Decadentismo e Svevo

Materie:Riassunto
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Testo

DECADENTISMO
È un termine che si riferisce ad un breve periodo della letteratura francese di fine 800 tra il 1880 e 1890, quando esce la rivista "Les Décadents" attorno al poeta P. Verlaine.
• In Inghilterra non si usa il termine Decadentismo, ma estetismo, in riferimento ad un gruppo di autori, artisti in generale, che vanno da Pater a Wilde (dandismo).
• In Germania si parla di tardo-romanticismo, ma non di decadentismo.
• In Italia è ormai invalso questo termine. La colpa o il merito di questa etichetta è attribuibile a B. Croce e all’idealismo. Croce e Gentile e tutta la cultura neoidealistica italiana del I° 900 hanno usato il termine decadentismo nell’accezione di decadenza. Decadenza del romanticismo o almeno di un certo romanticismo, tanto che Croce ha parlato addirittura di crisi della letteratura.
È noto che B. Croce ha definito i primi tre decadenti Italiani (Fogazzaro, D’Annunzio, Pascoli) malati di nervi, in contrapposizione a Carducci. In un certo senso tutta la letteratura del ‘900 è del negativo ed è caratteristico che neoidealismo e marxismo si accordino nella condanna della letteratura decadente e diano del "decadente" agli scrittori quando li vogliono bollare d’infamia. Croce e Loukaes che condannano il decadentismo e questo lo fa esistere, lo fanno perché non corrisponde alla loro ideologia che è sostanzialmente razionalista e risale a Hegel.
Per comprenderci bisogna tornare indietro alla definizione di romanticismo. Il decadentismo si configura come decadenza del romanticismo. Esiste infatti un romanticismo idealistico che è quello che culmina in Hegel, è il romanticismo in cui si raccolgono le corrispondenti fondamentalmente razionalistiche, di tipo immanentistico, quelle cioè che fanno capo ad un io protagonista come epiteto del romanticismo, che di fatto ha assorbito la trascendenza ed è diventato Dio esso stesso. In Hegel questo fenomeno è vistosissimo all’interno di una totale totalizzazione razionalistica. Il moto fondamentale di Hegel è : "tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale". In questo c’è l’eliminazione di ogni trascendenza. Siamo di fronte alla filosofia dell’identico che è l’io come pura ragione.
Questo tipo di idealismo è quello che ha vinto perché è quello adottato dalle classi al potere. È la filosofia della borghesia liberale, vincente, che dalla rivoluzione del 1848 ha avuto in mano il potere. Questo spiega il motivo della sua vasta risonanza e perché in Italia abbia trionfato l’idealismo.
2. Diversità e inettitudine
Accanto a Baudelaire in cui questa malattia ha un nome, si chiama spleen, abbiamo un altro grande precedente: Dostoevskij. Egli inizia il suo libro, "L’uomo del sottosuolo" con le parole: "Sono malato, sono randagio". Questa categoria della malattia è il simbolo più evidente del sormontare di quelle ragioni inconsce di cui parlavamo prima. Si capisce che crede che la ragione possa risolvere tutto e che la storia sia un corridoio molto lungo che può essere percorso in tutta la sua lunghezza risolvendo tutti i problemi che si presentano per la strada, è un ottimista, quindi non è malato, non ha problemi di adattamento al reale, il reale gli va benissimo e se gli va male combatte per farlo andare come vuole lui.
Invece che sente di obbedire a delle ragioni che sono fuori dalle sue possibilità di conoscenza e volontà non può essere ottimista nelle sorti di se stesso e del mondo: tende a sentire se stesso come fuori campo, come diverso. Per questo la letteratura decadente è un letteratura della diversità e molti autori sono stati testimoni di questa diversità o perché ebrei, o perché donne o perché omosessuali o perché malati, per giungere a casi estremi di Kafka e Proust, come noi abbiamo casi eccellenti come Pirandello e Svevo.
Se pensate al personaggio sveviano, vedete che è, come Svevo stesso lo definisce, un "inetto", cioè colui che non è capace, che non è adatto a vivere, ad amare, ad avere dei rapporti efficaci nei confronti della realtà e quindi si sente diverso dagli altri. Non è che non abbia doti, anzi ne ha troppe, è più intelligente del necessario, ma questa intelligenza non è applicativa, non gli serve a modificare se stesso e il mondo: è quello che Dostoevskij ha chiamato ipertrofia della coscienza, è un’intelligenza che lo fa star male invece de renderlo più adatto alla società.
Nel I romanzo di Svevo, ad esempio, Alfonso Nitti che va a lavorare in banca, è un intellettuale, in qualche modo, in quanto passa il suo tempo libero nella biblioteca a studiare i filosofi, scrivere perché ha questa intelligenza in eccesso che cerca la via nella scrittura. Ma in banca no è capace di fare il semplice mestiere dell’impiegato: deve fare il copialettere, ma copiando, fa un sacco di errori e non perché è un ignorante, ma perché è troppo intelligente e invece per fare l’impiegato modello bisogna essere un po’ stupidi, bisogna sapersi adattare al reale. Se a quel tempo ci fossero stati computer, un impiegato come Alfonso Nitti avrebbe combinato un sacco di pasticci, proprio perché il computer è stupido e fa ciò che gli si dice di fare. Chi è troppo intelligente si illude di rendere intelligente anche il suo strumento e lo manda in tilt. È la stessa posizione che aveva Kafka di fronte alla sua macchina da scrivere: i suoi compagni impiegati la usavano tranquillamente come uno strumento da scrivere e lui invece restava in una specie di adorazione mistica di fronte alla macchina da scrivere, in una specie di impotenza adorante. In Svevo dunque il personaggio è questo inetto che non riesce ad avere questo rapporto soddisfacente con la realtà. Questo, in altri termini, si può dire, anche del personaggio, pirandelliano ad esempio "Il Fu Mattia Pascal", questo personaggio che è perseguitato, in un certo senso dalla divisione dell’io, che poi si sdoppia, diventando Adriano Meis, ma diventando proprio il Meis si illude di incominciare una nuova vita ma in realtà riesce solo a dimostrare di non essere capace di vivere e cerca di ritornare Mattia Pascal facendo il secondo suicidio e ritornando al suo paese come Mattia Pascal. Ma al suo paese non è più nemmeno Mattia Pascal e al termine della vicenda si ritrova "nessuno", l’unica consolazione è andare a trovare la propria tomba al cimitero dove c’è una lapide con scritto: "Qui giace Mattia Pascal". È questo l’inetto, il malato, il non-essere della grande narrativa decadente e questo vale per tutti i decadenti anche non italiani: Proust, Joyce, Mann. Queste storie di nichilismo, di annientamento dovute al cedimento di fronte a tutto ciò che sovrasta l’io come coscienza. Del resto vale la pena di citare la bella definizione che Freud dà del subconscio quando paragona l’inconscio alla parte immersa dell’iceberg e la coscienza alla parte emersa. La coscienza è quindi poca cosa di fronte a quella totalità dell’io rappresentata dalla parte immersa. La natura idealistica è quella che s’illude che l’io dell’uomo sia risolvibile tutto in termini di coscienza: ma questo è soltanto la parte minore della situazione, c’è sotto tutto il resto.
Il protagonista della letteratura decadente è un eroe che è consapevole di questo mistero che sta alle spalle della coscienza., che può essere anche un mistero religioso e che comunque lo trascende inesorabilmente facendolo inetto a vivere nella realtà.
ITALO SVEVO
1. La vita
Il suo vero nome Aron Hector Schmitz, nasce a Trieste il 19 dicembre 1861, da un padre ebreo di origine tedesca (il nonno Astolfo era giunto a Trieste come funzionario dell’impero asburgico) e da madre italiana, porta in sé questo carattere di estraneità che è tipico anche in altri scrittori ebrei: Kafka, Musil, Proust, Rilke, Freud, la cosiddetta "famiglia ebraico-cristiana". Cresce cittadino austriaco fino al 1918, viene educato in un collegio tedesco (1874-78), vive in una città di confine come Trieste, marginale alla cultura italiana e a quella austriaca, ma, a causa dei traffici commerciali e della sua posizione geografica, profondamente immersa nella mentalità mitteleuropea (Vienna, Budapest, Praga) da partecipare di fatto, al di là delle differenze linguistiche e dei sentimenti irredescentistici. In questa città, "crocevia di più popoli" e "crogiulo europeo", Svevo si forma una cultura poco italiana e molto europea: legge francesi, tedeschi, russi…
Lo pseudonimo di Italo Svevo indica comunque la sua consapevolezza di appartenere a due tradizioni culturali, quella italiana e quella germanica. Rimane 18 anni impiegato alla Banca Union (1880-1898); sposa nel 1896 la ricca Livia Veneziani e lavora nel colorificio del suocero (vernici sottomarine). Nei primi anni del secolo (1907) conosce l’irlandese Joyce, esule a Trieste, che gli dà lezioni di inglese e con il quale stringe una feconda amicizia letteraria (Joyce ha scritto Ulisse, Dedalus, Gente di Dublino ed è un esperto del "flusso di coscienza" automatico e del racconto analitico). Negli anni 1910-12 scopre la psicanalisi attraverso le opere del viennese Sigmund Freud, anzi con un nipote medico traduce Il sogno. Subisce l’influsso del filosofo tedesco Schopenhauer. Nel 1925-26 esplode il "caso Svevo" in Francia e in Italia. Muore nel 1928 a Motta di Livenza per un incidente d’auto.
2. Motivi letterari e ideologia
a. Preminente attenzione ai problemi dell’uomo, di cui scruta i meandri più riposti della coscienza, i famosi "autoinganni";
b. rappresentazione della società del suo tempo con opere di rottura, per svelarne le ombre, le finzioni, le angosce, per smitizzarla e demistificarla (diversamente dai vari Fogazzaro, Pascoli, D’Annunzio, che ne esaltano i difetti);
c. stile non elegante e antiletterario. Svevo ebbe sempre difficoltà con la lingua italiana (ad esempio usava l’ausiliare avere coi verbi riflessivi).
Secondo l’ideologia di Svevo la realtà è una buffa commedia, un indecifrabile caos, dove non c’è posto per la "felicità", né per la "salute", dove domina l’imprevedibile, il caso, il bizzarro, lo stato di malattia. Cade definitivamente il "mito positivo" romantico e borghese e si afferma il tema dell’inetto, dello "uomo senza qualità". Tale intuizione ha un’ascendenza schopenhaueriana, ma nasce anche da un "fraintendimento" della teoria della selezione naturale (che vede il più forte favorito sul più debole), sostenendo il primato dell’inetto sull’uomo di successo.
Gli inetti dello Svevo non si possono definire dei "vinti" alla maniera del Verga: questi ultimi sono rigettati indietro dopo aver tentato di superare il livello della loro classe; per gli inetti, invece, l’insuccesso è legato al "male di vivere" ed è una rinuncia di tipo filosofico ed esistenziale. Essi sono vinti ma senza grandezza perché la malattia della coscienza e l’inettitudine escludono la lotta. Sembra quasi che la malattia sia una condizione necessaria per conoscersi meglio, sia lo stato normale dell’uomo.
I motivi trattati nei romanzi sono pochi e ossessivi:
• amore
• senilità (non cronologica ma psicologica)
• malattia e inettitudine alla vita
• difficili rapporti con gli uomini
• lavoro
È evidente la crisi dei valori borghesi.
3. La poetica
In Svevo è caduta ogni funzione sociale e ideologica della letteratura: essa è attività privata, un vizio (almeno rispetto al mondo degli affari). L’autore stesso la praticò in questo modo, senza illusioni e con molti disinganni, fino a pensare seriamente di abbandonare, dopo l’insuccesso del secondo romanzo. I protagonisti dei tre romanzi sono dei letterati falliti: Alfonso scrive un romanzo a quattro mani con Annetta e, alla fine, si suicida (Una vita); Emilio è ancora una volta un letterato annoiato e deluso (Senilità); Zeno Cosini entra in scena con un diario che è definito dal dottore un cumulo di "tante verità e bugie", creando così le premesse di una ambiguità che svuota le stesse possibilità di un racconto reale (La coscienza di Zeno).
Perché scrivere allora? La funzione si capovolge: non più estetica o sociale, ma conoscitiva e critica. L’intellettuale, identificato ormai con l’inetto, il diverso, il malato, il nevrotico, ricorre alla letteratura, estraniandosi dall’attività economica e dai modelli sociali, per recuperare la misura della sua esistenza, mediante l’autoanalisi, e dei rapporti sociali. È una conoscenza frammentaria e disorganizzata della realtà, ma lo scrittore, ponendosi sul piano dell’ironia, prende le distanze dal mondo dei "sani" recupera una sua parziale autonomia, può esercitare la tolleranza verso di sé e gli altri.
4. Le opere (I tre romanzi)
• Una vita (1892)
Il romanzo è la storia di un giovane e romantico provinciale, Alfonso Nitti, da poco arrivato in città, il quale, impiegatosi al Banco Maller di Trieste, s’impiglia in una certa complicità libresca con una bella bas-bleu (signorina bene), Annetta Maller, figlia del ricco magister della Banca. A un primo sodalizio assai platonico succede l’avventura sensuale che turba e sconvolge il Nitti e lo trova dapprima mal preparato, quindi svogliato affatto di sfruttare la situazione abilmente, come gli consiglia la signorina Francesca, istitutrice di Annetta. Il Nitti torna in licenza al paese, e quando, vinta una strana indifferenza (inettitudine) direi quasi meccanica ad ogni propria decisione, rientra in città, ma Annetta è ormai fidanzata al cugino Macario, e Alfonso, che riassume il suo posto alla Banca, è trasferito ad un’occupazione assai minore.
Solo allora il Nitti comprende quello che ha perduto e vede il periodo da poco trascorso come una sosta luminosa nel suo cammino buio; sicché non trascorrono molti giorni che egli, rincasando, accende un braciere nella sua stanza, e con lucida freddezza si addormenta nella morte (suicidio).
Quest’opera all’inizio della stesura si intitolava Un inetto.
• Senilità (1898)
È il racconto dell’avventura amorosa che il trentenne Emilio Brentani si concede cogliendola di proposito sulle vie di Trieste.
Emilio è un impiegatuccio che gode nei circoli cittadini di una piccola fama letteraria e si duole di aver sprecato (e di non aver goduto) tanta parte di vita. Vorrebbe vivere come fa lo scultore Balli, suo amico, che è indennizzato dell’insuccesso artistico, da un grande successo personale, con le donne specialmente. Finora ad Emilio era sembrato di non aver saputo imitare l’amico, per le grandi responsabilità che su lui incombevano, la sorte di sua sorella, Amalia che vive accanto a lui nella stessa inerzia, non più giovane e affatto bella. Subito la sorella è agitata vedendo che il fratello senza alcun ritegno si dedica al gioco pericoloso e proibito dell’amore ma presto si convince, in seguito all’esempio del fratello e alle teorie di Balli, che essa fu ingannata e che l’amore dovrebbe essere un diritto di tutti.
Per Emilio intanto l’avventura si fa importante proprio in sproporzione al valore morale di Angiolina. Anzi ogni scoperta di una sua bassezza o di un tradimento non ha altro effetto che legarlo meglio a lei. Non sapendo imitare Balli ne invoca l’aiuto.
L’intervento di Balli fra i due amanti e anche tra il fratello e sorella ha degli effetti disastrosi. Tutte e due le donne si innamorano di lui. Inutilmente Emilio tenta di allontanarlo da Angiolina, perché costei gli si attacca, ma con facilità lo allontana dalla sorella che segretamente si procura l’oblio con l’etere profumato. Un giorno Emilio trova la sorella nel delirio della polmonite. Richiama il Balli e i due uomini aiutati da una vicina assistono la moribonda. Ancora una volta per aver scoperto un nuovo tradimento di Angiolina, Emilio lascia sola la sorella, ma poi ritorna da lei e le resta accanto finché chiude gli occhi.
Il romanzo è stato definito anche "quadrangolare" per le quattro figure che vi compaiono: Emilio, Angiolina, Balli, Amalia.
• La Coscienza di Zeno (1923)
Il libro è composto di lunghi episodi. Zeno è un malato immaginario, un abulico pieno di buon senso, un uomo che si lascia vivere ma in realtà imbocca sempre la via più giusta. Fumatore accanito accetta di entrare in una casa di cura per disintossicarsi, ma poi riesce ad evadere e riprende a fumare. Ricco e quasi disoccupato decide di sposarsi. Frequenta la famiglia Malfenti dove sono disponibili tre ragazze da marito.
È respinto dalla più giovane, ferma il suo interesse sulla più bella, Ada, e durante una seduta spiritica serale, mentre tutti sono intenti a far ballare un tavolino, si decide a fare la sua avance ad Ada toccandole il piede: ma il buio lo inganna e il piede toccato è quello della strabica Augusta.
E così in breve tempo si trova fidanzato con quell’Augusta che poi si rivelerà moglie impareggiabile. Ada si sposerà invece con un ridicolo violinista, certo Guido Speier, per il quale Zeno nutre la più spiccata antipatia. Una successiva sezione è dedicata alla relazione extraconiugale di Zeno. Complice un amico, malato anche lui, ma un po’ meno immaginario, tale Copler, Zeno si fa protettore e consigliere di Carla, una ragazza povera che studia canto e ha bisogno di un disinteressato mecenate. Questa deliziosa Carla, perfetta fusione di equivocità e di candore, diventa presto la sua amante clandestina, senza che in lui venga meno l’amore per la moglie, ormai necessario complemento della sua vita.
Carla è un’Angiolina più scaltra, recita meglio la parte dell’innocenza. Impossibile pensare a un matrimonio, Zeno è il più onesto dei mariti; e nemmeno Carla chiede tanto. La relazione si prolunga tra alti e bassi angosciosi perché il sedotto Zeno dubita di essere un seduttore; finché Carla avendo estorto molto denaro al suo protettore, è in grado di licenziare lui e il maestro di canto e di fidanzarsi con un uomo in grado di sposarla. Zeno torna così con uno sospiro di sollievo alla sua pace coniugale, senza che Augusta abbia mai sospettato nulla. Gli affari attendono ora Zeno; ha accettato di far parte di una società commerciale fondata dal cognato Speier, senza tuttavia impegnarvi il proprio patrimonio, sempre amministrato dal sagace Olivi. Ma presto gli affari dalla ditta commerciale Speier e socio volgeranno al peggio. Non solo di mese in mese aumenteranno le spese e diminuiranno gli utili, ma lo Speier si darà a rischiose operazioni di borsa che lo ridurranno al lastrico.
Onesto e pietoso, Zeno decide di alienare parte del suo avere per soccorrere il cognato e spera di poter indurre la cognata Ada, più ricca del marito, a fare altrettanto. Ma Ada sembra resistere. Per convincerla Speier finge il suicidio inghiottendo una dose mortale di sonnifero. Egli ha disposto le cose in modo che un intervento medico sia pronto e sicuro. Disgraziatamente, per una serie di disguidi, favoriti dal maltempo, il medico giunge troppo tardi e trova Speier morto. E cade qui il famoso lapsus di Zeno Cosini: il quale, credendo di seguire il funerale di Speier, segue invece il feretro di un altro defunto. È questo lapsus che svela il segreto rancore di Zeno per il cognato, per l’imbecille e discutibile personaggio che anni prima Ada Malfenti gli ha preferito come sposo. Sempre fortunato nelle sue disavventure Zeno eredita una passività da colmare perché nel frattempo la borsa si mete al rialzo e il suicidio di Speier si mostra come l’ultimo gesto inutile di un fallito, non nel gioco di borsa ma nella vita. Ma qui la narrazione si interrompe perché Zeno ha deciso di mandare al diavolo la cura del medico. E d’altra parte siamo giunti alla guerra e al dopoguerra, Zeno Cosini è diventato e sta diventando Italo Svevo e la memoria non può soccorrere più.
5. La concezione patologica dell’esistenza
La concezione patologica dell’esistenza emerge in alcune celebri pagine dei tre romanzi
• La malattia della madre di Alfonso, allucinante partecipazione del protagonista all’angoscia della madre, ai transfer che intercorrono tra le due personalità;
• Il delirium tremens di Amalia in Senilità;
• La morte del padre nella Coscienza di Zeno.
Dal concetto di patologico come elemento dominante della vita umana, Svevo giunge alla accettazione del patologico come unico aspetto della realtà, come la condizione stessa del vivere.
6. La novità de "La coscienza di Zeno"
Col suo terzo romanzo Svevo abbandona i moduli narrativi tradizionali e introduce le seguenti novità:
a. Racconta in prima persona, creando una voluta ambiguità tra il personaggio e l’autore. La "coscienza" è, al tempo stesso, soggetto e oggetto di conoscenza; l’io che narra è uno sdoppiamento dell’ "io" vissuto. Mentre finge di costruirsi, si smonta con le sue stesse parole (l’umorismo).
b. Viene meno la successione cronologica dei fatti e l’autore usa un tempo misto organizzato su tre livelli temporali: la Prefazione del medico, il primo manoscritto fittizio di Zeno (dal secondo al settimo capitolo); il secondo manoscritto (ottavo capitolo), composto dopo sei mesi di psicanalisi, allo scopo di deridere la diagnosi del medico e mettere termine alla cura.
c. La vicenda si svolge in otto capitoli e cinque episodi, che tolgono coerenza e unità al personaggio. Non c’è un nesso temporale, ma tematico.
d. Il racconto è un cumulo di verità e bugie dovuto sia alla deformazione del ricordo operato dalla memoria, sia al rapporto di odio-amore che si stabilisce tra paziente e medico.
e. Compare la tecnica del monologo interiore, che è una trascrizione immediata, non razionale-sintattica, di tutto ciò che si agita nella coscienza. Svevo, a differenza di Joyce, lo limita a una specie di discorso indiretto.
Per tutti questi motivi appare dissolto il personaggio ottocentesco e l’autore passa in secondo piano, nascosto dietro la coscienza del personaggio stesso.

7. Pirandello e Svevo
Sono molto vicini, sono "compagni di strada", esprimono un uguale giudizio negativo sulla società del loro tempo e sulla crisi dell’uomo, ma mentre Pirandello ha una posizione relativistica, perviene a una conclusione tragica e desolata, studia di più il rapporto uomo-società e i meccanismi del grottesco, Svevo batte la strada del problematicismo, scruta con analisi implacabile la psicologia dell’uomo e conclude con un sorriso ironico. Conosce inoltre la psicanalisi e è più moderno come tecniche letterarie (monologo interiore).
Inoltre, se in Pirandello le uniche vie d’uscita sono il delirio, il suicidio e la pazzia, il Svevo il personaggio "inetto" è più aperto alla tolleranza verso gli altri e verso se stesso mediante il processo di autocoscienza e l’ironia. Sul piano sociale, poi, sfruttando il gioco imprevedibile degli eventi, può giungere al successo.
8. Svevo e il suo tempo
Trieste fu la città in cui l’eco della crisi economica europea fu più sensibile, e più acuto il disagio dell’uomo di fronte ai nuovi problemi.
Solitudine del borghese, mancanza di una ragione di vita, di una solida fede di fronte al tramonto delle vecchie strutture politiche si riflettono nell’opera dell’ebreo Svevo con la stessa forza di Kafka, lo scrittore di Praga vissuto nello stesso periodo, di Musil, di Thomas Mann. Svevo è dunque l’unico narratore italiano che abbia effettivamente interpretato la grande crisi europea del primo ‘900. Nei tre romanzi descrive il problema dell’uomo che non sa e che non può inserirsi nella società a cui appartiene.
L’uomo, portato ad esaminare la propria funzione sociale, è distrutto dalla sua analisi, dalla propria inquietudine problematica che non è più individuale ma universale.
9. Svevo e la psicanalisi
I molteplici rapporti di Svevo con la psicanalisi, evidenziati esplicitamente nel terzo romanzo, ma presenti anche nei due precedenti, sono stati oggetto della riflessione dell’autore nell’ultima parte de La coscienza di Zeno, in pagine di diario e nello scambio di lettere avuto negli anni 1927/28 con Valerio Jahier
Il David scrisse a proposito di Svevo: "Svevo a preso da Freud elementi di una fenomenologia psicologica e non la teoria essenziale delle nevrosi. Freud ha rafforzato in lui una visione dinamica della psicologia dei "sentimenti", che Svevo aveva già perfettamente intuita e rappresentata. Ma l’apporto più prezioso di Freud allo scrittore mi pare di vederlo in quel "calore", in quel sentimento di "novità", in quell’idillio breve ma intenso tra un autore deluso e silenzioso da tanti anni e una "filosofia" ch’egli sentì profondamente innovatrice".

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