Diversi temi svolti

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Testo

La disoccupazione
Numerose circostanze concorrono e hanno concorso, a mio giudizio ma anche secondo parametri oggettivi, alla determinazione in seno alle società occidentali del problema della disoccupazione.
Per esempio, i continui cambiamenti nei modi di produzione, che oggi vedono l'avanzare della automazione e della tecnologia informatica in molti settori; la razionalizzazione della produzione con pratiche manageriali volte alla massimizzazione del profitto e alla riduzione massima dei costi; la competizione "globale" nel pianeta.
Numerose persone finiscono così per non trovare lavoro o per perderlo, perché per età o grado di istruzione non riescono ad adeguarsi alle nuove tecnologie e perché i settori "maturi" e tradizionali della produzione espellono, anziché attrarre forza lavoro.
Tutto ciò si ripercuote sulla qualità della vita di ampi strati di popolazione, che si vedono diminuire i redditi e comunque si sentono minacciati nell'agio e nella sicurezza, spesso raggiunti da poco e con fatica.
Qualcuno ritiene che, per godersi la vita, sia necessario considerarsi arrivati, mentre la nostra società occidentale alimenta invece, nell'ambito lavorativo, i sentimenti di precarietà, insicurezza, competizione, percepiti da molti come intollerabilmente angosciosi.
Tenderà a cronicizzarsi il problema della disoccupazione? Davvero la nostra esistenza sarà mortificata anche negli anni a venire da questa piaga, malgrado gli indiscutibili progressi raggiunti dalla scienza e dalla tecnica?
Io credo di no.
Anzitutto, la disoccupazione non è un problema nuovo, ma da quando la rivoluzione industriale ha cambiato il volto dell'Occidente, si ripresenta, ciclica, ad ogni significativo cambiamento di paradigma produttivo.
E' possibile che quando la situazione si assesti e i settori più "giovani" siano giunti a una maggiore definizione, molta forza lavoro venga assorbita.
Bisogna svincolarsi dall'idea che i posti di lavoro siano una quantità fissa: molto dipende dal dinamismo di individui e società, dalla loro creatività, dalla loro capacità di indurre nuovi bisogni (si spera, progressivi e non alienati). Il numero di posti di lavoro dipende quindi anche dalla buona volontà e dall'impegno di un'intera cultura.
Come dipende da una rivoluzione culturale la volontà di considerare il lavoro in modo diverso, non una condanna, ma un gioco, serio e impegnativo, ma soprattutto creativo, dove ciascuno investa la propria personalità. Non più quindi la cultura ad oltranza del posto fisso, cui accedere per diritto, senza avere magari nessun requisito, ma maggiori flessibilità e impegno, maggiore volontà di raggiungere dei risultati, di porsi al servizio di individui e comunità, in modo non "servile", ma intelligente e utile.
Soprattutto sarà necessario responsabilizzare gli individui, far sì che facciano propria l'idea di formazione continua, di cura dei propri talenti, di autonomia nello sviluppo di adeguati percorsi formativi.
Importante sarà una scolarizzazione diffusa, ma ancora più importante la disponibilità a imparare in autonomia nell'intero arco della vita, anche (e soprattutto) fuori dal normale contesto scolastico.
Fermo restando che l'eccesso di liberismo economico che abbiamo sperimentato negli ultimi decenni non va bene. Se è utile eliminare le rigidità e richiedere al lavoratore un impegno responsabile, è pure vero che imprenditori, dirigenti, Stati e comunità devono offrire contropartite valide. Il cosiddetto "Welfare State" va rimodulato, ma non soppresso.
Ciascuno di noi ha bisogno di occupazioni sufficientemente attraenti, ben remunerate, di alternare periodi di lavoro a periodi di studio, di un tempo libero dilatato (d'altronde quello della progressiva diminuzione del tempo di lavoro è una costante ineluttabile delle economie occidentali), di contare di più all'interno delle organizzazioni produttive, di luoghi di lavoro salubri e stimolanti.
Sono necessari ammortizzatori sociali che impediscano lo sviluppo di sacche di povertà, offrire a tutti opportunità di formazione e di cambiamento, concedere alle persone la possibilità di estrinsecare i propri talenti.
Un capitalismo molto più simile a quello tedesco o giapponese che a quello americano. Fatto di efficienza e di impegno sì, ma anche di garanzie.
La violenza
Chi quotidianamente vive in quella vasta area che è denominata Occidente e magari si informa, legge o guarda la tv, ha la sensazione di essere circondato da un mondo estremamente violento. Una sensazione che gli esperti ritengono fallace: altre epoche hanno conosciuto, secondo gli studiosi di scienze sociali, violenze più efferate e più frequenti e mai il mondo è stato così sicuro come adesso.
Eppure, nonostante l'alto livello di civilizzazione, forse proprio a causa di questo, ci sentiamo insicuri e minacciati.
A mio avviso, le nostre aspettative di sicurezza sono aumentate, così come il desiderio di condurre una vita lunga e piacevole.
E d'altra parte la fine delle ideologie, l'indebolimento delle fedi religiose, quella che viene denominata la secolarizzazione del mondo, fanno sì che ci sentiamo piuttosto disorientati nei confronti delle norme e dei valori da abbracciare durante l'esistenza. Tutti finiamo per orientarci ad un edonismo spicciolo, ad una ricerca ossessiva del piacere e del divertimento immediati, ai soldi, alla carriera, al potere.
Sentiamo che la vita è quella che viviamo adesso, qui, sulla Terra; le promesse di una giustizia divina dopo la morte, della beatitudine raggiungibile in mondi ultraterreni ci sembrano aleatorie.
"Se Dio non esiste, tutto è permesso" diceva Dostoevskij.
E perciò tendiamo a rimuovere, con un'aggressività che a volte sconfina nel crimine, ogni ostacolo che si frappone alla realizzazione dei nostri desideri.
Queste sono secondo me le radici più evidenti della violenza quotidiana.
Esistono tuttavia altri motivi, più oscuri e sotterranei, ma non per questo meno potenti.
Per esempio, il fatto di vivere in società sempre più solitarie ed anonime, di essere soggetti ad un potere sempre più impersonale, che ci fa sentire di frequente inermi e impotenti. La burocratizzazione della vita, che pure è spesso necessaria per l'ordine e l'organizzazione statuale, ci disumanizza, quando non ci schiaccia (si legga la narrativa di Kafka), il potere economico (le lobby, le multinazionali, ecc.) ci rende un numerino insignificante nella grande equazione dell'economia mondiale. Basta un niente, una crisi passeggera, una ristrutturazione aziendale e di colpo siamo estromessi, reietti, perdenti.
Inoltre, secondo me, la violenza prospera su un terreno di eccessiva tolleranza maturato in alcuni ambienti religiosi e intellettuali. Per cui il criminale gode di eccessive giustificazioni, si cerca sempre un alibi alle azioni più riprovevoli, che so: i traumi infantili, l'esclusione sociale, la famiglia, la scuola, la società. Non che questi alibi siano del tutto falsi, soltanto che ciascuno di noi deve essere chiamato a rispondere, a sentirsi responsabile delle proprie azioni. Altrimenti non si spiega, come, date le medesime circostanze, c'è che delinque e chi no.
Il concetto di "responsabilità" deve tornare a far parte del vocabolario delle società occidentali. Ed anche quello di "repressione". La società, chi è preposto all'ordine pubblico, non può tollerare i comportamenti violenti, anche quelli di minore entità. Anzi si è visto che la politica della "tolleranza zero" negli Stati Uniti ha dato ottimi risultati. Le teorie "idrauliche" sul comportamento umano, forse hanno fatto il loro tempo. Comprimere, coartare la violenza non significa renderla più esplosiva e pericolosa.
Certamente la repressione non basta. Difendersi dai delinquenti non è l'unico mezzo per bonificare la società. Occorre intervenire soprattutto nella fase educativa, nella scuola, in famiglia, nelle agenzie di socializzazione in genere, affinché i comportamenti violenti e prevaricatori vengano scoraggiati, puniti, messi alla gogna. La scuola, ad esempio, ha tollerato (e tollera) il cosiddetto "bullismo". Bisogna avere il coraggio di trasmettere valori etici ed estetici diversi dalla sopraffazione dell'altro. Bisogna che la società, in genere, smetta di premiare i comportamenti violenti.
Ed è necessario, altresì, arginare e ridurre le ingiustizie e le ineguaglianze sociali, mitigare le situazioni di sofferenza e povertà.
E bisogna anche rendersi consapevoli che la violenza, essendo una delle possibilità dell'essere umano e del suo comportamento, potrà essere arginata, ma mai eliminata del tutto e che la vita di ciascuno di noi, malgrado le sempre maggiori sicurezze, continuerà ad essere una faccenda rischiosa.
La scuola
La questione della scuola non riguarda soltanto il popoloso universo di studenti, insegnanti e politici, ma riguarda l'intera comunità nazionale. Prendersi cura di istituti, licei e università e dei loro problemi è interesse di ogni cittadino che abbia a cuore le sorti della propria nazione.
In questi ultimi anni il mondo dell'istruzione è al centro di un intenso dibattito circa una sua possibile riforma. I governi che si sono succeduti, pur presentando progetti contraddittori, sono d'accordo su un punto: che la scuola così com'è non va bene, che deve essere cambiata per rispondere più adeguatamente ai mutamenti repentini della società.
Esiste uno scollamento sempre più marcato fra preparazione scolastica ed esigenze delle aziende e soprattutto fra le aspirazioni lavorative degli studenti una volta concluso il proprio ciclo di studi e le offerte del mondo del lavoro.
Esistono intere regioni italiane, alcune protagoniste di un rapido e brillante sviluppo economico, che manifestano la propria disaffezione verso l'organizzazione odierna degli studi, registrando cifre record di abbandoni ed evasioni dall'obbligo scolastico.
Il numero di laureati e diplomati, in Italia, risulta essere inferiore alla media dei Paesi economicamente più sviluppati.
Si lamenta da più parti, infine, un presunto declino della qualità dell'apprendimento.
Il problema di un cambiamento nel mondo della scuola, va detto, non è avvertito soltanto in Italia, ma è al centro di un dibattito politico e culturale in pressoché tutti gli stati più evoluti, USA in testa.
E l'impressione è quella che nessuno abbia soluzioni pronte e infallibili, che nessuno sia sufficientemente sicuro di avere in tasca un modello di scuola e di educazione perfettamente aderente a quelle che sono le esigenze di un mondo in cui le trasformazioni si fanno ogni giorno più incalzanti.
Intanto, molti sono dell'avviso sia necessario da un lato elevare l'obbligo scolastico ai 16-18 anni, dall'altro abbassare l'età in cui lo studente si diploma e si laurea.
Forse, sentito il parere degli psicologi esperti di età evolutiva, sarebbe già possibile anticipare l'ingresso dei bambini nel canonico iter scolastico a 5 anni. Ciò permetterebbe di guadagnare un anno. Il provvedimento sarebbe ampiamente giustificato dal fatto che i bambini di oggi sembrano molto più "evoluti" dei bambini di qualche generazione fa. La televisione, i giornali, gli stimoli culturali molto più vivaci cui vengono esposti, i modelli educativi familiari più orientati all'apprendimento, ne fanno degli infanti che entrano in prima elementare sapendo di frequente già leggere e scrivere e con un bagaglio "culturale" ben più attrezzato di quello dei coetanei di qualche decennio fa.
Il nucleo centrale della questione scolastica verte, tuttavia, sui contenuti da trasmettere. E' qui che si assiste allo scontro più duro fra scuole di pensiero diverse, fra "apocalittici" che vorrebbero un ritorno all'antico con la trasmissione di saperi "forti" e gli integrati che auspicano una scuola "più leggera", aperta a nuovi saperi e ai mutati stili di vita del mondo contemporaneo.
Naturalmente, fra i due opposti, esiste una miriade di posizioni più sfumate.
Personalmente, ritengo che la scuola dovrebbe, per forza di cose, alleggerire i contenuti e rendersi più aperta al nuovo, mantenendo tuttavia un nucleo forte di nozioni e discipline, non immediatamente utilizzabili nel mondo del lavoro, ma necessarie alla formazione culturale dell'individuo.
Secondo me la scuola deve sì preoccuparsi di preparare lo studente a un suo futuro inserimento nel mondo del lavoro, ma non ritengo sia questo il suo compito principale: la sua missione precipua, secondo me, detto anche in termini aziendali, è quella di formare cittadini dotati degli strumenti culturali idonei a capire (ed, eventualmente, criticare) il mondo moderno.
Il completamento della preparazione professionale può benissimo essere trasferita alle aziende stesse, con brevi corsi ad hoc, che si innestino su una acquisita e forte preparazione di base scolastica, o a corsi specialistici post-diploma (o post-laurea).
I programmi scolastici vanno necessariamente sfoltiti; è meglio concentrarsi su pochi concetti, ma approfonditi, che coltivare l'idea di fare dello studente un erudito dalle nozioni enciclopediche.
Va superato il pregiudizio idealistico che la scuola debba fornire contenuti adatti esclusivamente alla classe dirigente e al lavoro cosiddetto intellettuale.
La scuola dovrebbe manifestare una maggiore attenzione per il mondo del lavoro e delle professioni, dovrebbe curare la formazione professionale, quello che una volta era considerato il lavoro manuale, termine ormai obsoleto: nella società postindustriale la quasi totalità dei lavori esige una preparazione teorica e intellettuale e delle nozioni di tutto rispetto. I precedenti, storici, grandi successi dell'Italia nell'artigianato dovrebbero stimolare un orientamento più convinto in questa direzione.
Anche l'idea della scuola-azienda non mi lascia scontento. Stabilire degli obiettivi educativi e formativi precisi, verificare i risultati, mettere le scuole in competizione, dare maggiore potere agli studenti e ai loro genitori, senza arrivare all'eccesso di trasformare lo studente in un tirannico cliente a tutti gli effetti e senza privare l'insegnante dei necessari strumenti che gli permettano di affermare la sua autorità, riconoscere il valore dell'insegnamento, premiare gli insegnanti migliori e dissuadere gli altri dall'assumere comportamenti di disimpegno, mi sembrerebbe un programma di riforma ragionevole.
Inoltre la scuola dovrebbe garantire l'accesso a tutti, anche ai meno abbienti, dovrebbe fornire borse di studio ai più meritevoli, un severo controllo dovrebbe essere esercitato su quegli istituti che rilasciano diplomi "facili", ciò unicamente per rispondere a importantissime questioni di giustizia sociale.
E inoltre, si dovrebbe cambiare la mentalità italiana eccessivamente scuolacentrica, che vede nella scuola l'unica sede in cui imparare e nel "pezzo di carta" un salvacondotto che esonera da qualsiasi sforzo conoscitivo successivo.
Se il mondo del lavoro premierà chi fornisce prestazioni migliori, è giocoforza per gli studenti abituarsi all'idea che la formazione culturale e professionale non termina con l'esaurirsi degli studi scolastici, ma prosegue per tutta la vita in forme del tutto autonome ed estranee alla scuola.
Una formazione davvero permanente.
Ecco perché è così importante insegnare ad apprendere e ad acquisire quella forma mentis che consenta agli individui di reagire positivamente ai cambiamenti costanti in cui ormai siamo tutti immersi.
L'euro
Gli italiani hanno accolto l'euro con sostanziale ottimismo. Qualche perplessità nei consumatori all'interno di negozi e supermercati, qualche coda di troppo negli uffici pubblici e nelle banche, sintomo di alcuni cronici problemi organizzativi, qualche incertezza nelle quattro operazioni aritmetiche fondamentali necessarie per convertire le lire in euro e viceversa, dovute alla mancanza dei necessari automatismi mentali; gli anziani che faticano, come è giusto alla loro età, ad assorbire cambiamenti e a mutare abitudini, ma possiamo dire che ce l'abbiamo fatta, che l'ingresso del nostro paese in Europa è un fatto ormai consolidato, alla faccia di tutti gli scettici e i profeti di sventura.
L'avvento dell'euro sancisce, di fatto, l'unione dell'Europa dei mercanti, dell'economia e del commercio. Su questo fatto sono stati in molti a polemizzare, a scuotere la testa, a considerare troppo deboli le fondamenta su cui l'unione di nazioni così diverse si basa. E' altresì evidente a tutti e sicuramente positivo che gli scambi commerciali traggono, dall'avvento della moneta unica, un beneficio in termini di facilità e sicurezza.
Ma l'introduzione dell'euro va ben al di là, anche nelle intenzioni di chi ne ha preparato l'avvento, dei puri benefici commerciali. Sancisce, di fatto, l'esistenza di una comunità che usa una sola moneta, dove l'enfasi non va posta sul secondo termine, ma sulla costruzione di una comunità forte, autorevole, influente, capace di far sentire la propria voce e i propri interessi nel consesso mondiale, al di là degli interessi particolaristici di ogni singola nazione.
Interessi nazionali, che la Storia ci ha insegnato essere molto pericolosi e che, soltanto nel Novecento, hanno prodotto due guerre mondiali.
Quello che stiamo vivendo non è, dunque, un mero cambiamento economico; si tratta, invece, di un profondo rivolgimento storico, politico, sociale.
L'euro rappresenta un passo significativo nella costituzione di una unità culturale consistente, capace di influire sugli equilibri e sulla pace nel mondo. Era questo valore importantissimo, la pace appunto, che avevano in mente, prioritariamente, i fautori storici dell'Europa Unita.
Noi italiani, abituati nei secoli passati alle dominazioni straniere, abbiamo poi , finalmente, la possibilità di confrontarci in maniera più stretta con paesi molto evoluti, come la Francia, la Germania, i Paesi Scandinavi e adeguare le nostre istituzioni a modelli migliori. I più sarcastici fanno notare che ancora una volta cerchiamo la nostra salvezza in una dominazione straniera. Ma non è propriamente così.
Si tratta, invece, di un'opportunità offertaci, non solo di far sentire la nostra voce in seno a un consesso di assoluta rilevanza mondiale, ma anche di modernizzare il nostro paese, i cui cittadini e le cui imprese sono chiamate a rendere conto ora direttamente ad organismi europei.
L'introduzione di usi, consuetudini, prassi operative, originarie di altre nazioni, ma rispondenti maggiormente alle sfide poste dal mondo contemporaneo e al grado di evoluzione del genere umano, non possono che accelerare il progresso già significativo e vorticoso in atto nella nostra comunità nazionale, con ripercussioni positive sul benessere, il tenore e la qualità di vita di tutti i cittadini che ne fanno parte.
Deriva sicuramente da queste promesse di prosperità, di pace e benessere, il sostanziale entusiasmo con cui l'euro è stato accolto dagli italiani.
La "crisi dei valori"
Inizio affermando che, secondo me, la paventata "crisi dei valori" è una realtà molto più sfumata di quanto si creda.
Mi spiego: parlare di "crisi" significa ammettere che in epoche passate si sia vissuta un'età dell'oro in cui questi valori erano in auge e diffusi universalmente.
Ora, per le poche conoscenze che io ho della Storia, quest'epoca non mi sembra mai esistita.
Sì, forse il Medioevo conosceva una stabilità ed immutabilità di riferimenti etici e religiosi oggi scomparsa, ma la maggior parte della popolazione viveva nell'indigenza, nella sporcizia, nell'ignoranza, nell'assoggettamento all'autorità. L'"individuo" come lo conosciamo oggi nemmeno esisteva.
Ciò naturalmente non significa che io neghi la presenza di problemi, anche gravi, di natura sociale ed etica in seno alla nostra società.
I "mostri" contro cui dobbiamo combattere dentro e fuori di noi ogni giorno, sono, credo, abbastanza conosciuti: l'economicismo, il consumismo, l'egoismo, l'edonismo esibizionista, il prevalere, in genere, della sfera materiale su quella spirituale.
La massa, di cui anch'io faccio parte, si lascia facilmente sedurre dai messaggi televisivi e pubblicitari, dal cinema di facile consumo e di dubbio valore artistico, dalle pubblicazioni dedicate al vasto pubblico, dove i protagonisti sono belli, levigati, sorridenti, possiedono automobili lussuose e gadget elettronici del tutto inutili, vivono in dimore sfarzose, godono di un successo che ha arriso loro senza alcun impegno o fatica, vivono quasi esclusivamente nella dimensione del tempo libero, non hanno nessun tipo di problema serio, adulto e nessuna preoccupazione quotidiana degna di questo nome.
Anche se trovo un po' assurdo demonizzare questo tipo di messaggio, che, seppur caricaturalmente, esprime una parte almeno delle aspirazioni dell'uomo occidentale (soltanto?), credo altresì che la vita reale, anche dei privilegiati, sia tutt'altra cosa.
Nella vita reale ci si ammala, si invecchia, si muore, si lavora, si rischia, si vive ogni genere di affanno.
La rincorsa al successo economico da ottenere senza troppe remore etiche e la vita vissuta all'insegna del divertimento sfrenato portano l'uomo moderno a provare penosi sentimenti di solitudine, di noia, di insicurezza, di vuoto esistenziale, di profondo disorientamento morale.
Questo fatto è paradossalmente acuito, anziché lenito, dalla libertà di cui gode l'uomo contemporaneo, dalla molteplicità di opzioni fra cui è chiamato a scegliere, in assoluta solitudine, senza riferimenti certi, senza guide che non siano il profitto economico e l'interesse personale. Viviamo oltretutto in un epoca di trasformazioni vertiginose, di cambiamenti continui, di complessità crescenti che esigono capacità di risposta non comuni e rischiano di schiacciare l'individuo facendolo sentire ancora più impotente ed insicuro.
Inoltre, negare o almeno comprimere, la parte spirituale dell'uomo, come fa più o meno coscientemente l'Occidente, porta a recrudescenza tutta una serie di mali sociali: la criminalità, il suicidio, la violenza, l'alcolismo, la droga, la cosiddetta "malattia mentale".
In parte questo è il prezzo che si deve pagare al progresso, alla democrazia, alla libertà. Non tutti riescono a sostenere il peso che comporta il dover compiere scelte autonome; e talvolta i più deboli e violenti indulgono a comportamenti devianti, mentre i più sensibili possono cadere vittima di conflitti morali interiori devastanti.
Cosa fare allora?
Intanto riconoscere che, se non il migliore dei mondi possibili, il mondo occidentale è forse il migliore dei mondi realizzati fino ad ora. Vivere nei secoli scorsi deve essere stato molto più difficile, precario e disumano di oggi. La Storia del passato è una storia di violenze, di fame, di epidemie, non dobbiamo nascondercelo.
I valori spirituali, morali ed artistici non sono alla portata di tutti e forse mai lo saranno. Si può sperare in una loro diffusione e già la nostra società ha aumentato il numero di coloro che leggono, provano piacere ad assistere ad un concerto o ad uno spettacolo teatrale, si pongono dei problemi di tipo etico e filosofico.
Ma è una questione di sensibilità e di intelligenza, caratteristiche in parte innate, solo parzialmente modificabili con l'educazione.
Alcune esperienze, la poesia o la musica "classica", per esempio, saranno, secondo me, sempre minoritarie. Persino il piacere della lettura.
Credo non si debba essere eccessivamente severi nel voler distrarre la maggior parte della gente dai loro divertimenti e dalla loro smania consumistica. In fondo, una popolazione di mercanti e flemmatici borghesi, quali noi stiamo diventando, è sempre poco incline alle guerre, desidera la pace e la stabilità e quasi sempre favorisce le arti.
Per contro esistono società fortemente anticonsumistiche e dai valori religiosi "forti", dove la maggior parte della popolazione vive nella miseria, nell'ignoranza, nella paura, nella guerra continua.
La civiltà, nei comportamenti e nelle idee, mi sembra da noi estesa in quantità rassicurante a larga parte della popolazione. Le giovani generazioni sembrano inquietanti, ma da sempre i giovani hanno destato preoccupazioni e sospetti.
E' vero, ci sono problemi di ordine pubblico dovuti all'espansione della criminalità, ma per quelli esistono delle parziali soluzioni tecniche di prevenzione e repressione, un concetto, a mio giudizio, da rimettere a nuovo e riconsiderare. Il fatto stesso che torme di diseredati si riversino fiduciose in Occidente significa che il nostro tipo di civiltà è attualmente insuperato, è considerato quasi un miraggio, una promessa di benessere cui aspirare.
Il capitalismo e le società democratiche e aperte hanno vinto. Le alternative sperimentate si sono rivelate opprimenti e sanguinarie.
Sono perciò fiducioso che noi occidentali sapremo trovare un minimo d'ordine, di equilibrio e di armonia in mezzo al cambiamento materiale e spirituale e alle nuove difficoltà e sfide indotte dalla rivoluzione tecnologica.
La difesa dell'ambiente
Tra le esigenze più sentite dall'uomo contemporaneo c'è quella di vivere in un ambiente salubre ed esteticamente piacevole.
Si tratta di soddisfare i bisogni di sopravvivenza e di conservazione, ma anche di placare il proprio desiderio spirituale di bellezza.
La rivoluzione industriale, se da un lato ha migliorato il tenore di vita di strati sociali altrimenti esclusi dalla fruizione di tutta una serie di beni e servizi, ha dall'altro creato degli squilibri nell'ecosistema globale. E il liberismo sfrenato, da molti auspicato in economia come catalizzatore di sicuro progresso, minaccia di produrre danni ancora più terribili.
Le metropoli, troppo densamente abitate, sono già oggi invivibili; i centri urbani del mondo sviluppato sono soffocati da un traffico ingovernato e folle, dallo smog che impedisce di respirare, dalle esalazioni industriali che a volte minacciano da vicino i cittadini; le acque, spesso usate senza razionalità e rispetto cominciano già a scarseggiare, quando non sono avvelenate da ogni sorta di veleno prodotto dalle lavorazioni industriali e dai consumi domestici o inquinate da microrganismi patogeni, il cui sviluppo è dovuto ad uno sviluppo produttivo non armonioso.
Il disastro ecologico determinato dal cambiamento radicale della produzione e dell'economia, ha determinato come reazione, un movimento di idee critico verso la civiltà industriale. Il filone principale di questa ideologia antindustriale è rappresentato dal marxismo e da tutte le sue ramificazioni ideologiche novecentesche. Il movimento ecologista, che oggi raccoglie in qualche modo l'eredità di questo pensiero critico radicale, ha rinunciato beneficamente a molti massimalismi e fondamentalismi ideologici (e ad altri sarebbe bene rinunciasse) e si è andato invero stemperando in un un movimento variegato, dalle molte anime, ma con un obiettivo comune: garantire all'uomo la vita nell'ecosfera, la più armoniosa e salubre possibile.
Qualsiasi intervento parziale, settoriale, locale sull'ambiente ha, secondo me, scarse probabilità di successo.
Sempre più va profilandosi la necessità di intervenire sul modo di produrre, nell'impedire quelle lavorazioni che, come sottoprodotti generano veleni pericolosi per l'uomo, nel cercare delle fonti di energia il più pulite possibile.
Non si tratta di predicare un'austerità ideologica fine a se stessa; tutti, credo, vogliamo continuare a godere degli agi e delle comodità che il mondo contemporaneo ci offre copiosamente. Si tratta, però, di modulare meglio, in maniera più concertata e razionale, lo sviluppo.
Il ruolo di regolatore deve essere ripreso dallo Stato o da quegli organismi sovranazionali che ne hanno l'autorità. E' necessario che le istituzioni riacquisiscano il loro ruolo, cui troppo frettolosamente avevano abdicato, di arbitri del mercato e della vita economica, con troppa euforia e superficialità lasciati nelle mani della pur necessaria iniziativa, intelligenza e lungimiranza dei singoli.
Lo Stato, o chi per lui, deve fissare delle regole da rispettare e stabilire con chiarezza cosa è lecito e cosa è illecito.
La cosiddetta "mano invisibile", benefica regolatrice di ogni cosa, è ormai un'utopia a cui credono in pochi.
Sull'uomo contemporaneo urgono e incombono, inoltre, le gravi responsabilità nei confronti delle generazioni future.
Superare il narcisismo egotista del massimo piacere e divertimento da realizzare nel presente immediato significa dirigere il nostro pensiero al benessere dei nostri figli e nipoti, consegnare loro, in una ipotetica e ideale staffetta, un pianeta vivibile.
Non solo; significa tutelare il patrimonio urbanistico, architettonico e artistico delle nostre città, così piene di storie e di cultura.
Soddisfare il nostro senso estetico e permettere che le testimonianze più alte delle civiltà che ci hanno preceduto siano accessibile anche alle generazioni future.
Per ottenere questi importanti obiettivi, c'è bisogno si diffonda in maniera sempre più capillare, e massimamente in coloro che amministrano e governano, una sensibilità e una cultura che anziché alla quantità, siano orientate alla qualità.
La condizione giovanile
Essere giovani è stato probabilmente più difficile in passato che ai giorni nostri, almeno dal punto di vista delle condizioni materiali ed economiche.
Oggi lo è senz'altro di più dal punto di vista psicologico ed esistenziale.
La ragione di tale difficoltà risiede principalmente nella parola "libertà". Premesso che considero la libertà il sommo bene per l'uomo, aggiungo che, contrariamente a quanto comunemente si crede, la possibilità di scegliere fra diverse opzioni genera spesso, in molti, ansia o addirittura angoscia.
In altre epoche il destino di ciascuno era in larga parte deciso dalla nascita; i figli continuavano l'attività del padre; non parliamo delle donne, relegate in casa. Cercare di soddisfare i bisogni primari, quelli alimentari in primo luogo, impegnava spesso tutte le energie degli individui. Per le classi inferiori, una vita spirituale poteva essere rudimentalmente sperimentata, suppongo, soltanto all'interno degli indiscutibili dogmi della Chiesa.
Oggi ogni giovane ha davanti a sé, riguardanti il proprio futuro lavorativo, sentimentale, spirituale, sessuale, una quantità di opzioni e di possibilità ignote in passato.
Anzi è la società stessa che esige da lui una completa realizzazione dei propri talenti e delle proprie inclinazioni; un periodo di apprendistato, scolastico, lavorativo, esistenziale, lungo e oneroso.
Dall'altro, l'organizzazione sociale frappone una miriade di ostacoli alla autorealizzazione individuale. Chi è chiamato a scegliere, spesso lo deve fare al buio. Il mercato del lavoro, nella sua mutevolezza, ma anche nelle sue chiusure corporative diventa una sfinge, specialmente per quel giovane che è più privo di mezzi economici. Orientarsi fra le molteplici idee e suggestioni che percorrono la contemporaneità e dare coerenza alla propria vita spesso si rivela un compito immane.
E per onestà bisogna aggiungere che qualsiasi scelta compiuta da un essere umano, per quanto ben ponderata, non può mai definirsi completamente razionale e corretta, perché sono sempre molte le variabili in gioco sconosciute, come ci ha insegnato il premio Nobel per l'economia Simon.
Non deve sorprendere, quindi, se spesso si assiste a quella che Fromm ha chiamato "fuga dalla libertà". Il giovane, avvertendo l'ansia della scelta come intollerabile, può consegnarsi ai paradisi artificiali della droga, può rifugiarsi nell'esistenza gregaria di un lavoro sicuro e poco impegnativo, può sottomettersi alle scelte che altri hanno fatto per lui, può abbandonarsi a comportamenti devianti.
Spesso, inoltre, le scelte fondamentali che un giovane deve fare e che riguardano tutto il suo futuro, vanno compiute in un'età acerba, priva di quella conoscenza degli uomini e della vita, che solo l'esperienza può portare. Scelte fondamentali fatte poi in perfetta solitudine, senza che nessuno venga in aiuto in modo adeguato.
Sono poi gli anni giovanili, quelli delle prime esperienze sessuali, dei primi smacchi amorosi e qualunque esperienza negativa in questa delicata ed intima sfera non è da sottovalutare per i contraccolpi che può avere sull'equilibrio psico-emotivo.
I giovani si trovano così spesso ad esperire severe crisi d'identità, rafforzate dal fatto che la società li considera maturi come consumatori, la pubblicità li blandisce, ma come soggetti sono costretti per lunghi anni alla dipendenza economica dai genitori.
"Avevo vent'anni. Non permetterò mai a nessuno di dire che questa è l'età più bella", scriverà profeticamente Paul Nizan in "Aden Arabia".
Elencare dei rimedi concreti, praticabili, è sempre compito difficile. La condizione giovanile è intrinsecamente difficile. Diventare adulti è da tempo uno dei compiti più ardui che sia dato all'essere umano.
Qualcuno ha proposto di ascoltarli di più questi giovani. Ma l'ascolto presuppone cultura da parte di chi ascolta, condizione che non sempre si verifica. Almeno dalla scuola un maggiore impegno in questo senso è però lecito aspettarselo.
E poi sono necessarie riforme, come quella scolastica, che creino accessi facilitati al mondo del lavoro, che offrano percorsi formativi differenziati, "personalizzati" mi verrebbe da aggiungere. Inoltre sarebbe bene incentivare iniziative che portino all'autonomia economica la più precoce possibile. Che so, periodi di studio alternati al lavoro, borse di studio, prestiti o quant'altro un competente economista riesca a proporre.
Il mondo produttivo dovrebbe divenire più flessibile, l'occupazione andrebbe promossa con ogni sforzo.
Infine la scuola, i media, le associazioni dovrebbero produrre un'offerta di cultura che avvicini il giovane alla lettura, allo studio dei classici antichi e moderni.
A mio giudizio, infatti, l'alta cultura può essere in molti casi il più potente antidoto alle sofferenze e ai disagi psicologici ed esistenziali
Gli anziani
E' sempre la solita ripetuta affermazione, non per questo meno vera: il progresso tecnologico e materiale delle società "affluenti" non è andato, in tutti i gli ambiti vitali, di pari passo con il progresso morale. Ne è un esempio la condizione degli anziani, che la vita quotidiana dei paesi industrialmente più sviluppati tende a collocare ai margini.
A mio avviso, il problema degli anziani è il più misconosciuto e il più urgente da risolvere dei giorni nostri, è la violenza più artatamente nascosta dalla nostra società, è lo scheletro nei nostri armadi, la menzogna su cui prosperiamo.
Succede che un tipo di società che dà valore alla produttività, alla velocità, alla giovinezza, all'efficienza, al consumo vistoso e immediato, all'individualismo competitivo ed esasperato, al cambiamento costante di gusti e opinioni non può che tendere ad escludere, in modi a volte subdoli e sottili, chi non riesce ad adeguarsi ai valori dominanti.
A parte pochi privilegiati, per reddito, cultura e salute, che occupano un ruolo preminente nella scala sociale, a volte persino eccessivo (occorre guardarsi anche dai pericoli delle gerontocrazie), la maggior parte degli anziani vive una penosa condizione di invisibilità, di mancanza di potere, di emarginazione.
Gli anziani sono lenti nei movimenti, mal si adattano ai vorticosi cambiamenti del mondo del lavoro e alla filosofia produttivistica delle aziende, hanno perso flessibilità, sono spesso rigidi nelle loro opinioni e atteggiamenti, sono a volte persino portatori di preconcetti difficilmente difendibili, rappresentano valori sconfitti dall'attualità, testimoni noiosi e ripetitivi di un mondo agli albori della tecnologia, spesso minati da penose malattie, insufficienze, incapacità, che ci costringono, tutti, a misurarci con i nostri limiti e la nostra fragile condizione di uomini.
Ma quello che ancora più addolora è l'esclusione dell'anziano all'interno della famiglia stessa; il vecchio che vive al suo interno è poco adatto ai ritmi convulsi e alla ideologia consumistica, e spesso è d'intralcio alla filosofia del massimo divertimento da realizzare oggi, subito.
E' un dato di fatto: le generazioni non si parlano più, condividono fra loro sempre meno valori. Noi giovani restiamo indefinitamente figli che tutto chiedono e niente danno, cui tutto è dovuto, senza alcuna gratitudine né compassione per chi ha contribuito alla condizione di cui godiamo.
Non deve stupire se gli anziani vengono fiduciosamente affidati a quei moderni "lager" che sono talvolta (spesso?) gli ospizi, le case di riposo, spesso terrificanti già nell'architettura finto razionalista, istituzionalizzati, dimenticati, sopraffatti da organizzazioni indifferenti, avide e violente, senza diritti, abbandonati consapevolmente persino dallo Stato che infatti non esercita quasi mai il suo potere di controllo.
Oppure quelli che possono, vivono da soli in modesti locali, semiabbandonati da figli e parenti alla loro sorte, e tutti i giorni si legge sul giornale di un anziano che viene trovato morto dopo giorni, già in stato di decomposizione. Una morte senza aiuto e senza conforto, solitaria, come la loro condizione.
Rimedi definitivi, ricette infallibili e miracolose forse non ce ne sono. L'uomo deve misurarsi, dicono i buddisti, con tre condizioni pressochè invincibili: malattia, vecchiaia e morte.
Ma detto questo, anzi proprio a causa di questo, molte cose rimangono da fare per migliorare la condizione dei vecchi, per ridare maggiore dignità alle loro esistenze, per lottare contro la disumanizzazione oggi prevalente. Intanto, proprio il destino umano comune, deve spingere i sani e gli attivi all'impegno della solidarietà. Dobbiamo riconoscere nell'altro ammalato, bisognoso, solo, vecchio la parte rimossa di noi stessi, quella che l'ossessivo attivismo quotidiano tende a tenerci celata.
Inoltre bisogna migliorare e personalizzare l'offerta di servizi e opportunità, bisogna razionalizzare gli interventi socio-sanitari, smettendola però di ridurre al lumicino le già insufficienti risorse destinate all'assistenza e alla sanità.
Occorre modificare le nostre concezioni urbanistiche e architettoniche, per rendere le città, le tipologie abitative, le case più conformi alle necessità della popolazione anziana: penoso è per esempio vedere oggi un vecchio attraversare la strada, o coabitare in famiglia in spazi abitativi insufficienti, che finiscono per rendere difficile a tutti la convivenza.
Occorrono pensioni più adeguate, che permettano agli anziani una più sicura autonomia economica, bisogna incentivare e premiare concretamente, economicamente chi si prende cura dei vecchi. Bisogna ripensare soprattutto la nostra organizzazione di vita occidentale, la nostra filosofia falsamente vincente, quando l'automazione tende sempre più a liberarci dal tempo di lavoro e quando questo tempo potrebbe essere proficuamente impiegato nel migliorare la qualità della vita dei soggetti più deboli e bisognosi
La bontà
La bontà sembra un valore assai trascurato nei rapporti che viviamo quotidianamente. Tutta la vita economica e i rapporti personali che ne sono sovente il riflesso, sono improntati alla competizione, all'aggressività, al superare gli antagonisti.
Le altre persone con cui intratteniamo scambi giornalieri, finiamo col percepirli talvolta come avversari da distruggere.
Si tratta del "Mors tua, vita mea" dei latini, della darwiniana lotta per la sopravvivenza. Di qui alla legge della giungla, si sa, il passo è breve.
In Italia si è persino creato un brutto neologismo, "buonismo", per screditare coloro che manifestano una qualche forma di solidarietà verso i più deboli e viceversa per giustificare ogni sorta di nefandezze perpetrate dai più forti.
Vediamo i nostri simili sempre più impegnati a desiderare con voracità il potere, la ricchezza, il successo, da ottenere in qualsiasi modo; il fine, si dice, giustifica i mezzi.
I dirigenti delle grandi aziende, ma qualche volta anche i quadri intermedi, vengono scelti per la loro capacità di comandare, che troppo spesso non è altro che un agire senza soverchi scrupoli, spremere i sottoposti, prevaricare in nome del profitto. E' spesso considerato come "bravo manager" colui che valorizza la propria azienda licenziando i dipendenti; a questo processo viene dato il nome di ristrutturazione aziendale o qualche nome inglese in apparenza neutro, scientifico, ma le conseguenze umane sono comunque quelle spiacevoli dell'insicurezza economica e talvolta della povertà.
Eppure all'interno della nostra coscienza avvertiamo che questo modo di vivere è sbagliato, ci crea disagio e sofferenza; finiamo così col ribellarci in modo salutare, anche se soltanto in maniera del tutto interiore, a questo stato di cose. Sentiamo che, portato alle estreme conseguenze, questo nostro stile di vita è disumano, inautentico, faticoso.
Una parte di noi, io credo consistente, aspira alla bontà, alla gentilezza, alla cortesia. Vuole un mondo più amorevole, vuole più dolcezza, più buon cuore, più generosità, più giustizia. Poter essere d'aiuto agli altri e poter chiedere aiuto quando ne ha bisogno. Fare finalmente qualcosa contro il proprio intessesse immediato.
Per esempio, almeno in un periodo dell'anno, a Natale, ci proponiamo di essere tutti più buoni. Secondo me non si tratta soltanto di un rituale ipocrita. Rappresenta il riconoscimento, certo parziale e contraddittorio, che la bontà è una nostra esigenza, che è forse iscritta nei nostri geni.
Vediamo allora persone, solitamente avare di sé e del proprio denaro, non accontentarsi di celebrare un Natale consumistico, ma fare beneficenza, aiutare i bisognosi, dedicare un po' del proprio tempo libero al benessere degli altri.
Ma la bontà non può essere un passatempo natalizio.
Ci sono persone che si dedicano con slancio e generosità agli altri durante tutto l'anno.
Sono coloro che, in silenzio e quasi in punta di piedi, si fanno carico di assistere volontariamente le persone malate, le vanno a trovare in ospedale, recano loro conforto, cercano di rendere la loro sofferenza più dolce e sopportabile. Coloro che si dedicano con slancio all'aiuto e al recupero di giovani disadattati, di ragazze fuorviate e sfruttate, di persone in difficoltà economica, o semplicemente disorientate, in crisi, di alcolisti o "drogati", di carcerati o disabili.
Un'amica di mia madre, per esempio, ha rinunciato quest'anno ai regali di Natale, per devolvere il denaro, che avrebbe speso in articoli del tutto superflui, per aiutare una conoscente, che la morte del giovane marito ha ridotto in ristrettezze economiche.
Non solo: ha consegnato all'amica anche i soldi guadagnati con le proprie ore di lavoro straordinario.
La nostra coscienza si sta talmente raffinando inoltre, che non tolleriamo, finalmente, nemmeno le sofferenze imposte ad esseri viventi appartenenti a specie diverse dalla nostra, agli animali e persino alle piante.
Il cane, il gatto e il canarino di casa, il pesciolino nell'acquario sono diventati nella vita i nostri inseparabili e familiari compagni di viaggio, ma anche quegli animali non domestici, spesso destinati al macello per fini alimentari li percepiamo come dotati di una qualche forma, spesso complessa, di intelligenza e sensibilità.
Non tolleriamo che vengano maltrattati, torturati, che vengano loro inferte sofferenze evitabili. Ci sentiamo solidali con loro.
Ed ecco che ci sono persone che, a proprie spese, curano gli animali randagi o feriti e dedicano parte del proprio tempo alle associazioni che li difendono.
C'è pure chi, nel proprio lavoro, qualunque sia, va oltre il proprio dovere professionale e cerca di aiutare sinceramente il prossimo negli uffici, nella scuola, negli ospedali. Si tratta di una forma silenziosa, inapparente, di bontà e proprio per questo suo anonimato, di una delle forme più preziose.
Insomma, a dispetto delle guerre, degli attentati, degli assassini, dei crimini, di cui stampa e televisione ci rendono sconsolati testimoni, la bontà non ha segnato il passo, anzi sembra conoscere un suo momento di ritrovata popolarità.
Non a caso Norberto Bobbio, un filosofo e un pensatore che tutta l'Italia ammira, ha dedicato un suo profondo saggio alla mitezza. E lo scrittore inglese Nick Hornby, molto amato dalle giovani generazioni, ha intitolato un suo recente romanzo : "Come diventare buoni".
Siamo giunti finalmente alla consapevolezza che aiutare chi è rimasto indietro non è un cedere una parte di se stessi, un impoverirsi, ma un arricchimento necessario.
"Ama il prossimo tuo come te stesso" è il precetto fondamentale della nostra religione e il fondamento insuperato della nostra civiltà .
E poi, al di là delle sempre possibili ingratitudini, talvolta succede il miracolo e chi aiutiamo è in grado di donarci la parte migliore, più umana, di se stesso.
La scienza e la tecnica
Tra le caratteristiche puculiari della vivacissima civiltà occidentale c'è senz'altro lo sviluppo della scienza e della tecnica. Senza addentrarci in complicati excursus storici e filosofici, possiamo rilevare come, negli ultimi secoli, la scienza e la tecnica abbiano proceduto di conserto e abbiano inciso profondamente sull'economia, catalizzando quella che è nota come rivoluzione industriale, l'evento che più di ogni altro ha determinato il cambiamento epocale che stiamo ancora vivendo.
Nonostante questa affermazione clamorosa, scienza e tecnica rimangono relegate nella categoria dell'utile, oltre che sottoposte ad una critica serrata da parte di filosofi, sociologi, opinionisti, persone di cultura.
Ancora nel nostro secolo, ai giorni nostri, la vera cultura non è considerata quella scientifica, guardata con sufficienza, ma quella umanistica.
Le librerie pullulano di narrativa, mentre scarseggiano i testi scientifici seri. Le riviste scientifiche di qualità destinate ad un pubblico numeroso, almeno in Italia, scarseggiano.
Che ciò abbia conseguenze negative sulla vita quotidiana di ciascuno di noi è facilmente dimostrabile.
Lasciamo perdere l'imbarazzo che molte persone anche di cultura elevata sperimentano nel maneggiare un computer, uno stereo, un fax o un qualsiasi congegno incorpori un consistente sapere tecnico, ma la ricerca, per esempio, in Italia langue, priva com'è di un adeguato sostegno finanziario; le questioni tecnico-scientifiche vengono spesso trascurate, perché, in fondo, considerate irrilevanti e secondarie, determinando pericolosi ritardi e approssimazioni.
Mi vengono in mente le calamità e i disastri di ogni tipo, affrontati talvolta con colpevole indugio e senza un'adeguata opera di prevenzione.
Eppure, se godiamo di un benessere economico ormai consolidato, lo dobbiamo principalmente alla diffusione e all'impiego della scienza e della tecnica, che hanno permesso di incrementare la produzione di beni, di rendere confortevole la vita di ogni giorno, di incrementare le nostre possibilità di viaggiare, di conoscere, di divertirci.
Alcuni filosofi, principalmente quelli facenti capo alla Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, Marcuse, Fromm ecc.), che considerevole seguito hanno avuto e continuano ad avere in Italia, vedono nella scienza, nella tecnica e nell'industria, nel tipo di intelligenza strumentale che esse richiedono, un pericolo per l'umanità, un pericolo di guerre, distruzioni, asservimento degli individui. Pur non negando il fascino di questi pensatori e la necessità, ormai divenuto un nostro habitus mentale, di mantenere vivo lo spirito critico, dobbiamo riconoscere che, al contrario, proprio in quei paesi dove scienza e tecnica hanno raggiunto uno sviluppo maturo, larghe fasce della popolazione godono di un benessere mai conosciuto prima, superiore persino al tenore di vita delle aristocrazie dei secoli passati.
Un'altra obiezione è quella di affermare che la scienza è arida e difficile. E non sarò certo io a negarlo, che davanti ad volume di matematica vengo preso dai sudori freddi. Ma forse è difficile, perché non ci si prende la briga di insegnarla con mezzi adeguati, perché manca una consistente opera di divulgazione, perché non si spiega che un teorema matematico o un esperimento scientifico possiedono una bellezza non inferiore a quella di un capolavoro di Raffaello o un romanzo di Tolstoj.
Si dovrebbe diffondere l'idea di gioco e di avventura che presiede al lavoro scientifico. Nei resoconti degli scienziati, quando si raccontano in qualche libro o in qualche intervista, non è mai assente la passione, la meraviglia, l'entusiasmo per aver raggiunto risultati rilevanti nella propria disciplina, per aver compiuto una scoperta significativa, per essere venuti a capo di un enigma.
Si dovrebbe dare maggior risalto e popolarità allo scienziato, spesso trascurato dai media. Si dovrebbe, infine, pagarli di più e meglio, questi artefici della scienza e del progresso.
Un progresso che dà a volte l'impressione di essere eccessivamente tumultuoso e incalzante. Le nuove scoperte scientifiche e le loro applicazioni pratiche aprono nuove frontiere che a volte inquietano il cittadino comune. Trapianti, cibi transgenici, clonazione sono parole che aprono nuove prospettive, ma inducono anche angoscia in ciascuno di noi. Ma la modernità è questa, fatta di sfide continue, da affrontare con fiducia, sapendo di poter contare sul lumicino della razionalità. E soprattutto, da affrontare informati. Ecco, una cultura scientifica non è necessaria soltanto per partecipare da protagonisti al progresso della propria comunità, ma anche per orientarsi in un mondo in continuo divenire.
I mass-media

Se c'è un fenomeno che caratterizza la nostra epoca è il bombardamento vertiginoso di informazioni cui siamo quotidianamente sottoposti, destinato con gli anni ad aumentare ulteriormente.
Secondo me, ciò va interpretato favorevolmente: il cervello umano, per svilupparsi e per mantenersi in perfetta forma, agile e flessibile, ha bisogno di stimoli, il più variati possibile.
Ed è ciò che ci consente la fruizione diffusa di quotidiani, libri, riviste, pubblicazioni di vario genere, ma anche cd, cd-rom, film, audio e videocassette, televisione e per ultimo, ma non ultimo per importanza, il computer e la "rete delle reti": Internet.
Mai come oggi è consentito alle masse di appagare la loro sete di conoscenza, mai come ora è a disposizione di tutti la possibilità di completare in autonomia la propria formazione culturale e professionale, soddisfare le proprie curiosità, usare il tempo libero in modo creativo e gratificante, partecipare "da vicino" e "in diretta" agli avvenimenti internazionali.
Certo esiste anche chi critica questo stato di cose, chi depreca che mai come oggi le masse siano narcotizzate da programmi televisivi che mirano allo stordimento e da pubblicazioni che incitano al conformismo consumista.
Spesso poi la pletora di informazioni, talvolta contraddittorie, e le immagini violente che arrivano nelle nostre case finiscono per disorientarci, per angosciarci, per destabilizzarci a causa di quella che è definita "ansia da informazione".
Sono critiche di cui è lecito tener conto.
E' vero: molti di noi hanno smarrito la preziosa capacità dell'introspezione, di fermarsi a riflettere in silenzio, di ascoltarsi, di formarsi un giudizio nella quiete di un'attenta meditazione personale; forse molti hanno abdicato per sempre al proprio spirito critico e abbracciano le idee professate di volta in volta dall'opinion-maker di turno.
Personalmente tendo a dubitare che in epoche storiche passate l'indipendenza e sicurezza di giudizio fossero qualità diffuse a vari strati della popolazione. Probabilmente soltanto un'elite di aristocratici o di studiosi era in grado di farsi un'idea precisa delle cose e del mondo.
Ciò non toglie che hanno perfettamente ragione coloro che, per esempio, sostengono che la televisione, almeno quella pubblica, dovrebbe proporre spettacoli più educativi, dovrebbe stimolare il pubblico alla visione di programmi che sollecitino la riflessione attiva.
Senza parlare del cinema che spesso produce film di una comicità becera e inconcludente.
Ma più che una mano occulta, più che un complotto delle multinazionali a danno dei cittadini, dietro questi spettacoli e il loro successo stanno i gusti del pubblico, che sono spesso diversi da quelli ipotizzati dagli intellettuali, che prendono probabilmente se stessi a modello.
Trovo profondamente sbagliato riferirsi ad uno spettatore tipo che non esiste, idealizzare gli uomini, che sono quelli che sono e spesso preferiscono la partita di calcio ad un dramma di Shakespeare, Panariello a Pirandello.
Dobbiamo imparare a convivere con i chiaroscuri che riguardano le umane vicende e abbandonare talvolta le belle illusioni prodotte dal cielo delle utopie.
L'importante è che l'offerta "culturale" arrivi a tutti secondo le loro necessità e i loro desideri.
L'industria culturale che produce i quiz un po' "scemotti" è quella stessa che consente di leggere i capolavori della letteratura mondiale a poco prezzo, quella che mette alla portata del nostro portafoglio la musica classica o il cinema di autore.
Pur con tutti i limiti e le critiche possibili, la nostra epoca mette a disposizione una vasta gamma di opportunità da cui scegliere.
La diffusione del computer e di Internet rappresenta un po' la sintesi della situazione contemporanea.
Il computer permea ormai le nostre vite, è strumento di divertimento e di lavoro, di studio e di gioco. Il suo funzionamento, preciso, matematico, ha finito per influenzare il nostro modo stesso di ragionare e di giudicare.
Per quanto riguarda Internet, è un mezzo che stimola l'interattività e la partecipazione attiva e, se è vero che i siti di maggior successo sono spesso quelli "stupidotti" sulle barzellette o quelli erotici, ciò non toglie che siano a portata di clic siti di biblioteche, università, quotidiani autorevoli, enti umanitari, ecc.
Ciascuno è libero di scegliere secondo le proprie inclinazioni, il proprio sviluppo emotivo e culturale, la propria storia personale, il proprio senso di responsabilità.
La nostra sarà anche un'epoca di declino e di crisi, ma a mio giudizio ricca di opportunità per tutti.
La sanità
La percezione che hanno i cittadini della sanità italiana è probabilmente quella di un servizio che non funziona con la dovuta efficienza. Da nessuna altra parte del mondo, probabilmente, esiste il corrispettivo di quel brutto neologismo che da noi, in Italia, risponde a "malasanità".
Spesso questo giudizio parzialmente negativo si basa su esperienze personali di disservizi, che, quando riguardano una sfera così importante e delicata come quella della salute, vengono avvertiti in maniera particolarmente acuta.
A mio avviso, tuttavia, il motivo principale per cui il servizio sanitario viene avvertito come inadeguato, non sono i reali malfunzionamenti, quanto l'immagine che ne trasmettono quotidianamente i media.
Sempre alla ricerca di eventi sensazionali e di vicende commoventi, che, facendo scalpore, incrementino il pubblico di fruitori, carta stampata e televisione si concentrano su tutti quegli eventi negativi capaci di attirare l'attenzione dell'opinione pubblica, trascurando quanto di buono e di efficace ogni giorno viene fatto negli ospedali e nei servizi sanitari territoriali.
Altre volte si ha l'impressione che dietro alcune feroci campagne allarmistiche si agitino interessi economici e politici, particolarmente vivaci nel settore sanitario, dove le cifre si aggirano sulle migliaia di miliardi di vecchie lire.
Non si tratta, sia chiaro, di negare la presenza, in campo sanitario, di disservizi e inefficienze. E nemmeno di negare che decenni di lassismo, indotto principalmente da un'eccessiva infiltrazione della politica nella conduzione tecnica dei servizi sanitari, abbiano prodotto dei guasti.
La sanità italiana probabilmente non è organizzata secondo criteri manageriali aggiornati. Ci sono con ogni probabilità sprechi e disattenzioni; viene trascurata spesso una cultura del "servizio", che ponga il paziente, il cittadino ammalato, al centro del processo di cura, facendo prevalere invece, in molte occasioni almeno, interessi corporativi intollerabili.
Le strutture stesse sono forse vecchie, obsolete; gli ospedali e gli edifici adibiti alla diagnosi e alla cura in genere, sono spesso di concezione superata, oltre a non essere sottoposti alla dovuta e periodica manutenzione.
A questa rappresentazione un po' fosca della realtà sanitaria nazionale, si debbono opporre tuttavia altri dati che la contraddicono.
Credibili studi internazionali pongono il nostro servizio sanitario ai vertici mondiali per efficacia e soprattutto per capacità di raggiungere l'intera popolazione, cosa che non si verifica per realtà tecnologicamente molto avanzate come gli Stati Uniti, dove molte persone sono di fatto escluse, a causa del basso reddito, dalle prestazioni sanitarie.
C'è il luogo comune che vuole il nostro Paese una nazione di vecchi. Ed è indubbio che gli italiani siano uno dei popoli più longevi della Terra. Sarebbe difficile negare che l'incremento della vita media non sia, almeno in parte da ascrivere all'intervento terapeutico e assistenziale.
Il personale, quello di cui spesso lamentiamo la mancanza di preparazione e umanità, medici, infermieri e tecnici, è invece tra i più scolarizzati paragonato a quello di altri settori economicamente rilevanti.
Ci sono, negli ospedali italiani, punte di eccellenza, che godono della stima e del riconoscimento internazionale. Scienziati e professionisti che tutto il mondo ci invidia. E oscuri operatori che svolgono, in silenzio e con dignità, il proprio compito quotidiano
Molti settori della medicina ipertecnologica, come la chirurgia dei trapianti d'organo, stanno vivendo nel nostro Paese un momento di rapida ed entusiasmante evoluzione.
La gestione dei servizi stessa sta rapidamente mutando e divenendo sempre più "scientifica".
Inoltre sempre più soggetti intervengono nella verifica della qualità delle prestazioni sanitarie, garantendo un benefico controllo capillare: associazioni di cittadini e consumatori, associazioni di volontariato, singoli cittadini che non sono disposti a tollerare vessazioni.
Probabilmente il futuro ci riserverà una maggiore compresenza di pubblico e privato, che, agendo concorrenzialmente, ma in sinergia, dovrebbero garantire servizi più efficienti.
Il pericolo è che un'eccessiva privatizzazione crei degli squilibri e tagli fuori di fatto una parte della popolazione dalle prestazioni sanitarie. Molte nazioni che hanno una sanità in prevalenza privata stanno avendo dei ripensamenti.
Se ne deve dedurre che il liberismo più radicale, in materia di salute, ha effetti disastrosi, che profitto e benessere fisico e psichico dei cittadini, non sempre vanno d'accordo.
Probabilmente lo Stato e le Regioni continueranno a svolgere un ruolo regolatore anche in futuro, un futuro che in campo sanitario mi vede fiducioso.
La globalizzazione

Viviamo in un mondo in cui l'economia agisce a livello planetario. La chiamano globalizzazione.
Se si tratti di un fenomeno nuovo e quali siano le sue precise caratteristiche, restano questioni aperte.
Di fatto, le economie mondiali sembrano interconnesse, i mercati borsistici strettamente collegati, le aziende, non solo quelle multinazionali, ma anche le medie e le piccole aziende, sono in grado di dislocare la produzione fuori dai confini nazionali, laddove è più conveniente.
Tutto il mondo, almeno i paesi occidentali, ma anche gran parte degli altri paesi sparsi nei cinque continenti, consuma gli stessi prodotti, vede gli stessi film, legge i medesimi romanzi, beve Coca-Cola e pasteggia da Mc-Donald's, sfoglia giornali assemblati tecnicamente e ideologicamente allo stesso modo, si connette alla Grande Rete mondiale, Internet.
Tutto è strettamente collegato, per cui si può tranquillamente dire che un battito d'ali di farfalla a New York produce conseguenze concrete e spesso imprevedibili in tutto il mondo. Sì, perché sono gli Stati Uniti la realtà guida, egemone, della globalizzazione. Il modello da imitare universalmente
Gli stati nazionali sembrano ormai segnare il passo, realtà obsolete, ferrivecchi inidonei a garantire la libera e veloce circolazione di beni, servizi, idee, fautori di potenziali pericolosi sciovinismi, capaci di minare la pace, quella pace così necessaria all'intero ciclo economico, la pace così cara ai mercanti di ogni tempo.
Persino i gloriosi stati europei, ricchi di una forte identità storica, hanno recentemente portato a termine un'unione che non è soltanto economica, bensì politica e amministrativa.
Ma la globalizzazione, dunque, è un bene o un male? Rappresenta la promessa di maggiore libertà e benessere per i cittadini di tutto il mondo, o costituisce un pericolo, perché favorisce l'omogeneizzazione culturale, l'omologazione consumista, la fine delle particolarità culturali, dell'identità dei popoli e della ricchezza delle tradizioni locali?
I critici della globalizzazione sostengono che si tratta di un concetto inventato dal potere economico, propagandato e venduto come un dentifricio, per contrabbandare un nuovo e più feroce colonialismo, il dominio incontrastato delle multinazionali, l'oppressione "scientifica" dei poveri del mondo e persino delle classi medie della società affluente.
Movimenti, non sempre omogenei ideologicamente e culturalmente, sono balzati all'attenzione della cronaca per la violenta contestazione del nuovo ordine mondiale. Alcune città, fra cui Genova, sono state letteralmente messe a ferro e fuoco dalla furia devastatrice dei cosiddetti black-block.
Alcuni intellettuali stanno mettendo in dubbio, nei loro libri, l'utilità e i benefici della globalizzazione.
L'orribile attacco dell'11 settembre alle Twin Towers è stato letto come un tentativo di dare una spallata alla globalizzazione.
Le informazioni di cui dispone il cittadino comune, il fantomatico "uomo della strada", per farsi un'idea attendibile del fenomeno sono caotiche e contraddittorie.
E forse non può essere che così.
La globalizzazione è ancora un fenomeno troppo nuovo, un'escrescenza dell'attualità, non un fatto storico decantato e ben analizzato, sul quale stilare giudizi e riflessioni attendibili e meditati.
La globalizzazione la stiamo vivendo, ma non comprendendo appieno.
L'idea che me ne sono fatta io, è che non è tutto oro quello che luce.
Il divario fra ricchi e poveri si sta ampliando e questo non è bene.
Ampi strati della popolazione, persino nel ricco Occidente, conducono una vita sempre più precaria, alla mercé della variabilità del mercato.
In queste condizioni si impedisce però alle persone di sperare, di progettare il futuro, per sé e per i propri figli.
L'insicurezza e l'incertezza totale, elevate a sistema di vita possono portare alla disgregazione individuale, familiare, sociale.
Non si può pretendere da un individuo che cambi lavoro una decina di volte nell'arco della vita, come qualcuno fanaticamente va ipotizzando.
La flessibilità delle persone non è illimitata.
E' altresì vero che la pletora di beni e servizi, che ci vengono quotidianamente offerti a prezzi più convenienti è un beneficio e che la globalizzazione rappresenta probabilmente un processo irreversibile di modernizzazione, il compimento di un cammino culturale che ha visto sempre più filosofi e intellettuali pensare in modo "globale", "totale", "universale" (le grandi religioni, in primo luogo quella cristiana, l'illuminismo, il marxismo...).
La globalizzazione potrebbe essere, dunque, una categoria insita nel modo di pensare occidentale.
Si tratta di trovare correttivi, equilibri. L'economia deve rimanere un mezzo. Il fine è l'uomo.
Bisogna evitare assolutamente che una nuova utopia progressiva si trasformi nell'ennesimo inferno sulla terra.
L'eutanasia
Dopo che soltanto pochi mesi fa il parlamento olandese ha autorizzato l'eutanasia, giunge in questi giorni la drammatica notizia dagli Stati Uniti del caso Terri Schiavo, la giovane donna da anni in stato vegetativo persistente, per la quale, dietro la richiesta del marito, l'autorità giudiziaria ha disposto la sospensione dell'alimentazione artificiale; in pratica una sentenza di condanna alla morte biologica definitiva e irrevocabile.
Si tratta di notizie che scuotono profondamente la nostra educazione di forte matrice cristiana, - duemila anni di storia, in un Paese che ospita il Papa conteranno pure qualcosa nello sviluppo delle coscienze -, una cultura, la nostra, tesa fino qualche anno fa a difendere strenuamente i valori della sopravvivenza e di una concezione della medicina come disciplina impegnata in una lotta a oltranza contro la morte.
Inutile aggiungere che da noi il dibattito intorno alla buona "buona morte" e alla legittimità di sospendere in casi particolari le cure mediche si è particolarmente acceso, radicalizzando vieppiù le posizioni dei favorevoli e dei contrari.
Personalmente, credo si tratti di un problema bioetico di notevole complessità, poco adatto ai ferrei e irrinunciabili convincimenti e che dia adito, invece, sempre secondo la mia modesta opinione, a dubbi personali, ripensamenti, perplessità.
Da un lato, la nostra coscienza di individui moderni, laici e illuministi, sensibili in sommo grado ai diritti umani, ci porta a pensare che siamo legittimi proprietari della nostra vita, liberi di condurla come ci piace e perciò anche di interromperla quando l'esistenza ci appare troppo dolorosa o priva di significato.
Dall'altro, la nostra anima cristiana, cattolica, romantica, che sopravvive persino in quest'epoca di sbadata secolarizzazione, magari in forma larvata e inconscia, ma vigorosa, ci avverte che la sfera del razionale non spiega tutto, che la vita umana possiede un valore incommensurabile che nessun dolore può scalfire e un'aura misteriosa, ineffabile, sacra, di cui magari ci sfugge pienamente il senso, soltanto oscuramente intuito.
In alcuni momenti ci scopriamo a pensare, insomma, che non possiamo escludere l'esistenza di un Dio cui dobbiamo rendere conto e a cui dobbiamo la vita. Sentiamo il suicidio (e l'eutanasia è una forma di suicidio) o la soppressione di un altro essere vivente, in condizioni critiche e pur rispettando tutte le cautele del caso, come peccato.
Conciliare e armonizzare questi due poli dialettici all'interno della nostra coscienza non è compito facile. Spesso la sintesi e l'equilibrio raggiunti sono provvisori e soggetti a ripensamenti.
Il dolore e la morte, poi, sono temi con cui l'uomo contemporaneo non ama intrattenersi e preferisce rimuovere ed esorcizzare, stordendosi nell'attivismo e nel divertimento.
Paradossalmente ciò rende il nostro approccio a queste esperienze rudimentale e immaturo.
Ripetute ricerche confermano, ad esempio, che i medici, in Italia in particolare, tendono a trattare il dolore fisico dovuto alle malattie in maniera inadeguata, irrazionale, "sottodosata".
Altri studi sottolineano come l'esperienza della morte, sempre più spesso relegata nell'indifferenza di una corsia di ospedale, non sia mai stata così negata, respinta, impoverita come nelle moderne società affluenti.
Ecco, forse essere a favore dell'eutanasia, della "buona morte", nella sua forma positiva significa oggi principalmente ridare significato e dignità ad esperienze come il dolore, la morte, la solidarietà fra gli uomini.
Significa farsi responsabile carico dei problemi generati dalla sofferenza dei malati terminali di cancro o di qualche altra grave patologia, di chi è costretto a condurre un'esistenza ai limiti dell'umano.
Ma i distinguo da operare sono tanti e difficilissimo è generalizzare. Gli abusi poi, sono sempre dietro l'angolo. La coscienza di familiari, medici e operatori sanitari non è sempre adeguatamente sviluppata. Gli interessi economici poi premono da ogni parte e, oggigiorno, si sa che l'onere della spesa sanitaria è giudicato insostenibile e l'assistenza a lungo termine ai malati tenuti in vita dalle prodigiose e recenti tecniche rianimatorie comporta un onere spaventoso intermini di costi, di energie, di organizzazione.
Alla società e alle singole coscienze, invece, debbono essere richiesti sensibilità e un diffuso e sviluppato senso di responsabilità. Per esempio: se la persona è incosciente, chi decide? E qual è il confine preciso fra il legittimo intervento sanitario per salvare una vita e quello che viene definito accanimento terapeutico?
In altre parole sono diffidente verso un'eutanasia affidata alla discrezione di un comitato di medici e infermieri, ai calcoli economici degli amministratori, agli interessi egoistici dei familiari.
Sì, forse, a un'eutanasia voluta in modo inequivoco e reciso dalla persona sofferente, allo stremo, senza più alcuna speranza, in grado di esprimere (o che aveva già espresso) una ferma e meditata volontà di porre fine alla propria esistenza, date determinate drammatiche condizioni.
Può succedere, più di frequente di quanto si pensi, che chi soffre, anche intensamente, sia ancora fortemente attaccato alla vita. In questo caso, penso che chi decidesse al suo posto, che è giunto il momento per l'infermo di lasciare questa terra, non gli darebbe una "buona morte", ma commetterebbe un ingiustificabile omicidio.
Il pericolo cui ci espone l'ideologia occidentale contemporanea è di considerare umano soltanto chi è giovane, sano e produttivo.
La malattia e la morte appartengono alla sfera dell'umano come la buona salute. Sono esperienze dense di significato, non pesi che ci impediscono di consumare e divertirci, costi sociali da abbattere, inevitabili scorie di cui disfarsi al più presto.
Crisi della famiglia?
La cronaca ci riserva con inquietante frequenza notizie e descrizioni di efferati delitti, che maturano all'interno della cerchia familiare. E, anche quando non si raggiungono questi estremi sanguinosi, l'istituzione familiare, in Italia e in tutto il mondo occidentale, sembra mostrare la corda.
Le unioni matrimoniali tendono, sempre più di frequente, a resistere per pochi anni per poi disgregarsi. I conflitti intrafamiliari danno lavoro ad avvocati e psicologi e sembrano radicalizzarsi di anno in anno.
Esistono, è vero, delle significative controtendenze, che dimostrano come la realtà sia più contraddittoria dei facili schematismi: i figli, sovente ultratrentenni, prolungano la permanenza nella famiglia d'origine, dichiarando di trovarcisi bene, di godere di assistenza e servizi altrimenti non fruibili. In alcune realtà territoriali, la famiglia allargata continua ancora efficacemente a supplire alle carenze economiche e di infrastrutture.
Il disagio che, tuttavia, prevale, conosce, secondo me, molte ragioni, paradossalmente non tutte negative.
E' un fatto che l'individuo contemporaneo ha un acuto senso della propria identità, dei propri diritti, della propria autonomia. Mal tollera perciò quei legami, quelle costrizioni, quelle dipendenze, economiche e psicologiche, che soltanto l'altroieri sopportava.
La famiglia patriarcale, il "padre padrone", come quello che ritraeva Gavino Ledda in un famoso libro di qualche anno fa, non esiste più. Esistono padri aggressivi, violenti, con problemi mentali, ma l'autoritarismo è un titolo in ribasso alla borsa dei valori esistenziali. Anzi padri e madri contemporanei sono imbevuti, almeno superficialmente, di cultura psicologica e il corteo di esperti da consultare in caso di necessità aumenta di giorno in giorno.
Qual è, allora, il male oscuro della famiglia? Forse l'indifferenza: distratti dalle proprie mete di carriera e di consumo da raggiungere ad ogni costo, forse si tende a trascurare i figli, il loro bisogno di colloquio, di ascolto. I ritmi lavorativi ed esistenziali, sono, in occidente, fortemente accelerati, compressi, lasciando sempre meno spazio per un'adeguata cura dei rapporti personali; la sfera emotiva, affettiva di molti bambini ed adolescenti tende a risentirne.
La struttura economica che fa da cornice certo non aiuto lo sviluppo armonico della personalità. Papà e mamma devono sovente entrambi lavorare per consentire un reddito che permetta di pagare affitto e bollette e i bimbi vengono sballottati fra asili, tate, nonni e televisione.
Inoltre gli standard educativi stanno mutando: il narcisismo, l'immagine, dominano ovunque, per cui aumentano le pressioni sui figli perché "onorino" la famiglia con buoni voti a scuola, una bella presenza, l'acquisizione di sempre nuove abilità da sfoggiare poi in società.
Il figlio, insomma, come prolungamento del narcisismo dei genitori.
Capita che sempre più bambini rimbalzino da un corso all'altro, nell'arco di una stessa giornata, come palline da flipper, senza aver tempo per il gioco, l'ozio, senza conoscere la bellezza del trascorrere lento delle ore e delle giornate.
E' una cultura, intendiamoci, di cui non sono responsabili soltanto i genitori, ma soprattutto i media, con la martellante proposizione di modelli inarrivabili di bellezza e di successo.
Oppure, sentendosi inadeguati nella sfera emotiva, certi genitori cercano di compensare questa insufficienza comunicando con i figli solo tramite oggetti: la bella macchina, i bei vestirti, la disponibilità di denaro. I figli finiscono così per percepire i genitori soltanto come obbligati dispensatori di soddisfazioni materiali.
Senza contare quei genitori che usano in modo deprecabile i propri figli come arma nelle dispute con l'altro coniuge, ignorandone totalmente le necessità.
Da tempo la famiglia è oggetto di critiche da parte del mondo della cultura. E' ritenuta il luogo degli egoismi, della meschinità, dell'ipocrisia, del conformismo, di ogni male attraversi la società.
Ricordo il celebre "Famiglie, io vi odio" di Andre Gide o il vagamente profetico "La morte della famiglia" dell'antipsichiatra David Cooper.
Sono molte le scuole psicologiche e psichiatriche che riconoscono, forse in maniera un po' troppo unilaterale, nei rapporti familiari distorti l'origine della cosiddetta malattia mentale.
Eppure a me sembra che la famiglia sia come la democrazia, un'istituzione imperfetta che tuttavia non ha alternative migliori praticabili.
Laddove gli esseri umani si incontrano e interagiscono per anni, è naturale e inevitabile che, dallo scontro di volontà diverse, si sviluppino conflitti.
L'importante è, forse, tentare di gestire questi conflitti con efficacia e maturità, lasciando spazio alla comprensione, al dialogo, all'affetto, alla solidarietà.
Sperando che, nel frattempo, politici e amministratori, cerchino di creare le migliori condizioni esterne (sostegni economici, infrastrutture, servizi, ecc.) affinché la famiglia prosperi.
Il conflitto tra palestinesi e israeliani

Il Medio Oriente dista dall'Italia poche ore di aereo, eppure ci è difficile decifrare gli avvenimenti inquietanti e sanguinosi che attraversano quest'area geopolitica ormai da decenni e che negli ultimi mesi hanno conosciuto un'angosciosa escalation di violenza.
Non so dire se sia la più grave del nostro tempo, in termini di vittime e di crudeltà perpetrate; in molti Paesi dell'Africa forse accade quotidianamente di peggio nell'indifferenza generale; ma certamente la questione palestinese è quella che occupa la priorità nell'agenda di politica estera delle principali nazioni del mondo sviluppato e nella coscienza dei loro cittadini, fino a essere diventata il paradigma dello scontro fra due civiltà, quella araba e musulmana da una parte e quella occidentale dall'altra.
Noi tutti in Occidente, senz'altro in Italia, dove le comunità ebraiche vantano una presenza rilevante e qualificata in numerose città, siamo stati sensibilizzati alle sofferenze che nell'ultimo secolo sono state inflitte agli ebrei: discriminazioni, persecuzioni, campi di sterminio. L'Ebreo è assurto a Vittima per eccellenza di quel secolo sanguinario che è stato il Novecento in Europa.
Gli ebrei hanno goduto e godono, dal dopoguerra in poi, di molte simpatie e solidarietà; in più, molti di noi sono colpiti dalla cultura che questo popolo ha saputo esprimere, dai bellissimi libri che ha prodotto: "Se questo è un uomo" di Primo Levi, tormentosa e penetrante testimonianza della vita nei campi di concentramento nazisti, è per esempio ormai un classico della letteratura italiana, e molta è la letteratura novecentesca italiana di qualità, si pensi a Bassani, prodotta da membri delle comunità ebraiche o da scrittori di origini ebree.
Inoltre israeliani, o di origine ebrea, sono scrittori fra i più significativi e apprezzati in Occidente: Yehosuha, Grossman, Oz, Philip Roth, Bellow, Malamud.
Conosciamo perfettamente, attraverso i loro magnifici libri, il loro modo di ragionare, di affrontare le principali questioni della vita, li sentiamo affini; molti di loro sono i nostri maestri di contemporaneità, ci hanno fornito le coordinate per cercare di comprendere il mondo.
Per questo restiamo allibiti e increduli di fronte alle foto, ai filmati e ai servizi giornalistici che ci raccontano le violenze, le carneficine, gli stermini prodotti in questi giorni dalle truppe di Sharon. Questo aspetto ombra, violento, rozzo e irrazionale degli ebrei ci sorprende e ci spinge a cercare di capire.
Anche se la situazione appare, a noi che la osserviamo un po' da lontano, enigmatica, un vero e proprio rebus. Troppe le variabili in gioco, troppo ingarbugliata la matassa, la catena di rancore e di odio, le incomprensioni culturali e razziali, le umiliazioni e le sofferenze che dal 1949 caratterizzano la coesistenza di due popoli, quello israeliano e quello palestinese. Una convivenza resa difficile forse già dalla spartizione territoriale della zona. Gli israeliani si sentono minacciati nella loro sicurezza e nel loro diritto a costituirsi in nazione, i palestinesi si sentono oppressi, ghettizzati, spodestati, colonizzati, cacciati a forza dai loro territori.
Ad un certo punto la situazione è diventata insostenibile al punto che i palestinesi hanno organizzato attacchi terroristici (ma loro non li riconoscono come tali, li definiscono atti di martirio, necessari alla causa palestinese e alla guerra santa) affidati a kamikaze che fasciati di bombe si lasciano esplodere facendo vittime fra i civili, rendendo impossibile a milioni di israeliani attendere alle più comuni attività quotidiane: fare la spesa, ballare, lavorare, divertirsi normalmente, rendendoli prigionieri di una plumbea, cupa, cappa di paura. La reazione degli israeliani è stata una guerra, da loro definita "contro il terrorismo", che assume sempre più i connotati dello sterminio di massa, almeno a giudicare dalle notizie diffuse dai media.
Tra tutte le possibili soluzioni del conflitto mediorientale, quella che si prospetta mi sembra la peggiore. Non occorre essere psicologi professionisti per capire che l'escalation simmetrica, la spirale innescata di violenze sempre più crudeli, è il modo peggiore di rimediare a qualsivoglia conflitto, fosse pure fra popoli. Le vittorie militari conseguite possono davvero tramutarsi, a gioco lungo, in vittorie di Pirro. La violenza non fa che alimentare la ribellione e l'odio che, anche se momentameamente sopito, non tarderà a manifestarsi in violenze reattive ancora più efferate. E forse a rinfocolare quell'antisemitismo strisciante e vergognoso che ancora fa di tanto in tanto capolino dal più torbido inconscio europeo
L'unica strada da intraprendere appare quella del dialogo, delle concessioni reciproche, del compromesso, della mediazione. La costituzione, ad esempio, di due stati autonomi. La rinuncia, da parte di Israele, ai territori occupati, l'impegno degli arabi ad accettare una civiltà diversa dalla loro.
Certo, a parole è più facile che nella vischiosa, concreta, fattuale realtà.
Ma la Palestina è terra di miracoli e la speranza non deve mai abbandonare il cuore degli uomini.
L'articolo 18

Nel fisiologico conflitto fra le parti sociali, imprenditori da una parte, lavoratori dall'altra, si è instaurato, in questi ultimi mesi, un elemento di aspro scontro, di forte contrapposizione, come non succedeva da anni. Il motivo del contendere è rappresentato dalla esplicita volontà del governo di modificare l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, quello che prevede il reintegro del dipendente licenziato senza giusta causa.
Senza entrare nel merito di sottili e specialistiche distinzioni giuridiche, si tratterebbe di concedere agli imprenditori una maggiore libertà di licenziare.
La Confindustria, il governo, la destra liberista vedono nelle modifiche dell'articolo 18 un importante passo avanti sulla strada della flessibilità e dell'efficienza. I lavoratori e le loro rappresentanze sindacali vedono, invece, nelle manipolazioni dell'articolo 18 un pericoloso attentato ai diritti acquisiti in anni di lotte, un passo indietro nelle relazioni all'interno delle imprese.
Forse la verità , questa volta, anzichè nel mezzo, sta proprio altrove.
Secondo molti esperti di economia e di diritto del lavoro, quella sull'articolo 18 sta diventando una contesa di principio, una sorta di guerra di religione, dove molto incerti appaiono i benefici per gli uni quanto abbastanza infondati i timori degli altri.
Insomma, anche la modifica o la soppressione dell'ormai famigerato articolo, non provocherebbe cambiamenti granchè rilevanti nello scenario economico nazionale.
Personalmente, leggendo i giornali e seguendo i dibattiti televisivi, mi hanno convinto più le ragioni dei lavoratori che quelle dei "riformatori".
Dopo i primi entusiasmi, i cittadini italiani si stanno rendendo conto che trapiantare nel nostro paese brandelli del modello economico americano, non rende la vita migliore. Già i cauti cambiamenti che stanno per essere introdotti nella sanità e nella scuola non lasciano presagire nulla di buono: ticket aggiuntivi e discriminazioni basate sul censo.
Dall'America stessa giungono segnali contraddittori, voci critiche, allarmi ragionevolmente fondati; milioni di cittadini americani vedono profilarsi all'orizzonte della loro vita quotidiana nuove insicurezze, nuove angosce, nuove povertà determinate da uno sviluppo economico troppo disordinato e incontrollato.
Lavorare nella totale incertezza del proprio futuro toglie significato all'esitenza e finisce col rendere precari i rapporti umani stessi.
Che in Italia, poi, ci sia bisogno di maggiore flessibilità per favorire l'occupazione mi sembra ipotesi largamente condivisibile. Una flessibilità, semmai, bidirezionale. E, comunque, riamangono molte le leve su cui agire per favorire l'occupazione, senza ricorrere necessariamente a norme più vessatorie nei confronti dei lavoratori: la formazione, per esempio, il sistema del "collocamento", l'orario di lavoro, la mobilità all'interno del Paese. E poi infrastrutture moderne, servizi efficienti, ammortizzatori sociali adeguati. E, ultimo, ma non ultimo, iniezioni di cultura manageriale aggiornata.
Cultura di cui, gli imprenditori italiani danno talvolta l'impressione di difettare. Abituati a prosperare in talune circostanze con il sostegno economico dello Stato o sfruttando vantaggi competitivi "discutibili" (la lira debole), gli imprenditori italiani non costituiscono ancora una classe dirigente matura. L'Italia abbisogna di una borghesia illuminata, lungimirante, moderna, colta, dotata di senso etico. Di imprenditori, come fu il compianto Adriano Olivetti, capaci di progettualità, di dare un significato al lavoro, di coniugare l'etica e gli affari, di ripensare mezzi e metodi organizzativi. Di andare al di là del profitto da conseguire nel breve periodo, della furbizia di piccolo cabotaggio, degli "schei" come unica ragione di vita.
L'intero sistema economico italiano sembra, e non solo per colpa degli imprenditori, bloccato, ingessato, per certi versi anacronistico, poco competitivo a livello internazionale, troppo teso alla difesa di privilegi piccoli, ma più spesso grandi, ingiustificati, feudali.
Licenziare i più deboli non mi sembra il miglior punto di partenza di un'ideale riforma.
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La fame
Nonostante il progresso scientifico e tecnologico, una grave piaga affligge ancora il mondo: quella della fame. Dallo Zambia al Madagascar, dallo Zimbawe alla Somalia, al Malawi, paesi che a malapena sapremo indicare sulla carta geografica, milioni di persone sono affamate e 24 mila, dicono le statistiche, muoiono, ogni giorno, a causa della sottoalimentazione.
La globalizzazione dell'economia, così foriera di trasformazioni migliorative anche per i paesi poveri, non ha ridotto il fenomeno, anzi, secondo molti, l'ha acuito.
Sulle cause della fame nel mondo si possono formulare varie ipotesi.
La prima, che definirei "terzomondista", considera la fame delle popolazioni del Terzo Mondo come effetto dello sfruttamento economico esercitato dall'opulento Occidente, come squilibrio prodotto da un'economia disordinata e violenta quale quella capitalista.
Altri vedono nella fame l'esito della sconfitta di quella parte del mondo, che non ha voluto o non ha saputo adeguarsi al rigoglioso sviluppo delle società contemporanee, che ha segnato il passo al cospetto dell'espansione industriale e tecnologica propria delle economie più dinamiche.
Autorevoli commentatori rilevano, invece, nell'insostenibile incremento demografico delle popolazioni dei paesi più arretrati economicamente la causa principale del loro deficit alimentare.
Costoro riportano in auge la vecchia teoria e i vecchi incubi di Malthus: le risorse alimentari del pianeta sono insufficienti perché, mentre la produzione conosce una progressione aritmetica, la popolazione aumenta in modo geometrico.
Personalmente, ritengo sia un probabile errore ritenere responsabile del problema unicamente l'uomo bianco, il capitalismo, il colonialismo, le multinazionali, la mondializzazione; l'esperienza mi porta a sospettare che a volte persino la vittima non sia del tutto innocente, che potrebbe essere invece, almeno in parte e in qualche occasione, responsabile della propria condizione.
Sappiamo infatti che in molti paesi sottosviluppati prosperano la corruzione, i pregiudizi, l'analfabetismo, le guerre tribali, oppure, semplicemente, modelli culturali non adattivi, inidonei a tener testa ai cambiamenti del mondo contemporaneo.
Detto questo, corre l'obbligo imprescindibile a tutto il mondo "ricco" di aiutare chi è in difficoltà. Il soccorso ai più deboli, la solidarietà, la riduzione delle diseguaglianze sono valori intrinseci alla migliore tradizione occidentale.
L'aiuto fornito ai dannati della terra deve essere tangibile, concreto e non soltanto espresso da parole, buoni propositi o discorsi retorici.
Per esempio, inviando generi alimentari per superare le emergenze, sostenendo lo sviluppo economico dei paesi poveri, modernizzandone l'economia e, in primo luogo, l'agricoltura; esportando conoscenze e tecnologie, battendo l'ignoranza, migliorando le condizioni igieniche e sanitarie, la cui precarietà oggi favorisce lo sviluppo di terribili epidemie.
E poi cancellando il debito dei paesi maggiormente in difficoltà, rimuovendo il protezionismo che ne penalizza le esportazioni, incentivando il controllo delle nascite, rimuovendo gli ostacoli di natura culturale e religiosa.
Contrastare i regimi politici corrotti e autoritari, combattere le mafie locali sarebbero altre strade praticabili, altri provvedimenti opportuni ed efficaci. Non avere pregiudiziali e ricorrere, almeno in caso di necessità, ai cosiddetti alimenti geneticamente modificati.
La questione della fame riguarda da vicino noi del Nord del pianeta. E' un problema urgente, la cui soluzione non può essere dilazionata se si vuole fronteggiare stabilmente l'immigrazione incontrollata, clandestina, quasi minacciosa di torme di affamati; se si vuole sperare di battere definitivamente il terrorismo internazionale che dei problemi dei poveri dice di essere paladino.
Ma soprattutto, vedere, nell'altro che soffre, se stessi, è un'esigenza morale cui l'uomo moderno non riesce ancora facilmente e fortunatamente a sottrarsi.
La droga
Uno dei pericoli più gravi per un adolescente è rappresentato dall'assuefazione a qualche sostanza chimica che modifichi il suo stato di coscienza.
La "droga", come si definisce in maniera inappropriata la tossicomania, costituisce, da alcuni decenni e da alcune generazioni, un problema per giovani, genitori, educatori, famiglie.
Soltanto nel 2001, i morti per droga sono stati 822.
Si tratta sovente di molecole, che provocano danni irreversibili al cervello e che generano dipendenze fisiche e psicologiche difficili da trattare; sostanze che, comunque, mettono a repentaglio gravemente la salute di chi ne fa uso.
Per questo ci si interroga su quali siano le cause che inducono i giovani a fare uso di sostanze stupefacenti. Quali i meccanismi psicologici che determinano questo comportamento giovanile deviante.
Intanto va notato che alcune sostanze capaci di modificare il nostro stato mentale, tossiche per l'organismo, vengono accettate dalla società: il tabacco, l'alcol e gli psicofarmaci in primo luogo.
Ogni cultura riconosce le proprie droghe "legali", stigmatizzando l'assunzione di altre.
Il fatto che l'uso di determinate sostanze sia legalizzato permette di procurarsele senza ricorrere a comportamenti "criminali" e, forse, una maggiore conoscenza consente di usarle in modo più maturo e cosciente.
Quanto conti la conoscenza degli effetti negativi di una sostanza introdotta nel corpo umano lo dimostra il caso dell'eroina. Un tempo le overdose di eroina falcidiavano centinaia di giovani vite ogni anno. Poi gli eroinomani hanno imparato, coll'esperienza, ad usare l'eroina prendendo maggiori precauzioni (dosi maggiormente controllate, impiego di siringhe monouso), in modo da far diminuire sensibilmente negli ultimi anni, il numero di decessi collegati all'abuso di questa sostanza.
Con questo non si intende certo sminuire i pericoli, gravissimi, collegati all'uso delle droghe, comprovati da numerosi e seri studi tossicologici e scientifici sull'argomento. Si vuole soltanto sottolineare come la conoscenza e l'informazione, approfondite, consentano di difendersi meglio.
Ma perché i giovani si drogano?
Intanto esiste quel fenomeno sociologico giovanile che si chiama "gruppo dei pari". Si tratta di quel gruppo amicale di coetanei, la cui importanza e la cui autorità stanno superando quelle dei genitori.
Il gruppo ha delle sue rigide regole di funzionamento, un codice morale a volte estraneo se non antitetico al contesto sociale, che induce i singoli a uniformarsi pedissequamente a determinati comportamenti (scelta dell'abbigliamento, linguaggio, stile di vita, ecc.). Il conformismo, vissuto come timore di non essere accettati e approvati dal gruppo, può indurre l'adolescente ad adottare comportamenti disadattivi.
La fine dell'autoritarismo, un certo permissivismo, la libertà di scelta, il relativismo culturale, aspetti del mondo contemporaneo tutt'altro che negativi, lasciano però spesso i giovani soli (o mal consigliati) di fronte alle scelte cruciali della propria esistenza. Sbagliare è facile; entrare in un tunnel da cui è arduo fare ritorno, altrettanto.
Diventare "grandi" è sempre stato malagevole. La droga può costituire anche una apparentemente comoda via di fuga dalle responsabilità del mondo adulto, un ingannevole alibi per ritardare le scelte, le fatiche, gli impegni (ma anche le soddisfazioni), che l'esistenza di ogni adulto comporta.
Il consumismo, la comunicazione che avviene ormai soltanto attraverso l'esibizione di oggetti, sembrano privare i giovani di un solida identità, basata sulla consapevolezza delle proprie qualità interiori.
Il successo da conseguire ad ogni costo, a scuola, sul lavoro, in società, con la necessità di essere costantemente all'altezza, brillanti, socievoli, nell'epoca che esalta ed esige la performance, come ci insegnano i messaggi pubblicitari, porta giovani, e sempre più spesso anche adulti, ad aiutarsi con qualche sostanza chimica.
L'eccessivo edonismo della nostra civiltà, la ricerca spasmodica di piaceri forti e immediati, a scapito della gioia, della felicità e della serenità che si possono ottenere sviluppando i propri talenti, mettono molti adolescenti sulla cattiva strada di una penosa, stordita e triste quotidianità.
Inoltre l'abuso di droga rappresenta talvolta una delle forme, oscura, contorta e sbagliata, in cui si manifesta il conflitto generazionale, la rivolta contro il mondo dei valori abbracciati dai genitori.
Una rivolta sterile e autodistruttiva, cui possono indulgere adolescenti altrimenti intelligenti e sensibili.
Non ultimo esiste un business, gestito dalla criminalità organizzata, che preme per indurre certi comportamenti, perché con la droga realizza ingenti profitti.
Per arginare il fenomeno droga e limitarne i danni, forse sarebbe necessario ripristinare quel dialogo generazionale, oggi interrotto, fra genitori e figli , privato però degli autoritarismi di epoche trascorse, che ancora affiorano, purtroppo, qua e là, fra le maglie di un produttivismo esasperato.
Occorre recuperare, quindi, il valore del tempo da trascorrere insieme, nella dimensione di una comunicazione autentica, capace di critica nei confronti dei valori dominanti; un tempo e una comunicazione intrisi di tenerezza, di conoscenza reciproca, di ritrovata fisicità.
Con la scuola, che deve abbandonare la faccia feroce, per diventare, per gli adolescenti, occasione emotivamente significativa di maturazione culturale, affettiva, civile.
Con la società, che deve essere in grado di proporre ai giovani possibilità di autorealizzazione.
Ed è necessaria, purtroppo, anche la repressione, per battere mafie e bande criminali e per tutelare la collettività dal comportamento di quei singoli che hanno deciso, mettendo in atto comportamenti sciocchi, violenti, pericolosi e delinquenziali, di muovere guerra alla società.
La solitudine
La stragrande maggioranza degli scienziati sociali considera la solitudine un tipico inconveniente delle società contemporanee, una disfunzione da correggere, un morbo da debellare. La solitudine significa isolamento, mancanza di affetti e di sostegno concreto e psicologico, disadattamento, magari insufficiente acquisizione delle abilità sociali. Una condizione inadatta all'uomo, che, come diceva Aristotele, è un "animale sociale".
Ci presentano le loro statistiche in cui correlano la solitudine alla cattiva salute, alla depressione, al suicidio.
A loro modo hanno ragione. Esiste, oggigiorno, una solitudine subìta. E' quella dell'anziano abbandonato, che non ha le risorse economiche o psicologiche per farcela da solo, che non ha più progetti, che è d'intralcio all'edonismo e al produttivismo familiari. E' quella del giovane che non trova ascolto all'interno della famiglia e che non riesce ad adeguarsi al conformismo del gruppo dei pari, o che deve misurarsi con istituzioni obsolete e con prospettive per il futuro almeno incerte. E' quella della donna, relegata magari in casa in un ruolo che non riconosce come proprio, prigioniera di pregiudizi e di consuetudini ormai estranee al suo modo di sentire.
Può essere quella del lavoratore estromesso precocemente dal mondo produttivo, governato dalle sue ferree leggi, che non trova la solidarietà dei coetanei, che non si sente capito o che magari si colpevolizza ingiustamente.
E' senz'altro quella che riguarda, almeno qualche volta nel corso dell'esistenza ciascuno di noi: ci capita di ritirarci sdegnati e confusi nella solitudine perché a disagio in un mondo che corre velocissimo, incapaci di tener dietro a tutti i cambiamenti, le scadenze, le ideologie, i valori e le norme che si accavallano vorticosamente.
Certo le città moderne, concepite ormai soltanto per incanalare il traffico automobilistico e il convulso stile di vita contemporaneo non facilitano i contatti sociali. Le comunità, dove sperimentare la solidarietà sono, purtroppo, soltanto un'utopia sociologica. Lo sviluppo economico sembra aver selezionato un tipo d'uomo la cui psicologia ruota attorno alla propria ristretta cerchia familiare e al proprio tornaconto. La competitività, che non ammette respiro, non favorisce le occasioni conviviali di incontro, di dialogo, di festa. In una società in cui nessuno è veramente arrivato, non c'è tempo da dedicare all'amicizia e alle stare insieme.
La solitudine è, dunque, sì patologia, ma sarebbe un errore considerarla soltanto sotto questo aspetto. Esiste anche il rovescio (in questo caso il dritto!) della medaglia. La solitudine può essere anche una meravigliosa opportunità di sviluppo e di benessere interiori. Un'occasione preziosa da sfruttare. Una condizione cercata anziché subìta.
A parte le differenze temperamentali fra gli individui, per cui ci sarà sempre chi desidera una vita piena di contatti e chi un'esistenza più raccolta, difficilmente alcune attività umane potranno svolgersi al meglio e con soddisfazione senza il verificarsi della solitudine.
Non esiste creatività artistica senza concentrazione e isolamento. Lo scrittore, il pittore, il pensatore, il compositore abbisognano nel loro lavoro di grande raccoglimento. Ma forse tutte le attività umane, che impegnano attivamente le nostre facoltà, necessitano di solitudine, fossero pure il giardinaggio o l'alpinismo. Lo studio, la riflessione, l'introspezione, la lettura vengono meglio se ci isoliamo dalla "pazza folla".
L'incapacità di stare almeno qualche ora della giornata da soli, la dipendenza dalla presenza degli altri, può essere, quella sì, la spia di qualche malessere interiore, di qualche inadeguatezza personale.
Sono gli stessi psicologi, che sottolineano come l'acquisizione stessa della maturità psicologica, l'autorealizzazione personale, l'autenticità ci spingano con forza , in più di un'occasione nel corso dell'esistenza, a starcene, almeno per per qualche tempo, da soli.
Il computer
Nella nostra frenetica civiltà occidentale, l'informazione riveste un'importanza strategica.
L'informazione è stata certamente importante anche in altre epoche storiche, contribuendo a determinare i rapporti di potere, ma mai come oggi la quantità e la velocità di diffusione delle informazioni hanno raggiunto questi livelli.
Uno dei protagonisti di questo cambiamento epocale è il computer.
Grazie all'affermazione, nei primi anni Ottanta, per merito dell'IBM, del personal computer, la luce azzurrina dei monitor ha invaso pressoché ogni ambiente abitato dall'uomo.
Ai fini della diffusione e dell'elaborazione della conoscenza e delle informazioni soltanto l'invenzione della scrittura, prima, e della stampa, poi, hanno avuto nei secoli precedenti un impatto superiore.
Il computer ha letteralmente rivoluzionato le nostre vite. Il tempo che vi trascorriamo davanti sta ampiamente superando, per molti di noi, il tempo trascorso davanti a uno schermo televisivo, fino a qualche anno fa ancora così seducente.
Il computer non è soltanto utile, è divertente. Viene pienamente incontro alle nostre necessità ludiche, ci consente di sfidare in giochi avvincenti familiari e amici.
Con lo sviluppo di Internet, tramite il computer abbiamo scambi interpersonali sempre più veloci e flessibili, con un recupero rassicurante e affascinante della parola scritta, della scrittura, che alcuni apocalittici volevano irrimediabilmente negletta.
La Rete mette poi a disposizione di tutti, almeno di tutti gli abitanti dei paesi cosiddetti sviluppati, banche dati un tempo inaccessibili se non a una ristretta elite; favorisce la ricerca scientifica; contribuisce alla democratizzazione della nostra società, in quanto tutti hanno la possibilità di esprimersi in mille modi: chat, newsgroup, forum, siti personali, weblog, accesso spesso gratuito a giornali e riviste di ogni genere, posta elettronica, community di ogni tipo.
Cittadini e istituzioni sono più vicini, gli scambi più frequenti; il rapporto sta lentamente diventando bidirezionale.
Rispetto alla televisione, il computer permette una cittadinanza attiva, ci rende protagonisti, in grado di modificare significativamente l'ambiente con cui entriamo in relazione.
L'impatto del computer sul mondo economico, della produzione, è stato formidabile. Lo si usa, con profitto, nelle banche, negli ospedali, nelle fabbriche, nei complessi commerciali. La "new economy" non è ancora decollata, ma il calcolatore ha intanto modificato le nostre abitudini lavorative. Difficilmente chi oggi lavora, in qualsiasi ambito e a qualsiasi livello dell'organigramma, anche il più basso, può permettersi di evitare l'interazione col computer. Il ronzio dei processori è più diffuso ormai del rumore delle presse.
Nella scuola stessa, dopo l'avvento del computer, ferve il dibattito su come cambiare l'educazione scolastica in seguito alla rivoluzione informatica.
Cd-rom multimediali, ipertesti, persino videogiochi, stanno modificando il modo di apprendere di milioni di ragazzi.
E di certo, il computer sta modificando il nostro modo stesso di pensare. E la nostra velocità e capacità di rispondere agli stimoli, a più stimoli diversi. I neurofisiologi saprebbero dimostrarci come alcune aree del cervello si stanno progressivamente modificando, in seguito alle nuove stimolazioni.
Il computer inoltre ha probabilmente portato all'estremo alcuni sviluppi del razionalismo occidentale. Col computer la matematica è come scesa fra noi, nella realtà concreta della nostra vita, come non mai.
E non è un caso se, dopo l'abaco greco, le prime macchine calcolatrici sono state messe a punto da filosofi-scienziati come Pascal e Leibniz.
Non nascondo il mio entusiasmo futurista per il calcolatore. Forse eccessivamente unilaterale. Sarebbe senz'altro un atteggiamento più saggio e prudente quello di difendersi un po' da questa "hybris" del computer. Stimare maggiormente i pericoli della rivoluzione informatica. I cultori delle cosiddette scienze umane già paventano l'avvento di uomini dimidiati, tutti raziocinio e con la parte emotiva rimossa, atrofizzata, e quindi pericolosa. Paventano alienazioni, solitudini, perdite di contatto con la realtà, dipendenze, schizofrenie, ossessioni.
Difficilmente l'uomo del futuro potrà affidarsi soltanto alla razionalità. Già adesso i software denominati "sistemi esperti" si sono rivelati non in grado di risolvere problemi complessi, di prendere decisioni efficaci, che esulino da un ristretto campo specialistico.
In molti settori, in molte discipline, l'uomo deve rinforzare, semmai, il pensiero narrativo, ancora così importante per dare un senso alla nostra umana esistenza e per padroneggiare la realtà nella sua totalità.
E poi una razionalità algida, priva di emozioni, non è certo il futuro felice, che tutti ci auguriamo.
Le stragi del sabato sera
È purtroppo diventata una consuetudine dolorosa leggere sulle prime pagine dei quotidiani, specialmente quelli a diffusione locale, la notizia di qualche giovane vita stroncata in un incidente automobilistico.
Per lo più si tratta di ragazzi di ritorno da una nottata trascorsa in un locale. Spesso chi guida è di sesso maschile.
La notte del sabato è l'intervallo temporale in cui più di frequente succedono gli incidenti. Si tratta, difatti, della serata canonicamente consacrata dai giovani, liberi da impegni di lavoro o di studio, al divertimento.
Quando le vittime di queste sciagure sopravvivono, può accadere che i postumi consistano in deficit cognitivi e motori talmente gravi da impedire loro di condurre un'esistenza soddisfacente.
Si hanno allora famiglie messe a dura prova, progetti esistenziali in fumo, sofferenze fisiche e psicologiche indicibili, bisogni assistenziali che richiedono la presenza costante di una persona 24 ore su 24, per il resto della vita. Tutto come conseguenza dell'errore di un attimo.
Si sono approntate in questi ultimi anni molte misure per contenere il fenomeno. Purtroppo i risultati non sono sempre stati incoraggianti. Mi sembra, tuttavia, che molte delle misure proposte: limiti di velocità, chiusura anticipata dei locali, patente a punti, siano ragionevoli e che non si può che proseguire con tenacia in questa direzione, magari adottando qualche nuova norma.
Personalmente sono favorevole anche alle misure repressive: chi viola il codice della strada, chi guida in modo pericoloso o in cattive condizioni psicofisiche va punito. Sono convinto che il permissivismo, nella società contemporanea, si trasformi troppo spesso in disinteresse e lassismo. La società deve, a mio avviso, tutelare i diritti di tutti, ma nel contempo richiamare ognuno ai propri doveri e alle proprie responsabilità. Abbiamo tutti il dovere di proteggere e nel contempo di proteggerci.
Anzitutto, credo sia giusto cercare di correggere le cause che portano a questi dolorosi eventi. Bisognerebbe forse cominciare col progettare e costruire strade più sicure; non è raro vedere in Italia il manto stradale ridotto in condizioni pietose, con grosse buche, prive di segnaletica adeguata o di protezioni in prossimità di canali e precipizi.
Poi sarebbe bene costruire veicoli provvisti di tutti quei dispositivi di scurezza (air-bag, sistemi di frenatura ABS, computer di bordo, ecc.), che la moderna tecnologia ci mette a disposizione.
Infine, l'educazione stradale andrebbe insegnata in maniera più intensiva, partendo già dalla scuola dell'obbligo o anche prima, compatibilmente con le capacità di apprendimento dei bambini.
Nella consapevolezza, comunque, che si tratta di soluzioni utili, ma parziali.
Secondo me, infatti, i problemi sostanziali vanno ricercati in un altro contesto.
A mio avviso, i problemi fondamentali, le cause prime, sono prevalentemente di ordine psicologico, sociale e culturale.
La nostra epoca vive nel segno della velocità, dell'efficienza, della competizione e del consumo. Le industrie automobilistiche costruiscono vetture sempre più veloci, che tentano di imporre sul mercato con pubblicità nello stesso tempo seducenti ed aggressive. La macchina potente e veloce è sinonimo di successo, integrazione, conquista sessuale.
Andando più in profondità, molti ragazzi sembrano agiti da una pulsione di morte, da una disperante autodistruttività. La cultura in cui sono immersi è concentrata più sugli oggetti che sulle persone; produce alienazione, mancanza di significato, disorientamento.
La famiglia e le altre istituzioni tradizionali sono in crisi, il mondo del lavoro non sembra offrire ai giovani gli sbocchi occupazionali desiderati.
I legami sociali si allentano, la comunicazione, anche all'interno del gruppo dei pari, appare superficiale; malgrado il diffondersi di nuove opportunità, quali l'e-mail e il telefonino, i giovani appaiono sempre più soli.
Per questo molti ragazzi cercano lo stordimento per vincere le angosce o il vuoto interiore: l'alcool, le droghe, la musica ad alto volume.
Non a caso, è di frequente riscontro, in chi era alla guida in caso di grave incidente, l'abuso di sostanze tossiche.
Certo, bisogna distinguere caso per caso. Non si può generalizzare; tanto meno fare del facile moralismo: nessuno possiede la ricetta infallibile del buon vivere, siamo tutti allievi alla scuola della vita. Tuttavia, cercare di restituire un senso all'esistenza di ognuno di noi mi sembrerebbe un percorso praticabile. Impegnandoci, per esempio, in attività che non abbiano soltanto uno scopo utilitaristico, ma coinvolgano la solidarietà con gli altri, ci consentano di vivere con e per gli altri. Coltivare la sfera spirituale e non solo quella materiale.
E se proprio non si riesce ad uscire da una dimensione competitiva, capire che la vita non ci richiede che di rado la brillantezza del centometrista, bensì la durata, la pazienza e la ponderazione del fondista. E, soprattutto, che non è necessario arrivare sempre primi.
La crisi della famiglia (tema svolto da c.f.)
Se si dovesse definire con un'etichetta l'epoca in cui viviamo, essa andrebbe indubbiamente archiviata con l'appellativo di "epoca della dissacrazione". Numerosi sono infatti i valori, come ad esempio la patria, la religione, la morigeratezza, nei quali i nostri nonni e forse ancora i nostri padri credevano, oggi contestati e messi definitivamente in crisi.
Nell'ambito di questa contestazione generale va inquadrata, sicuramente, anche la crisi della famiglia. Sorta quasi ai primordi dell'umanità, l'istituzione familiare ha subito nel corso dei secoli una notevole evoluzione. Tentare di farne una storia, sia pure sintetica, sarebbe arduo e nello stesso tempo noioso. La famiglia, comunque, un tempo ritenuta il nucleo della società, oggi viene considerata un'istituzione superata, da più parti contestata e respinta.
I motivi sono a mio avviso molteplici e legati intimamente fra loro: fine della società contadina e sgretolamento della famiglia patriarcale, contestazioni femministe, sviluppo di un'educazione consumista, insubordinazione dei figli, disinteresse dello stato.
La donna ha rivendicato, dopo secoli di sudditanza, i propri diritti, la propria legittima autonomia dall'uomo, sino a qualche decennio fa somma autorità, perfino dispotica, della famiglia. A questo proposito il movimento femminista ha svolto, sostenuto da una grande maggioranza di donne stanche e deluse, un'opera preziosa anche se talvolta scoordinata e non sempre costruttiva. La donna ha avvertito il bisogno di inserirsi attivamente nella società, di compiere le medesime esperienze dell'uomo, di evitare una mortificante emarginazione dal mondo del lavoro, della politica, della cultura.
Ciò ha provocato le prime insofferenze, la crisi della coppia, lo scricchiolamento della millenaria autorità maschile, di colui che un tempo era il pater familias. Soprattutto ne è nato un disorientamento, principalmente nell'uomo, che si è intimorito, una confusione di ruoli forse salutare, ma ansiogena, la difficoltà a rimodellare la propria identità in risposta ai mutamenti culturali.
Da parte loro anche i giovani, i figli, sono profondamente cambiati negli ultimi decenni. Un tempo completamente subordinati al padre, quasi schiacciati dall'autorità paterna, resi culturalmente superiori, grazie all'istruzione di massa, hanno finito col non riconoscere più nella figura del padre, nel frattempo resa evanescente dagli stessi mutamenti socioeconomici, la guida, il modello esistenziale e culturale da imitare. Hanno così cercato di imporre la propria personalità, tendendo, nel tentativo di rendersi pienamente liberi, ad estraniarsi dalla famiglia. Così che anche i padri "deboli" e democratici di oggi sono vissuti da molti giovani come noiosi limitatori dell'autonomia personale.
Le stesse democrazie moderne, poi, nel loro economicismo esasperato, tendono a trascurare la famiglia a vantaggio del consumatore, corteggiato e blandito tramite l'offerta di una pletora di merci e di servizi spesso costosi quanto inutili..
Usando un'espressione gergale della politica, ritengo che la crisi della famiglia sia dunque imputabile essenzialmente ad un mutato "rapporto di forze". Ma come ogni crisi rappresenta anche un'opportunità, pure la crisi della famiglia rappresenta, entro certi limiti, un fatto positivo, nella misura in cui mette in discussione rapporti sbagliati e ingiusti, sedimentatisi nel corso dei secoli.
Eppure se la famiglia muta, se i ruoli al suo interno vanno ripensati e reinventati, essa rimane un'istituzione che va sostanzialmente sostenuta e difesa. Personalmente nella famiglia io credo ancora. Per me rappresenta qualcosa di più di quella "entità economica", prospettata dalle teorie materialistiche. Alternative alla famiglia non ne sono ancora state inventate. Le comuni di sessantottina memoria sono fallite miseramente e costituiscono ormai una soluzione anacronistica e avulsa dalla realtà
Il problema, a mio avviso, è quello di trovare un equilibrio, che non sia però turbato da ingiustizie e sopraffazioni. Ritengo quindi che genitori e figli, uomini e donne, debbano coesistere cercando di comprendersi e di comprendere i rispettivi limiti, al di là degli egoismi e degli estremismi sempre assai controproducenti e soprattutto ritengo che, come modesta soluzione comportamentale praticabile, ognuno di noi ricordi sempre che per ricevere bisogna prima donare.
Il razzismo
Il razzismo inteso come quella dottrina che presuppone una superiorità su basi biologiche di una razza umana sull'altra, è un concetto moderno, sviluppatosi da un fraintendimento delle teorie di Darwin e del positivismo.
In epoche antecedenti prevaleva un sentimento di disprezzo verso le altre culture ritenute inferiori, verso i "barbari".
Il razzismo rappresenta uno dei tanti abbagli ideologici presi dalla mente umana nel corso della Storia e credo che nessuno possa sostenere, al giorno d'oggi, in maniera fondata, con argomentazioni scientifiche e senza timore di essere sonoramente disapprovato, che una razza sia superiore a un'altra. Ammesso che all'interno della specie umana sia possibile individuare delle razze pure.
Il nazismo, per citare una delle ultime vittoriose (almeno per un certo periodo) concezioni politiche razziste, che si basava sull'idea di superiorità della razza ariana, oggi ripugna alla quasi totalità delle persone ed è considerato un obbrobrio ideologico non più ripetibile.
Eppure la guardia non va mai abbassata e la cronaca ci riferisce, con cadenza presso che quotidiana, di episodi di discriminazione avvenuti sulla base del colore della pelle o del luogo di provenienza. Si tratta, per lo più, di microepisodi di intolleranza o di xenofobia. Certo siamo lontani, almeno qui in Italia, da quanto scritto nei libri di Wright o nei racconti della Gordimer.
Speriamo ci sia risparmiato di assistere ad esperienze umilianti per la dignità umana come la schiavitù in tante parti del globo, o l'apartheid in Sudafrica o la violenza rivoltante del Ku Klux Klan negli Stati Uniti.
Non bisogna nascondersi che l'ondata di immigrati dal Terzo Mondo, che ha raggiunto l'Italia negli ultimi decenni, ha scosso equilibri secolari, abitudini consolidate, modi di vivere e di pensare sedimentati nei secoli, provocando inquietudini. Da noi esisteva, tutt'al più, la contrapposizione fra Nord e Sud, l'annosa e irrisolta questione meridionale, ma lo sviluppo industriale del Paese ha finito col metabolizzare le insofferenze razziste. Molti operai e intellettuali meridionali hanno contribuito alla crescita economica della nazione.
Oggi non è così. La crisi economica, la disoccupazione, l'insicurezza fanno vivere lo Straniero come una minaccia a un benessere da poco acquisito e già precario. La psiche umana, sempre in cerca di un facile capro espiatorio, responsabile delle proprie disavventure, può facilmente individuare nell'Altro, nel Diverso, l'origine di tutti i mali.
Per contro, culture quasi totalmente estranee al nostro modo di pensare, con valori spesso antitetici ai nostri, reclamano oggi attenzione, diritti, considerazione. Richieste legittime, ma non si può pensare che ciò non possa provocare, per la velocità con cui è avvenuto il processo di immigrazione, degli intoppi nell'integrazione dei nuovi arrivati in un tessuto sociale consolidato. Insomma anche gli italiani, che razzisti non sono, hanno bisogno di abituarsi all'idea di una società multiculturale, un'entità fino a ora totalmente loro sconosciuta.
Io credo che ciò stia avvenendo quotidianamente, a piccoli passi, nel migliore dei modi. La nostra è una società aperta, una democrazia matura, che, pur tenendo conto di mille disfunzioni e ritardi, considera la tolleranza verso chi è diverso uno dei valori fondamentali.
Penso che gli italiani abbiano capito che quello che conta sono gli individui, la loro voglia di fare e di inserirsi, la loro umanità, il contributo che ognuno è in grado di portare allo sviluppo e al progresso della società. Il colore della pelle, l'area geografica di provenienza, la religione professata, le idee politiche non possono essere motivo di discriminazione.
Gli italiani avvertono altresì l'esigenza di essere rassicurati circa il tasso di tolleranza contenuto nelle altre culture. Su questo concetto è difficile transigere. Chi proviene da fuori deve accettare le nostre leggi, le nostre regole del gioco, i valori democratici su cui si fonda la nostra Costituzione. Non si può essere tolleranti con gli intolleranti. Lo sosteneva pure un filosofo pacifista come Norberto Bobbio. Non ci si può rifugiare nel relativismo culturale tanto caro a certi nostri intellettuali contemporanei, che finiscono col promuovere un deleterio razzismo alla rovescia sostenendo la superiorità morale di coloro che sono storicamente oppressi e proponendo una riedizione del mito russoviano del Buon Selvaggio francamente inaccettabile.
I reality show
Da qualche anno la televisione propone un particolare tipo di programma, ma quelli che parlano bene dicono "format", che costa poco e sembra incontrare il favore del pubblico: si tratta dei reality show, nei quali un gruppo eterogeneo di persone viene fatto interagire, per un periodo prolungato di tempo, in situazioni, in genere, frustranti.
Il prototipo di questi programmi è rappresentato da "Il Grande Fratello", una trasmissione entrata ormai a far parte del costume nazionale, ma hanno conosciuto alterne fortune anche "La Talpa", "Amici" e "La fattoria".
Quest'anno hanno riscosso particolare successo "L'isola dei famosi" e "Campioni", un reality su una squadra di calcio di un campionato minore.
Premesso che, a mio avviso, è senz'altro meglio impiegare il proprio tempo leggendo La Repubblica di Platone, Il discorso sul metodo di Cartesio o Guerra e pace di Tolstoj, trovo tuttavia esagerati il rifiuto o l'ammiccamento di sufficienza che una cosiddetta elite di spettatori e di critici televisivi riserva a questi programmi.
Purtroppo è vero che, grazie ai reality, individui modesti e dalle competenze limitate quando non inesistenti assurgono alla ribalta e alla notorietà senza merito, e per anni ci vengono propinati in tutte le trasmissioni di intrattenimento, generando sazietà quando non disgusto.
E va condivisa secondo me l'opinione che è ingiusto e diseducativo promuovere il successo disgiunto dal lavoro, dall'intelligenza, dall'abilità, dalla sensibilità.
Inoltre, capita spesso, seguendo i reality, di imbattersi nella volgarità, nella banalità, nella noia: battute sbracate, frasi fatte, imprecazioni grossolane, refrattarietà al pensiero articolato sono all'ordine del giorno.
Ma è nello stesso tempo difficile negare che tali programmi e i loro protagonisti non costituiscano, in qualche modo, lo specchio abbastanza veritiero della odierna società.
Io dispongo di poco tempo libero, ma nei periodi in cui ho meno da fare e quindi ho più agio di trafficare col telecomando non disdegno di seguire le peripezie dei personaggi che si avvicendano nei reality. Alcuni li trovo molto vivi, interessanti, seducenti; altri, è vero, mi risultano antipatici o addirittura ripugnanti.
Ma come diceva Terenzio: "Humani nihil a me alienum puto ".
Noi partecipiamo dell'umanità di tutti e io credo sia un esercizio salutare riconoscersi nei difetti degli altri. Ci sono un Taricone, una Serena, un'Antonella Elia, un d.j. Francesco in ognuno di noi.
Insomma, i reality finiscono col costituire un'occasione in più per un benefico esercizio di introspezione, attività in genere negletta in una società dedita all'attivismo maniacale come la nostra.
Qualcuno attribuisce agli affezionati spettatori di questi programmi una perversa pulsione voyeuristica, tuttavia, secondo me, esagerando ancora. È il segno dei tempi. Non è stato forse uno degli autori più significativi del Novecento italiano ed europeo, mi riferisco ad Alberto Moravia, ad intitolare un suo fortunato romanzo "L'uomo che guarda"?
La curiosità verso l'esistenza degli altri non è semplice pettegolezzo, ma sovente una forma di intelligenza e di riflessione filosofeggiante.
Inoltre, i reality, almeno nei momenti più spontanei e depurati dalle melense trovate degli autori, costituiscono esperimenti di psicologia sociale con un importante valore educativo. Lo spettatore ha modo di vedere come funziona in concreto un gruppo, come si cementa o si disgrega, come si costituisce o si distrugge la leadership, come ogni singolo affronta i problemi che la contiguità fra esseri umani fatalmente determina. E questo, in qualche modo, favorisce nel telespettatore un non trascurabile apprendimento per imitazione. Impara secondo le stesse modalità con cui si apprende di frequente nella vita reale.
Identificandosi con i vari personaggi vive il colpo basso, il tradimento dell'amico o del fidanzato, le invidie, le gelosie, gli esibizionismi che fanno parte integrante della quotidianità concreta di qualsivoglia gruppo si appartenga: i compagni di classe, i colleghi di lavoro, gli amici.
Concludendo, se i reality sono spazzatura, dobbiamo riconoscere che nella nostra epoca forse proprio i rifiuti hanno molto da dirci circa il punto in cui sono giunte la nostra civiltà e la nostra umanità.
Il divieto di fumo
La legge restrittiva sul fumo, introdotta di recente in Italia, non è un provvedimento arbitrario, ma fondato su evidenze scientifiche.
Il fumo ha un ruolo riconosciuto nella genesi del tumore del polmone e dell'infarto del miocardio, contribuisce a incrementare sensibilmente i casi di BPCO (broncopneumopatia cronica ostruttiva), una patologia grave e potenzialmente mortale, porta a tutta una serie di disturbi respiratori e infettivi, che incidono negativamente sulla salute e sulla qualità della vita dei cittadini.
Se il compito dello Stato è quello di utilizzare al meglio le risorse disponibili in vista della realizzazione del bene comune, ecco che una campagna di prevenzione delle malattie legate al fumo appare un intervento meritorio, ineccepibile sia dal punto di vista sanitario che economico.
Bar, ristoranti, pub, locali pubblici assomigliano spesso a camere a gas, dove le particelle nocive per la salute raggiungono concentrazioni pericolosissime. Era giusto che qualcuno intervenisse, non fosse altro che per difendere i diritti di chi , come il sottoscritto, non fuma e non ne può più da tempo della iattanza dei fumatori: cicche lanciate dai finestrini delle auto in corsa, conficcate nella sabbia, gettate dai balconi. Una maleducazione francamente insopportabile, che sta a testimoniare del degrado della civiltà e delle buone maniere in Italia.
Detto questo, trovo che non abbiano del tutto torto i fumatori quando paventano una spietata persecuzione nei loro confronti. Quando denunciano di sentirsi infantilizzati, stigmatizzati, limitati nella propria personale libertà.
Certo, molti fumatori faticano a capire che la propria libertà finisce dove inizia quella degli altri, altrimenti non più di libertà si tratta, ma di licenza, sopruso, prevaricazione.
Però forse è vero che è forte l'impressione di stare assistendo all'inizio di una sorta di offensiva salutista e puritana, con lo Stato che assume sempre più le sembianze di un Grande Fratello occhiuto, capace di immischiarsi nella vita privata di ciascuno, controllarne i piccoli riti quotidiani, registrare i più piccoli vizi privati dei suoi cittadini. Si tratta di un incubo burocratico e di una possibile tirannia da cui è lecito guardarsi con apprensione
Mentre è in atto la campagna antifumo, già si preannunciano le prossime: quella contro l'alcol e quella contro il sovrappeso. Si rischia ormai che chiunque venga visto entrare in un Mc Donald's venga schedato come reprobo.
E' sempre una questione di equilibrio, di misura. Rendere coscienti le persone della nocività di certe abitudini acquisite è senz'altro una buona cosa; voler sostituirsi all'individuo e alle sue scelte, in maniera paternalistica e autoritaria, rappresenta a mio avviso un'invasione della libertà personale inaccettabile.
Inoltre la campagna antifumo, enfatizzando la responsabilità del singolo, non deve far stornare l'attenzione dai problemi collettivi, sociali, altrettanto gravi, legati a un particolare tipo di sviluppo: il problema dell'inquinamento atmosferico per esempio.
Di inquinamento da smog si muore, soprattutto nelle grandi città. I killer si chiamano ozono, biossido d'azoto, monossido di carbonio e le cosiddette polveri sottili.
Le società più sono evolute più hanno equilibri delicati e complessi. C'è quindi sempre più bisogno dell'impegno responsabile di tutti nello sviluppare abitudini di vita più sane e responsabili e nel promuovere uno sviluppo sostenibile, capace di creare ricchezza, benessere, libertà e non morte.
La morte del papa
In tanti abbiamo seguito con apprensiva partecipazione l'agonia del papa.
Da ventisette anni alla guida della Chiesa, ferito gravemente in un feroce attentato, minato nel fisico possente da una lunga sequela di malattie, papa Wojtyla si era guadagnato la simpatia di molti, anche nella cerchia dei non credenti.
Conservatore, ma nello stesso tempo aperto alle novità nel campo della comunicazione e dell'informazione, - soltanto pochi mesi prima di morire tessé l'elogio di Internet e delle sue potenzialità -, il papa polacco ha attraversato il Novecento da protagonista.
Si è opposto, nei fatti e con efficacia e concretezza, ai totalitarismi, nazifascismo e comunismo, ha lottato contro le storture e le ingiustizie indotte dal capitalismo e dalla globalizzazione, ha predicato un cattolicesimo ortodosso e rigoroso, alieno dal lassismo contemporaneo.
Ha contribuito a mantenere solide l'autorità e l'immagine della Chiesa, conservando la schiena diritta anche nei confronti della prima potenza economica e militare del mondo, gli Stati Uniti, di cui ha stigmatizzato l'intervento in Iraq.
Uomo del dialogo, ha sempre dato l'impressione che quello che diceva fosse il prodotto di un indefesso lavorio interiore, di un sofferto tentativo di conciliazione fra istanze diverse, di una meditata e travagliata sintesi fra vecchio e nuovo.
Ha manifestato apertura verso le altre religioni e ha avuto la forza e il coraggio di riconoscere, scusandosi, gli errori e le colpe che la Chiesa ha compiuto nei secoli passati.
Sportivo, operaio, scrittore, infaticabile viaggiatore, provinciale e cosmopolita allo stesso tempo, Wojtyla ha saputo conquistarsi la simpatia e la fiducia dei giovani che continuano a riconoscere in lui un modello morale ed esistenziale da ammirare e imitare.
Tuttavia tutto ciò spiega soltanto in parte la viva ondata di cordoglio che ha accompagnato la morte di un papa, pur popolare come Giovanni Paolo II.
Qualcuno ha criticato l'operato dei mass media, la spettacolarizzazione e il cattivo gusto di tante dirette televisive. Ma i giornalisti fanno il loro mestiere, stanno sulle notizie che interessano il pubblico.
Soprattutto la grancassa dei mezzi di comunicazione non ha impedito in tutti noi, durante la lenta agonia, l'emergere di un autentico sentimento del sacro e della trascendenza. I valori materiali dell'esistenza, così dominanti nella nostra epoca, sono stati, almeno per qualche istante, accantonati, in quelle ore drammatiche, per lasciar posto ai grandi interrogativi circa il significato della nostra esistenza, di cui la morte rappresenta la terrena, inevitabile conclusione.
La morte, così respinta dalla società contemporanea, allontanata da pubblicità e intrattenimento, negata dai consumi e dal divertimento, soffocata e confinata nelle corsie d'ospedale, è così diventata, per alcuni giorni, lo sfondo dei nostri pensieri.
Quella morte che è l'origine e il motivo di tutta la filosofia occidentale, il fondamento della nostra cultura.
Davvero aleggiava, nei giorni dell'agonia del papa, malgrado il chiasso massmediatico, un benefico clima di raccolta spiritualità a testimonianza dell'insopprimibile bisogno dell'uomo di conferire alla propria esistenza un significato che trascenda la mera, grezza materialità.
Non è infondata la speranza che la morte del papa abbia costituito l'occasione, per credenti e non credenti, di apprendere che non si muore mai veramente e che fra vivi e morti continua nei secoli un fecondo, ininterrotto dialogo e una silente, interiore solidarietà. Tutti, vivi e morti, partecipiamo del medesimo mistero della nostra tragica, fragile esistenza.
L'intolleranza
L'esistenza umana, già intrinsecamente fragile, esposta com'è a pericoli, sventure e malattie, è resa ancor più precaria da un vizio che attraversa tutte le culture: l'intolleranza.
In nome di dottrine religiose, principi etici, concezioni del mondo diverse, pregiudizi ingiustificati, gli uomini lottano e si aggrediscono fra loro, spesso con ferocia, diversamente dalle specie animali che, se si sbranano, lo fanno quasi esclusivamente per soddisfare i loro bisogni alimentari.
Studiando la storia e la filosofia, conosciamo le vicende di Giordano Bruno, messo al rogo per le sue idee troppo avanzate rispetto ai tempi, di Galileo Galilei e della sua famosa abiura, conosciamo la turpe e secolare opera dell'Inquisizione, gli eretici perseguitati e trucidati, la caccia alle streghe, le teste mozzate durante la Rivoluzione francese, i campi di sterminio nazisti, i gulag sovietici. Una lunga serie di orrori e di violenze che ha costellato il cammino della storia.
Altre volte una razza si ritiene superiore biologicamente, e in modo infondato su di un'altra, e si genera il razzismo. Oppure è un genere a ritenersi superiore all'altro: storicamente l'oppressione secolare del genere femminile nasce dal discutibile convincimento che l'uomo sia superiore alla donna.
Esistono poi anche forme di intolleranza meno vistose, quelle che nascono da pregiudizi di casta, di classe sociale, di corporazione, ma forse è più giusto parlare di discriminazione. Esiste l'intolleranza economica, laddove all'individuo è preclusa la libera iniziativa economica, perché una burocrazia pseudo-onnisciente, che governa e pianifica, determina dall'alto ogni attività. Siffatti sistemi economici, presto o tardi giungono alla rovina, quasi per implosione; si veda il recente crollo dell'impero sovietico.
Eppure un'illustre tradizione del pensiero occidentale, da Ockham a Boccaccio, da Erasmo a Montaigne, da Locke a Voltaire, ha predicato i valori della pacifica convivenza tra gli uomini e della tolleranza.
Il problema è che nel corso della storia, alcune elite culturali presumono di possedere la verità e per il bene del mondo, per redimerlo e migliorarlo, cercano di imporre il proprio sistema di valori e credenze agli altri, ritenendo legittimo anche il ricorso alla forza e alla violenza. Per il bene di tutto il genere umano.
Nelle sue forme estreme, l'intolleranza si intreccia al fanatismo. Le buone intenzioni si trasformano nell'edificazione di spaventosi inferni. Illuminante è a questo proposito un libretto uscito di recente nella traduzione italiana, dello scrittore israeliano Amos Oz: Contro il fanatismo ne è il titolo.
Quello che i riformatori violenti non capiscono è che se da una parte la scienza è in grado di formulare teorie verificabili (e comunque smentibili) sulla base di una metodologia rigorosa, il mondo delle idee è molto più aleatorio. L'uomo è fallibile, dotato di una razionalità limitata e quindi soggetto a errori anche grossolani.
Consapevole dei propri limiti gnoseologici, l'uomo dovrebbe perciò vivere secondo le proprie idee, avere la libertà di manifestarle e praticarle nel rispetto della libertà e della vita altrui, senza volerle imporre con la forza agli altri.
Le società più evolute e aperte vivono di questo fecondo dialogo culturale, di questo rispetto reciproco, dove lo scontro fra concezioni diverse avviene in maniera rituale e pacifica.
Non esistono benessere materiale e psicologico, sviluppo delle arti e delle scienze, laddove c'è guerra, distruzione, dove il ciclo della vita quotidiana, la continuità di studi ed affari, è resa impossibile dalla violenza.
L'intolleranza, dunque, sia nelle forme vistose della guerra di religione, sia nelle più sottili e subdole forme di discriminazione fra esseri umani, è un male. Coltiviamo allora il suo naturale antidoto: la tolleranza. Ma cos'è la tolleranza?
Ci risponde Voltaire, nel suo Dizionario filosofico del 1763: "Che cosa è la tolleranza? È l'appannaggio dell'umanità. Noi siamo tutti impastati di debolezza e di errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre balordaggini, è la prima legge di natura".
I diritti dell'uomo
Tra le conquiste più significative del Novecento va annoverata la universalizzazione dei diritti dell'uomo.
La sensibilizzazione e l'attenzione verso i diritti umani si sono talmente estese nei decenni trascorsi, da far sì che "i diritti dell'uomo costituiscono al giorno d'oggi un nuovo ethos mondiale", come ebbe a dire nel 1988 Walter Kasper.
Eppure si tratta di una conquista tutt'altro che pienamente realizzata. Basta sfogliare i quotidiani, seguire i telegiornali, scorrere la saggistica di attualità per accorgersi che, ovunque nel mondo, avvengono soprusi, violenze, oppressioni.
I diritti di milioni di persone a vivere in libertà e in sicurezza vengono disattesi e scherniti, i bambini vengono sfruttati per i più inverecondi commerci, i vecchi emarginati, i poveri discriminati, le donne private della possibilità di condurre un'esistenza secondo la propria autonoma determinazione. Per non parlare dei diritti al lavoro, all'istruzione, alla salute, alla privatezza, a vivere in un ecosistema non degradato.
Il detto di Rousseau, contenuto nel Contratto sociale: "L'uomo è nato libero ma dovunque è in catene" è purtroppo ancora attuale. I diritti, proclamati sulla carta, tardano ad essere applicati.
Eppure, la storia dei diritti dell'uomo, dell'individuo, affonda le sue radici più prossime almeno nel Seicento e nel Settecento, con Locke, per cui gli uomini nascono liberi ed uguali, per proseguire con gli illuministi; idee poi raccolte e maturate dalla Rivoluzione americana e da quella francese; per giungere infine alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948.
Sono il frutto, dunque, della lenta evoluzione storica e morale della nostra specie.
I motivi che impediscono una loro completa attuazione, vanno ricercati, a mio avviso, in una diversa serie di fattori.
In primo luogo non si tratta di bisogni umani fisiologici ed oggettivi, facilmente misurabili e documentabili, bensì di bisogni storici e culturali, legati all'evoluzione biopsichica, sociale e culturale della specie e quindi soggetti a mutamenti dipendenti dal variare delle vicende storiche e dall'evoluzione del progresso tecnologico.
Gli interessi politici ed economici di una minoranza possono inoltre opporsi alla loro realizzazione in tante parti del globo. Coloro che detengono potere e privilegi tendono a conservali, non facendosi scrupolo di ricorrere anche alla violenza.
Infine, un ambiguo, quanto pericoloso "relativismo culturale", ha fatto breccia tra le elite intellettuali dell'Occidente, finendo col giustificare, in nome della diversità culturale, misfatti e oppressioni che vengono perpetrate in varie aree del pianeta.
Per favorire il rispetto universale dei diritti dell'uomo, non esistono soluzioni infallibili e onnipotenti.
Esiste un'organizzazione, Amnesty International, che svolge un proficuo lavoro di denuncia.
C'è la comunità internazionale che può decretare sanzioni politiche ed economiche nei confronti di quei Paesi dove i diritti umani vengono palesemente violati. Esiste la possibilità di ricorrere all'uso della forza, alla guerra, ma si tratta di una soluzione che spesso si può rivelare peggiore del male.
Eppure Kant aveva intravisto proprio nell'affermarsi di una cultura dei diritti umani il viatico più sicuro per raggiungere quella che è forse la più nobile e dolce utopia dell'uomo: la pace perpetua.
Il telefono cellulare
Sono stato per un lungo periodo diffidente nei confronti del telefono cellulare.
Gli esibizionisti che ce l'avevano costantemente attaccato all'orecchio, persino alla guida, assumendo espressioni per nulla intelligenti, mi ispiravano assai scarsa simpatia.
Tuttavia, col tempo, ne sono rimasto catturato anch'io. Non rincorro l'ultimo modello, risibile status-symbol, ma riconosco che il telefono cellulare ha, negli ultimi anni, cambiato la vita di tutti noi.
Ha, per esempio, spedito in pensione le vecchie cabine telefoniche, verso le quali nutro una mesta nostalgia. Diffuse capillarmente sul territorio nazionale, presenti in ogni centro grande o piccolo, da Sondrio a Cefalù, le cabine telefoniche erano diventate un importante simbolo dell'unità nazionale.
Oggi non ci sono quasi più. E presto, forse, spariranno gli orologi da polso. Il cellulare li sostituisce egregiamente: oltre a segnare l'ora, fa da cronometro e da sveglia.
Non solo: funge da videogioco, da rubrica, da calcolatrice, da foto e da video-camera, da quotidiano, da computer. È multimediale.
Dietro la prepotente affermazione del telefono cellulare non ci sono soltanto ragioni utilitaristiche. Anzi, come sempre nell'affermazione di un nuovo oggetto, conta molto la sua funzione psicologica.
Portare con sé il telefonino è come portarsi appresso un pezzetto di casa: ci si sente più sicuri, meno soli nell'affrontare un mondo, che tutti noi a volte percepiamo come ostile. Non solo il cellulare ci può essere utile nelle situazioni di emergenza, ma anche in circostanze più banali, quotidiane; esso ci permette di sentire più vicine le persone cui siamo più emotivamente legati.
In un'epoca storica di declino forse irreversibile della corrispondenza epistolare il telefonino, tramite gli SMS, ha riconferito valore alla parola scritta, impiegata in una comunicazione al passo coi frenetici ritmi della vita contemporanea, una corrispondenza stringata, veloce, immediata, come sarebbe senz'altro piaciuto ai futuristi, dove la brillantezza di una personalità ha la possibilità di estrinsecarsi ricorrendo a pochi caratteri.
Grande strumento di socialità, il telefonino permette anche ai più timidi di esporsi nella vita sociale, a piccole dosi, in maniera modulata e quasi intimista.
Inoltre penso che il telefonino giochi un ruolo crescente nella seduzione. Non solo la pubblicità dei cellulari è popolata di belle ragazze e baldi giovanotti, ma davvero il telefonino costituisce una possibilità in più per avvicinare ragazze e ragazzi, spezzare le barriere tra coetanei. Basta un messaggino e può scoccare la scintilla.
Che non si tratti ormai di un oggetto effimero, bensì di un'invenzione tecnologica destinata a durare, lo testimonia la sua diffusione ormai planetaria.
Pensavamo che il cellulare attecchisse soltanto presso gli italiani, notori esibizionisti, sempre un po' sopra le righe e invece il cellulare ha conquistato pure l'austero e calvinista Nord del mondo. Persino gli svizzeri, compassati tradizionalisti, ne sono diventati fanatici estimatori.
Scriveva, soltanto pochi anni fa, Derrick de Kerckove:
"Il telefono cellulare è la più intima di tutte le nostre tecnologie di comunicazione, sebbene alcuni potrebbero sostenere che è anche la più rumorosa e intrusiva". Oggi dobbiamo riconoscere che la sua profezia si è pienamente avverata.
Il nuovo papa
Chissà se Joseph Ratzinger si considera davvero soltanto "un umile lavoratore della vigna del Signore", come si è definito appena nominato papa il 19 aprile?
La frase già denota grandi capacità comunicative e ci rende il nuovo pontefice, Benedetto XVI, molto simpatico.
Eppure le sfide cui è chiamato a rispondere il nuovo papa sono tante, specialmente in questo inizio di secolo turbolento e pieno di insicurezze. Con la fame che attanaglia ancora i 3/4 della popolazione mondiale, mentre si va imponendo globalmente un pensiero economico sempre più lontano dalle esigenze dei poveri, dei diseredati, dei deboli, degli oppressi, in favore invece delle ragioni e degli interessi dei ricchi e dei potenti.
Con un antagonismo, quello tra cristianesimo e Islam, che sta radicalizzandosi in maniera preoccupante, mentre il dialogo ispirato alla saggezza e alla moderazione sembra l'unica valida alternativa all'uso delle armi, che tanti disastri ha già procurato.
Con una crisi dell'uomo che, almeno in Occidente, affida la propria felicità soltanto al soddisfacimento dei bisogni della sfera materiale, negando pericolosamente la spiritualità.
Con una scienza che procede per la propria strada, astraendosi sempre di più da quei valori umani che dovrebbero ispirarla
Su alcune di tali questioni questo papa tedesco di 77 anni, gentile, intelligente e dotato di sense of humour, si è già espresso. Il papa non ha legioni, è noto, ma la sua autorità in Occidente e nel mondo è ancora tale da poter incidere su molti problemi ancora aperti.
Benedetto XVI dovrà pronunciarsi inoltre sulle donne prete, la riconciliazione con l'ebraismo e il dialogo con le altre religioni, la sessualità e il concepimento, i giovani e soprattutto la pace: molto il papa può, deve fare e farà per la pace nel mondo, condizione primaria per la sopravvivenza dell'uomo sul pianeta. È questa anzi, a mio avviso, la sfida davvero cruciale e prioritaria che pone il mondo contemporaneo.
Ratzinger succede a un pontefice, Karol Wojtyla, che aveva fatto breccia per lungo tempo nel cuore della gente. Già questo è un compito arduo. Ma il papa tedesco non sembra essersi fatto prendere dallo scoraggiamento. Forte della sua preparazione teologica e intellettuale, il nuovo papa sembra voler già prendere le distanze dai meeting interreligiosi, dall'incessante viaggiare per il mondo, dai grandi raduni di massa, dai numerosi processi di beatificazione, tratti distintivi del precedente pontificato.
Si sa che ha in uggia il relativismo culturale, per cui tutte le culture e tutte le religioni ipoteticamente si equivalgono; inoltre, come il predecessore Giovanni Paolo II, è un fiero avversario del marxismo, che giudica una "schiavitù indegna dell'uomo".
Ce la farà Ratzinger a portare a termine il suo immane compito?
Secondo Jean Daniel, un acuto e autorevole osservatore, sì, a patto che il suo messaggio si rivolga a tutti gli uomini e sappia attingere a quei valori universali condivisibili da tutti gli esseri umani. Si esprima, cioè, "in nome di quel vasto insieme di valori che sono il dato comune tra la saggezza greca, la cultura romana, il messaggio dei dieci comandamenti, il sermone della montagna, l'eredità delle rivoluzioni americana o francese, la morale universale di Immanuel Kant, la dichiarazione dei diritti dell'uomo e la Carta dell'Onu".
Insomma papa Ratzinger deve saper aprirsi alla cultura laica e trovare una giusta sintesi tra san Pietro e Kant.
La democrazia
Etimologicamente "governo del popolo", quando parliamo di democrazia il nostro pensiero corre subito a quello che rimane il prototipo della democrazia, l'Atene di Pericle del VI-V secolo a.C., dove i cittadini riuniti nell'agorà deliberavano intorno al governo della polis, della città.
L'origine della democrazia è dovuto alla necessità per gli uomini di superare lo stato di natura, quello in cui ogni uomo ha paura del suo simile. Nasce così, su un patto di non aggressione reciproco lo stato, che garantisce protezione agli individui. Lo stato si fa democratico quando si ispira al principio dell'unicuique suum tribuere, quando cioè si realizza una qualche forma di giustizia distributiva.
Nel corso dei secoli il concetto di democrazia si è evoluto, principalmente ad opera dell'illuminismo e del pensiero liberale e siamo giunti alle democrazie moderne, più articolate e complesse, dove non è più possibile la democrazia diretta ateniese, in quanto il governo non riguarda più qualche migliaio di uomini, ma milioni.
Le democrazie sembrano presentare alcuni indubitabili vantaggi rispetto alle autocrazie e al dispotismo: garantiscono la libertà di opinione, la libertà di stampa, la libertà di riunione e di associazione, tollerano il dissenso, favoriscono i commerci anziché le guerre, determinano delle regole certe che limitano il potere dei più forti, sono costituite da poteri che si controllano vicendevolmente, i cittadini possono scegliere le elite che si occupano dell'interesse generale della repubblica.
Le democrazie sono società aperte, per usare una fortunata denominazione di Karl Popper, in movimento, dove "dall'attrito perpetuo delle idee", come lo definiva Carlo Cattaneo, nasce un incessante rinnovamento. Le democrazie tollerano il conflitto, ne riconoscono anzi il ruolo propulsore e giungono ad una risoluzione pacifica del medesimo. La lotta per il potere è anch'essa una competizione assolutamente pacifica, regolata da leggi e da regole certe e condivise.
I sistemi democratici si stanno espandendo nel mondo, rimanendo tuttavia minoranza rispetto al numero delle dittature. Eppure sembra che la specie umana abbia sempre più bisogno di democrazia per realizzare una qualche forma di progresso, se è vero, come ha fatto notare il Nobel dell'economia Amartya Sen, che non ci sono democrazie che conoscano la carestia.
Le democrazie moderne non sono tuttavia esenti da difetti. Quell'acuto studioso del fenomeno che fu Norberto Bobbio li identificava principalmente nella sopravvivenza del potere invisibile, nella permanenza delle oligarchie, nella soppressione dei corpi intermedi, nella rivincita della rappresentanza degli interessi, nella partecipazione interrotta, nell'apatia e nel conformismo delle masse, nello strapotere dei tecnici, nell'aumento degli apparati burocratici.
Alcune di queste manchevolezze sono in parte il frutto del divario fra una concezione ideale della democrazia e la realtà concreta degli uomini, anche se molto può essere fatto per avvicinare il reale all'utopia.
La sfida tuttavia principale che si apre davanti alle democrazie pluraliste contemporanee è quella di allargare la partecipazione e i meccanismi della democrazia alla vita sociale, di introdurre elementi di democrazia, di potere che va dal basso verso l'alto anche in quelle vaste organizzazioni autocratiche o burocratiche, costituite dalla grande impresa e dalla pubblica amministrazione. La dignità e la felicità dell'uomo ne avrebbero tutto da guadagnare.
La guerra
Nonostante la storia dell'uomo sia millenaria, l'umanità non sembra aver attraversato nessun periodo prolungato senza guerre.
La guerra, con i suoi orrori e le sue crudeltà, sembra appartenere al patrimonio genetico della specie umana.
È un poema sulla guerra, quella fra Greci e Troiani, il primo grande libro della civiltà occidentale, l'Iliade e anche oggi, che abbiamo ormai superato la boa del terzo millennio, la guerra divampa in varie parti del globo, guerre fra nazioni, ma anche guerre civili, interne ai singoli stati.
Eppure l'aspirazione alla pace fa ugualmente parte dei sogni dell'uomo, tanto che il massimo filosofo della modernità, Immanuel Kant, dedicò un volumetto importante allo studio delle condizioni che avrebbero condotto alla pace perpetua.
Perché allora l'uomo vuole il bene e fa il male? Perché la storia umana è un succedersi ininterrotto di atrocità, un "immenso mattatoio", secondo la definizione datane da Hegel nella sua Filosofia della storia? Perché la guerra?
Freud rispose a quest'ultima domanda affermando che nell'uomo c'è un'ineliminabile spinta aggressiva e distruttiva, che solo l'incessante processo di civilizzazione può tentare di tenere a bada.
Ma la guerra, questo "duello su vasta scala per costringere l'avversario a piegarsi alla propria volontà", come la definì Von Clausewitz, riconosce a mio avviso, ragioni supplementari; di carattere economico e ideologico.
Gli uomini entrano costantemente in conflitto, a causa di interessi e di visioni del mondo contrapposte e, almeno in apparenza, inconciliabili.
E, ritornando nell'ambito della psicologia, possono affacciarsi alla ribalta della Storia, favoriti da un preciso contesto economico e culturale, leader animati da una volontà di potenza distruttiva, dalla personalità gravemente disturbata, capaci di convincere le masse della giustezza dei loro propositi.
Di personaggi sanguinari e affascinanti allo stesso tempo, ne incrociamo di continuo, sfogliando qualsiasi manuale di Storia. Hitler, Stalin, Gengis Kahn, Caligola, Nerone, Tamerlano...
E, spiace ammetterlo, per un imperscrutabile mistero della natura umana persino persone colte colte e capaci di affetto autentico nei confronti dei propri familiari e della cerchia degli amici, riescono a macchiarsi di crimini infamanti nei confronti dell'umanità. È il caso, per esempio, di molti gerarchi nazisti, affabili nella quotidianità, che leggevano buoni libri e ascoltavano buona musica, capaci poi di pianificare freddamente lo sterminio di esseri umani innocenti.
I pacifisti sostengono che la guerra è diventata ormai nella coscienza evoluta, uno strumento obsoleto nella risoluzione dei conflitti. E hanno sostanzialmente ragione.Purtroppo non riescono a dirci cosa dobbiamo fare, in concreto, se imperi o nazioni sono pronti ad annientarci senza pietà.
La speranza di tutti va riposta nella costruzione di una Società delle Nazioni, giudice super partes, che abbia l'autorevolezza e la forza di dirimere le contese in nome di leggi e di regole chiare, stipulate in precedenza. Qualcosa che assomigli all'Onu di oggi, ma riveduta e corretta, più giusta ed efficiente.
La pace e non la guerra è ciò di cui noi e le generazioni future abbiamo bisogno.
La condizione femminile
"Questo è un mondo che ha sempre appartenuto al maschio", scrive Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso.
L'enunciato è probabilmente valido ancor oggi, ma senz'altro in misura meno intensa, meno perentoria, più sfumata. Riguarda soltanto alcune sfere dell'esistenza e non altre.
Tre secoli di femminismo hanno modificato la posizione della donna nella società. Il Novecento è stato un secolo particolarmente ricco di analisi sulla condizione femminile, alcune acute, altre, secondo me, a dir poco fantasiose. L'essere donna, il vissuto femminile, grazie soprattutto al contributo della psicoanalisi, è stato indagato con meticolosità e tutta la teoria e la pratica prodotte hanno influito non soltanto sull'autoconsapevolezza delle donne, ma anche su quella degli uomini.
Che oggi appaiono sempre più disorientati, incerti, dubbiosi, nella quasi totalità ormai renitenti a incarnare quel modello di maschio prepotente e oppressore, che sembra irreversibilmente tramontato.
La stessa società dei consumi, lungi dal richiedere virtù guerriere, ha femminilizzato un po' tutti.
Maschile e femminile sono due poli sempre più compenetrati e confusi e vanno a comporre personalità forse meno scisse che in passato, più tendenti all'androginia. La biologia e la psicologia ci hanno insegnato che maschile e femminile sono dentro ognuno di noi; le differenze tra maschio e femmina a livello psichico esistono, ma sono sottili, sfumate, questione di impercettibili e insondabili qualità e quantità.
Le femmine si affermano oggi nella scuola, dove sono mediamente più brave dei maschietti, nelle professioni, - tra i medici per esempio, le donne stanno superando numericamente i maschi -, nella società in genere, dove la pubblicità si rivolge di preferenza a un pubblico femminile, essendo le donne quelle che orientano e compiono di fatto la quasi totalità degli acquisti.
Un benefico caos domina dunque la società contemporanea. Un caos ricco di promesse e di opportunità, foriero di un nuovo ordine più complesso e articolato.
Forse, da maschietto, tendo a sottovalutare le disparità ancora esistenti tra uomini e donne. Ma mi sembra che alle donne di oggi non sia precluso praticamente alcunché e francamente mi dà noia il vittimismo querulo di chi invoca per le donne un trattamento di favore, come ad esempio delle quote fisse a loro destinate ai vertici delle aziende, delle università, della politica e della pubblica amministrazione. Le donne brave, abili, capaci possono oggigiorno affermarsi senza ricorrere a trucchi che le mortificano e vanificano nello stesso tempo i benefici della libera concorrenza.
Emergere, poi, raggiungere i vertici, è difficile per tutti, anche per gli uomini, particolarmente in Italia dove nepotismi, favoritismi, raccomandazioni, cooptazioni minano l'efficienza dell'intero sistema economico e la giustizia sociale. Temo che a volte le femministe tendano a idealizzare la vita dell'uomo, a crederla soltanto all'insegna dell'avventura, del gioco, del divertimento.
Credo, al contrario, che l'esistenza sia spesso più gratificante e ricca di possibilità per le donne delle classi sociali superiori che non per gli uomini appartenenti alle classi sociali inferiori, oggi come nel passato.
Già le etere greche o le matrone romane se la passavano meglio degli schiavi, le castellane meglio dei vassalli e dei servi della gleba, le regine meglio dei loro sudditi.
Nessuno oggigiorno può credere, in buona fede, alla superiorità dell'uomo sulla donna. I risultati raggiunti dalle donne nelle arti, nella scienza, nella letteratura, nella politica, nell'imprenditoria, nel corso dei secoli, e particolarmente oggi, sono tali che qualsiasi donna è autorizzata a impegnarsi con fiducia nel futuro e ad aspirare a un'esistenza ricca di significato quanto gli uomini.
Il processo di liberazione della donna, per quanto riguarda le ricche regioni dell'Occidente, mi sembra pressoché concluso.
Se i ponderosi saggi delle femministe sono quasi spariti dalle librerie, mentre imperversavano sino alla fine del secolo scorso, significa che gli obiettivi di emancipazione della donna sono stati raggiunti.
Ora si tratta, a mio avviso, di ridare la parola alle donne di altre culture e di altri continenti. Le donne europee e americane hanno comunicato al mondo come volevano vivere.
La libertà non si può imporre. Ora spetta alle altre dirci in cosa vorranno che consista la loro libertà.
Il computer al servizio del progresso dell’umanità

La nostra era moderna, altamente tecnologizzata, è stata giustamente definita l’era delle macchine. Con la rivoluzione industriale, l’uomo ha rivoluzionato anche il proprio rapporto con il lavoro e la tecnica. Se prima infatti era l’uomo l’artefice della propria attività e di ogni sua realizzazione, sempre di più è stata sfruttata ed usata la macchina, come intermediario efficace fra l’uomo e la sua produzione.
La macchina infatti ha soppiantato l’uomo in molte attività, creando anche problemi sociali non di poca importanza, come quello della disoccupazione. La tecnologia sempre più all’avanguardia soprattutto in paesi come il Giappone, la Germania, gli Stati Uniti, crea oggi macchine perfettissime, capaci persino di «pensare».
Si tratta dei computer, dei cervelli elettronici, in grado di immagazzinare miliardi di dati e di riprodurli a comando, in qualunque momento.
Questa del computer è forse la terza grande rivoluzione tecnologica della recente storia moderna, dopo la macchina a vapore e il motore a scoppio. Credo infatti che l’impiego dei computer diventerà sempre più un fatto generalizzato e che il loro uso potrà cambiare notevolmente il sistema di vita dell’uomo del futuro.
Già oggi respiriamo l’aria di una società robotizzata o computerizzata. Le piccole e grandi «banche di dati» sono ormai entrate non solo nei più importanti complessi industriali, ma persino negli uffici, nei negozi, nella pratica quotidiana. Essi sono in grado di svolgere, con precisione e velocità superiori a quelle umane, una eccezionale mole di lavoro. Se oggi queste apparecchiature hanno ancora un costo elevato, non passerà molto tempo che diventeranno accessibili alla stragrande maggioranza della gente.
La civiltà del futuro è quindi, sicuramente, una civiltà ad alta tecnologia computerizzata, dove questa macchina potrà essere messa al servizio del progresso dell’umanità con estremo profitto. Il futuro del computer è il futuro di tutti noi, perché il suo impiego potrà essere utilizzato su scala sempre più vasta, con effetti che forse, oggi, sono ancora inimmaginabili. Nel campo della medicina, per esempio, il computer potrebbe fare miracoli e potrebbe permettere ad ogni medico di conoscere in pochissimo tempo tutte le caratteristiche dei vari farmaci in commercio per un determinato tipo di disturbo, le più recenti tecniche di intervento o di cura.
Il computer potrà permettere a tutti una vita più facile e una risposta più sicura a tutti i più importanti interrogativi. In ogni caso, la macchina non potrà mai fare a meno dell’uomo. Per fortuna infatti è in grado di «pensare» ma non di ragionare, di creare o di inventare. Egli può trarre il miglior risultato possibile dalle informazioni che gli sono state fornite, ma non può cambiarle, crearne di nuove, manipolarle.
Saggio breve: “L’eutanasia”
di Edoardo Sandon
La notizia che il parlamento olandese ha autorizzato l'eutanasia ha rinfocolato anche da noi il dibattito sulla "buona morte", radicalizzando vieppiù le posizioni dei favorevoli e dei contrari. Personalmente, credo si tratti di un problema bioetico di notevole complessità, poco adatto ai ferrei e irrinunciabili convincimenti e che dà adito, invece, sempre secondo la mia modesta opinione, a dubbi personali, ripensamenti, perplessità. Da un lato, la nostra coscienza di individui moderni, laici e illuministi, sensibili in sommo grado ai diritti umani, ci porta a pensare che siamo legittimi proprietari della nostra vita, liberi di condurla come ci piace e perciò anche di interromperla quando l'esistenza ci appare troppo dolorosa o priva di significato. Dall'altro, la nostra anima cristiana, cattolica, romantica, che sopravvive persino in quest'epoca di sbadata secolarizzazione, magari in forma larvata e inconscia, ma vigorosa, ci avverte che la sfera del razionale non spiega tutto, che la vita umana possiede un valore incommensurabile che nessun dolore può scalfire e un'aura misteriosa, ineffabile, sacra, di cui magari ci sfugge il senso, che soltanto oscuramente intuiamo.
In alcuni momenti ci scopriamo a pensare, insomma, che non possiamo escludere l'esistenza di un Dio cui dobbiamo rendere conto e a cui dobbiamo la vita. Sentiamo il suicidio (e l'eutanasia è una forma di suicidio) come peccato. Conciliare e armonizzare questi due poli dialettici all'interno della nostra coscienza non è compito facile. Spesso la sintesi e l'equilibrio raggiunti sono provvisori e soggetti a ripensamenti. Il dolore e la morte, poi, sono temi con cui l'uomo contemporaneo non ama intrattenersi e preferisce rimuovere ed esorcizzare, stordendosi nell'attivismo e nel divertimento. Paradossalmente ciò rende il nostro approccio a queste esperienze rudimentale e immaturo. Ripetute ricerche confermano, ad esempio, che i medici, in Italia in particolare, tendono a trattare il dolore fisico dovuto alle malattie in maniera inadeguata, irrazionale, "sottodosata". Altri studi sottolineano come l'esperienza della morte, sempre più spesso relegata nell'indifferenza di una corsia di ospedale, non sia mai stata così negata, respinta, impoverita come nelle moderne società affluenti. Ecco, forse essere a favore dell'eutanasia, della "buona morte", significa oggi principalmente ridare significato e dignità ad esperienze come il dolore, la morte, la solidarietà fra gli uomini. Significa farsi responsabile carico dei problemi generati dalla sofferenza dei malati terminali di cancro o di qualche altra grave patologia, di chi è costretto a condurre un'esistenza ai limiti dell'umano. Ma i distinguo da operare sono tanti e difficilissimo è generalizzare. Alla società vengono richiesti sensibilità e un diffuso e sviluppato senso di responsabilità. Per esempio: se la persona è incosciente, chi decide? E qual è il confine preciso fra il legittimo intervento sanitario per salvare una vita e quello che viene definito accanimento terapeutico?
Certo che no, a mio giudizio, a un'eutanasia affidata alla discrezione di un comitato di medici e infermieri, ai calcoli economici degli amministratori, agli interessi egoistici dei familiari. Sì, forse, a un'eutanasia voluta in modo inequivoco e reciso dalla persona sofferente, allo stremo, senza più alcuna speranza, in grado di esprimere (o che aveva già espresso) una ferma e meditata volontà di porre fine alla propria esistenza, date determinate drammatiche condizioni. Può succedere, più di frequente di quanto si pensi, che chi soffre, anche intensamente, sia ancora fortemente attaccato alla vita. In questo caso, penso che chi decidesse al suo posto, che è giunto per lui il momento di lasciare questa terra, non gli darebbe una "buona morte", ma commetterebbe un'ingiustificabile omicidio. Il pericolo cui ci espone l'ideologia occidentale contemporanea è di considerare umano soltanto chi è giovane, sano e produttivo.
La malattia e la morte appartengono alla sfera dell'umano come la buona salute. Sono esperienze dense di significato, non pesi che ci impediscono di consumare e divertirci, costi sociali da abbattere, inevitabili scorie di cui disfarsi al più presto.
Tema su Ungaretti
Parla dell'originalità e profondità della poesia ungarettiana
Ungaretti vive in un periodo in cui le idee e gli obiettivi che gli uomini avevano avuto sino ad allora vengono sconvolti e trasformati. Per esempio l’ideale dell’amor di patria viene esasperato con il nazionalismo, che porta ai conflitti tra le nazioni. C’è una grande voglia di cambiare, una rivolta contro la tradizione e il passato. I futuristi si fanno portavoce di questi sentimenti, esaltano la velocità, la forza, la violenza e la guerra. Anche nel campo della letteratura i futuristi rompono con la tradizione. Ungaretti si stacca dal futurismo, perché le poesie dei futuristi, come Marinetti, non hanno significato, se non nello sconvolgimento della forma tradizionale. Invece per Ungaretti lo sconvolgimento della forma non esprime una completa ribellione alla tradizione, ma rappresenta la confusione e lo stato d’animo di tutti gli uomini di quel periodo. Infatti Ungaretti si pone delle domande nelle sue poesie, non è indifferente a questo disordine. Queste domande sono quelle che nascono dal cuore di ogni uomo che non evita, ma incontra la realtà. Si potrebbe dire, come la bibbia “Signore, ci hai fatto un cuore inquieto finché non riposa in Te”. Anch’io qualche volta mi pongo delle domande, per esempio nei momenti di estremo dolore, come quando c’è stata la morte improvvisa di mio nonno, oppure quando succedono catastrofi (come il maremoto) o guerre nel mondo. In quei momenti è come se si svuotasse una parte di me. Allora mi sento perso e ho il bisogno di chiedermi: “Perché?”. Sento il bisogno di capire il significato, il perché di tali avvenimenti, ma so e sono certo, come dice Ungaretti nella poesia “Destino”, che gli uomini non sono fatti solo per il dolore. Anche se siamo continuamente schiacciati e oppressi, proprio perché non siamo fatti per il dolore, dobbiamo domandare una risposta, cercare un significato. Dobbiamo sperare, essere attaccati alla vita, perché l’uomo ha un cuore affamato, assetato di infinito. È per questo, per esprimere il suo attaccamento alla vita, per esternare questa sua domanda sul significato della vita che Ungaretti scrive poesie. Questa è la differenza tra Ungaretti e i futuristi. Chi è attaccato alla vita, infatti, domanda, invece chi è indifferente, chi esprime solo i suoi giochetti di parole, come i futuristi, è perché non ricerca un senso alla vita sua e a quella degli altri.

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Esempio



  


  1. tommaso

    l'uoomo spesso non rispetta la natura; la natura immangabilmente si prende la sua rivincita. Riflessioni

  2. giuseppe

    tema: secondo te,la società attuale considera le persone più sulla base di quello che hanno o di quello che sono?

  3. carllotta

    un tema sulle regole della scuola e sulle modifiche che si potrebberò cambire nel regolamento scolastico e magari consigliate da un alunno stesso.

  4. ilaria

    Tema sulla donna ai giorni nostri

  5. gaia

    sto cercando un tema che riguarda la priopria vita in un'altra epoca

  6. Bubi

    Un tema su festa tra amici

  7. luna

    Un tema su una giornata al luna park

  8. laura

    tema sul natale

  9. giada

    tema sui fantasmi

  10. beatrice lai

    un tema svolto seguendo lo schema narrativo di una storia