Donne voi ch'avete intelletto d'amore

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Testo

DANTE ALIGHIERI
Donne ch’avete intelletto d’amore

Donne ch’avete intelletto d’amore,
i’ vo’ con voi de la mia donna dire,
non perch’io creda sua laude finire,
ma ragionar per isfogar la mente.
Io dico che pensando il suo valore,
Amor sì dolce mi si fa sentire,
che s’io allora non perdessi ardire,
farei parlando innamorar la gente.
E io non vo’ parlar sì altamente,
ch’io divenisse per temenza vile;
ma tratterò del suo stato gentile
a respetto di lei leggeramente,
donne e donzelle amorose, con vui,
ché non è cosa da parlarne altrui.

Angelo clama in divino intelletto
e dice: «Sire, nel mondo si vede
maraviglia ne l’atto che procede
d’un’anima che ’nfin qua su risplende».
Lo cielo, che non have altro difetto
che d’aver lei, al suo segnor la chiede,
e ciascun santo ne grida merzede.
Sola Pietà nostra parte difende,
ché parla Dio, che di madonna intende:
«Diletti miei, or sofferite in pace
che vostra spene sia quanto me piace
là ’v’è alcun che perder lei s’attende,
e che dirà ne lo inferno: O mal nati,
io vidi la speranza de’ beati».

Madonna è disiata in sommo cielo:
or voi di sua virtù farvi savere.
Dico, qual vuol gentil donna parere
vada con lei, che quando va per via,
gitta nei cor villani Amore un gelo,
per che onne lor pensero agghiaccia e pere;
e qual soffrisse di starla a vedere
diverria nobil cosa, o si morria.
E quando trova alcun che degno sia
di veder lei, quei prova sua vertute,
ché li avvien, ciò che li dona, in salute,
e sì l’umilia, ch’ogni offesa oblia.
Ancor l’ha Dio per maggior grazia dato
che non pò mal finir chi l’ha parlato.

Dice di lei Amor: «Cosa mortale
come esser pò sì adorna e sì pura?»
Poi la reguarda, e fra se stesso giura
che Dio ne ’ntenda di far cosa nova.
Color di perle ha quasi, in forma quale
convene a donna aver, non for misura:
ella è quanto de ben pò far natura;
per essemplo di lei bieltà si prova.
De li occhi suoi, come ch’ella li mova2,
escono spirti d’amore inflammati,
che feron li occhi a qual che allor la guati,
e passan sì che ’l cor ciascun retrova:
voi le vedete Amor pinto nel viso,
là ’ve non pote alcun mirarla fiso.

Canzone, io so che tu girai parlando
a donne assai, quand’io t’avrò avanzata.
Or t’ammonisco, perch’io t’ho allevata
per figliuola d’Amor giovane e piana,
che là ’ve giugni tu diche pregando:
«Insegnatemi gir, ch’io son mandata
a quella di cui laude so’ adornata».
E se non vuoli andar sì come vana,
non restare ove sia gente villana:
ingegnati, se puoi, d’esser palese
solo con donne o con omo cortese,
che ti merranno là per via tostana.
Tu troverai Amor con esso lei;
raccomandami a lui come tu dei.

Analisi del testo
Livello metrico
Canzone composta da cinque stanze di endecasillabi. Lo schema è ABBC, ABBC; CDD, CEE. Ogni stanza è di 14 versi, dunque di lunghezza uguale a quella di un sonetto. Ma la metrica della stanza sembra ricalcare quella di un sonetto solo nei primi tre versi; infatti dopo la serie ABB, che crea l’attesa per il classico schema a rima incrociata, interviene una rima in C che chiude in maniera asimmetrica il primo piede. La simmetria è ripristinata solo dopo il secondo piede, che ripete per intero la sequenza ABBC. L’inizio della sirma è ancora in C, a sottolineare lo stretto legame tra le sue parti della stanza con un nuovo effetto di rima baciata. Tutto lo schema della sirma del resto (CDD, CEE) valorizza le rime baciate, tra le quali assumono particolare rilevanza quelle in posizione finale; nelle prime due stanze la rima conclusiva ha anche la funzione di evidenziare l’antitesi («vui» : «altrui», vv. 13-14, e soprattutto «mal nati» : «beati», vv. 27-28).

Livello lessicale, sintattico e stilistico
Lessico filosofico e sintassi raziocinante
Il primo elemento significativo, sul piano lessicale, è la presenza di termini filosofici che si affiancano a quelli della tradizionale lirica d’amore. Termini come «intelletto» (riferito alle donne, ma anche a Dio) o come «atto» hanno qui il preciso significato che dà loro la filosofia aristotelica. Vengono utilizzate anche formule tipicamente scolastiche («dico che», v. 5), che sottolineano la rigorosa consequenzialità logica del discorso poetico. Tale particolarità lessicale è il segno del notevole impegno intellettuale di questa canzone, che inaugura la nuova poetica dantesca della lode e che richiama, a tratti, il modello guinizzelliano – anch’esso profondamente nutrito di filosofia aristotelica – di Al cor gentil rempaira sempre amore. Il richiamo a Guinizzelli non si limita all’uso di un linguaggio filosofico, ma riguarda anche i termini che chiariscono la natura del pubblico cui la canzone si rivolge; ciò è particolarmente evidente nella prima e nell’ultima stanza, in cui si circoscrive con chiarezza il destinatario della canzone alle donne (ma anche agli uomini) “gentili”, ribadendo l’esclusione di chiunque sia “villano”.
A livello sintattico, l’impostazione raziocinante del discorso si riflette in periodi che fanno ampio uso di subordinate, molte delle quali (causali, finali, consecutive) servono a mettere in evidenza i nessi logici del discorso.

I momenti oratori
Il testo presenta però diversi momenti in cui alla dimostrazione subentra il discorso diretto e in qualche caso il dialogo, con l’effetto di un dinamismo quasi teatrale; nella seconda stanza si contrappongono le parole dell’angelo (una sorta di denuncia dell’imperfezione del cielo senza Beatrice) e la risposta di Dio (che assume misericordiosamente la difesa degli uomini); la quarta stanza si apre con la domanda retorica di Amore; nel congedo il poeta fa parlare la stessa canzone. In tali momenti “oratori” prevale la perifrasi, ottenuta sovente facendo ricorso a subordinate relative (ad es. ai vv. 26-27).

I verba dicendi e la nuova funzione della parola
Un altro elemento notevole sul piano lessicale è la frequenza dei verba dicendi. Nella sola stanza proemiale ne incontriamo sette occorrenze: «dire» (v. 2), «ragionar» (v. 4), «dico» (v. 5), «parlando» (v. 8), «parlar» (v. 9), «tratterò» (v. 11), «parlarne» (v. 14). La seconda stanza ne presenta cinque: «clama» (v. 15), «dice» (v. 16), «grida» (v. 21), «parla» (v. 23), «dirà» (v. 27). Ma questi verbi ricorrono anche nelle stanze successive: «dico» (v. 31), «dice» (v. 43), «giura» (45), «parlando» (v. 57), «diche» (v. 61). Tale insistenza su verbi afferenti allo stesso campo semantico non è immotivata. Nel capitolo precedente il poeta-amante aveva dichiarato che il «fine» del suo amore non risiedeva più nella ricompensa costituita dal saluto di Beatrice, bensì «in quelle parole che lodano» la donna. La parola dunque, da semplice mezzo di espressione del sentimento o della pena, diventa nella nuova poetica lo scopo stesso della poesia. Da qui, sul piano lessicale, la centralità dei verba dicendi e, a livello tematico, la esplicita e problematica riflessione sulla possibilità di giungere con la parola poetica a una compiuta lode della donna.

Livello tematico
Questa canzone rappresenta una svolta nell’opera di Dante e segna il passaggio verso una nuova concezione dell’amore, che d’ora in poi tenderà «alla perfezione dell’amore celeste» (Singleton). Lo stesso Dante, nel Purgatorio (XXIV, vv. 50-57), cita questa canzone come il testo che rinnova la tradizione poetica italiana. Nella prosa che introduce questa canzone il narratore ne attribuisce la nascita a una ispirazione misteriosa («la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa»), la cui natura divina appare evidente.
È opportuno, in considerazione dell’importanza di questo testo, procedere a un’analisi dettagliata delle singole stanze. Noteremo subito che la prima di esse ha funzione proemiale, mentre l’ultima, secondo tradizione, fa da congedo. Le tre stanze centrali contengono invece la lode di Beatrice e sono disposte in un significativo ordine discendente: dal paradiso (seconda stanza) al mondo terreno (quarta stanza) passando attraverso Beatrice, vista come figura di mediazione tra cielo e terra (terza stanza). All’inizio di ciascuna di queste tre stanze centrali si incontrano altrettante parole chiave della cultura stilnovistica: «Angelo» (v. 15), «Madonna» (v. 29), «Amor» (v. 43). La dispositio delle stanze, insomma, suggerisce una delle idee più feconde della nuova poesia dantesca: Beatrice appare come una figura intermedia tra cielo e terra, in grado di consentire il superamento di quel conflitto tra amore e religione che era rimasto irrisolto nelle precedenti opere della nostra tradizione poetica.

La prima stanza e il paradosso della parola
La stanza proemiale individua in primo luogo il destinatario della canzone: si tratta – come si è già visto dalla prosa – della ristretta cerchia delle donne che costituiscono quell’aristocrazia dello spirito alla quale, fin da Guinizzelli, guardano i poeti della civiltà comunale. Il presupposto per far parte di tale aristocrazia consiste nel possedere esperienza e conoscenza («intelletto») dell’amore.
In secondo luogo viene qui evidenziata la materia che il poeta si propone di trattare; al v. 2, «io vo’ con voi de la mia donna dire», Dante dichiara la sua volontà di pronunciare le lodi della donna. Dante vuole mettere in atto quella svolta che era stata preannunciata nel precedente capitolo. Ma proprio mentre affronta finalmente la lode di Beatrice, egli pone un problema di grande importanza: quello dell’estrema difficoltà di esprimere compiutamente con la parola il pregio di una creatura così perfetta.
Il secondo verso della canzone – particolarmente pregnante sia dal punto di vista semantico1 che da quello fonico – richiama da vicino l’incipit del sonetto di Guido Guinizzelli Io voglio del ver la mia donna laudare. Ma non c’è, in Dante, la baldanza con cui il primo Guido proclamava la sua fiducia nella potenza della parola poetica. Al contrario, Dante chiarisce subito che la propria lode sarà solo parzialmente adeguata («non perch’io creda sua laude finire», v. 3) e precisa ulteriormente, mediante l’enunciazione di un’ipotesi impossibile («s’io allora non perdessi ardire / farei parlando innamorar la gente»), che le sue parole non potranno riflettere appieno il «valore» della donna. Alla fine della stanza, ancora, il poeta ribadisce che scriverà «leggeramente» in rapporto all’eccellenza della donna. Non si tratta solo di una professione di modestia, che sarebbe tema tradizionale. Il poeta ci sta avvertendo che, data la natura angelica di Beatrice, la poesia della lode si pone come attività ab origine condannata all’incompiutezza, alla resa – almeno parziale – di fronte all’indicibile (e si può qui agevolmente misurare la distanza dal modello di Guinizzelli, che trovava invece in uno strumento razionale come la similitudine il mezzo per esprimere compiutamente le lodi della donna). La sottolineatura dell’inadeguatezza della parola poetica a proferire in modo compiuto la lode della donna accosta nuovamente Dante a Cavalcanti (Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira). Ma in Cavalcanti l’ineffabilità della bellezza femminile si spiegava all’interno della concezione averroistica dell’amore. Per Dante invece l’inadeguatezza della parola si deve all’aura propriamente religiosa che avvolge Beatrice, creatura per mezzo della quale Dio opera il suo miracolo sugli animi umani.
La situazione in cui si trova il poeta è dunque paradossale: da un lato egli è consapevole dell’impossibilità di dire; dall’altro (e contemporaneamente) si trova nell’impossibilità di non dire: non solo per il bisogno di «isfogar la mente» richiamato al v. 4, ma soprattutto per il fatto che – come chiarisce la prosa precedente – la sua lingua ha parlato «quasi per se stessa mossa», non cioè in seguito a un suo atto di volontà, ma a causa di un’ispirazione che si sottrae al suo controllo. Questo paradosso della parola, sospesa tra bisogno e impossibilità di dire, non è nuovo nella nostra letteratura. Ed è significativo il fatto che esso trovi precedenti importanti in un ambito diverso da quello della poesia d’amore profana: ad esempio nella riflessione di S. Agostino su Dio («Cosa si può dire parlando di te? Eppure guai a quelli che non parlano di te, perché parlano e sono muti») o in un testo poetico venato di misticismo come O iubelo del core di Jacopone da Todi (in cui, a seguito dell’accensione del cuore, «la lengua barbaglia / e non sa che parlare», e però al tempo stesso «dentro non pò celare / tant’è granne ’l dolzore» ). Il paradosso della parola, dunque, avvicina la condizione del poeta a quella del mistico. L’amore per Beatrice si manifesta ora in forme simili all’amore per Dio.

La seconda stanza: significato filosofico del prologo in cielo
Con la seconda stanza inizia la vera e propria lode di Beatrice. Si parte da una rappresentazione del Paradiso, la cui beatitudine appare imperfetta per l’assenza della donna. Il tema ha precedenti tradizionali: basti pensare al sonetto Io m’ag[g]io posto in core a Dio servire di Jacopo da Lentini, o all’ultima stanza della guinizzelliana Al cor gentil rempaira sempre amore. Ma mentre la prospettiva di Jacopo da Lentini era tutta interna al conflitto tra amore e religione, e quella di Guinizzelli lo aggirava galantemente senza affrontarne la sostanza, nella canzone dantesca la questione viene capovolta: il Paradiso non è il punto d’arrivo di un processo di raffinamento dell’amore profano, bensì il punto di partenza da cui si deducono le virtù salvifiche di Beatrice. In questa stanza compaiono termini di esplicito significato religioso e filosofico. Ci riferiamo in particolare ai vv. 17-18: «maraviglia ne l’atto che procede / d’un’anima che ’nfin qua su risplende». Ci sembra legittimo identificare la «meraviglia», ossia il miracolo, con il dono dell’elevazione spirituale e morale che la vista della donna è in grado di elargire a quegli uomini il cui animo “gentile” sia adatto a riceverlo. Tale miracolo è in «atto»: è questo un termine che appartiene al linguaggio aristotelico, e che si oppone a “potenza”. Il termine “atto” indica la perfezione, il compimento, la realizzazione effettiva del miracolo. Poiché tale attualità del miracolo «procede» da Beatrice, ne risulta che la donna è, in termini filosofici, la causa efficiente del miracolo stesso3.
Già Guinizzelli ci aveva avvertito che l’amore è nel cuor gentile allo stato potenziale, e che la donna è la causa efficiente che lo fa passare in atto. Ma Dante, identificando i sentimenti suscitati da Beatrice con il miracolo, spiritualizza l’amore fino a farlo coincidere con la carità e finisce, quindi, per superare il conflitto tra amore e religione. L’iperbolica e paradossale contrapposizione tra paradiso e inferno presente in questa stanza non deve ingannare: essa riflette un tema tradizionale e non comporta alcun contrasto sostanziale tra l’amore per Beatrice e quello per Dio.

La terza stanza e il recupero del modello di Gunizzelli
La terza stanza si apre con un verso («Madonna è disiata in sommo cielo») che sintetizza il tema della stanza precedente, gettando una nuova luce su quanto segue. La stanza elenca gli effetti salvifici del passaggio dalla donna, seguendo assai da vicino il modello guinizzelliano di Io voglio del ver la mia donna laudare. E in effetti, da questo momento della poesia dantesca, si potrà registrare un avvicinamento a Guinizzelli e una riduzione dell’influenza di Cavalcanti (che pure non scompare del tutto).
Ma Dante non si limita a una semplice ripresa dei temi del primo Guido. I molti motivi che egli desume dalla sua opera vengono infatti inseriti in una solida cornice filosofica e teologica. Il sentimento suscitato da Beatrice non è più l’amore profano, che Dante ha ormai superato. Essa infatti possiede virtù morali che elevano chiunque la incontri, impedendogli di concepire pensieri malvagi, donandogli «salute» e facendo nascere in lui la carità; ne consegue l’impossibilità, per chi le ha parlato, di essere dannato all’inferno. Superando l’amore inteso come desiderio di possesso – sia pure nella forma simbolica e sublimata del saluto –, passando dall’amore infelice e causa di sofferenza ad un amore disinteressato e spirituale che trova la sua soddisfazione nella lode della donna, Dante giunge alla nuova sintesi tra tradizione cortese ed etica cristiana. Nell’ultima stanza della canzone di Guinizzelli Dio giudicava «vano» l’amore per la donna; in Dante invece amore e religione non sono più in contraddizione; il primo, anzi, innalza l’uomo capace di comprenderne la vera essenza facendo nascere in lui le più pure virtù cristiane.

La quarta stanza e il nuovo approccio al modello di Cavalcanti
Completando il percorso discendente dal cielo alla terra, il poeta introduce ora il discorso diretto di Amore, stupito che una creatura mortale possa essere così «adorna» e «pura». La domanda è retorica, poiché alla luce di quanto detto prima Beatrice non può semplicemente definirsi «cosa mortale»; e del resto Amore (che nella cultura cortese non perde mai i suoi tratti di divinità dispotica che gli derivano dalla tradizione greco-latina) deve arretrare in questa canzone davanti al Dio cristiano, il quale intende far «cosa nuova» della donna.
La quarta stanza contiene poi una descrizione stilizzata di Beatrice; particolare importanza hanno gli occhi, da cui escono gli spiriti d’amore che, attraverso gli occhi dell’amante, penetrano poi nel suo cuore. Evidentissimo è il modello cavalcantiano di Voi che per li occhi mi passaste’l core); così come è cavalcantiana (ma stavolta esemplata su modello Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira) l’affermazione per cui la donna sarebbe la manifestazione sensibile dell’idea di bellezza. Ma se la terminologia e i modelli sono quelli del secondo Guido, occorre dire che da essi è stata eliminata ogni nota drammatica e tormentosa; tant’è vero che, più che su quanto avviene dentro il cuore dell’amante, la stanza si concentra sull’immagine della donna, in realtà impossibile da raffigurare adeguatamente per via della sua soprannaturale luminosità: nessuno può infatti neanche sostenere il suo sguardo, dal quale escono «spirti d’amore inflammati» (v. 52).

La quinta stanza: un congedo tradizionale
Più tradizionale appare la stanza di congedo, costruita su un’apostrofe alla canzone stessa che, evitando ogni contatto con la «gente villana», dovrà mettersi in cammino per raggiungere il suo destinatario (le donne dotate di «intelletto d’amore» o anche qualche «omo cortese»). Si tratta del tradizionale envoi (invio del messaggio), motivo tipico della lirica cortese. Le donne non sono però il destinatario ultimo della poesia: tramite esse la canzone dovrà infatti raggiungere la stessa Beatrice. Dalle altezze del prologo in cielo Dante è quindi ridisceso ai consueti motivi della tradizione della lirica amorosa. Ciò non stupisce, in quanto la nuova poetica di Dante affonda le sue radici in questa tradizione. La novità consiste nella originale interpretazione che Dante riesce a darne, e che gli consente di risolvere le tensioni e la contraddizioni che opponevano la dottrina d’amore all’etica cristiana. Gli influssi di Jacopo da Lentini, Guinizzelli e Cavalcanti sono, come si è visto, numerosi; ma Dante li rilegge alla luce di una nuova consapevolezza filosofica e religiosa. E, per la prima volta nella Vita nuova, questa consapevolezza non appartiene solo al narratore, ma anche allo stesso poeta-amante.

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