FATO, FORTUNA, PROVVIDENZA IN LETTERATURA ED ARTE

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Testo

FATO, FORTUNA, PROVVIDENZA
in letteratura e in arte
La fortuna, sotto l’aspetto filosofico, è una specificazione del caso e, precisamente, è il caso, in quanto reca agli uomini qualche vantaggio o qualche danno.
Identificabile con la Tyche, col fato, con la Provvidenza, con il destino, quindi, a seconda delle epoche, delle concezioni essa assume varie sfaccettature e significati.
LETTERATURA GRECA
TRAGEDIA
La tragedia greca rendeva onore alla libertà umana facendo lottare il suo eroe contro lo strapotere del destino: per non andare al di là di tutti i confini dell'arte doveva farlo soccombere, ma per riparare nuovamente a questa umiliazione della libertà umana, imposta dall' arte, doveva farlo espiare anche per il delitto commesso dal destino. E' un grande pensiero quello di essere disposti ad affrontare anche la punizione per un delitto inevitabile per dimostrare così, attraverso la perdita della propria libertà, questa libertà, e proclamare, nell'atto stesso di perire, il proprio libero volere.
(Schelling)
La tragedia greca nacque dal culto di Dioniso, celebrato nelle campagne dopo l’epoca della vendemmia. In tale occasione aveva luogo una processione nella quale sopra un carro a forma di barca( currus navalis ) si portava in giro il dio Dioniso che proveniva dal mare, seguito da una folla che si truccava da satiri, nel Peloponneso o nell’Attica. La processione si chiudeva con un sacrificio e con canti popolari improvvisati, in cui si celebravano le lodi del dio.
La tragedia greca nacque e decadde nel giro di tre generazioni.
Tragedia non significa, come nell’uso comune, situazione catastrofica o disastrosa, anche se questi elementi di certo non mancano, ma indica la condizione, appunto tragica, di un personaggio che si trova di fronte a una alternativa senza via d’uscita, perché entrambe le scelte portano alla rovina. La tragedia greca ebbe il merito di porre come nodo centrale il dilemma e il dubbio: proponendo i propri antichi miti in forma tragica, i Greci dell’età classica, uscirono dalle certezze del periodo arcaico, rispecchiate nell’epica, e avviarono una riflessione sulla problematicità dell’esistenza e la responsabilità che pesa su ogni azione umana.
Tutto quello che la tragedia significa per la nostra cultura è stato introdotto, portato a perfezione e realizzato da tre grandi tragediografi del V secolo a.C.:
Eschilo, Sofocle ed Euripide.
ESCHILO (Eleusi 525 a.C. ca.- Gela 456 a.C. ca)
Eschilo perfezionò e definì il genere tragico: viene universalmente considerato come il padre delle tragedia greca, in quanto l’avrebbe resa assai più drammatica rispetto al passato, sia assegnando una parte molto maggiore al dialogo sia limitando la parte del coro. A lui si attribuisce anche l’introduzione del secondo attore.
La tecnica comunque non basterebbe a fare di Eschilo il sommo poeta tragico che egli è, né essa va presa come criterio unico e neppure dominante nella valutazione della sua poesia e della sua tragicità. In tutti i suoi drammi egli esprime in maniera piena ed adeguata il complesso e grandioso mondo spirituale, che tumultuosamente si agitava in lui. Eschilo è soprattutto uno spirito profondamente religioso; della divinità ha un concetto altissimo. Dio è perfetto e potente e giusto; anzi, della giustizia, che sembra essere l’esigenza suprema della vita spirituale, è geloso tutore e punisce chi la viola: la tragedia di Eschilo presenta esseri dominati dalla hybris, cioè da una passione verso mete vertiginose di autoaffermazione che li porta a trasgredire i limiti etici imposti da Zeus. Così la tragedia diventa un monito rivolto all’uomo perché non oltrepassi i suoi limiti eticii e si senta responsabile delle sue azioni, nella consapevolezza che chi trasgredisce sarà punito.
Numerosi sono i personaggi eschilei macchiatisi di hybris, come Serse ne I Persiani: i protagonisti sono i vinti della battaglia di Salamina, avvenuta nel 480 a.C. L'azione tragica si svolge alla corte del re di Persia, a Susa. Serse e' partito per muovere guerra alla Grecia con 1200 navi ed un esercito immenso, e il coro dei vecchi persiani esprime la sua preoccupazione per la sorte di Serse, della cui spedizione non si hanno notizie. Essi consigliano ad Atossa, madre di Serse, la quale ha avuto in sogno funesti presagi, di fare sacrifici propiziatori agli dei. Mentre un triste presagio incombe sulla scena, giunge un messo, che narra nei particolari la disfatta di Salamina e la distruzione dell'esercito di Serse. I vecchi persiani del coro e Atolla evocano lo spirito di Dario, padre di Serse, che individua i motivi di una cosi' grande sciagura nella smodata ambizione di Serse, che si e' meritato il castigo degli dei, e predice la successiva disfatta di Platea. Infine sulla scena giunge Serse, che, umiliato, unisce i suoi lamenti a quelli del coro.Questa tragedia presenta una tecnica primitiva con un'azione scenica molto scarna. Il fato incombe sui fatti narrati sin dall'inizio della tragedia. L'uomo non e' che una pedina nelle mani degli dei, che governano il destino degli uomini in modo da affermare un'idea di giustizia, che punisce la loro presunzione. Il dramma non e' visto come destino del singolo individuo, ma coinvolge tutta la sua stirpe, dagli antenati ai discendenti. Nonostante Eschilo non rinunci ad esaltare il valore dei Greci, giganteggia nella tragedia il dramma dei Persiani vinti. D’altra parte per i Greci la vittoria sui Persiani fu presa ben presto come simbolo della giustizia divina. Serse pecca di hybris aggredendo i Greci e violentando la natura (fa marciare l’esercito sul mare, grazie alla costruzione del ponte sull’Ellesponto, e navigare la flotta sulla terra, scavando un canale nella penisola del monte Athos, per evitarne la circumnavigazione). Per questo viene punito da Zeus con la sconfitta e la distruzione della sua flotta.
L’ombra del grande re persiano Dario, padre di Serse, appare nel finale della tragedia commentando così la vicenda del figlio (vv. 739-752):
Aaah, fu svelto, a culminare il presagio. Zeus saettò su mio figlio l'effetto delle voci veridiche. Io m'illudevo: sì, le avrebbero coronate i Celesti, alla lunga, con gli anni. Ma basta che sia tu a voler bruciare le tappe, e il dio t'è addosso, ti spinge. Oggi, diresti, una pozza viva di mali s'è schiusa davanti alla cerchia dei miei. Mio figlio ha precipitato le cose. Incosciente! Febbre immatura! Che abbaglio, il suo, bloccare il flusso solenne del varco di Elle - servo chiuso nei lacci - il fluente Guado Bovino: è consacrato! Di sua testa, snaturava la forma di quel braccio marino. L'irretiva di nodi, a colpi di mazza, e creò immenso sentiero alla folla guerriera. Ha dentro la morte, e voleva piegare i Celesti, Posidone, perfino! Delirava. Un guasto mentale - che altro? - rapiva mio figlio. Ormai ho paura che l'oro, il mio oro - sforzo di tutta una vita - si offra nel mondo al predone più svelto.
Serse accecato dalla giovinezza e dalla presunzione, ha compiuto una serie di azioni che, grazie alla loro riuscita, danno un avvio felice alla sua impresa, ma che porteranno infine alla catastrofe dell’esercito persiano (Ma basta che sia tu a voler bruciare le tappe, e il dio t'è addosso, ti spinge). Questo è il destino di chi, volendo troppo, oltrepassa il limite: allora un dio lo asseconda, aiutandolo a perdersi, proprio mediante la riuscita del suo tentativo. Così la giustizia trionfa e la vittima stessa diviene alla fine consapevole della propria colpa.
SOFOCLE (Atene 496 a.C.-405 a.C.)
La sua tragedia in confronto a quella di Eschilo, è molto più naturale ed umana: benché permanga teoricamente il presupposto religioso (Fato), in realtà le azioni sono determinate dalle tendenze e passioni individuali. Sofocle riprende le tematiche di fondo di Eschilo, sottolineando però l’irrevocabile emarginazione e dannazione dell’eroe tragico.
Nei personaggi delle tragedie sofoclee possiamo rinvenire l’essenza stessa della tragicità nel conflitto irrisolvibile che li lacera tra la libertà di autoaffermazione e una costrizione esterna, e che li porta irrimediabilmente all’emarginazione e alla sofferenza estrema.
L’esempio più celebre tra personaggi sofoclei tragicamente lacerati è Edipo, protagonista dell’Edipo Re. Diventato re di Tebe dopo aver liberato la citta' dalla Sfinge egli sposa la regina Giocasta. Tebe viene afflitta da un tremenda pestilenza e l'oracolo consultato rivela che la pestilenza avrà termine soltanto quando sarà cacciato dalla città l'uccisore di Laio, il re precedente, che era stato ucciso da uno sconosciuto lontano dalla patria. Edipo vuole sapere dall'indovino Tiresia il nome del colpevole, ma questi prima si rifiuta di dirglielo, ma infine e' costretto a dirgli che e' proprio lui.
Gli dice inoltre che e' figlio di Laio e che quindi la regina che ha sposato, Giocasta, e' sua madre. Edipo, incredulo, scaccia Tiresia, ma si ricorda di avere ucciso uno sconosciuto per questioni di precedenza sulla strada di Corinto. Il sospetto in lui prende corpo dopo che ha saputo dalla moglie Giocasta le circostanze della morte di Laio.
Giunge un messo ad annunziare la morte di Polibo, re di Corinto, di cui Edipo si credeva figlio, ed il messo aggiunge che egli stesso aveva ricevuto Edipo neonato da un pastore di Tebe e lo aveva dato a Polibo, che lo aveva accolto come un figlio. Edipo fa chiamare il pastore e questi conferma il racconto e dice di avere ricevuto il neonato dal re Laio, che ne era il padre e che intendeva liberarsene, perché un oracolo gli aveva predetto che sarebbe stato ucciso da suo figlio, il quale avrebbe sposato la madre. Edipo fugge dentro la reggia e poco dopo un servo annuncia che Giocasta si e' uccisa e che Edipo con le fibbie dell'abito della madre-moglie si e' percosso gli occhi accecandosi.
La tragedia si chiude con la scena di Edipo cieco che raccomanda le figlie Antigone ed Ismene al cognato Creonte.
Edipo si sottomette al peso della sua impotenza ed è incapace di opporsi all'impeto delle forze che lo trascendono, ma proprio quando egli accetta di soffrire per ciò che in realtà non ha commesso, assumendosene la responsabilità, si appropria della paternità dell'azione da lui compiuta, riscatta la sua libertà limitando al contempo il ruolo del destino. Edipo, in tale dimensione, può essere assunto ad esplicitazione di tale eroe. E’ chiaro come il tabù percorra e guidi tutta la sua storia personale, che si dipana a cavallo tra due città e due regni, Tebe e Corinto. In entrambe le città la coppia regale, Polibo-Merope a Corinto, Laio-Giocasta a Tebe, è in qualche modo inibita a generare una successione. Polibo e Merope sono colpiti da sterilità, Laio e Giocasta dal divieto divino di generare. Edipo, come elemento di mediazione, espulso da una città e ricevuto dall'altra, esposto da una coppia di "genitori" e adottato dall'altra, è insieme il figlio che non "doveva" nascere e il figlio che non "poteva" nascere: duplice trasgressione risulta dunque essere, la sua.
Volontà di Edipo è quella di risolvere il proprio mistero, di conoscere le proprie origini e il proprio fine. Ma egli basa la sua ricerca esclusivamente sulle potenzialità della ragione, trascurando l'oracolo stesso. Per questo egli si proclama figlio della Tyche, della Felice Sorte, che, rovesciando la sua situazione nel corso degli anni, da "piccolo" che era l'ha fatto "grande", cioè ha trasformato il trovatello deforme nel sapiente signore di Tebe. Ironia delle parole: Edipo non è figlio della Tyche; come ha detto Tiresia, ne è la vittima; e il rovesciamento si produce in senso inverso, riducendo il grande Edipo a quanto v’è di più piccolo, l’uguale al dio a un uguale a nulla.
In ogni caso, in più occasioni, è il dio che gli rivela, seppur in parte, il mistero attraverso i suoi oracoli. Ma egli rifiuta l'aiuto dell'oracolo, allontanandosi dalla verità nel momento in cui le era più vicino.
Nel dramma risultano mirabilmente fuse due tensioni che conferiscono all'intera vicenda uno spiccato senso di conflittualità e un profondo significato: la prima "è l’impulso di Edipo di indagare sui misteri che lo circondano", una seconda "definisce la figura stessa di Edipo come mistero da decifrare". Dalla prospettiva filosofica esse sono interpretabili l'una come l'azione pratica dell'uomo in quanto soggetto del proprio volere, impegnato nella scoperta e nella modificazione della realtà circostante; l'altra come riflessione problematica sulla condizione dell'uomo, il quale percepisce nella propria vicenda storica la presenza determinante di un elemento trascendente che governa in modo arbitrario lo svolgersi della sua vita, e s'interroga riguardo la reale efficacia della propria volontà. Proprio queste due tensioni riproducono e rendono più cruento nella tragedia il conflitto tra arbitrio e destino, il dualismo tra libertà e necessità: esse s'intensificano contemporaneamente, più Edipo s'impegna nella ricerca, più il senso dell'intera vicenda gli appare oscuro e ambiguo.
Nei finali delle tragedie sofoclee non c’è conciliazione;nonostante il ruolo determinante che il fato ha nella vicenda, Sofocle non e' un fatalista, egli crede nella giustizia divina anche quando essa appare incomprensibile e dolorosa per gli uomini.
EURIPIDE (Salamina 480 a.C.-Pella 407/406 a.C.)
Euripide è l’unico degli altri tragediografi del periodo a rendersi conto di dover adattare la sua tragedia alla crisi della cultura di quel periodo. Ma il suo tentativo di evolvere la tragedia è mal inteso: molti infatti sono coloro che pensano che egli sia un eversore della tragedia.
Questa nuova situazione problematica, comunque, non dà più spazio all’indagine sulla razionalità umana, ma affronta problematiche quali la condizione della donna, dello straniero, la parola come strumento di potere… Quindi elemento principale delle tragedie di Euripide saranno i drammi quotidiani e i rapporti tra gli uomini, e la problematica maggiore sarà non più il confronto con il volere della divinità, ma con le scelte degli altri uomini. La figura degli dei non viene eliminata, ma diviene metafora delle istituzioni e delle convenzioni sociali.
Euripide elabora numerose innovazioni: introduzione di lunghi prologhi che anticipano la conclusione, ampio spazio ai discorsi, il frequente tema del riconoscimento tra persone che ignoravano la loro identità, che esprime la fiducia nella possibilità di scoprire la realtà dei rapporti umani.
La tragedia di Euripide oppone dunque da un lato la considerazione depressa della miseria dell’uomo e dall’altro la convinzione ottimistica che valga la pena lottare per annientare tutti i pregiudizi. E’ un disperato ottimista: crede che all’individuo debba essere concesso di scoprire la propria dignità nella realizzazione del proprio destino; ma contemporaneamente conosce la debolezza e precarietà dell’uomo: per questo i suoi drammi sono impregnati da un’infinita compassione e partecipazione al dolore di vivere.
COMMEDIA
La commedia, come la tragedia nasce dal culto di Dioniso, celebrato nelle campagne dopo l’epoca della vendemmia. In tale occasione aveva luogo una processione nella quale si portava in giro sopra un carro il simbolo della fecondità : tale processione prendeva il nome di Komos, da dove trae origine il nome di commedia. Due sono i centri presso i quali ebbe origine la commedia: Megara del Peloponneso da cui ha origine la commedia Attica e Megara della Sicilia da cui ha origine la commedia sicula.
MENANDRO (Atene 342 a.C.-291 a.C.)
La commedia di Menandro apre un’epoca nuova, non tanto per il genere comico, quanto per l’orizzonte umano che porta in scena, in cui regna l’insicurezza e la dispersione. L’economia in grande sviluppo accentua il divario tra ricchi e poveri e incentra l’interesse sul lavoro, precludendo la partecipazione alla vita pubblica.
Ma il lato positivo di tutto questo c’è: tralasciando la vita pubblica si pensa di più alla propria famiglia, agli affetti e all’arte. Il rapporto tra padri e figli è più forte. Il rapporto con gli altri popoli si fa più amichevole perché si capisce che siamo tutti una sola essenza umana. Atene resta il centro culturale greco e Menandro inventa un’azione comica che parli delle frustrazioni e delle ansie di ognuno, con una differenza dalla realtà: le disgrazie possono solo scalfire il nucleo famigliare, non distruggerlo, rivendicando così la fiducia nella giustizia immanente.
Il teatro comico, che precedentemente aveva coinvolto gli spettatori in un confronto con idoli e bersagli polemici legati alla realtà politica, ora, in una dimensione privata si fa portatore di un doloroso scetticismo, di un sentimento diffuso di accettazione della realtà quale essa è:

Sei un uomo: è un pretesto sufficiente per essere sventurato
Non c’è nessuno che riesca ad avere una vita senza sventure
Anche se, slegati come sono dal loro contesto, rischiano di apparire fin troppo allusivi, questi frammenti di Menandro rispecchiano le idee di un gruppo sociale in crisi, ossessionato dalla precarietà della posizione sociale ed economica, insidiata dai rivolgimenti improvvisi:
Chi ha oltraggiato la vostra povertà è un disgraziato, perché ha oltraggiato qualcosa che forse proverà a sua volta: anche se ora è molto ricco, la sua bella vita non è stabile: muta d’un tratto il flutto della sorte.
Ecco nominata la figura che sola in questa società scettica assurge al rango di semidivinità: la Tyche, la sorte, il caso, l’irrazionalità degli eventi.
Non parlateci più del senno, che non vale nulla: invece la tyche (sia che si tratti di un afflato divino o di senno) è quella che governa e che travolge e sana ogni cosa, mentre la prudenza umana è fumo e vana ciancia.
Ma accanto al cieco volgersi della Tyche, c’è la fiducia in una situazione ottimistica, che non può mancare per chi ragiona e capisce le circostanze:
Finche si possiede la ragione, non bisogna disperare mai di nulla
(Dyskolos, vv. 860-861)
L’oscillazione tra irrazionalità degli eventi e fiducia nelle capacità razionali dell’uomo rispetta un dualismo nella concezione menandrea, che ora riconosce il dolore come connaturato alla situazione umana, ora confida nella situazione ottimistica di ogni vicenda: questa apparente contraddizione ci porta al cuore della commedia di Menandro: “Specchio della vita” fu definita, ma non nel senso chi i personaggi di Menandro riflettano con precisione realistica il modo di vita della società del tempo, bensì che la vita che essa (o almeno una parte di essa) avrebbe voluto vivere.
STORIOGRAFIA
In età ellenistica (un’epoca di grandi trasformazioni in cui i successi si alternano a insuccessi, buone vicissitudini innalzano alle stelle personaggi che poi le sventure provvedono ad abbattere ed in cui non si crede più alla religione tradizionale con i suoi dei antropomorfi) la τυχη, il fato, diventa una figura dominante sia nella letteratura che nella storiografia.
POLIBIO (Megalopoli 202 a.C.-118 a.C.)
Polibio scrisse le “Storie”, opera storiografica in 40 libriche trattavano gli avvenimenti mondiali dal 264 a.C. (prima guerra punica) al 144 a.C.. L’oggetto era il racconto dei mezzi di cui si servì la τυχη nel suo progetto di dominio universale di Roma. L’autore narra le vicende razionalmente, basandosi sui fatti, ricercandone la causa vera, la causa apparente e l’inizio concreto degli eventi. La fortuna ricorre sempre, seppur dotata di una connotazione ambigua: può corrispondere all’ imprevedibile, ad un’ entità provvidenziale, o ad un elemento capriccioso.
Questo perché non è facile cogliere la causa vera degli eventi, e solo in questo caso Polibio parla della fortuna come di un’entità meta umana, concedendo così all’uomo la piena responsabilità delle proprie azioni e la facoltà di determinarle in un senso piuttosto che in un altro, intervenendo con la ragione.
LETTERATURA LATINA
TRAGEDIA
A Roma il genere tragico fece il suo ingresso proprio agli esordi della letteratura. L’anno 240 a.C., infatti, convenzionalmente indicato dalle fonti antiche come data d’inizio della letteratura latina, vide la prima rappresentazione sulle scene romane di un dramma (fabula) che Livio Andronico aveva tratto da un modello greco.
Sembra che i poeti romani si siano rifatti di preferenza agli originali classici oltre che alla produzione tragica del IV secolo e dell’età ellenistica. Questo lo si può desumere dai titoli dei drammi, che in parte trovano corrispondenza solo in opere di autori relativamente tardi.
Di tutta la produzione tragica latina, a noi sono rimaste solo le tragedie di Seneca, vissuto ai tempi di Nerone. Le sue opere svolgono un importante ruolo di anello di congiunzione tra la tragedia greca e quella moderna.
SENECA (Cordova tra il 12 e l’1 a.C.-………..65 d.C.)
Al centro di tutte le tragedie troviamo la rappresentazione dello scatenarsi rovinoso delle passioni più sfrenate, non dominate dalla ragione, e delle conseguenze catastrofiche che ne derivano. Il significato pedagogico e morale si individua dunque, nell’intenzione di proporre esempi paradogmatici dello scontro nell’animo umano di impulsi contrastanti, positivi e negativi.
Tra le altre tragedie ritroviamo l’Edipo, che segue con alcune varianti la trama dell’ Edipo Re di Sofocle: Edipo, re di Tebe, apprende la sconvolgente verità di avere, senza saperlo, ucciso il proprio padre Laio e sposato la propria madre Giocasta.
Pensando all' Edipo di Seneca è logico chiedersi se il rimorso non vada letto sullo sfondo della teoria stoica delle passioni; la passione è il coinvolgimento delle emozioni nelle dimensioni del tempo;
Edipo può definirsi "inconscia marionetta" del destino?
La sua esistenza è già stabilita, e il tentativo di mutarla non è altro che un peggioramento della situazione. Ciò che la Tyche ha deciso non può essere mutato, e il destino di Edipo è segnato. Ciò che l'oracolo gli rivela non può essere cambiato. L'arte tragica, infatti, nel rappresentare un'antinomia insolubile tra la volontà del singolo, che pretende di guidare l'agire individuale in autonomia, e il destino, che lo dirige segretamente secondo una causalità predeterminata, riproduce in forma artistica il dualismo metafisico tra libertà e necessità. Tale costruzione a chiasmo, rivela tutta la sua densità filosofica nella riflessione problematica sul rapporto che essa esige. Una situazione tragica come una realtà conflittuale, dove l'arbitrio del protagonista e i casi della sorte paiono opposti in una lotta lacerante, e qualsiasi soluzione conciliante del loro dissidio sembra impossibile.
Le Epistulae morales ad Lucillum sono l’opera filosofica più importante de Seneca, quella in cui egli esprime nel modo più maturo e personale la sua visione della vita e dell’uomo.
Le epistole, di varia estensione, sono una continua, pacata ma insieme appassionata riflessione su problemi di filosofia morale. Seneca si presenta come un uomo che, giunto ormai alla vecchiaia avanzata, ritiratosi nell’otium letterario, finalmente padrone del suo tempo, si dedica esclusivamente allo studio, alla ricerca e al perfezionamento morale.
Bisogna erigere tutt’intorno la filosofia, muro inespugnabile, che la fortuna non può passare, pur dopo averlo messo a prova con molte macchine da guerra. L’animo prende dimora in un luogo inespugnabile, che ha abbandonato tutte le cose esterne e tutela la sua libertà nella sua rocca, sotto di lui cade ogni freccia. La fortuna non ha lunghe mani come crediamo, non si impadronisce di nessuno, se non di chi si aggrappa a lei. Pertanto stacchiamoci da quella quanto più possiamo, cosa che soltanto la conoscenza di se e della natura offrirà. L’uomo sappia dove ha intenzione di andare, dove ha avuto origine, che cosa sia buono e che cosa sia male per lui, che cosa ricerca, che cosa invece è da evitare, quale sia quella dottrina che sia tale da distinguere le cosa che sono da ricercare e quelle che sono da evitare attraverso cui doma il furore delle passioni e tiene a freno la crudeltà dei timori. Alcuni pensano che loro stessi anche senza filosofia hanno vinto queste cose, ma quando una qualche sventura li ha messi alla prova, quando poi sono al sicuro viene espressa una tardiva ammissione, tengono le grandi parole quando il carnefice chiede la mano, quando la morte si è avvicinata.
Un altro gruppo di opere filosofiche ci è pervenuto sotto il titolo complessivo di Dialogi. In realtà quelli di Seneca non sono dialoghi veri e propri, ma l’autore parla sempre in prima persona, avendo come unico interlocutore il dedicatario dell’opera.
Nel De providentiae, Seneca risponde all’amico Lucilio che gli ha chiesto perché mai i buoni sono colpiti dai mali e se è vero che l’universo è retto dalla Provvidenza divina. Il filosofo risponde che in realtà non sono veri mali quelli che gli uomini considerano come tali: si tratta invece di prove a cui gli dei sottopongono i buoni per temprarli e per aiutarli a perfezionarsi moralmente. Seneca afferma che Giove vuole mettere alla prova il saggio perché egli tenga in esercizio e rafforzi la propria virtù e che le sventure sono un segno della Provvidenza,che sa distinguere i saggi,e creando loro ostacoli,consente loro di rafforzarsi.
COMMEDIA
Il teatro comico si sviluppò a Roma, insieme a quello tragico, a partire dalla seconda metà del III secolo a.C..
Alla base dell’ampia fioritura di questo genere c’è in primo luogo il contatto tra i commediografi latini e quelli greci.
Il teatro comico latino nella sua forma letteraria, pur rimanendo sempre vicino alla sua matrice greca, poté comunque sviluppare caratteristiche proprie e via via sempre più originali.
Di questa produzione comica non sono sopravvissuti solo frammenti ma un cospicuo numero di opere che costituisce un’eccezionale documentazione.
Come sempre il ruolo della fortuna ricorre in varie sfaccettature a seconda del commediografo.
PLAUTO (Sarsina 259/251 -184 a.C.)
I personaggi plautini non sono singoli individui ma maschere fisse, già note al loro pubblico.
I "tipi" principali sono:
L'"adulescens" : giovane innamorato incapace di affrontare i propri problemi, il cui linguaggio spesso arriva a toni alti e patetici con i quali l'autore cerca di ridicolizzare il personaggio. Egli è contrastato dal padre, il "senex", poiché talvolta desiderano la stessa donna o a causa della dipendenza economica del figlio dal padre.
Il "senex" : vecchio padre severo e beffato che ora nega un aiuto economico al figlio, ora cerca di conquistare la donna scelta da quest'ultimo, divenendone avversario.
La "meretrix" : in quanto personaggio femminile, ricopre un ruolo marginale tanto da non apparire affatto sulla scena in alcune commedie. Tale personaggio, sconosciuto a Roma, era invece consueta nel mondo greco. Rappresenta la cortigiana, libera o schiava e, in quest'ultimo caso, desiderosa di essere riscattata dall'amante per passare alla condizione di sposa.
La "matrona" : madre dell'adulescens e sposa del senex. La sua figura è in contrasto a quella dell'etera. Il suo carattere si distingue per autoritarismo e dispotismo, capace di scatenare ire furibonde delle quali ne è vittima il marito.
Il "parassitus" : è probabilmente uno dei personaggi più buffi. Vive sfruttando insaziabilmente i beni economici altrui e portando rovina ai suoi benefattori che si trovano, però, almeno ricambiati dalle sue lodi, magari esagerate. Le sue battute sono chiaramente fonte di comicità.
Il "miles gloriosus" : soldato fanfarone al servizio di chi lo paga meglio. La sua definizione può essere "conquistatore immaginario", vanta infatti successi in campo di guerra e in campo amoroso mai avvenuti e prontamente smascherati nel corso della commedia. Anche la sua figura non era nota in Roma, forse perché qui il servizio militare era dovere di ogni cittadino, ed è probabile quindi che i romani si sentissero, per contrasto, orgogliosi del proprio valore militare, a differenza di quello ellenistico.
Il "leno" : un'altra figura sconosciuta presso i romani è il commerciante di schiave e lo sfruttatore, ossia il lenone. Il suo personaggio è quello maggiormente negativo, inoltre costituisce solitamente un ostacolo alla realizzazione dei desideri dell'"adulescens" . egli è comunque destinato alla sconfitta, come lo sono di norma l'avidità e l'odiosità nel teatro plautino. Quello che più colpisce, comunque, della sua figura è la capacità d'essere superiore ad ogni tipo di giudizio morale che gli venga attribuito.
Il "servus" : il servo costituisce il motore della vicenda. Il suo carattere è sfrontato ed astuto ed è dotato di grande intelligenza e vitalità, grazie alle quali egli riesce sempre ad affrontare qualsiasi situazione. E' grazie alla sua presenza che la storia trova un inizio ed una conclusione. Probabilmente è il personaggio maggiormente caratterizzato: è consapevole dell'ottima strategia delle proprie mosse tanto da farlo esplicitamente capire al pubblico (tecnica metateatrale) ed è con queste che risponde alle minacce del padrone. Il ritratto fisico che ce ne dà l'autore si rifà alle personali caratteristiche di Plauto stesso: capelli rossi, testa grossa, pelle molto scura, occhi vivaci, viso rubicondo e fisico piuttosto tarchiato. Tale deformità fisica sembra quasi una sfida al destino all'interno di un universo nel quale ogni ordine sociale viene sovvertito per lasciare trionfare i servi e i figli a dispetto dei padroni e dei padri.
La fortuna è un elemento importante soprattutto per la figura del servo. Essa infatti gli è d'aiuto quando questo mette in pratica la sua astuzia: egli non sarebbe riuscito, altrimenti, a realizzare i propri piani ogni volta lo avesse desiderato. La fortuna contribuisce, dunque, al successo del servo. Questa particolarità si riscontra anche nella commedia Aulularia: Euclione, il protagonista, ha in casa una pentola d'oro, che costituisce l'unica sua preoccupazione. Ad un certo punto, cercando un nascondiglio sicuro per il tesoro, va ad interrarlo nel tempio della Fede. Poi, colto dal sospetto , si precipita a controllare e, incontrando il servo Liconide, di punto in bianco l'accusa di furto. Il servo è stupito poiché al furto non è ancora arrivato. Euclione, sulla base di un vago presagio, pensa di essere stato derubato e ritiene di aver preso il colpevole. Si arriva così all'ispezione personale, alla perquisizione. Euclione, ormai vittima dei suoi sospetti, riprende l'oro dal tempio e lo sotterra nel bosco dove il servo, che lo ha seguito e lo ha veduto, gli ruba la pentola. Si giunge così alla scena dell'equivoco che vede protagonisti Euclione e Liconide. Il primo parla riferendosi alla perdita della pentola, il secondo si riferisce invece alla violazione ed al parto di Fedria, figlia di Euclione. Nel dialogo ciascuno dei due pensa soltanto al suo bene e a questo soltanto si riferisce. Del resto Euclione non sa nulla della figlia come Liconide non sa nulla del tesoro. Il giovane confessa la sua colpa e l'altro crede che confessi il furto della pentola. Alla fine Liconide incontra un servo, ladro della pentola, che gli rivela ciò che ha preso. Il giovine gli impone di così di restituire il "bottino". La vicenda si conclude con la restituzione della pentola e con il matrimonio tra Liconide e Fedria
La Fortuna è presente nelle parole del servo Strobilo, quando ode dove l'avaro Euclione avrebbe nascosto il tesoro:
I numi mi vogliono proprio bene
(atto IV-scena sesta)
TERENZIO (Cartagine 185 a.C- Grecia 159 a.C.)
Negli Adelphoe, commedia derivata da un originale di Menandro, sono rappresentati due diversi sistemi di educazione. I fratelli indicati dal titolo sono due senes, Demea e Micione, che hanno allevato secondo sistemi educativi opposti i due figli di Demea, Ctesifone e Eschino, quest’ultimo adottato da Micione, che è scapolo e senza figli suoi. Demea, padre autoritario e burbero, è odiato e temuto da Ctesifone, che è innamorato di una cortigiana e che riesce a conquistarla grazie alla complicità di Eschino. Micione, padre affettuoso e comprensivo, scopre che Eschino ha una relazione clandestina con una ragazza povera, ma perdona volentieri al giovane, che alla fine sposa la ragazza. Nella riconciliazione finale Demea sembra convertirsi ai metodi del fratello, ma in realtà si dimostra compiacente e generoso a spese di Micione che, per quieto vivere, acconsente a tutto.
Demea: Ma tu sei contento di ciò che è successo, Micione?
Micione: No, se potessi cambiarlo. Ma dato che non posso, lo accetto con serenità. La vita degli uomini è come quando giochi ai dadi: se al lancio non ti capita il tiro che ti fa più comodo, devi correggere con la tua abilità quello che ti è capitato per caso.
La battuta di milione offre lo spunto per chiarire un aspetto significativo della visione terenziana del mondo e dell’uomo. Dopo aver ammesso di non essere contento di ciò che è avvenuto, ma di accettarlo con serenità, dato che non lo può modificare, il senex afferma che la vita è come il gioco dei dadi: se quando li lanci non ti capita il tiro che vorresti, devi essere in grado di correggerlo con la tua abilità. Il contesto in cui è inserito il passo invita e reagire alle avversità non abbattendosi eccessivamente ma sopportando serenamente poiché soffrire non serve a nulla. In Terenzio viene comunque espressa la fiducia nella possibilità di intervenire attivamente nelle vicende della propria vita, correggendole per migliorarle.
STORIOGRAFIA
LIVIO (Padova 59 a.C.-17 a.C.)
Livio non fa differenza sostanziale tra i vari termini che indicano una volontà o forza superiore (dii, numen, fatum, fortuna…). La scelta di fatuo fortuna è determinata più da ragioni occasionali e da sfumature dell’uso linguistico che da differenze di significato religioso o filosofico. In Livio la fortuna si configura diversamente dalla divinità capricciosa e instabile della letteratura ellenistica. Essa è piuttosto la Fortuna populi romani, la dea venerata dai Romani come protettrice della gente.
LETTERATURA ITALIANA
DANTE ALIGHIERI (Firenze 1265-Ravenna 1321)
Per Dante e per la cultura cristiana in genere, la fortuna per certi aspetti si identifica con la Provvidenza:è infatti un’intelligenza celeste, destinata da Dio al governo delle cose del mondo e distributrice dei beni secondo il suo volere imperscrutabile. L’uomo non comprende il senso del variare delle fortune umane, che risponde però ad una logica superiore.
Virgilio, nella sua funzione di guida, inviata dalla Provvidenza, con le stesse parole rivolte a Caronte, fa tacere Minosse, evidenziando che il viaggio di Dante è “fatale”, cioè voluto dal fato.
Non Impedir lo suo fatal andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare.
Nella concezione cristiana non esiste il fato, ma la provvidenza. Il fato è una legge eterna ed ineluttabile che determina irrazionalmente ed in modo cieco e capriccioso la vita dell’universo. L’uomo, con le sue forze, non può opporsi al fato e quindi è portato alla rassegnazione di fronte ad avvenimenti che non riesce a determinare. Con l’avvento del cristianesimo al concetto di fato si sostituisce quello di Provvidenza, cioè l’ordine con il quale Dio regola il creato e determina lo sviluppo della storia. La visione provvidenziale della vita è rasserenante per il credente. Nulla infatti è lasciato al caso, disgrazie e dolori, fortune e successi sono distribuiti agli uomini secondo un disegno ben determinato e che ha come fine il bene dell’umanità.
Nella letteratura volgare di Dante di conto alla rappresentazione pagana che descriveva la fortuna bendata nell’atto di volgere una ruota, la immagina “ministra di Dio”, cioè uno strumento della sua Provvidenza che guida gli eventi umani.

“Maestro mio” diss’io “or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?”
e quelli a me: “oh creature sciocche,
Quante ignoranza è quella che v’offende!
Or vo’ che tu mia sentenza ne’mbocche.
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi li conduce
sì, ch’ogne partead ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similmente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d'uno in altro sangue,
oltre la difension d'i senni umani;
per ch'una gente impera e l'altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l'angue.
Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provvede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dei.
Le sue permutazioni non hanno tregue:
necessità le fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.
Quest’è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasimo a torto e mala voce;
ma ella s’è beata e ciò non ode:
con l’altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.”
Inferno, VII, 67-96
La fortuna diviene appunto Ministra della volontà di Dio, intelligenza celeste e provvidenziale che amministra i beni del mondo secondo disegni imperscrutabili ai quali nessuna ragione umana può resistere. Non è una divinità capricciosa e crudele, ma un’intelligenza angelica posta infinitamente al di sopra delle capacità interpretative dei mortali.
Dante immette una profonda idea teologica in una figurazione letteraria "classica" già esistente (relativa al potere inconoscibile della fortuna).

…Tanto vogl’io che vi sia manifesto,
pur che mia coscϊenza non mi garra,
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.
Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e ‘l villan la sua marra .
Inferno, XV,91-96:
FRANCESCO PETRARCA (Arezzo 1304-Arquà 1374)
Il tema della Fortuna lo troviamo nel De remediis utriusque fortunae , amplissimo trattato ideato dal Petrarca forse già tra il 1352 e il 1353, scritto in gran parte tra il 1356 e il 1357, e sistemato e diffuso nel 1366 con dedica ad Azzo da Correggio. Consta di numerosi dialoghi divisi in due libri: il primo (122 dialoghi tra Ragione, Gaudio e Speranza) presenta i rimedi contro i pericoli che derivano dalla fortuna favorevole, il secondo (131 dialoghi tra Ragione, Dolore e Timore) quelli contro i mali della sfortuna. E’ un’opera in cui è pressoché assente l’intento di sistematicità: in essa, ricollegandosi all’antica etica stoica, Petrarca precisa il senso di quel rapporto tra virtù e fortuna .
L'intento è di offrire all'uomo i mezzi per resistere così alla propizia come all'avversa fortuna al pari pericolose, e forse più la prima della seconda, per anima umana. A tal fine l'autore svolge una serie di meditazioni morali in forma di dialoghetti schematici: interlocutori ne sono, nel primo libro dedicato alla prosperità, il Gaudio o la Speranza che si allietano di beni posseduti o attesi dagli uomini, e la Ragione che ne dimostra la vanità, e nel secondo, dedicato all'infelicità, il Dolore o il Timore, i quali parimenti si rattristano di un male presente o avvenire, e la Ragione ancora, che dimostra come irragionevoli siano quei sentimenti umani. Passano così sotto gli occhi dei lettori tutti i casi possibili della vita umana, i beni più grandi che l'uomo possa conseguire o sperare, come il sommo pontificato, un'alta potenza politica o la gloria per i propri scritti, e i beni più modesti che ci allietano l'esistenza, insieme con le più grandi sventure e le più lievi molestie: e l'opera viene a essere, come voleva l'autore, non un trattato sistematico, ma una raccolta di brevi ragionamenti, fra i quali il lettore può trovare quello più appropriato al suo stato, per trarne un ammonimento e un conforto.
Per tale assunto e per la stessa forma ne risulta accentuata la tendenza ascetica dello spirito petrarchesco, e il proposito di dimostrare la vanità d'ogni bene e d'ogni male conduce l'autore talora al paradosso o alla contraddizione. Inoltre, poiché egli ama rafforzare i suoi ragionamenti con un'erudizione al suo tempo peregrina, più d'una volta può sembrare che più della tesi sostenuta gli stia a cuore quell'erudizione, come quando a proposito dei bei dipinti egli espone quanto sa della pittura antica. Ma l'opera nasceva realmente dall'intimo dello spirito del poeta, che sentiva del pari l'allettamento delle cose terrene e l'anelito a una pace in cui potesse acquietarsi, e che riconosceva in ogni uomo tale irrequietezza, come dice nella bella lettera dedicatoria, forte affermazione di pessimismo e a un tempo espressione dell'esigenza a superarlo in una filosofia morale cristiana e stoica, che sia guida e sostegno nella vita. A tale filosofia morale mira il poeta, spregiatore della filosofia delle scuole, nei Rimedi e in tutta l'opera sua: e che lo scrittore venisse incontro a tendenze del tempo suo come a quelle dell'età posteriore è provato dalla straordinaria diffusione di questa opera, compendiata e tradotta e stampata in numerose edizioni sino al sec XVIII.
Il Canzoniere. Consiste di 366 liriche (sonetti, canzoni...) che vanno dal 1330 circa fino alla morte del poeta. Sono poste in un ordine sia tematica che cronologico, non del tutto chiaro. Sono scritte in volgare. Lo stile è chiaro, essenziale, apparentemente semplice (il lessico è volutamente ricercato ma preciso, con esclusione dei termini troppo realistici). La forma è colta, aristocratica, melodiosa, musicale, rigorosamente uniforme: per secoli sarà il modello della lirica italiana. Petrarca si servì, fondendoli in maniera assolutamente originale, dei poeti provenzali in lingua d'OC, degli stilnovisti, dei poeti latini. Il poema è diviso in due sezioni: rime in vita e il morte di Laura. L'amore per Laura è infatti il tema dominante della raccolta, anche se l'unico vero personaggio è lo stesso Petrarca, col suo lungo soliloquio intorno a una passione esclusiva.
La concezione di fortuna la troviamo sempre nello stesso petrarca anche nella canzone CXXVIII del Canzoniere.
Questa canzona fu composta nell’inverno 1344-1345 in occasione della guerra che infuriava intorno a Parma fra Obizzo d’Este e Filippino Gonzaga da una parte e Luchino Visconti dall’altra. Si tratta di un’esortazione ai signori italiani affinché si astengano dall’impiego di truppe mercenarie, consuetudine che, oltre a costituire un’onta per gli eredi della supremazia militare romana, contribuiva a creare le premesse delle guerre fratricide che dilaniavano l’Italia.
Sferzante e sarcastico nell’additare le pesanti responsabilità dei potenti, il tono si fa orgoglioso nel ricordo delle antiche glorie, e accorato e solenne nell’atto di esortare i nuovi principi a seguire le virtù:l’ abile intreccio di una tale varietà di registri, insieme con l’altissima qualità letteraria delle immagini e della forma linguistica, fecero di questa lirica un testo esemplare un modello di poesia politica, ammirato e imitato per secoli.
GIOVANNI BOCCACCIO (Firenze o Certaldo 1313- Certaldo 1375)
Il Decameron
L'opera maggiore di Boccaccio è il Decameron (iniziato nel 1349 e portato a termine nel 1351), raccolta di cento novelle inserite in una cornice narrativa comune che prende le mosse da un tragico fatto storico. Per sfuggire alla peste del 1348, che aveva ucciso il padre e numerosi amici dello scrittore, un gruppo di dieci amici si rifugia in una villa fuori Firenze. Sette donne e tre uomini trascorrono dieci giornate (da cui il titolo dell'opera) intrattenendosi vicendevolmente con una serie di racconti narrati a turno. Un personaggio alla volta è infatti eletto re della giornata, con il compito di proporre un argomento che gli altri narratori sono tenuti a rispettare. Gli argomenti sono di carattere diverso e in questi racconti si alternano numerosissimi personaggi, di svariata estrazione sociale (nobili, "borghesi", popolani), laici e religiosi, figure di tutte le età. È un vero e proprio universo ispirato alla realtà soprattutto toscana e fiorentina (con episodi ambientati in altri luoghi d'Italia - a Napoli soprattutto - e in paesi lontani), senza limitazioni né di carattere morale, né culturale. Vi sono infatti nobili e mascalzoni, amanti ingegnosi e uomini poveri di spirito, donne fedeli beffate e spregiudicate figure femminili, personaggi storici e di invenzione. Così, le condotte degli eroi sono ispirate sia a ideali elevati sia a interessi materiali, non ultimo il desiderio sessuale.
Decameron: seconda giornata
Nell'assegnare il tema della seconda giornata, e cominciando, com'essa dice « a restringere dentro ad alcun termine quello di che dobbiamo novellare », Filomena spiega brevemente che, dato « che dal principio del mondo gli uomini siano stati da diversi casi della Fortuna menati, e saranno fino alla fine, ciascun debba dire sopra questo: chi, da diverse cose infestato, sia, oltre alla speranza, riuscito a lieto fine ».
L’argomento quindi è quello del potere della fortuna o del caso che sottopongono gli uomini a incredibili avventure; però si considerano qui solo quelle che si concludono a lieto fine.
È la giornata di Landolfo Rufolo, di Andreuccio da Perugia, della sposa del re del Garbo, le più belle storie avventurose: le anima un senso di odissea, l'intimo sapore di una vita mutevole, circonfusa di quest'aer dolce che del sol s'allegra.
Questi eroi sono tutti a fiore dei loro atti: nuotano sull'onda, e quando sono giunti a riva la loro storia è compiuta: se ne vanno, come Landolfo, a vendere le loro gemme, ed a comprarsi una casa: sull'architrave, potranno scrivere anch'essi « Alla giornata ».
Il mito, il nume della Fortuna ebbe per tutto il Medioevo una sua consistenza: dall'immaginetta simbolica della ruota (già figurata in una pagina di Boezio) si giunge fin su al cielo dantesco; e Dante pone la Fortuna cogli angeli, « con l'altre prime creature lieta » a volgere la sua sfera, a dirigere la vicenda dei beni terreni.
Secondo Boccaccio L’uomo è condizionato dalla fortuna e dalla natura.
Le vicende umane “stanno alle mani” della fortuna, spiega Pampinea. La seconda giornata mostra questo potere della fortuna, che per esempio sottopone ai suoi “accidenti” [casi, sventure] il povero Andreuccio. Non manca, fra i critici, chi interpreta la fortuna boccacciana come quella dantesca , e quindi in senso religioso e provvidenziale; mentre altri sottolineano come invece Boccaccio sciolga ogni nesso fra spiegazione teologica e casi umani e la fortuna assomiglia piuttosto alla sorte o al caso, capricciosi e privi di logica.
Comunque sia, la fortuna ha un peso decisivo nelle vicende umane, determinando anzitutto la condizione sociale (c’è chi nasce povero e chi ricco) e poi sottoponendo l’individuo al rischio continuo dell’imprevisto, sino al ribaltamento delle situazioni. D’altra parte questi rovesciamenti prodotti dalla fortuna possono essere negativi, ma anche positivi, e si tratta di riuscire a scampare dai primi e ad approfittare dei secondi, come nell’esempio di Andreuccio: si tratta insomma di saper usare l’ingegno.
L’ingegno può servire non solo per contrastare la cattiva sorte o ad approfittare della buona, ma anche a controllare, almeno in parte la natura. Questa determina anzitutto il temperamento individuale: se spetta alla fortuna l’origine sociale dell’individuo, è la natura che gli da’ uno specifico carattere (orgoglioso, timido, iracondo ecc.). Cosicché natura e fortuna possono essere in conflitto.
Per esempio il discorso di Ghismunda contiene un’ampia esposizione teorica dei rapporti fra fortuna e natura e considera appunto il contrasto fra l’una e l’altra: Guiscardo, l’amante, è stato condizionato negativamente dalla fortuna che lo ha fatto nascere povero, mentre la natura gli ha dato una nobile anima.
Un modo per controllare la fortuna e la natura è dato dall’ingegno individuale, cioè dall’avvedutezza, dall’attività intelligente, dall’industria del singolo.
L’ingegno è infatti una forza necessaria; è uno strumento che può essere utilizzato in direzioni opposte (immorali o morali), ma è comunque positivo perché da’ all’uomo una possibilità in più nel conflitto con fortuna e natura.
La prontezza di spirito, le risposte argute, la capacità di salvarsi con un espediente e di sottolineare la stupidità altrui sono comunque per Boccaccia dei valori attraverso i quali l’individuo può imporsi nel conflitto sociale e in parte sottrarsi al condizionamento della fortuna e della natura.
NICCOLO ’ MACHIAVELLI (Firenze 1469-1527)
Il Principe

La stesura del Principe nasce dalla volontà di proporre un progetto politico di immediata attuazione per far fronte al precipitare degli eventi storici italiani. Proponendosi come intervento sulla realtà concreta, l'opera esclude la forma di governo della repubblica, occupandosi solo del principato assoluto come unico rimedio possibile alla decadenza della nazione.
Ne deriva la dedica a Lorenzo de' Medici, in seguito nominato duca d'Urbino, che però delude le aspettative di Machiavelli e l'ardore con il quale nell'ultimo capitolo si fa appello alla virtù di un principe che possa prendere il controllo della situazione e risollevare le sorti dell'Italia.
Secondo Machiavelli occorre dunque educare un principe di eccezionali virtù, spregiudicato e disposto a tutto pur di salvare lo stato, capace di lottare contro le avverse condizioni e la cieca fortuna, elemento inevitabile nello scorrere e determinarsi della storia. Per far ciò si devono prendere le mosse dagli esempi dei personaggi della storia passata e contemporanea (Ciro, Mosè, Teseo, ma anche Cesare Borgia e Ferdinando di Spagna).
Virtù e fortuna sono le due forze antagoniste e insieme concorrenti nel campo dell’azione politica delineato da Machiavelli.
Così virtù e fortuna divengono gli elementi essenziali del dramma politico e storico sul quale Machiavelli indaga. Rompendo con gli schemi di pensiero del passato, secondo i quali la storia era dominata da una concezione trascendente e provvidenziale, egli individua nell'agire umano la spietata legge dell'utile. La condanna di ogni falsa moralità porta alla teorizzazione di una vera virtù, non più coincidente con quella cristiana, ma costituita da una capacità, fatta di intelligenza e di forza, rivolta al conseguimento di risultati pratici e sicuri. Questa dote permette di organizzare una vita statale seguendo l'esempio degli antichi reggitori di stati e di affrontare le dure leggi della realtà.
L’idea di fortuna come immagine personificata giunge a Machiavelli da una lunga tradizione letteraria, al tempo stesso, è il termine chiave di un’intensa riflessione degli umanisti del Quattrocento. Occorre prima di tutto differenziare l’accezione del termine “fortuna” in ambito umanistico-rinascimentale. Il punto di riferimento cardinale per l’accezione del termine in età medievale è il canto VII dell’Inferno (vv.67-96). La fortuna in Dante diviene ministra della volontà di Dio, intelligenza celeste e provvidenziale che amministra i beni del mondo.
Da Boccaccio agli umanisti il termine, della fortuna andrà invece evolvendosi in direzione opposta all’accezione dantesca. La fortuna diviene quindi l’imprevedibilità delle circostanze, l’avvenimento fortuito in grado di abbattere il progetto umano.
La terminologia umanistica viene ripresa da Machiavelli in un senso del tutto nuovo. In Machiavelli la “virtù” non è rappresentata dalla forza interiore di resistenza alle avversità ma dalla volontà e dalla capacità di azione politica, mentre la “fortuna” è l’insieme dei limiti che ad essa la realtà oppone. Il significato del binomio virtù-fortuna corrisponde al conflitto fra le capacità dei soggetti politici e la sfera d’influenza dei condizionamenti storici oggettivi e imponderabili da essi fronteggiata.
ALESSANDRO MANZONI (Milano 1785-1837)
Per il cattolico Manzoni gli uomini non hanno alcuna possibilità di dirigere autonomamente la propria vicenda terrena e di modificare con le proprie forze il loro destino. Arbitro assoluto della vita umana e unico conoscitore del bene e del male è Dio. Dio interviene nella vita umana attraverso la sua imperscrutabile Provvidenza, in modi e tempi perlopiù incomprensibili alla ragione umana. Questo tuttavia non comporta una rinuncia al libero arbitrio: la Provvidenza offre a chiunque l’occasione di agire moralmente e di realizzare un ideale di vita cristiana attiva e militante.
GIOVANNI VERGA (Catania 1840-1922)
I Malavoglia
"Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l'umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell'insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l'accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l'egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l'immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità.
[...] Solo l'osservatore, travolto anch'esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall'onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d'oggi, affrettati anch'essi, avidi anch'essi d'arrivare, e che saranno sorpassati domani".
E' il primo romanzo del "Ciclo dei vinti" rimasto incompiuto, in cui lo scrittore manifesta la sua visione amara della vita. Il romanzo narra le disavventure di una famiglia umile di pescatori di Acitrezza (Catania) che cerca di migliorare le proprie condizioni economiche. «I Malavoglia» raccontano la storia amara di una sconfitta nella quale si esprime il pessimismo radicale di Verga. Non c’è speranza di cambiamento per gli oppressi, soggetti ad una legge di natura, quella della vittoria del più forte e della selezione naturale, che essi non possono controllare. E questa condizione degli umili, diventa emblematica di quella dell’intera umanità. L’unico valore positivo che si afferma nel mondo verghiano è quello della dignità umile ed eroica con cui l’uomo sopporta il proprio destino, rinunciando a inutili ribellioni.
Il centro di tutto è una barca da pesca: la tartana dei Malavoglia chiamata "Provvidenza". La "Provvidenza" è la barca più vecchia del villaggio, ma aveva il nome di buon augurio. Era anche essa una persona nella famiglia esemplare dei Malavoglia, la più onesta e compatta del paese.
Intorno al gran tronco, il nonno Padron 'Ntoni, testa della casa, si stringono altre sette persone appartenenti a tre generazioni. Padron 'Ntoni e la Provvidenza sono i due poli di quel mondo domestico. Quando il maggiore dei nipoti, 'Ntoni, è tolto al lavoro per la leva di mare, il nonno tenta un affare, compra a credito una grossa partita di lupini, li carica sulla barca e li affida al figlio Bastianazzo perché li vada a vendere a Riposto. La barca di notte naufraga, Bastianazzo annega, i lupini sono perduti. La "Provvidenza" è gettata inutile sulla spiaggia. A Padron 'Ntoni rimane il debito dei lupini.
Dopo quella triplice sciagura, tutto sembra accanirsi contro i Toscano-Malavoglia: Luca, il secondo dei nipoti, muore nella battaglia di Lissa; Maruzza, la nuora, muore nel colera del '67. Il debito dei lupini si mangia la casa, la cara «casa del nespolo» che era l'orgoglio, la ragione di vita del vecchio; e già il debito aveva impedito le nozze della nipote, la Mena, creatura di silenzio e sacrificio. Non è finita: un nuovo naufragio della "Provvidenza" rattoppata lascia Padron 'Ntoni inabile al lavoro. Il primogenito 'Ntoni, che da quando ha fatto servizio militare in continente non si rassegna alla miseria dei pescatori, si dà al contrabbando e finisce in galera dopo aver ferito un doganiere. Lia, la sorella minore, abbandona il paese e non torna più. Mena dovrà rinunciare a sposarsi con compare Alfio e rimarrà in casa ad accudire i figli di Alessi, il minore dei fratelli, che continuando a fare il pescatore, ricostruirà la famiglia e potrà ricomprare la «casa del nespolo» che era stata venduta.
Quando 'Ntoni, uscito di prigione, torna al paese, si rende conto di non poter restare perché si sente indegno del focolare domestico di cui ha profanato le leggi e la sacralità.
Ne “I Malavoglia” vi e’ il tema del destino: infatti padron ‘Ntoni e il giovane ‘Ntoni sono entrambi spinti dal desiderio di stare meglio: l’uno per tentare l’affare dei lupini, l’altro per cercare fortuna lontano ma entrambi questi tentativi sono falliti a causa della loro condizione assegnata dal destino. Questo spiega l’ineluttabilita’ del destino.
)
ARTE
SAN ZENO a VERONA(Basilica a croce latina a tre navate)
San Zeno, ottavo vescovo di Verona, morì nel 380 ed il suo corpo fu sepolto nella zona cimiteriale lungo la via Gallica. Sul sepolcro, nello stesso luogo della basilica attuale, venne edificato un piccolo sacello che fu ingrandito da Teodorico, come testimonia il vescovo Petronio nel V secolo. Secondo la tradizione fu in questa chiesa che avvenne il famoso prodigio: nel 589 una furiosa piena dell'Adige devastò Verona, ma miracolosamente le acque del fiume si fermarono sulla soglia del tempio, salvando la vita ai numerosi fedeli che vi si erano rifugiati. Questo episodio è avvalorato dal fatto che ne fu testimone il re longobardo Autari ed è stato ripreso anche da Paolo Diacono nella sua Historia. Questo chiesa fu distrutta all'inizio del IX secolo, ma venne subito riedificata per volontà del vescovo Rotaldo grazie al contributo economico di re Pipino, figlio di Carlo Magno; progettista fu l'arcidiacono Pacifico. La salma si San Zeno venne tumulata in un nuovo sepolcro dai santi Benigno e Caro, i soli ritenuti degni di toccare il corpo del Santo; era il 21 maggio 807 ed oltre al re ed al vescovo di Verona, presenziarono alla traslazione i vescovi di Cremona e Salisburgo. Di questa seconda chiesa rimane ben poco: forse l'absidiola in cotto e qualche capitello riutilizzato nel sacello di san Benedetto che si affaccia sul chiostro. All'inizio del X secolo una veloce, ma devastatrice invasione degli Ungari demolì la chiesa, poco protetta in quanto si trovava all'esterno della cinta muraria. Il corpo di San Zeno venne trasferito nella cattedrale, ma già nel 921 ritornò nella cripta della chiesa a lui dedicata. Si iniziò allora un'ennesima costruzione, questa volta secondo i canoni dello stile romanico. I lavori furono completati grazie all'ingente somma che l'imperatore Ottone I, lasciando Verona nel 967, donò al vescovo Raterio. Questo edificio, largo quanto l'attuale ma più corto di circa un terzo, presentava già la struttura a tre navate e a tre livelli. Un'iscrizione presente sul fianco sud ci ricorda cha la chiesa venne ingrandita e rinnovata nel 1138 in seguito al terremoto del 1117. Un altro importante rinnovamento avvenne nel corso del XIV secolo che si concluse nel 1398 con il rifacimento gotico del soffitto e dell'abside (architetti Giovanni e Nicolò da Ferrara).
Il rosone, detto Ruota della Fortuna, è opera di maestro Brioloto realizzata verso la fine del XII secolo. Una delle prime grandi finestre del romanico diventate più tardi caratteristica dello stile gotico. Lo stesso tema della Ruota della Fortuna è presente anche in un affresco della torre soltanto parzialmente conservato e per questo non trattabile. È detta "ruota" perché in realtà ha la struttura di una ruota a dodici raggi formati da coppie di colonnette esagonali innestate in un "mozzo" centrale a dodici lobi e, nel cerchio esterno, dai grandi archi a tutto sesto. Quattro cerchi in marmi bianchi, azzurri e tufo formano la cornice e sul penultimo sono scolpite sei figure umane in diverse posizioni. Nella prima l'uomo è saldamente in trono, nella seconda precipita, poi è schiacciato sotto il peso dell'estrema sventura e quindi è in ripresa e risalita. Una scritta latina spiega la simbologia: Ecco che io Fortuna governo sola i mortali. Elevo, depongo, dò a tutti i beni o i mali. Vesto chi è nudo, spoglio chi è vestito. Se alcuno in me confida andrà schernito.
En ego fortuna moderor mortalibus una,
Elevo, depono, bona cunctis vel mala dono
Induo mutados, denudo veste paratos,
In me confidit si quis, derisus abibit.
SAN MARIA DELLA BRUNA

Sorge sull'acropoli della Civita, sullo sperone che domina e divide i due Sassi.
E' stato edificato sulle rovine di altre cripte distrutte a causa dei numerosi saccheggi avvenuti nel corso dei secoli.
Completata nel 1270, la Cattedrale è stata in origine dedicata a S. Maria di Matera, poi detta S. Maria dell'Episcopio ed infine, dal 1389, a S. Maria della Bruna, cioè da quando il Papa Urbano VI, già vescovo della città, volle istituire la Festa della Visitazione il 2 luglio.
Svetta il campanile di forma quadrangolare alto 52 metri, diviso in due tronchi da un terrazzo, il primo a tre piani con bifore, il secondo con piccole finestre e con la parte sovrastante a cuspide; alla sommità sono sistemate 7 campane, intonate all'accordo in mi bemolle.
L'interno, a croce latina, lungo 54 metri, alto 23 e largo 18, ha tre navate sorrette da 10 colonne alte 6 metri, con bei capitelli diversi tra loro. Numerosi e drastici sono stati i restauri barocchi del XVIII secolo, alterando la compostezza e l'armonia del romanico.
Il soffitto piano della navata centrale, che nasconde le originarie capriate romaniche, è stato affrescato dal pittore G.B. Santoro e raffigura la Visitazione della Vergine a S. Elisabetta, l'apparizione di Cristo a Sant'Eustachio nelle sembianze di un cervo e l'immagine di San Giovanni da Matera.
In alto si possono osservare dodici colonnine pensili disposte ai lati della cuspide, a rappresentare gli Apostoli, simboli, fin dall'origine, della dottrina del Cristianesimo.
Al vertice, una croce sovrasta tutta la facciata.
La facciata laterale verso sud ha due porte, delle quali la più ricca di decori è quella detta "dei leoni", con motivi floreali e teste di angeli in sequenza.
Più spoglia e semplice è l'altra porta, sulla quale si può osservare un bassorilievo di Abramo, patriarca comune alle tre grandi religioni monoteiste, l'ebraica, la cristiana e l'islamica.
Fra le due porte si trova una finestrella ove è posto il sepolcro del giudice Saraceno, molto ricca di figure e decorazioni.
Gli uomini rappresentati sulla ruota rappresentano le attività profane, il mondo delle attività illusorie, che sono all’esterno della ruota.
La ruota, per il suo movimento, esprime bene l’inconsistenza e l’instabilità di tutte le cose.

CATTEDRALE DI AMIENS
L’idea della costruzione della cattedrale di Notre-Dame di Amiens inizia nell’anno 1218, quando, dopo l’incendio dell’antica chiesa di Saint Firmin ad Amiens, il vescovo Evrard de Fouilloy e il professore dell’Università di Parigi Jean d’Abberville, decidono la costruzione di una nuova chiesa tracciandone insieme il programma iconografico.

La dea Fortuna poggia sopra una sfera che sta ad indicare allegoricamente l’instabilità e la causalità degli eventi. È bendata appunto perché la sua scelta dipende dal caso le persone a lei sottostanti la ricercano per avere la sua grazia non sapendo che la sua scelta è dettata puramente dal caso. La scelta della dea cade sull’ uomo in basso a destra che è messo in risalto rispetto agli altri personaggi essendo in primo piano, illuminato dalla luce provvidenziale proveniente dalla dea.
Si può notare anche la disperazione degli altri personaggi non baciati dalla dea, quindi soggetti alla malasorte.
Iconografia nei tarocchi del periodo gotico
Nella prima icona si può indubbiamente notare un influsso della mitologia dell’antico Egitto con ai due estremi(alto e basso) la fortuna(la sfinge) e la sfortuna(i due serpenti). La freccia bianca dentro alla ruota sta ad indicare l’ascesa verso la sfinge di un uomo-cane personificabile come il faraone mentre la freccia nera indica la discesa verso la malasorte rappresentato con un coccodrillo nero interpretabile con la decadenza o la morte.
Nella seconda ricorre il tema della ruota visibile nei rosoni romanici e gotici; all’estremità superiore c’è il momento di più alto afflusso della fortuna con un ricco padrone seduto in un trono, poi inizia la discesa fino al momento di più alto sfortuna rappresentata da un vecchio sul quale grava l’intera ruota, poi ricomincia l’ascesa verso la riconquista di una sorte non avversa. Al centro della ruota sta una donna alata e bendata che gestisce casualmente il verso nel quale la giostra deve girare.
Qui si può vedere la ruota timonata da una donna vestita con abiti maschili. In questo caso non è bendata forse per far intendere che la fortuna è vista in questo dipinto come il destino in quanto anche i sei personaggi rappresentano le sei tappe della vita che tutti gli uomini percorrono, dal momento di fortuna ed estrema gioia si passa gradualmente, ma a volte anche bruscamente, al momento di disperazione per poi risalire. In questo dipinto le sei tappe sono viste sotto forma della ruota del regnante. In cima c’è il signore con la corona da re e due coppe d’oro in mano, poi a destra comincia la discesa dove non ci sono più le coppe nelle sue mani perché ha bisogno di tenersi per non cadere ma mantiene ancora la corona che però perde appena più sotto perché ormai in rovina; qui sotto c’è il momento di più alta disperazione per la perdita del suo potere, ma con un’ ultima speranza di riaverlo rimane appeso alla ruota e cosi inizia la sua risalita con la mano alta per riavere la sua corona(anche se con l’altra mano si tiene alla ruota per non cadere). Questo aggrapparsi si può intendere come un modo per vincere la fortuna e crearsi il proprio destino da soli.
Anche questa icona riprende l’argomento del regno riducendo le tappe a quattro ma sempre confermando l’ipotesi che si può vincere la fortuna rimanendo attaccati alla sua ruota.
ANTIUM - Templi
Tempio e culto della dea Fortuna Anziate
L'origine di questo culto è antichissima e si deve collegare, probabilmente, con la nascita stessa della città. L'iconografia della dea anziatina ci è nota soprattutto attraverso la serie di monete emessa da Q. Rustius, che nel celebrare il ritorno vittorioso di Augusto dall'Oriente, volle ricordare anche la sua patria, Anzio, attraverso l’emblema stesso della città. Sugli aurei erano raffigurate le due teste affrontate della dea, mentre sui denari erano raffigurati i due busti sopra lectisternio o piccolo baldacchino processionale. La figura con corpo ricoperto da vesti aveva sulla testa una corona, mentre l'altra, che mostrava i seni nudi, aveva sulla testa un elmo. Queste due figure della dea, che Marziale chiamava sorores o sorelle, secondo alcuni indicavano che ognuna di loro avesse attributi e mansioni differenziate: la prima più femminile e la seconda più maschile e bellicosa. Non è di questo parere l'autorevole studiosa J. Champeaux autrice di un vasto ed interessantissimo saggio sulla dea Fortuna nel mondo antico. Ella infatti ritiene che queste due figure appartenenti ad una unica dea, siano allo stesso tempo ambedue oracolari, fecondatrici e protettrici dell'uomo durante tutte le alterne vicende della sua vita. Questo dualismo è tipico della religione e delle credenze animistiche del monto latino-romano che avverte l'esigenza di evidenziare due volti o due aspetti di una stessa essenza. L'unicità della dea, tuttavia, è confermata da numerose lettura. Seguendo sempre le indicazioni della Champeaux e della Scevola, possiamo affermare che l'attributo principale della Fortuna anziate fosse quello della fecondità e della nascita, guaritrice di tutte le parti del corpo, soprattutto degli organi di riproduzione. Tuttavia sappiamo (da alcune lodi di Orazio), che la Fortuna anziate era preposta anche allo svolgimento di altri due importanti funzioni; quella agraria e quella marinara. Per la città di Anzio questa ultima funzione è evidentemente preponderante come è evidenziato nelle monete di Rustius e nella statua conservata a Villa Spigarelli ove la Fortuna impugna con la mano destra il timone di una nave. Sulla ubicazione del tempio ci sono due ipotesi. La prima colloca il tempio sull'altopiano ove fu poi costruita la Villa Albani. La seconda ipotesi, molto suggestiva e di natura storico-topografica, indica il promontorio di Capo d’Anzio quale sede del tempio e del santuario della Fortuna.
Bibliografia:
► Divina Commedia di Dante Alighieri
► Dal testo alla storia dalla al testo a cura di Guido Baldi, Silvia Giusto Mario Ranzetti Giuseppe Zaccaria\Torino-Paravia 2000
► Fattore fortuna di Richard Wiserman\ Sonzogno 2003
► La fragilità del bene:fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca di Martha C. Nussbaum\ Bologna-Il mulino1996
► Il gioco dell’amore e del caso; le false confidenze di Pierre Carnet de Chamblain de Marivaux
► Il codice dell’anima:carattere, vocazione, destino di James Hillman\Torino-Enaudi 2000
► Libertà o necessità l’idea di destino nelle culture umane a cura di Alessandro Bongioanni ed Enrico Comba, introduzione di Giovanni Filoramo\Torino-Ananke 1998
► Fato antico e fato moderno di Giorgio de Santillana\Milano-Adelphi 1985
► Il tema della fortuna nella letteratura Francese e Italiana
► Storia dell’arte
Scaletta:
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