Gli umiliati e la lotta per la sopravvivenza lontano dallo "scoglio"

Materie:Appunti
Categoria:Italiano

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Testo

Saggio breve: Gli umiliati e la lotta per la sopravvivenza lontano dallo “scoglio”

Quello di “Malavoglia” è solo un soprannome, una ’ngiuria per dirla in dialetto siciliano, un epiteto che non rende onore alla famiglia Toscano, da sempre «tutta buona e brava gente di mare» molto laboriosa. Il romanzo è la loro storia, storia non di “umili”, come quella narrata dal Manzoni, ma di “umiliati”, storia di poveri pescatori che vivono il dramma dell’inutile lotta per raggiungere, attraverso il mito del progresso, il riscatto dalla condizione di “vinti”.
I Malavoglia, scritto nel 1881, doveva essere parte di un grande progetto cui Verga aveva fatto riferimento in una lettera del 1878 all’amico Salvatore Paolo Verdura: «…Ho in mente un lavoro che mi sembra bello e grande, una specie di fantasmagoria della lotta per la vita, che si estende dal cenciaiuolo al ministro, all’artista, e assume tutte le forme, dall’ambizione all’avidità del guadagno, e si presta a mille rappresentazioni del grottesco umano». Si riferiva, ovviamente, al ben noto ciclo dei “Vinti”, al disegno che, comprendendo Mastro Don Gesualdo e La Duchessa di Leyra, avrebbe potuto essere portato a termine, se proprio quest’ultimo romanzo e gli altri due previsti non fossero rimasti incompiuti. L’obiettivo inseguito da Verga era quello di mettere in luce il meccanismo della “lotta per la vita”, ricavato dalle teorie di Darwin, meccanismo che nelle “basse sfere”, nel mondo dei “vinti”, è molto più semplice e meno complicato da osservare e descrivere.
Nella Prefazione al romanzo Verga presenta il tema di fondo dello scritto: la rottura di un equilibrio dato dalla tradizione immobile e abitudinaria di una famiglia semplice di Aci Trezza, per l’irrompere di nuove forze, «la fiumana del progresso», il desiderio di migliorare le condizioni di una vita povera e grama. La lotta dei Malavoglia non è esclusivo battersi contro un destino di miseria e sofferenza, incarnato dal mare, bestia famelica che inghiotte la loro piccola barca, la Provvidenza, portando morte e disperazione, ma anche scontro con la malvagità insita nella centaurica1 natura umana, incarnata nelle malelingue degli abitanti di Aci Trezza, gente invidiosa, pettegola e cattiva.
Quando il giovane ‘Ntoni, tornato dal servizio militare, lascia il focolare domestico disgustato dalle condizioni estreme di un’esistenza il cui peso non riesce più a sopportare, getta l’intera famiglia nel tormento, lasciando gravare la funerea sensazione che i valori da sempre perseguiti, ormai senz’anima, non abbiano più ragion d’essere. E questi valori sono la casa, l’onestà e l’onore, valori in costante estinzione, valori che per Luigi Russo, noto recensore dell’opera omnia verghiana, rappresentano il pre-moderno, l’esaltazione del mondo primitivo, la «religione della casa» e della famiglia, valore che Verga aveva definito, nella novella Fantasticheria, «ideale dell’ostrica».
Nel romanzo I Malavoglia restano ancora in vita i depositari delle leggi e dei codici esistenziali messi in crisi dal progresso: ad incarnarli sono il vecchio ‘Ntoni, Bastianazzo, Mena ed Alessi; ma da vicino i loro valori rivelano la natura di ideali ormai incomprensibili ai più, a quella massa che si è ormai sporta ad ammirare le nuove divinità, il denaro ed il successo. Il paese, Aci Trezza, è un coro di bruti, di gente ormai avvelenata dai principi avari del materialismo, che guarda con paura e curiosità al mare, che è metafora del progresso, pronto a travolgere chi è incapace di cavalcarne l’onda.
Il momento storico è la fotografia degli stessi anni in cui Verga narra (1863-1878): è la quotidianità dell’Italia post-unitaria, la vita dei nostri predecessori nei suoi tragici risvolti: il brigantaggio, il lavoro minorile, il servizio militare che dura ben cinque anni, le feroci tasse imposte dal nuovo governo della Destra storica per sanare il deficit del bilancio. E’ uno sfondo che, tuttavia, ha dato modo al romanzo verghiano di farsi voce viva e attuale di una storia realmente vissuta, regionale e universale insieme.
Di fronte al progresso ad alla storia Verga ha un chiaro atteggiamento di profondo pessimismo: d’altronde egli è ateo e materialista, non si giova dei privilegi donati dalla fede, che egli sente come un insieme di atteggiamenti di sola pratica abitudinaria, senza valore consolatorio alcuno. Il suo pessimismo gli vieta di intromettersi nella narrazione, che egli affida alla tecnica dell’impersonalità, del lasciare che l’opera sembri scritta da sé: nessun filo si percepisce tra il romanzo e il suo autore, nessun collegamento da potersi fare. Tanti sono i proverbi, simbolo della saggezza di una generazione passata, molti i paragoni con il modo animale, mentre il flusso gergale è usato là dove serve e appare necessario. La sintassi e il lessico sono di stampo popolare, di un siciliano carico di errori, che tuttavia, fatta eccezione per quei pochi vocaboli assolutamente intraducibili, non è del tutto dialettale. E il discorso è totalmente libero, diretto, nonostante venga spesso reso indirettamente. Il colto Verga si lascia, dunque, trascinare indietro e “regredisce”, quasi risucchiato dalle pagine del romanzo: regredisce al livello dei suoi personaggi in modo da poter dire, fare e vedere così come essi dicono, fanno e vedono.
Dopo il naufragio della Provvidenza, i ripetuti lutti, i debiti dovuti al fallimento del commercio di lupini e l’allontanamento del giovane ‘Ntoni, fuggito alla scoperta della vita nella grande città, Alessi, uno dei nipoti del vecchio ‘Ntoni, troverà il modo di riscattare la “casa del nespolo” e ricomporre un frammento dell’antico nucleo familiare. Dunque, il romanzo pare terminare con un lieto fine, ma la critica più recente non è assolutamente concorde. C’è chi, come Barberi Squarotti, la pensa diversamente: l’uscita di prigione del giovane ‘Ntoni, il ritorno a casa dello stesso e, di nuovo, il suo definitivo allontanarsi nella piena coscienza di una spaccatura insanabile con la propria famiglia, è il simbolo di un addio ancora più lacerante e disgregante, è il distacco dal mondo pre-moderno ed arcaico irrimediabilmente sconfitto per l’avvicinarsi del moderno, è la sorte che tocca all’escluso artista, che perde la propria “aureola”2 in un modo in cui dominano solo i valori materiali.
Il percorso del giovane ‘Ntoni, d’altra parte, sarà ripreso e continuato da Gesualdo Motta che, esponente più tipico del mondo evoluto, avrà il dinamismo e l’intraprendenza di un self made man (Luperini), ma anche la tragica consapevolezza di vivere in una famiglia che nulla conserva dell’ideale dell’ostrica e che appare invece solo un nido di vipere.
Il motivo dell’ "uomo artefice della propria fortuna", dell’ ”eroe della roba”, per dirla con Verga, è ricorrente in tutta la storia della filosofia e della letteratura. Da Platone e Leopardi a Verga, non c'è filosofo o letterato che non si sia interrogato sul valore e sul significato del progresso. Le risposte sono state molteplici, alcune simili, ma mai uguali. Platone, pur non analizzando direttamente il problema, esprime chiaramente la sua opinione: egli definisce “giustizia” “l'attendere al fatto proprio” seguendo le attitudini della propria natura, senza desiderare di cambiare classe sociale. In questo modo Platone, in modo sorprendentemente simile a Manzoni, asserisce non solo che l'uomo non può sperare di cambiare la propria situazione, ma anche che sarebbe colpevole se tentasse di farlo. Altri filosofi, come Eraclito, pongono nel cambiamento, al contrario di Platone, la base delle loro dottrine. Analizzando il problema del progresso in Verga è d'obbligo analizzare, non solo il tema del cambiamento, ma anche il ruolo che il destino e la rivoluzione scientifica e industriale vengono ad assumere all'interno del romanzo. L'atteggiamento di Verga, per quanto separato da più di 2000 anni di storia, è molto simile a quello di Platone. Verga, infatti, pare condannare il tentativo della famiglia Malavoglia di migliorare la propria condizione sociale: nel progresso generale della società, i singoli appaiono a Verga solo “vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti ed annegati.” Il mondo contadino di Verga è descritto nel momento in cui sta per scomparire e perdere le sue caratteristiche e peculiarità, ma il progresso implica quella che molti anni dopo Pier Paolo Pasolini chiamò «omologazione», ovvero la perdita delle differenze, delle radici e dell'originalità. Il momento in cui Pasolini teorizza tale fenomeno è la stagione degli anni ‘60, quella del boom economico, con il celeberrimo articolo La scomparsa delle lucciole. Verga, da proprietario terriero, osserva con rimpianto la civiltà contadina prossima alla dissoluzione: osservando attentamente il mondo descritto ne’ I Malavoglia appare evidente che il mondo della casa del Nespolo, un tempio di valori, è già un’isola solitaria assediata da una realtà profondamente trasformata. L’onda del materialismo economico ha ormai travolto il tempio anacronistico del mondo contadino, distruggendolo. Per rifondarlo occorre che il più puro, Alessi, ricostruisca la casa allontanando il trasgressore 'Ntoni. Dall’analisi della vicenda e soprattutto del suo tragico finale, appare evidente che Verga non è un rivoluzionario, ma un conservatore; del resto quando Bava Beccaris cannoneggiò sulla folla che reclamava il pane, Verga espresse il suo assenso, nonostante la violenza della repressione armata nei confronti dei manifestanti.
L’ideologia conservatrice di Verga proviene dal suo tentativo di conservare gli antichi equilibri e di difenderli dal progresso e dalla storia corruttrice. Verga era siciliano e la letteratura siciliana è indubbiamente centripeta: i siciliani guardano alla loro terra, diretti verso il cuore dell'isola, ignorando il mare: in Verga, infatti, il mare corrisponde al naufragio ed alla morte. Mentre nella letteratura inglese il mare rappresenta l’avventura, per Verga invece il mare è foriero di incursioni di nemici e violenza. Verga è dunque un antistorico: i “vinti” restano tali, il progresso non esiste, la storia è solo strumento di sopraffazione e violenza, è solo una lunga somma di egoismi. Da Verga in poi tutti gli scrittori siciliani, o almeno i maggiori, si tramandano una medesima lettura della storia: non esiste il progresso, laddove pare che stia cambiando qualcosa, che stia per avvenire un grande mutamento epocale, in verità si ripristina sempre il dominio della stessa classe dirigente. Dalla prospettiva di tali autori, si evince come nella Sicilia immobile e fossilizzata di cui parlano, conti solo il potere, mentre le ideologie sono asservite alla volontà di potere. Anche un contemporaneo di Verga, F. De Roberto nel romanzo I Vicerè, delinea la storia della famiglia Uzeda e di un’oligarchia (secondo Leonardo Sciascia è il più grande romanzo della letteratura italiana, dopo i Promessi sposi), raccontata meglio di quanto possano fare gli storici di professione. La denuncia di De Roberto è serrata: quando il mondo cambia, ai nobili catanesi non resta altro che abbarbicarsi al potere: i borbonici di un tempo diventano i sostenitori del nuovo stato d'Italia e di casa Savoia. De Roberto scrive un romanzo aspramente realistico, caratterizzato da una visione fortemente polemica della realtà: non c'è un solo personaggio positivo nel testo, nonostante sia un romanzo brulicante di personaggi.
A Verga e De Roberto la storia appare come un perpetuo e tragico “trasformismo”, secondo la pratica parlamentare di Depretis, come la possibilità di instaurare comode alleanze tra partiti, senza una netta discriminante politica, come la possibilità di legittimare una concezione della storia in cui tutto si trasforma allo scopo che nulla in realtà cambi.
1 Cfr. MACHIAVELLI, Il principe (ritratto)
2 cfr. BAUDELAIRE
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