesa, una situazione di grand’agitazione. Sin dai primi anni di quel secolo il papa Clemente V aveva trasferito la sede apostolica ad Avignone lasciando Roma in preda alle ambizioni dei signori locali: fu così che Roma diventò sede di lotte, sottoposta a violenza e saccheggi.
Nel 1314 cinque principi tedeschi avevano eletto a Francoforte Ludovico di Baviera come supremo reggitore dell’impero. Il giorno stesso però, il conte Palatino del Reno e l’arcivescovo di Colonia, avevano dato quello stesso titolo a Federico d’Austria. Si arrivò così ad una situazione di gran disordine: due imperatori per una sola sede e un solo papa per due. Due anni dopo ad Avignone fu eletto il nuovo papa, Giacomo di Cahors col nome di Giovanni XXII. Egli aveva sostenuto Filippo il Bello contro i cavalieri templari, che il re aveva accusato di delitti vergognosi per impadronirsi dei loro beni. Nel 1322, Ludovico il Bavero batté il suo rivale Federico, ma Giovanni, timoroso di un solo imperatore, lo scomunicò e questi lo denunciò com’eretico. Proprio in quell’anno aveva avuto luogo a Perugia il capitale dei frati francescani e il loro generale, Michele da Cesena, aveva proclamato come verità di fede la povertà di Cristo. Questa risoluzione intesa a salvaguardare la virtù e la purezza dell’ordine non piacque al papa, il quale, credendo che ciò avrebbe limitato i suoi poteri, nel 1323 condannò le proposizioni dei francescani con la decretale “Cum Inter Nunnullos”. Fu a quel punto che Ludovico vide nei francescani, nemici ormai al papa, dei potenti alleati. Affermando la povertà di Cristo essi rafforzavano le idee dei teologi imperiali e cioè di Marsilio da Padova e Giovanni di Gianduno. Non molti mesi prima inoltre Ludovico aveva raggiunto un accordo con lo sconfitto Federico, era sceso in Italia, era stato incoronato a Milano, era entrato in conflitto con i Visconti, aveva assediato Pisa e cosa peggiore aveva nominato vicario imperiale Castruccio, uomo indubbiamente crudele. Ora si preparava a scendere a Roma.
Tra i sostenitori di Ludovico c’era anche il padre di Adso, novizio benedettino del convento di Melk. Egli decise di assistere all’incoronazione dell’imperatore e di portare con se Adso. L’assedio di Pisa però lo assorbì nelle cure militari e così Adso fu affiancato ad un dotto francescano, fra Guglielmo da Baskerville, il quale stava per iniziare una missione molto importante. Adso divenne così suo scrivano e discepolo e con lui fu testimone d’avvenimenti molto gravi.
La missione cui avrebbe dovuto dedicarsi Guglielmo rimase ignota a Adso fino all’arrivo nell’abbazia.

PRIMO GIORNO
L’abbazia era un edificio d’indubbia eleganza. La struttura era simmetricamente perfetta ed ordinata. Ogni muro aveva un significato spirituale. All’abbazia Guglielmo ed Adso furono subito accolti con molta cordialità. Il primo ad andare loro incontro fu Remigio da Varagine, il cellario del monastero.Entrati nell’abbazia Guglielmo ed Adso incontrarono l’Abate ed egli diede precise disposizioni a Guglielmo sulla missione che avrebbe dovuto svolgere. Gli raccontò minuziosamente tutto ciò che era accaduto di recente nell’abbazia e che aveva turbato molto i monaci. Egli mise a conoscenza Guglielmo dell’omicidio d’Adelmo da Otranto, monaco giovane ma famoso come gran maestro miniatore, trovato in fondo alla scarpata del torrione orientale dell’edificio. Egli doveva essere precipitato durante la notte poiché era stato visto in coro dai monaci durante compieta ma non era ricomparso a mattutino. Quella notte infuriava una tempesta. A causa dei molti rimbalzi che il corpo aveva subito precipitando aveva subito precipitando, non era facile dire da quale punto esatto fosse caduto, ma certamente da una delle finestre che si affacciava sui tre lati del torrione. Il corpo era stato seppellito nel cimitero. Guglielmo comprese subito di cosa si trattasse. Sviò la possibilità del suicidio, poiché le finestre erano chiuse, e ciò egli lo intuì (senza che l’abate glielo avesse detto) dal fatto che il corpo era stato seppellito in terra consacrata, cosa che non sarebbe accaduta se si fosse pensato che il monaco si fosse macchiato di un peccato così grave quale il suicidio. Quindi, concluse Guglielmo, Adelmo è stato, non spinto nell’abisso, ma issato sino al davanzale e bisogna scoprire da chi. L’Abate disse subito a Guglielmo che i suoi sospetti erano propensi per i monaci e non per servitori, stallieri ecc poiché tutto era avvenuto nell’edificio. Qui, ai due piani superiori, vi erano la scriptorium e la biblioteca. Dopo la cena l’Edificio rimaneva chiuso e vi era una regola severissima che proibiva a chiunque compresi i monaci di accedervi. Di certo l’Abate sapeva di più, ma quello di cui era venuto a conoscenza lo aveva appreso sotto il sigillo della confessione e per questo pregò fra Guglielmo di scoprire un segreto di cui egli sospettava. A questo punto Guglielmo chiese il permesso di poter interrogare tutti i monaci e di poter visitare la biblioteca, la quale godeva di grande fama per la sua ricchezza di libri. Vi erano, infatti, in quella biblioteca, libri introvabili in altre. Ma tra i libri che la biblioteca possedeva, ve n’erano alcuni che nessuno e per nessuna ragione avrebbe dovuto leggere, poiché, se mal compresi, avrebbero proteso la mente umana alla superbia e alla suggestione diabolica. Come, infatti, esistono libri che parlano delle cose belle che ha fatto il creatore, così esistono libri che parlano delle menzogne degli infedeli: libri di maghi, le Kabbale dei giudei, le favole dei preti profani. Fu per questo che l’Abate negò il permesso a Guglielmo con tanta insistenza. La biblioteca è nata, secondo un disegno che è rimasto oscuro a tutti nei secoli e che nessuno dei monaci può conoscere. Solo il bibliotecario conosce il segreto della biblioteca e solo egli ha il diritto di muoversi nel labirinto dei libri, solo egli sa dove trovarli e dove riporli ed egli solo è responsabile della loro conservazione. Il bibliotecario confida il suo segreto solo all’aiuto bibliotecario quando è ancora in vita in modo che il segreto sia tramandato. L’Abate concluse il discorso dicendo “La biblioteca si difende da sola, insondabile come la verità che ospita, ingannevole come la menzogna che custodisce.” Con queste parole se n’andò.
Dopo questo colloquio Adso decise di andare a visitare la chiesa. Rimase molto stupito soprattutto dal portale e fu proprio mentre ammirava quel portale che ebbe una visione. Egli vide un trono posto nel cielo e un assiso su di esso. Davanti al trono, sotto i piedi dell’assiso, scorreva un mare di cristallo e intorno al trono quattro animali. Alla destra dell’assiso, un uomo che porgeva un libro, nel lato opposto, un’aquila con grandi ali aperte. Ai piedi dell’assiso un toro e un leone ciascun con un libro tra gli artigli. Nel mare di cristallo vi erano 24 vegliardi su 24 piccoli troni e cantavano lodi all’assiso e sotto i vegliardi i fiori e le foglie di cui si adornavano i giardini dell’Eden. All’improvviso, intrecciati a croce trasversale, vide tre coppie di loni e, sui lati del pilastro, quattro figure umane, quattro vegliardi Pietro, Paolo, Geremia e Isaia. Poi al lato del portale vide una figura di donna lussuriosa e scarnificata, rosa dai rospi, succhiata da serpenti. Ella urlava la propria dannazione. Poi vide un orgoglioso cui un demone conficcava gli artigli negli occhi e altre creature prigioniere in una selva di fiamma, due aspidi che risucchiavano gli occhi di un dannato. L’intera popolazione degli inferi sembrava essersi riunita in quella terribile visione. A quel punto rivide egli stesso nella sua fanciullezza da novizio, e udì una voce potente che diceva: “Quello che vedi scrivilo!” e vide sette lampade d’oro e in mezzo alle esse un uomo con in mano sette stelle e dalla sua bocca usciva una spada a doppio taglio. Poi vide aprirsi una porta nel cielo e un’iride avvolgere il trono e dal trono uscire lampi e tuoni. E l’Assiso prese tra le mani una falce affilata e gridò: “Vibra la tua falce e mieti, è giunta l’ora di mietere perché matura è la messe della terra” e colui che era Assiso vibrò la sua falce e la terra fu mietuta. Fu così che egli comprese che la visione dell’altro non parlava che di quanto stava avvenendo nell’abbazia e capì che lì erano saliti per essere testimoni di una grande e celeste carneficina!
A spezzare la visione fu Guglielmo. Egli chiamò Adso perché dovevano andare a salutare Ubertino, vecchio amico di Guglielmo. All’entrata della chiesa incontrarono un monaco alquanto strano. Egli non parlava in latino, aveva inventato una lingua propria unendo tutti i dialetti delle lingue dei popoli con cui era entrato in contatto e per questo quello che diceva era incomprensibile. Tuttavia era un uomo di buon cuore. Entrarono e trovarono Ubertino a pregare. Guglielmo e Ubertino parlarono a lungo: discussero sull’ordine francescano, l’eresia, i gruppi minorati, e sulla questione francescana ai tempi di fra Dolcino. Poi Guglielmo chiese ad Ubertino chi fosse l’uomo che aveva incontrato avanti alla chiesa. Egli disse che si trattava di Salvatore.
Lasciarono Ubertino e mentre si avvicinavano all’uscita, videro un altro monaco. Egli si presentò cordialmente. Era Severino da Sant’Empante, padre erborista del convento, cui erano affidati i balnea, l’ospedale e gli orti che egli invitò Guglielmo a visitare. Gli mostrò le piante officinali, erbe mediche ma anche erbe pericolose che, se usate in dosi eccessive, potevano diventare veleno e procurare gravi problemi, addirittura la morte. Dopo il colloquio con Severino, Guglielmo decise di visitare lo scriptorium. Qui Guglielmo ed Adso conobbero Malachia, il bibliotecario. Egli presentò loro molti dei monaci che stavano lavorando. Tra loro vi era Veneziano da Salvane, traduttore di greco ed arabo; Bencio da Udisse, giovane monaco scandinavo che si occupava di retorica, Aymaro da Alessandria e altri miniatori. Poi Guglielmo chiese a Malachia informazioni sulla biblioteca ricevendo un netto rifiuto alla sua richiesta di visitarla. Malachia tuttavia gli mostrò il codice dell’elenco dei libri che Guglielmo lesse molto accuratamente. I libri erano registrati secondo l’ordine delle acquisizioni, delle donazioni, del loro ingresso nella biblioteca. Malachia disse inoltre che per dare un libro ad un monaco doveva chiedere il permesso all’Abate. Poi Guglielmo chiese anche di poter dare uno sguardo al lavoro di Adelmo. In effetti, era un lavoro molto bizzarro. Egli aveva disegnato creature strane e n’aveva mostrato la natura come alla rovescia. Nel commentare le immagini tutti i monaci si misero a ridere ma quella risata fu interrotta da una voce. Era Jorge da Burgos, monaco cieco, il più anziano del monastero salvo Alinardo da Grottaferrata. Malachia gli presentò Guglielmo ed egli si scusò per il tono brusco, poi cominciò una discussione sul riso. Secondo il suo parere non bisognava ridere su immagini distorte perché anch’esse rappresentano il capolavoro della creazione. Per Jorge ridere sulle creazioni del signore è grave cosa, ricordando anche che Cristo non ha mai riso in vita sua.
La discussione si protese per un po’ e ognuno espresse la propria opinione, naturalmente non tutti furono d’accordo con Jorge. Poi se n’andò ricordando a tutti di stare attenti perché l’anticristo era vicino.
Arrivò l’ora di compieta e i monaci si accinsero a lasciare i loro tavoli. Prima di andare, però, Guglielmo chiese a Malachia se avrebbe chiuso le porte. Egli rispose che non c’erano porte che difendessero l’accesso allo scriptorium dalla cucina e dal refettorio, né alla biblioteca dallo scriptorium. L’ordine dell’Abate era più forte delle porte e i monaci rispettavano quest’ordine.
Guglielmo ed Adso scesero ma non si unirono agli altri monaci e visitarono il resto dell’abbazia.
Nella cucina conobbero Nicola da Moribondo, maestro vetraio dell’abbazia. Egli fu molto incuriosito dagli occhiali di Guglielmo e gli chiese di poterli esaminare per poterne riprodurre di simili, poiché all’abbazia non vi erano oggetti di quel genere. Guglielmo acconsentì con piacere. Poi il discorso cambiò: Nicola parlò a Guglielmo d’alcune storie “strane” di cui si parlava nell’abbazia. Nicola parlò d’alcune voci che affermavano che nella biblioteca esistevano specchi che deformavano le immagini ed erbe che procuravano visioni. Da ciò che Nicola aveva detto, Guglielmo trasse delle conclusioni sulla morte d’Adelmo. Secondo lui, la sua morte era strettamente collegata alla biblioteca. Cominciava, infatti, a valutare l’idea che Adelmo si fosse tolto la vita proprio dopo essere stato in biblioteca.
Dopo cena i monaci si disposero ad avviare il coro per l’ufficio di compieta. A quel punto Guglielmo chiese se a quell’ora si chiudessero le porte dell’edificio. L’abate affermò che sarebbero state chiuse dal bibliotecario stesso dall’interno, ma non disse da dove poi sarebbe uscito. Guglielmo così capì che esisteva un’altra entrata che a loro era stata nascosta. Poco dopo, Guglielmo vide Malachia nella navata uscire da una buia cappella laterale e cominciò a sospettare che il passaggio che portava all’edificio si trovava proprio lì. Poi andarono a dormire.

SECONDO GIORNO
La mattina dopo Guglielmo e Adso come d’usanza fare in quell’abbazia, si alzarono verso le due del mattino quando la notte era ancora fonda. Mentre erano tutti riuniti per pregare accadde qualcosa di strano e le sacre funzioni furono interrotte da un sanguinosissimo evento.
All’improvviso, infatti, si udirono grida clamorose provenire da fuori e tre porcai entrarono nella chiesa e col terrore sul volto informarono l’Abate che era stato trovato un uomo morto. L’Abate uscì precipitosamente e Guglielmo ed Adso lo seguirono. Sul retro del coro, davanti agli stabbi, vi era un gran recipiente col sangue dei maiali e da lì spuntavano due gambe umane, le gambe di un uomo ficcato a testa in giù nel vaso di sangue! L’Abate ordinò che si togliesse dal liquido il cadavere. Le vesti erano inzuppate di sangue e il volto era quasi irriconoscibile. Quando poi il cadavere fu ripulito, si capì che si trattava di Veneziano. Guglielmo affermò subito che non poteva trattarsi di un suicidio. Qualcun altro doveva aver ucciso Veneziano. Dopo aver esaminato il viso, Guglielmo capì che Veneziano non era morto annegato. Qualcuno lo aveva buttato nella giara quando era gia morto. Proprio per approfondire ciò, Guglielmo cercò tracce nei dintorni e fu facile trovarle poiché vi era la neve.
Adso scoprì delle impronte di piedi umani più lievi di quelle lasciate quella mattina dai monaci, segno che la zona era stata attraversata il giorno prima. Le impronte inoltre, erano seguite da una traccia continua, come di qualcosa trascinato da chi aveva lasciato le impronte. Queste andavano dalla giara al refettorio, sul lato dell’edificio che stava tra la torre meridionale e quella orientale. Guglielmo così dedusse che Veneziano era morto nell’edificio e più probabilmente nella biblioteca, perché se fosse morto nella cucina o nello scriptorium, l’assassino avrebbe potuto lasciarlo là, ma nella biblioteca non sarebbe stato scoperto e forse l’assassino voleva proprio questo, o semplicemente, non voleva concentrare l’attenzione sulla biblioteca. Poi arrivò Severino con il cadavere pulito. Non c’era nessuna ferita, né una contusione sul capo. Guglielmo pensò che Veneziano fosse stato ucciso col veleno e chiese a Severino se avesse dei veleni. Severino affermò che aveva piante che in piccole dosi erano salutari, ma che prese in dosi eccessive potevano provocare la morte e gli mostrò tutte quelle che aveva in laboratorio. Mentre Guglielmo osservava le erbe, si soffermò a guardare una pianta, lopris amatiti, un magnete. Poi Guglielmo chiese a Severino se avesse piante che procuravano visioni. Severino cercò di evitare l’argomento e cambiò discorso. Lasciato Severino, Guglielmo decise di interrogare Bencio e Berengario, perché erano nervosi e spaventati dalla morte di Veneziano e pensò che essi nascondevano qualcosa. Prima interrogò Bencio. Gli chiese di che cosa si era perlato il giorno prima della morte di Adelmo. Egli affermò che si era aperta una discussione su alcuni libri. Berengario aveva nominato libri africani e Malachia si era infuriato. Finita la discussione disse di aver visto Veneziano e Adelmo avvicinarsi a Berengario e la stessa sera lui e Adelmo confabulare tra loro. Poi sostenne che quel giorno chiese a Malachia uno dei libri africani di cui parlava Berengario ma egli, arrabbiato, affermò che quei libri erano stati persi. Concluse la discussione dicendo a Guglielmo di tenere d’occhio la biblioteca e Berengario quando si avvicinava a essa. Dopodiché, Guglielmo andò ad interrogare Berengario. Egli era molto scosso e scoppiò addirittura in un pianto dirotto, quando Guglielmo lo accusò di essere stato l’ultimo a vedere Adelmo, prima della sua morte. Egli confessò di aver visto Adelmo quella sera ma già morto. Egli disse di aver visto Adelmo nel cimitero, e non si accorse subito che non stava parlando con un vivo, poiché il suo volto era di un cadavere, e capì che quello era solo il fantasma di Adelmo e non lui in carne ed ossa. Egli gli parlò. Sostenne che era dannato! Sostenne che veniva dall’inferno e che le pene dell’inferno erano terribili. La sua veste gli pesava come la roccia più grande del mondo per i suoi peccati, la sua presunzione, per l’aver fatto cose mostruose. Inoltre il suo corpo bruciava di un fuoco ardente e questo per il peccato della carne. Inoltre egli lo chiamò più volte “mio maestro”, gli porse la mano, una goccia di sudore poi cadde sulle mani e gli parve che gliela forasse. Guglielmo gli chiese come era possibile che avesse visto Adelmo se era buio. Berengario assicurò che aveva una cero. Finita la discussione, Adso chiese a Guglielmo cosa ne pensava ed egli rispose che secondo lui Berengario non aveva visto un fantasma, ma Adelmo vivo.
Questa confessione confermò molte delle supposizioni di Guglielmo. Per esempio Adelmo era morto suicida, poiché prima di morire era in preda ad una forte eccitazione e aveva rimorso per qualcosa che aveva commesso. Inoltre passava dal cimitero perché veniva dal coro dove si era confidato o confessato con qualcuno che gli aveva incusso timore. Poi si era avviato in direzione opposta al dormitorio come aveva detto Berengario e cioè verso l’edificio da dove si era gettato nel dirupo, si era gettato prima della tempesta. Se veniva dal coro portava un cero e la goccia di sudore infuocata che, aveva sentito Berengario, altro non era che cera. E se lo chiamava maestro era perché, evidentemente, Berengario gli aveva insegnato qualcosa di cui ora gia si disperava a morte. Verso sera, Adso e Guglielmo, si recarono in cucina dove incontrarono Aymaro da Alessandria. Egli introdusse una discussione sull’abbazia e la biblioteca. Egli rimproverava l’Abate di tenere l’abbazia isolata dal mondo e farvi lavorare gente straniera (invece di gente italiana) che non fa cose buone… concluse il discorso dicendo di stare “attenti di notte” perché di notte si ammalava la mente con erbe cattive. Qualcuno non voleva che i monaci decidessero da soli dove andare, cosa fare e cosa “leggere” e per sconvolgere la mente dei curiosi si usavano le forze dell’inferno o dei negromanti, nemici dell’inferno…
Guglielmo decise di salire allo scriptorium e controllare il tavolo di Veneziano, ma questo gli fu impedito. Appena, infatti, cercava di avvicinarsi al tavolo di Veneziano qualcuno lo allontanava con qualche pretesto. L’ultimo a distrarlo fu Bencio. Egli concordò appuntamento a Guglielmo dietro ai balnea. Guglielmo e Adso si allontanarono per primi e Bencio li raggiunse pochi minuti dopo. Bencio decise di continuare la discussione che avevano aperto il mattino. In breve egli gli comunicò delle informazioni su Berengario. Egli affermò che, come gia molti sapevano. Berengario provava un’insana passione per Adelmo.
Un giorno Bencio udì un discorso tra Adelmo e Berengario in cui Adelmo chiedeva a Berengario di svelargli un segreto e Berengario accettava in cambio di qualcos’altro, Adelmo sembrava aver acconsentito con piacere.
La notte prima che Adelmo morisse, Bencio li aveva visti allontanarsi dopo compieta verso il dormitorio. A notte fonda egli aveva visto Adelmo andare nella stanza di Berengario e poco dopo fuggire di corsa. Berengario lo aveva seguito cercando di trattenerlo ma Adelmo era andato nella stanza di Jorge per confessargli il suo peccato e Berengario temeva, sapendo che il suo segreto era svelato, anche sotto il sigillo del sacramento. Poi Adelmo era uscito pallidissimo e aveva allontanato Berengario che cercava di parlargli. Era uscito dal dormitorio ed era entrato nel coro dal portale settentrionale che di notte rimaneva aperto. Bencio non era entrato in chiesa e attendeva Adelmo nel cimitero. A quel punto Bangio aveva visto che c’era un’altra persona che aveva seguito Adelmo e Berengario: era Veneziano. Anch’egli era entrato in coro e Berengario si era nascosto. A quel punto Bangio, temendo di essere scoperto, era scappato.
Dopo questa rivelazione, era tutto più chiaro a Guglielmo. Il racconto di Berengario coincideva con quello di Bangio solo che quello che Berengario diceva di essere un fantasma, era Adelmo in carne ed ossa, e gli ripeteva le stesse parole. Dopo aver parlato con Berengario, Adelmo era andato a suicidarsi. Quello che era accaduto con Veneziano però, non era molto chiaro. Forse Adelmo gli aveva confidato il segreto di cui era venuto a conoscenza da Berengario e forse Veneziano aveva cercato di saperne di più, ma qualcuno lo aveva fermato, prima o dopo che egli aveva gia scoperto ciò che voleva.
Guglielmo era così giunto a questa conclusione e pertanto decise di indagare in biblioteca, benché gli fosse stato vietato, perché secondo lui bisognava cercare la verità. Incaricò Adso di procurare un cero per la notte.
Lui avrebbe scoperto il passaggio segreto. A svelargli questo segreto fu Alimando. Guglielmo lo incontrò nel giardino. Alimando disse di non essere mai entrato in biblioteca perché essa era un labirinto. Tuttavia sapeva com’entrarvi: bisognava passare per l’ossario. Poi disse una cosa molto importante: sostenne che la morte dei monaci era legata alla settima profezia, e secondo essa alla prima verrà grandine mista di sangue, dopo, la terza parte del mare diventerà sangue (e proprio nel sangue è morto Veneziano) e alla terza tromba morirà la terza parte delle creature viventi nel mare. Ci sarà stato un altro omicidio e la terza vittima morirà nell’acqua. Ma le trombe erano sette e quindi ci sarebbero stati altri cinque omicidi.
Dopo l’ora di compieta, Guglielmo ed Adso si diressero verso l’ossario. Entrarono e in breve arrivarono allo scriptorium. Guglielmo si diresse verso il tavolo di veneziano e notò che mancava un libro in greco che aveva visto nel pomeriggio. Poi prese un foglio e chiese a Adso di fargli luce col lume ma egli, distrattamente, lo avvicinò troppo, tanto da riscaldare una parte. Apparvero alcuni segni di colore giallo. Erano segni negromantici. Guglielmo arrotolò la pergamena e posò i suoi occhiali sul tavolo di Berengario. A quel punto udirono un rumore e si diressero verso la porta opposta della biblioteca. Era un trucco, infatti, facendo cadere un libro in modo da attirare la loro attenzione, qualcuno aveva rubato gli occhiali di Guglielmo e senza di loro quest’ultimo non poteva decifrare la pergamena. Chiese a Adso di ricopiarli più grandi ed egli così fece. Era stato usato un alfabeto segreto che bisognava decifrare. Veneziano aveva usato l’alfabeto zodiacale, ma l’aveva riformulato secondo un’altra chiave che bisognava scoprire. Poi salirono ed arrivarono nella biblioteca. Era una sala a sette pareti, ogni parete aveva una porta che immetteva in altre stanze e su ogni porto c’era una frase dell’apocalisse. Entrarono in una delle stanze e in questa c’erano altre porte e queste portavano ad altre stanze. Adso vide un gigante, di proporzioni minacciose dal corpo ondulato come quello di un fantasma. Adso ebbe paura e gridò. Guglielmo si fece avanti e si mise a ridere: era uno specchio che rimandava le immagini ingrandite e distorte. Proseguirono per altre stanze e in una videro una luce. Adso decise di andare a controllare. Entrò nella stanza. Vi era un lume acceso e un libro aperto sul tavolo. Adso si avvicinò ai libri e le immagini presero vita. Ebbe un’altra visione e svenne. Lo raccolse Guglielmo tranquillizzandolo. In quella stanza vi erano erbe capaci di dare visioni. Guglielmo decise di andare, visto com’era sconvolto Adso, ma la biblioteca era un labirinto e, come accade nei labirinti, si persero. Mentre erano quasi rassegnati trovarono l’uscita e se n’andarono di fretta. Attraversarono il corridoio dell’edificio e incontrarono l’Abate. Li rimproverò poiché li aveva cercati per tutta la notte inutilmente. Poi annunciò che Berengario era sparito.

TERZO GIORNO
Verso laudi un monaco trovò nella cella di Berengario un panno sporco di sangue ma non s’indagò oltre. Nel pomeriggio Guglielmo si recò da Nicola, il mastro vetraio, per chiedergli di riprodurgli delle lenti poiché le sue erano scomparse. Quando però il lavoro era quasi finito, un novizio informò Guglielmo che l’Abate voleva vederlo in giardino. Prima di andare, però, Guglielmo disse a Adso di aver decifrato i segni cabalistici di Veneziano, o meglio, la frase che aveva ricopiato Adso in grande poiché senza occhiali non poteva far molto. Si trattava del “finis Africae” e la frase diceva: “Il segreto della fine dell’Africa, la mano sopra l’indolo opera sul primo e sul settimo dei quattro”. Ora avevano la chiave per decifrare la scrittura segreta ma bisognava anche riuscire a capire il significato della frase. Poi andarono dall’Abate. Egli voleva comunicare a Guglielmo il nome di colui cui Giovanni aveva affidato il comando dei soldati francesi. Era Bernardo Gui. Guglielmo criticò molto la scelta del papa e così l’Abate, ma quest’ultimo era in disaccordo anche per un altro motivo. Se non si fosse trovato entro il giorno successivo il colpevole dei delitti, l’Abate avrebbe dovuto concedere a Bernrdo il potere di esercitare una sorveglianza sull’abbazia. Non poteva certo nascondergli quello che stava accadendo, altrimenti egli avrebbe dichiarato il tradimento. Terminata la discussione con l’Abate, Guglielmo cercò di trovare un modo per orientarsi nel labirinto della biblioteca. Ripensò al magnete che aveva trovato nel laboratorio di Severino e pensò di costruire una bussola secondo un metodo che aveva letto in un libro poi però cambiò idea non essendo sicuro che l’oggetto avrebbe funzionato. Decise allora di trovare dall’esterno un modo di descrivere l’edificio da dentro. Ordinò ad Adso di disegnare la struttura dell’edificio cercando di dare delle disposizioni logiche ad ogni muro e ad ogni finestra in modo da ricollegarli a quelli della biblioteca. Arrivarono alla conclusione che la biblioteca aveva 56 stanze, di cui quattro eptagonali e, di queste, otto senza finestre, 28 con finestre che davano all’esterno e 16 all’interno. Le 16 dell’interno erano quelle che davano sul pozzo, erano due per ogni muro dell’ottagono. Poi i quattro torrioni avevano ciascuno cinque stanze di quattro lati e di due. Con quella mappa ora potevano orientarsi in biblioteca. Guglielmo andò a riposare perché ormai, senza le sue lenti, non poteva far nulla Adso, invece, andò in chiesa dove trovò Ubertino. Egli gli raccontò la storia di fra Dolcino. Fra Dolcino era un francescano che si macchiò d’eresia e spinse molti a fare cose illegali. Egli predicava la penitenza e molti lo seguirono, ma poi tutti arrivarono al punto di rubare e di mangiare i cadaveri dei loro stessi alleati, morti di fame. La storia di Fra Dolcino fu lunga e complicata. Finito il colloquio, Adso uscì dalla chiesa molto turbato e decise di andare, da solo, in biblioteca pur sapendo di disobbedire. Passò per lo scriptorium e si soffermò a leggere un libro che parlava appunto della storia di Fra Dolcino e apprese qualcosa che Ubertino non 0gli aveva detto, e cioè che egli era stato ucciso in modo atroce: prima gli erano state tagliate molte delle membra del suo corpo, poi era stato bruciato e le sue ceneri erano state dispere al vento. Fu allora che egli ricordò un fatto orribile. Egli era stato un testimone dell’uccisione di un fraticello eretico sul rogo. Chiuse il libro con le mani tremanti e salì in biblioteca ancora stordito. Anche lì si soffermò a guardare un libro ma fu sopraffatto dal pensiero di ciò che aveva letto e udito su Fra Dolcino e con grand’agitazione decise di andarsene dalla biblioteca. Arrivò nella cucina e qui accadde qualcosa che terrorizzò molto Adso. Egli sentì dei rumori in cucina e temette di essere stato scoperto. Poi comprese che la persona che era in cucina era ancora più terrorizzata di lui. Così si fece coraggio e le andò incontro. Era una fanciulla moto giovane che aveva in mano un pacco fatto di seta annodata. Adso le si avvicinò e la tranquillizzò. Poi ella gli disse qualcosa che egli non comprese perché parlava una strana lingua, gli si avvicinò e cominciò ad accarezzarlo e baciarlo. Egli sapeva di peccare cedendo alle debolezze della carne ma non allontanò la ragazza. Mentre era con la ragazza, ricordò ancora la storia di Fra Dolcino e ricordò i lunghi discorsi fatti con Guglielmo sul peccato e sulla penitenza. Così, assorto da questi pensieri e turbato dal pensiero si sapere che stava peccando, svenne. Quando riaprì gli occhi, la ragazza non c’era più ma vide che ella, sul pavimento, aveva lasciato il pacco che aveva in mano. Lo aprì. Era un cuore di grandi dimensioni. Nel vederlo Adso lanciò un urlo e cadde. A trovarlo fu Guglielmo che lo stava cercando. Adso, ancora terrorizzato e sconvolto, si confessò con Guglielmo. Questi ammise che Adso aveva commesso un peccato molto grave, ma cercò di tranquillizzarlo. Infine cercò di scprire cosa vi facesse una donna nella cucina. Innanzi tutto spiegò a Adso che il cuore che aveva la ragazza era d’animale e non umano poiché era troppo grosso e quindi la ragazza, forse del villaggio, era lì per prendere della carne, ma non era entrata da sola. Qualcun altro doveva averla fatta entrare ed in cambio voleva qualcosa. Dopo un logico ragionamento arrivò alla conclusione che questo qualcuno poteva essere o il cellario o Salvatore. Adso era ancora agitato per il suo peccato e Guglielmo decise di portarlo in chiesa per pregare. Lì trovarono Alinardo che pregava per Veneziano. Egli cominciò a parlare di quello che stava avvenendo all’abbazia. Disse che queste morti erano state annunciate nel libro dell’apostolo. Egli diceva che con la prima tromba sarebbe venuta la grandine, con la seconda, la terza parte del mare sarebbe divenuta sangue, infatti, il primo era stato trovato nella grandine, il secondo nel sangue. Poi aggiunse “è scomparso un altro fratello e secondo la profezia è morto nell’acqua, cercate nell’acqua”. Poi disse di temere per il quarto perché alla quarta tromba sarebbe stato buio completo. Guglielmo pensò che in quello che diceva Alinardo poteva esservi qualcosa di vero ma se così fosse stato, il corpo del terzo doveva trovarsi in un fiume o in una fonte. Adso propose di controllare nei balnea e così fecero. Guardarono attentamente le vasche, erano tutte senz’acqua, tranne una. L’ultima, infatti, era piena, e sul fondo giaceva un corpo umano nudo. Lo tirarono fuori: era Berengario. Da come si presentava il corpo, Guglielmo capì che egli, al contrario di Veneziano, era davvero morto annegato.

QUARTO GIORNO
Subito informarono l’Abate e tutta l’abbazia si risvegliò prima dell’ora canonica. Sul volto di tutti vi era spavento e dolore. Rimasti soli, Guglielmo e Severino, esaminarono il cadavere di Berengario. Egli aveva il viso gonfio e il ventre teso, quindi, senza dubbio, era morto annegato. Guglielmo osservò però che non era stato annegato da altri, altrimenti si sarebbe ribellato all’omicida e avrebbero trovato tracce d’acqua intorno alla vasca. Lì, invece, era tutto ordinato, come se Berengario si fosse adagiato da solo nella vasca. Inoltre Berengario, non aveva vestiti e un assassinato non si toglie i vestiti prima di farsi annegare. Severino disse che era possibile, poiché Berengario soffriva di convulsioni ed egli stesso gli aveva consigliato dei bagni tiepidi che calmavano l’eccitazione del corpo e dello spirito. Guglielmo, inoltre, osservò che Berengario era morto la notte scorsa, poiché il corpo sembrava essere rimasto nell’acqua almeno un giorno. Poi Guglielmo pensò che convenisse dire a Severino che la notte in cui era probabilmente morto Berengario, era stato rubato un libro, quindi, se il misterioso ladro era Berengario com’egli credeva, prima di venire nei balnea doveva essere stato da qualche altra parte perché non vi era nei balnea il libro che aveva rubato. Poi osservarono una cosa curiosa. I polpastrelli dell’indice e del pollice di Berengario, erano scuri, come anneriti da una sostanza bruna, e così erano anche i polpastrelli di Veneziano. Guglielmo a questo punto, chiese a Severino se esisteva una sostanza che anneriva le dita di chi la toccava. Severino disse che conosceva molte piante ma nessuna che lasciava quei segni. Guglielmo rimase a lungo soprappensiero. Poi pregò Severino di aprire la bocca del cadavere e di osservare la lingua ed egli così fece. Tirò fuori la lingua del cadavere, era nera. Guglielmo così capì che egli doveva aver afferrato qualcosa con le mani ed averlo ingerito. Quindi, sia Veneziano sia Berengario erano morti volontariamente, avendo ingerito qualcosa sapendo quello che facevano. Allora Guglielmo chiese a Severino se qualcuno gli avesse fatto domande sulle sue erbe. Severino prontamente ricordò che molto tempo addietro conservava una sostanza molto potente che, se ingerita, provocava nel giro di mezz’ora, una paralisi delle membra e infine la morte. Gli era stata data da un confratello che non voleva portarla con sé perché troppo pericolosa. Un giorno però venne una gran bufera e uno dei suoi aiutanti, un novizio, aveva lasciata aperta la porta dell’ospedale e l’uragano aveva sconvolto tutta la stanza. Erano andate perdute molte erbe e tra loro anche l’ampolla. Guglielmo, allora, gli chiese se aveva visto l’ampolla prima dell’uragano ed egli disse di no, perché la teneva ben nascosta. Allora, concluse Guglielmo, qualcuno più esperto di un novizio, poteva aver rubato l’ampolla e poi aver approfittato dell’uragano per mettere disordine tra le cose. Severino, allora, disse che in realtà il suo aiutante, ormai morto da anni, aveva giurato e spergiurato di non aver lasciato la porta aperta prima dell’uragano. C’era quindi davvero un’altra persona che era a conoscenza di quel veleno e chiese a Severino a chi n’avesse parlato. Egli rispose che n’aveva parlato all’Abate, a Malachia perché voleva cercare in alcuni libri la provenienza di quella sostanza e anche allo stesso Berengario perché era il suo aiutante. Ma senz’altro poteva aver udito quella discussione anche qualcun altro che era nello scriptorium. Ricoprirono il corpo di Berengario e lo prepararono alle esequie.
Arrivata l’ora prima, Guglielmo decise di interrogare Salvatore su ciò che era successo quella notte. Egli, costretto da Guglielmo, dovette dire tutta la verità. Raccontò che egli, per compiacere il cellario, gli procurava delle ragazze del villaggio, facendole entrare di notte, ma non disse da dove. Aggiunse però che egli non era nel torto e non commetteva lo stesso peccato del cellario, ma dava solo qualcosa in cambio alle ragazze. Poi Guglielmo fece una domanda che gettò nella disperazione Salvatore. Egli gli chiese se aveva conosciuto Remigio, prima o dopo essere stato con Dolcino ed egli raccontò, pregando Guglielmo di salvarlo dall’inquisizione, che si erano conosciuti alla Parete Calva. Fuggirono insieme dalla banda di Dolcino di cui facevano parte, ed entrarono nel convento di casale. Salvatore era ormai disperato, e implorava perdono, quindi, Guglielmo decise di lasciarlo stare. Così andò ad interrodare Remigio, prima sul suo passato, e poi sui fatti avvenuti di recente. Egli ammise che aveva fatto parte dei seguaci di Dolcino, e che era stato lui che aveva cominciato ad unirsi liberamente con una donna e il suo era diventato un vizio di cui ancora non riusciva a liberarsi. Con ciò aveva confermato i sospetti di Guglielmo e ciò che aveva detto Salvatore. Poi Guglielmo gli chiese chi aveva ucciso Veneziano, sicuro che sapeva qualcosa perché girava troppo di notte e di giorno per non sapere nulla. Egli disse che non sapeva chi avesse ucciso Veneziano, ma sapeva dove e quando. Egli raccontò che quella notte era entrato in cucina per cercare il cibo che avrebbe dovuto regalare alla ragazza che veniva a fargli visita e lì vide veneziano per terra morto. Accanto al corpo c’era una tazzina infranta e segni d’acqua (o almeno così sembrava) per terra. Remigio, non sapendo cosa fare, decise di andarsene e non dire nulla perché dopo avrebbe dovuto spiegare cosa faceva di notte per l’edificio. La mattina dopo però, fu trovato nel sangue, ma lui, su chi lo avesse portato lì, non aveva nessun’idea. Egli non sapeva altro, così Guglielmo ed Adso se n’andarono.
In quel momento li raggiunse Severino. Egli portò le lenti a Guglielmo dicendo che le aveva trovate nel saio di Berengario. Guglielmo fu molto sollevato non per uno ma per due motivi: perché ora poteva decifrare il testo di Veneziano e perché sapeva per certo che era stato Berengario e rubargli gli occhiali la notte scorsa nello scriptorium. Subito dopo, però, arrivò anche Nicola, entusiasta per aver finito le lenti. Guglielmo, per non umiliarlo, decise di usare le nuove e di tenere le vecchie di riserva. Ora poteva decifrare il testo di Veneziano. Adso, invece, andò a dormire, poiché quella notte non aveva dormito. Al risveglio egli fu assalito di nuovo dal rimorso per il suo peccato, ma a distrarlo dai suoi pensieri fu Guglielmo, che si recò da lui portando il testo di Veneziano. Egli lo aveva decifrato, ma si trattava di frasi senza senso. Era troppo poco per capire qualcosa. Guglielmo però disse che quelle parole gli tornavano alla mente come se le avesse gia udite. In ogni modo sembravano parole di un testo sacro, e per far luce sugli omicidi di quei giorni, doveva cercare di saper cosa diceva il libro misterioso…
Dopo questa considerazione, Guglielmo decise di riposarsi e si distese sul pagliericcio. Adso, invece, decise di andare a cercare tartufi con Severino. Lungo il cammino egli avvistò i frati minorati che si dirigevano verso il monastero, e decise di tornare indietro per avvisare Guglielmo. I frati furono accolti benevolmente dall’Abate poi, uno di loro, Michele di Cesena, ebbe un colloquio con Ubertino e Guglielmo. Michele da Cesena era il generale dell’ordine dei frati minori. Egli, in principio, era stato l’erede di San Francesco. Egli dapprima aveva dovuto competere con il predecessore Bonaventura da Bagnoregio, poi aveva dovuto fare in modo che le regole dell’ordine francescano fossero garantite e si era messo al servizio dei cittadini. Egli cercò di piacere al papa e, quando Giovanni aveva condannato alcuni eretici al rogo, Michele non aveva esitato a portargliene altri da condannare. Poi, vedendo che quelli dell’ordine avevano simpatie per i semplici evangelisti, aveva cercato di far esaudire le richieste degli eretici. Per far ciò, tuttavia, occorreva il consenso del papa e ancora non l’aveva avuto; nel frattempo aveva accettato i favori dell’imperatore. Inoltre aveva imposto ai cardinali di parlare del papa solo con moderazione e rispetto. Ora Giovanni avrebbe voluto che Michele si trasferisse ad Avignone, e quest’ultimo si trovava a discutere con Guglielmo e alcuni monaci sulla decisione da prendere. Tutti cercarono di convincere il frate a non trasferirsi, elencando alcuni misfatti del Papa, e tutte le volte che non aveva mantenuto le promesse fatte: cominciarono dal tempo della sua elezione, quando, per assicurarsi il voto, Giovanni tenne in carcere per due anni i cardinali. Dopo la sua elezione tuttavia egli non li liberò. Inoltre Giovannei aveva giurato sull’ostia consacrata che avrebbe portato il seggio pontificio a Roma, promessa che non fu mantenuta. Poi raccontarono che voleva addirittura cambiare ciò che dice l’apocalisse e in altre parole voleva sostenere l’idea che i giusti non avranno visione benefica nel giudizio finale. Michele non voleva credere a tutto questo, e confessò a tutti che alla fine avrebbe appoggiato il papa. Ma Guglielmo, con una sua espressione, fece capire ciò che pensava, e cioè, che alla fine, Michele si sarebbe rivolto contro il papa (ed è proprio quello che infatti accadrà).
Verso nona, arrivarono anche Bertrando del Poggetto e Bernardo Gui. Quest’ultimo era un domenicano chiamato per indagare sui delitti. Stranamente non rivolse alcuna domanda ai monaci, solo a contadini o fratelli laici. Nel frattempo Guglielmo andò ad esaminare dei libri, che stranamente non dovette cercare in biblioteca perché erano già sul tavolo di Veneziano. Scese verso vespri e mentre attendeva con Adso l’ora di cena incontrò Alinardo nel chiostro. Anche stavolta Alinardo ricordò le scritture del libro dell’apocalisse dicendo: “Anche l’altro cadavere giaceva là, dove il libro l’annunziava… attendete ora la quarta tromba.” Disse inoltre che nella biblioteca furono commessi molti atti di superbia, soprattutto quando cadde in mano agli stranieri. Quando Alinardo se n’andò, Guglielmo disse ad Adso che era ormai vicino alla soluzione. Dopo la cena per la legazione, Adso si diresse nella cucina dove avvenne una cosa molto curiosa. Adso vide Salvatore che portava in mano un fagotto, Gli si avvicinò e gli chiese cosa vi fosse dentro. Prima, Salvatore assicurò che c’era del basilico, poi rivelò che c’era un gatto nero che gli serviva per fare una magia allo scopo di far cadere ogni donna presa dall’amore. Adso temette che si trattava della donna da lui amata, ma con piacere seppe che non era così. Dopo compieta, Guglielmo ed Adso ripresero il loro lavoro. Quella sera, finalmente, riuscirono a comprendere la struttura della biblioteca: il loro tracciato riproduceva la mappa dell’universo, infatti, i libri erano distribuiti nelle sale secondo la loro provenienza. I libri d’origine settentrionale si trovavano in ANGLIA e GERMANI; quelli occidentali in GALLIA; quelli dell’estremo occidente si trovavano a HIBERNIA e SPANIA; i libri meridionali in LEONES, AEGIPTUS; verso oriente in IUDAEA e FONS ADAE. Tra oriente e settentrione ci si spostava in ACAIA. Tutti questi nomi derivavano della lettera che si trovava su ogni stanza. Ad esempio ACAIA era distribuita su quattro stanze che avevano le lettere A-C-A-I e la stessa A iniziale. Dopo aver trovato la sequenza, Guglielmo pensò che il finis africa, di cui Veneziano aveva scritto, si trovava per la parete delle stette chiese di Clonmacnois (SPANIA). Nella stanza S c’era uno specchio. Guglielmo capì che l’idolo poteva essere lo specchio e che, per “sopra l’idolo”, il testo di Veneziano poteva intendere “sopra lo specchio”. Credettero così che lo specchio era una porta e cercarono l’apertura per un’eventuale stanza nella quale avrebbe potuto trovarsi il libro misterioso. La loro ricerca fu però vana e decisero così di scendere. Adso, sebbene fosse stato impegnato quella sera, continuò a soffrire la sua malattia d’amore.
Durante la notte si udirono dei clamori provenire dalla cucina: erano Salvatore e la sua ragazza che erano stati scoperti da Bernardo Gui. Quella ragazza era la stessa amata da Adso. Dato che Salvatore aveva il gatto nero in mano, Bernardo intese che la ragazza era una strega, poiché il gatto nero simboleggiava il demonio. Decisero di incarcerare Salvatore e condannare al rogo la ragazza. Adso avrebbe voluto fare qualcosa per salvarla, ma fu fermato da Guglielmo. E mentre Adso osservava la scena, Ubertino gli parlò, ricordandogli che non doveva guardare la bellezza della ragazza perché la pelle nascondeva ciò che c’era dentro: per lui, come molti altri in quell’abbazia, la donna era il demonio in persona.

QUINTO GIORNO
La mattina, verso prima, Adso si alzò e uscì. Vide Bernardo e Malachia che stavano entrando in una sala dell’abbazia. Adso li seguì, e notò le tante sculture che si trovavano nella sala nella quale stava per svolgersi un’animata discussone sulla povertà di Gesù a cui parteciparono i membri delle due legazioni, Guglielmo mise Adso dalla parte dei minori. Poi, Abbone, aprì la seduta. Egli riassunse i fatti precedenti, cominciando da quella volta che l’ordine dei frati minori, sotto la guida di Michele da Cesena, aveva stabilito che Cristo e i suoi apostoli non avevano nulla in comune. Poi parlò del papa, egli era d’accordo su questa cosa, ed emanò una decretale dalle porte della chiesa maggiore d’Avignone. Però, si appellava contro questa decretale, fra Buonagrazia da Bergamo, e per questo fu incarcerato. Intervenne allora Bernardo, cercando di difendere il papa, sostenendo che a complicare la situazione e ad irritare il pontefice, ci aveva pensato Ludovico da Bavero, che nella sua dichiarazione assumeva le tesi di Perugia, ponendosi contro il papa e trattandolo da eretico. In seguito continuò un acceso dibattito, durante il quale, uno dei novizi informò Guglielmo che Severino voleva vederlo con urgenza. Guglielmo ed Adso trovarono Severino in un angolo della stanza. Egli disse che Berengario era certamente stato nell’ospedale, prima di andare nei balnea, la notte del suo omicidio perché aveva trovato un libro nel suo laboratorio che non gli apparteneva. Guglielmo pensò che si trattava del libro che stava cercando e disse a Severino di portarglielo ma egli si rifiutò poiché disse che il libro doveva essere consultato con cautela perché conteneva qualcosa d’interessante. Severino interruppe il discorso quando si accorse della presenza di Jorge. Guglielmo, temendo che Jorge avesse potuto capire qualcosa, ordinò a Adso di seguirlo e controllare se si dirigeva verso l’ospedale. Poi Michele da Cesena chiamò Guglielmo perché egli potesse esprimere la sua opinione sull’argomento che si stava trattando. Guglielmo, prima di andare raccomandò Severino di “non permettere a nessuno di prendere quelle carte”. Guglielmo commise però un errore dicendo quelle parole ad alta voce, perché il cellario le udì e ora si apprestava a seguire Severino che tornava nel laboratorio a sorvegliare il libro. Adso che se n’accorse decise che era meglio seguire Remigio e non Jorge, poiché egli non si dirigeva verso l’ospedale bensì verso la cucina. Il cellario accorgendosi che Adso lo stava seguendo si allontanò. Mentre Adso tornava da Guglielmo si scontrò con Bencio che ammise di aver capito che Severino aveva trovato qualcosa lasciata da Berengario. Adso non rivelò nulla, ma Bencio gli assicurò che gli aveva svelato molte cose, poiché col silenzio si dicono molte cose. Poi Adso mise Guglielmo al corrente dei fatti. Quest’ultimo, poiché aveva fretta di andare, interruppe il dibattito e parlò di una strana concezione del governo temporale. Poi, il capitano degli arcieri annunciò che bisognava interrompere la discussione poiché avevano preso il cellario, come gli era stato ordinato il mattino, perché sospettato. Egli era stato trovato nel laboratorio accanto al cadavere di Severino. Severino era la quarta vittima. Si trovava nel suo laboratorio, giaceva in un lago di sangue, con la testa spaccata; accanto a lui, c’era una sfera armillare: l’arma del delitto. La versione dei fatti era questa: Remigio era andato verso le cucine, qualcuno lo aveva visto e aveva avvertito gli arcieri, i quali erano giunti all’edificio quando Remigio se n’era già andato, ma da pochissimo perché in cucina c’era Jorge che affermava di aver appena finito di parlare con lui. Gli arcieri avevano allora esplorato il pianoro nella direzione degli orti, e qui avevano trovato il vecchio Alinardo che si era quasi smarrito. Proprio Alinardo aveva detto di aver visto, poco prima, il cellario entrare nell’ospedale. Gli arcieri erano andati lì trovando la porta aperta. Entrati, avevano trovato Severino morto e il cellario che stava rovistando tra gli scaffali. Le prove erano tutte contro il cellario che tuttavia si dichiarava innocente. Remigio fu portato via ma mentre andava si gettò ai piedi di Malachia gridandogli “giura, e io giuro!”e Malachia gli gridò “non farò nulla contro di te”. Mentre Guglielmo ed Adso guardavano la scena, arrivò Bencio, che si rivolse a Guglielmo e affermò che Malachia era già nella stanza prima che entrasse il cellario. Infatti, quando la stanza era ancora semivuota Malachia non c’era e non era entrato dopo perché egli era stato vicino alla porta e non lo aveva visto entrare. Con ciò Bencio voleva dire che Malachia aveva potuto nascondersi dietro una tenda che era nell’ospedale e aver così visto ciò che era successo. Probabilmente quello che aveva detto Bencio era vero ma, in ogni caso, osservò Guglielmo, il libro non era stato portato via da Malachia, né da Remigio altrimenti lo avrebbero notato e ora era del libro che dovevano preoccuparsi. La sfera era stata vibrata con forza sul cranio della vittima. Guglielmo esaminò le dita di Severino per verificare se anch’egli aveva macchie nere, ma portava i guanti. Guglielmo chiese all’abate di far liberare la stanza per poter meglio esaminare l’arma del delitto. Rimasero nella sala solo Guglielmo, Adso e Bencio. Quest’ultimo rimase di guardia alla porta, mentre Guglielmo ed Adso cercavano il libro. Guglielmo chiese a Adso di passargli libri greci e non arabi, che non potevano essergli utili in alcun modo poiché il libro di Veneziano era in greco. Tuttavia, non trovarono nulla. Considerarono allora l’ipotesi che qualcuno l’avesse preso. Esclusero Jorge, il cellario, Malachia… rimase Bencio. Egli negò insistentemente. Poi Guglielmo cercò di capire perché l’assassino avesse usato proprio quell’arma e arrivò alla conclusione che non era stata scelta a caso ma, di proposito. La sfera, infatti, era un oggetto astronomico e ripensò alle parole d’Alinardo. Egli infatti aveva detto che con la quarta tromba sarebbe stata colpita la terza parte del sole, della luna e delle stelle. Anche stavolta l’omicidio era collegato al libro dell’Apocalisse. Poi uscirono perché i monaci dovevano trasportare il cadavere e Guglielmo chiese a Bencio di andare a sorvegliare Malachia. Cercarono, poi, di ricordare cosa Severino aveva detto del libro e, prima capirono che, se doveva essere toccato con i guanti, forse era perché c’era un veleno, poi, Guglielmo, ricordò che l’erborista l’aveva definito “strano”. Capì allora che non era un libro in greco bensì in arabo, poiché Severino non conosceva l’arabo e per quel motivo gli sembrava strano. Ma quando tornarono nel laboratorio, il libro arabo non c’era più. Così pensarono a chi poteva averlo preso: o Malachia o Bencio. Dopo, Guglielmo dovette recarsi nella sala del capitolo dove si sarebbe svolto l’interrogatorio del cellario. In esso, Remigio fu accusato di eresia. Pareva, infatti, che era stato un tempo seguace di Dolcino. Alla sua negazione, fu chiamato a testimoniare Salvatore, il quale sostenne che il cellario possedeva alcune lettere di Dolcino che aveva consegnato a Malachia. Allora era stato chiamato a testimoniare anche il bibliotecario, che confermò tutto, nonostante prima avesse giurato a Remigio di non far nulla contro di lui. Quando, infatti, Remigio gli ricordò il giuramento, Malachia affermò che le lettere erano state consegnate a Bernardo prima che lui uccidesse Severino. Il cellario, allora, decise di non rispettare neanch’egli il giuramento e di deliberarsi dall’accusa d’omicidio e gli disse: “Tu sai che non ho ucciso Severino, perché eri già là”. Allora rivelò il motivo per cui si trovava mknel laboratorio e per il quale era stato accusato: la mattina aveva udito Guglielmo che diceva a Severino di custodire alcune carte, allora pensando che si trattasse delle sue lettere era andato nel laboratorio di Severino, e avendo trovato la porta aperta era entrato. Poi, trovando l’erborista morto, si era messo a frugare tra le sue cose, sperando di trovare le lettere. Bernardo lesse le lettere e Remigio fu costretto a confessare che fu seguace di Dolcino. Così, fu condannato al processo d’Avignone. Dopo l’assemblea, Michele da Cesena, confessò a Guglielmo che sarebbe andato ad Avignone. Nel frattempo Ubertino era partito. Due tristi notizie, accompagnata da quella che venne dopo: Bencio era diventato l’aiutante di Malachia, quindi, il libro che Guglielmo e Adso cercavano, lo aveva preso lui. Poi, da buon bibliotecario, lo aveva consegnato a Malachia. Per cui, ora, non poteva rivelare dov’era.

SESTO GIORNO
Il mattino dopo, a mattutino, Malachia non c’era. Ad accorgersene furono solo Guglielmo, Adso, Jorge e l’Abate, nei cui occhi si traspariva una seria preoccupazione su quello che sarebbe potuto essere accaduto a Malachia. Probabilmente l’Abate si aspettava che Malachia fosse stato ucciso ma poco dopo, egli arrivò in chiesa e, sia l’Abate sia Guglielmo, furono sollevati. Finito l’ufficio, mentre tutti si apprestavano ad uscire dalla chiesa, un vegliante scorse Malachia ciondolare in modo strano, gli si avvicinò con una lampada, ed egli cadde a terra. Tutti si disposero attorno a lui. Il volto aveva assunto un colorito giallo, respirava a mala pena e lo sguardo era smarrito. Guglielmo gli si avvicinò ed egli pronunciò raucamente alcune parole: “Me lo aveva detto…davvero…aveva il potere di mille scorpioni”. Allora Guglielmo gli chiese chi era stato a dirglielo ma Malachia non fece in tempo a parlare. Era ormai morto. Guglielmo gli osservò i polpastrelli delle mani, erano neri. Poi il corpo fu portato via. Guglielmo ed Adso videro l’Abate dare disposizione per le prossime esequie. Poi chiamò Bencio e Nicola da Moribondo (il mastro vetrai), nominò Nicola il cellario e raccomandò Bencio di sorvegliare che il lavoro continuasse. Tuttavia, non gli svelò il segreto della biblioteca. Forse lo considerava troppo giovane. Mentre uscivano, Guglielmo ed Adso, incontrarono Alinardo che sembrava quasi felice che fosse morto Malachia, perché era uno straniero. Poi disse che anche stavolta avrebbero potuto commettere (e non disse chi) altre ingiustizie nella scelta del bibliotecario com’era accaduto con lui. Poi ricollegò quello che aveva detto Malachia sul punto di morte, alla quinta tromba. Poi, pensando a ciò che diceva la sesta tromba, disse a Adso di tenere sotto controllo le stalle dei cavalli, perché la sesta tromba annunziava cavalli con teste di leoni. Guglielmo si recò da Nicola perché voleva parlargli. Nicola disse cose molto interessanti su come si erano susseguiti e bibliotecari. Nicola disse che, quando egli arrivò all’abbazia, il bibliotecario era Roberto da Bobbio. Roberto aveva un aiutante che poi morì e fu nominato Malachia, ancora molto giovane. Molti dissero che non sapeva neppure il greco. Alinardo, che sperava in quella nomina, insinuò che Malachia era stato messo in quel posto per fare il gioco del suo nemico. S’insinuava, inoltre, che Malachia non sapesse nemmeno il segreto della biblioteca. Altre contestazioni ci furono quando Malachia nominò Berengario suo aiutante. Si diceva che egli lo avesse nominato solo perché egli provava sentimenti per Berengario e soffriva nel vederlo sempre accanto a Adelmo. Poi si diceva anche che c’erano rapporti anche tra Malachia e Jorge, ma di un altro genere. Jorge sembrava essere la guida di Malachia che, infatti, non faceva nulla senza consultarlo. Disse che il bibliotecario sarebbe poi diventato Abate. Abbone (l’attuale Abate) però, non era stato bibliotecario. Prima di lui, era Abate Paolo da Rimini, il quale aveva una strana infermità, a causa della quale non riusciva a scrivere. Divenne Abate giovanissimo perché si diceva che avesse l’appoggio d’Algirdas da Cluny. Insomma, Paolo divenne Abate, Roberto da Bobbio occupò il suo posto in biblioteca ma anch’egli aveva un male e si sapeva che non avrebbe potuto reggere a lungo l’abbazia.
Così, quando Paolo da Rimini scomparve (partì per un viaggio e non tornò più), Roberto non poteva occupare il suo posto e fu nominato Abate Abbone. Egli, però, poiché era straniero, non piacque subito ai monaci, soprattutto ad Alinardo che protestava perché l’abbazia aveva abbandonato le sue tradizioni. Poi, Guglielmo, salutò Nicola e salì nello scriptorium. Adso, invece, andò in chiesa e, ascoltando il “Dies irae”, si addormentò, e fece un sogno per lui alquanto strano. Quando Guglielmo scese dallo scriptorium, lo svegliò e Adso gli raccontò il suo sogno. Guglielmo gli fece comprendere che lui aveva sognato qualcosa che era stato già scritto. Il suo sogno altro non era, che la “Coena Cypriami”, in cui, però, lui aveva inserito persone e avvenimenti di quei giorni. In ogni caso, Guglielmo, disse che aveva trovato il sogno d’Adso, un sogno rivelatore, perché coincideva con una delle sue ipotesi. Guglielmo risalì dallo scriptorium, stavolta con Adso e chiese a Bencio di mostrargli l’elenco dei libri. Lesse una serie di titoli che stavano sotto una sala collocazione (finis Africae). Disse che quella era il libro che cercavano. Poi cercò di ricostruire la storia dei bibliotecari. Prima era abate Paolo da Rimini, e, Roberto da Bobbio era già bibliotecario. Muore e il posto è dato a Malachia. Ora, però, non sapevano chi era l’aiuto bibliotecario quando era bibliotecario Paolo. Per capirlo osservò la calligrafia nella scrittura dell’elenco dei libri e notò che per molto tempo aveva scritto una sola persona, probabilmente l’aiuto bibliotecario di Paolo. Dato che egli non poteva scriverlo, incaricò l’aiutante di farlo e questi, aveva continuato a farlo quando era diventato bibliotecario.
Questo misterioso bibliotecario, doveva essere il concorrente di Alinardo, ma poi né a lui, né ad Alinardo era stata affidata questa carica, quindi, era stato nominato Malachia. Poi Guglielmo si rivolse a Bencio e gli chiese se il mattino in cui Adelmo e gli altri discussero degli enigmi arguti e Berengario fece un accenno al finis Africae, qualcuno nominò la coena Cypriani. Egli disse che era stato proprio Veneziano e nominarlo e Malachia si era adirato, ritenendolo libro ignobile e ricordando che l’abate stesso n’aveva proibito la lettura a tutti. Poi Bencio mostrò la sua preoccupazione per gli omicidi, credendo di poter essere lui la prossima vittima. Disse, inoltre, che Alinardo provava odio per Malachia e il suo gruppo parlava di lui come un uomo portato all’abbazia da qualcun altro con la complicità dell’Abate. Dopo, Guglielmo, gli chiese del libro. Lui lo definì strano, proprio come lo aveva definito Severino. Allora, Guglielmo, gli chiese perché ed egli disse che la pergamena era più soffice delle altre pergamene, si sfaldava quasi, sembrava stoffa, ma esile. Guglielmo capì, allora, che si trattava di charta linca. Era rara: in Italia si produceva solo a Fabriano…
All’improvviso gli occhini Guglielmo s’illuminarono come se egli avesse capito qualcosa di molto importante. Scesero dallo scriptorium e, mentre uscivano fuori, incontrarono l’Abate. Guglielmo gli chiese un colloquio. Andarono a parlare nella suntuosa casa dell’Abate. Egli dimostrò una certa delusione per il lavoro svolto da Guglielmo, perché era stato troppo lento a scoprire qualcosa di semplice. Guglielmo gli fece notare che non era così semplice come credeva, infatti, gli omicidi non ruotavano sui rapporti tra Adelmo e Berengario (come l’Abate credeva), ma sul furto di un libro che non doveva essere letto. L’Abate si mostrò meravigliato da quest’inattesa rivelazione. Poi avvertì l’Abate di stare in guardia perché la prossima vittima poteva essere lui. Uscirono dalla casa. L’Abate aveva capito chi era il responsabile dei delitti e aveva voluto risolvere la questione da solo per salvare l’onore dell’abbazia. Pertanto manifestò a Guglielmo, il desiderio che non s’indagasse più su quelle tristi vicende. Guglielmo disse all’Abate che avrebbe fatto ciò che voleva e che sarebbe partito l’indomani stesso, ma in realtà, ora quello che voleva era sapere la verità. Così, decisero che la notte sarebbero andati di nuovo in biblioteca. Guglielmo andò a riposarsi e Adso tenne sotto controllo le stalle dei cavalli come gli aveva detto Guglielmo. Poi, entrò in chiesa, e notò che l’Abate era alquanto turbato dall’assenza di Jorge. Chiese a tutti di cercarlo perché voleva parlargli. Nessuno lo trovò. Prima che la cena iniziasse, Adso andò a svegliare Guglielmo e gli raccontò quanto era successo. Sulla porta del refettorio, incontrarono Nicola. Egli disse che lo aveva lasciato in chiesa prima di vespri quando era ancora deserta. Cenarono. Poi, mentre ritornavano al dormitorio, videro l’Abate entrare nell’edificio. Dopo, andarono nelle stalle e lì Adso ricordò di una magia che voleva fare con un cavallo. Pronunciò “terzus equi” che voleva dire “il terzo del cavallo”. A lui sembrò cosa di poco conto ma fu proprio da quella parola che Guglielmo capì il significato del testo di Veneziano. “la mano sopra l’indolo opera sul primo e sul settimo dei quattro. Significava che doveva spingere sulla prima e sulla settima lettera delle quattro parole dell’apocalisse che erano scritte sullo specchio. La frase era “super thronos vaginiti quartour” e loro dovevano spingere le lettere “Q” e “R” per aprire una porta dietro lo specchio. Così, verso la biblioteca, mentre salivano le scale, udirono un rumore nella parete come se ci fosse un altro passaggio e qualcuno in quel passaggio. Salirono, andarono nella stanza con lo specchio e Guglielmo spinse la Q e la R, lo specchio si mosse. Erano nel finis Africae.

SETTIMO GIORNO
La stanza del finis Africae era simile alle altre. C’erano molti scaffali e al centro della stanza un tavolo colmo di carte e dietro al tavolo, un uomo seduto, che sembrava attenderli. Prima ancora che la luce della loro lampada illuminasse il volto dell’uomo, Guglielmo capì che si trattava di Jorge e lo salutò. Egli rispose al saluto e disse che lo attendeva dal pomeriggio. Guglielmo chiese dell’Abate, se era lui che si agitava nella sala segreta. Jorge disse che lo credeva ormai già morto, dato che non c’era aria nella stanza. Guglielmo disse che voleva salvarlo. Jorge ribadì che non era più possibile, perché entrambe le vie d’uscita erano state bloccate, una per sbaglio, una per volontà sua. L’Abate era ormai morto. Guglielmo gli chiese perché lo aveva ucciso. Egli rispose che Abbone, dopo aver parlato con lui, e si rivolgeva a Guglielmo, aveva scoperto tutto, ma non aveva capito cosa lui cerava di proteggere, perché non aveva mai saputo quali fossero i tesori e i fini della biblioteca. Per questo, gli aveva chiesto di spiegargli ciò che non sapeva. Poi Jorge, aveva promesso che sarebbe andato ella biblioteca e che avrebbe posto fine alla sua vita come aveva fatto con quella degli altri, in modo che l’onore dell’abbazia sarebbe stato salvato e nessuno avrebbe mai scoperto nulla. Poi gli aveva indicato la strada per entrare e controllare che si fossero davvero ucciso, ma in realtà, lo attendeva per uccidere lui: non poteva più fidarsi. Allora Guglielmo capì che era lui il misterioso bibliotecario nemico d’Alinardo. Egli quando si era accorto che stava diventando cieco, aveva fatto eleggere Abate un uomo di cui poteva fidarsi, e aveva fatto nominare bibliotecario prima, Roberto da Bobbio che non poteva scrivere e che quindi poteva istruire a suo piacimento, e poi Malachia, che non faceva niente senza consultarlo. Per quaranta anni era stato il padrone dell’abbazia. Poi, dal discorso emerse qualcosa di molto importante. Malachia non era stato ucciso da Jorge, che, infatti, non voleva che morisse. Era stata la sua curiosità ad ucciderlo. Jorge aveva udito il discorso tra Guglielmo e Severino e l’aveva riferito a Malachia, che, fino ad allora, non aveva capito nulla. Continuava ad essere ossessionato dall’idea che Adelmo gli avesse rapito Berengario. Non capiva cosa centrasse Veneziano e Jorge gli aveva confuso ancor più le idee, quando gli aveva detto che Berengario aveva avuto un rapporto con Severino e per compensarlo gli aveva dato un libro del finis Africae. Malachia, era andato da Severino, folle di gelosia, e lo aveva ucciso. Poi, non aveva fatto in tempo a cercare il libro perché era arrivato il cellario.
Ora Jorge stava chiedendo a Guglielmo cosa voleva ed egli aveva risposto che voleva leggere il misterioso libro fatto di carta di panno che si produceva proprio a Silos, vicino Burgos, il suo paese, perché voleva capire cosa c’era di così pericoloso che Jorge difendeva con tanta cura. Jorge glielo porse. Guglielmo indossò i guanti che aveva preso da Severino e cominciò a sfogliare il libro. Erano quattro volumi raccolti in un solo libro. Il primo era arabo, il secondo siriano, il terzo arabo. Guglielmo lesse la prima pagina ma andando avanti notò che le pagine seguenti erano come incollate, allora capì. Le pagine erano incollate dal veleno. Per proseguire doveva inumidirsi il dito portando sulla lingua il veleno e uccidendosi così da solo come avevano fatto tutti gli altri. Cercò allora di ricostruire dall’inizio il piano di Jorge. Si rivolse a lui e cominciò a raccontare. Egli aveva preso il veleno dal laboratorio di Severino, molti anni addietro e lo aveva custodito fin a quando non aveva avvertito la necessità di usarlo. Quando aveva capito che Veneziano era vicino alla verità Jorge aveva coperto il libro di veleno, Veneziano era venuto in biblioteca, aveva sfogliato il libro ma poi si era sentito male. Era sceso in cucina per cercare aiuto e lì era morto. Berengario lo aveva trovato ma aveva pensato che non poteva lasciarlo lì né poteva chiamare qualcuno, perché sarebbe stato scoperto che egli girava per l’edificio di notte. Così lo aveva buttato nel sangue facendo credere che fosse annegato. Il panno sporco di sangue che era stato trovato nella cella di Berengario testimoniava che egli, dopo averlo buttato nel sangue, si era pulito le mani. Poi anche Berengario aveva letto il libro, si era sentito male ed era andato nei balnea, dove era morto lasciando il libro nel laboratorio di Severino. Malachia uccide Severino istigato da Jorge e muore a sua volta quando legge il libro per sapere cosa c’era di così proibitivo nel libro che lo aveva fatto diventare assassino. Le sette trombe non c’entravano nulla, era tutta una strana coincidenza e lui si era fatto influenzare troppo da Alinardo. A questo punto Guglielmo chiese perché aveva difeso questo libro fino al punto di arrivare ad uccidere. Jorge spiegò che quel libro avrebbe potuto distruggere parte della sapienza che la cristianità aveva accumulato in tanti secoli. In quel periodo la Chiesa dava troppa importanza a ciò che dicevano i filosofi e si faceva influenzare al punto di credere più ai filosofi che a ciò che dicevano le sacre scritture. Con quel libro Aristotele aveva capovolto l’immagine del mondo. Se fosse stato esposto all’umanità sarebbe stato un disastro, per questo doveva essere nascosto. Detto questo tacque. Poi, avendo capito che era stato sconfitto, cominciò a strappare le pagine avvelenate e ad ingoiarle. Guglielmo cercò di impedirglielo ma mentre cercava di strappargli il libro di mano fece cadere il lume che si spense. Ora non vedevano più Jorge ma lo sentivano. Egli si stava dirigendo fuori dalla stanza. Cercarono di seguirlo ma senza luce era difficile capire dove fosse. Poi Adso si accorse che aveva l’acciarino e accese il lume. Videro Jorge, lo raggiunsero e Adso cercò di prendere il libro ma Jorge afferrò il lume e lo scagliò in avanti. I libri cominciarono a prendere fuoco e in breve tutta la stanza arse. Adso andò a svegliare i monaci mentre Guglielmo cercava inutilmente di salvare il libro. I monaci si precipitarono verso la biblioteca ma ormai non era una sola stanza a bruciare ma tutta la biblioteca. Le fiamme si propagarono per tutto l’edificio e la chiesa. In poco tempo tutta l’abbazia aveva preso fuoco e a nulla valsero gli ultimi sforzi. Il giorno seguente Guglielmo ed Adso lasciarono l’abbazia e per tutto il viaggio non parlarono più di ciò che era accaduto. Alla fine del viaggio Guglielmo regalò ad Adso le lenti che gli aveva fabbricato Nicola. Si abbracciarono e poi ognuno continuò per la sua strada. Anni dopo, Guglielmo morì durante la grande pestilenza che infierì in Europa verso la metà di quel secolo. Adso ebbe occasione di ritornare in Italia e decise di rivisitare l’abbazia. Delle magnifiche costruzioni che un tempo adornavano quel luogo ora non rimanevano che sparse rovina.

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