Cesare Pavese: vita, stile e analisi delle sue opere principali

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Testo

Cesare Pavese (1908 – 1950)
Nasce a Santo Stefano Belbo nelle Langhe cuneesi. Ultimo di 5 figli, a otto anni perde il padre e resta con la madre donna energica e severa che non riesce a far vincere al figlio, timido e introverso, le incertezze e le paure nei confronti della vita. Questa difficile situazione famigliare è una delle ragioni che possono spiegare la fragilità psicologica dello scrittore, le difficoltà incontrate per imparare quello che egli stesso definirà il “mestiere di vivere”. Le difficoltà ad inserirsi nella vita cittadina di Torino lo porta a sognare l’ambiente contadino in cui è nato come rifugio in una natura amica dove possa abbandonarsi all’evasione. In campagna si comporta da cittadino, in città da contadino e quindi non è mai interamente se stesso: questa ambivalenza caratterizza l’intera personalità di Pavese che nella ricerca di una impossibile identità proietta nel dissidio tra città e campagna i suoi problemi psicologici ed esistenziali, facendone il centro delle poesie e dei romanzi. Dopo il ginnasio Pavese frequenta il liceo D’Azeglio, ha come compagni Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila, Carlo Argan. Nel 1927 si inscrive alla facoltà di lettere dove si laurea nel 1932 discutendo una tesi di Whitman. La scelta non fu casuale ma rientrò in un più generale interesse per la letteratura degli Stati Uniti la cui scoperta alimentò un vero e proprio mito dell’America come terra dell’individualismo e della libertà. Nel 1932 traduce Moby Dick di Melvil. Nel 1933 diventa direttore della rivista “La cultura” e nel 1935 viene trovato in possesso di alcune lettere compromettenti che avrebbe dovuto recapitare ad un amica, viene processato e condannato a 3 anni di confino da scontare a Brancaleone Calabro un piccolo paese sulla costa ionica. Da questa esperienza nascerà il racconto “Il carcere”. Nel 1952 verrà pubblicato anche il diario postumo “Il mestiere di vivere”. Rientrato a Torino nel 1936 viene a sapere che la donna alla quale si sentiva sentimentalmente legato si era sposata; a questa delusione si accompagna l’insuccesso della raccolta di poesie “Lavorare stanca” che, uscita nel 1936”, passò quasi inosservata. Nel 1938 pubblica “Il carcere”, nel 1939 “Paesi tuoi”, nel 1940 “La bella estate”, nel 1942 “La spiaggia”. Dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943 Pavese si rifugia nel Monferrato dove era sfollata la famiglia della sorella. In questo isolamento attraversò un periodo di profonda crisi che lo indusse a riflettere sul significato del mito, della religione, dei valori della cultura classica, della crudeltà della storia, da cui nacque “La casa in collina” scritta fra il 1947 e il 1948. nel dopoguerra Pavese riprende la sua attività editoriale alla casa editrice Einaudi. E si iscrive al partito comunista. Per l’Unità scrive i dialoghi col compagno in cui affronta i problemi dei compiti dell’intellettuale e del rapporto letteratura – società. La crisi che vive Pavese si aggrava a causa del rapporto rivelatosi impossibile con l’attrice americana Costance Dowling alla quale è inspirata l’ultima raccolta di versi “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Non riesce ad essergli di conforto il suo successo di narratore, raggiunto con la pubblicazione di numerose opere, tra cui “La bella estate” 1948, “Il diavolo sulle colline” 1948, “La luna e i falò” 1950, composto in pochi mesi l’anno precedente che si può considerare un bilancio conclusivo della sua opera di scrittore. Nel 1950 ottiene anche il premio strega; il 27 agosto del medesimo anno si uccide nella camera di un albergo torinese.

La poesia
L’opera di Pavese risulta intimamente collegata alla sua sofferta vicenda umana e intellettuale. Fin dall’inizio dei suoi interessi letterari sembra voler percorrere i sentieri meno battuti nel difficile tentativo di adeguare le sue capacità espressive agli impulsi interiori. Questo sforzo è evidente nella ricerca poetica che condurrà nel 1936 alla pubblicazione di “Lavorare stanca”, una raccolta di poesie in netto contrasto con la tendenza dell’ermetismo dominante; Pavese dichiara di aver concepito ogni poesia come un racconto poiché sentiva di avere molto da dire e di non doversi fermare ad una ragione musicale dei suoi versi; di qui il tentativo di costruire un particolare tipo di poesia – racconto che si apra verso l’esterno stabilendo un ampio rapporto di comunicazione con i lettori. L’impianto narrativo di questa poesia si basa su un verso lungo superiore come misura all’endecasillabo, all’interno di uno sperimentalismo tecnico e metrico. Cominciano a delinearsi le coppie oppisizionali su cui Pavese strutturerà gran parte dell’opera successiva: “Campagna e città”, “Ozio e lavoro”, “Infanzia e maturità”, “Uomo e donna”. Se la città rappresenta il luogo dell’inautenticità e della solitudine, la campagna e la collina in particolare rappresentano la possibilità di recuperare valori perduti sotto l’incalzare di una opprimente civiltà industriale. L’immagine delle colline e delle langhe ritorna nella poesia di Pavese con una insistita evidenza e l’antitesi campagna – città rappresenta il dissidio e la dissociazione psicologica dello scrittore.

Mito, poetica, stile
Il mito assume un’importanza centrale nella poetica pavesiana; l’interesse nei suoi confronti nasce dalla lettura di autori classici e moderni (Nietzsche, D’Annunzio, Tomas Mann). Il mito è la consacrazione dei luoghi unici legati ad un fatto o ad un evento, ad un luogo si dà un significato assoluto, isolandolo dal mondo; con la teoria del mito Pavese fissa e definisce le sue originarie intuizioni dell’infanzia e del paesaggio ad essa legato. L’infanzia è il momento privilegiato in cui il mito viene vissuto spontaneamente e inconsapevolmente, quando ci si rende conto di ciò, l’infanzia è perduta; il mondo infantile è decisivo per lo sviluppo dell’individuo in quanto lo determina: in questo rapporto consiste il destino dell’uomo per il quale ogni ricerca di sé comporta sempre un ritorno alle origini. La collina diventa così il luogo mitico e la rappresentazione delle vicende che in essa si svolgono, consiste in una loro trascrizione attraverso dei simboli. In questo ambito i miti della terra e della donna, nel flusso perenne di vita e di morte che li collega si risolvono in immagini di fuoco e di sangue. Pavese credette in questo modo di dar vita ad un patrimonio di credenze e di tradizioni comuni, risalendo all’immagini primordiali dell’umanità, a quegli “archetipi” in cui si manifesta l’inconscio collettivo. Il mito è dunque l’elemento preesistente, comune e universale, ma al tempo stesso scuro e misterioso. Il compito della poesia è quello di portarlo a chiarezza, di dargli una forma e un ordine razionalizzando una materia irrazionale. Per Pavese l’arte è il primo luogo una questione di tecnica e sottoponendosi ad una rigida disciplina Pavese tende ad un rigoroso controllo formale, rifiuta le suggestioni romanzesche a favore di una trama che risulta spesso quasi inconsistente. Dire stile “è dire cadenza, ritmo, ritorno ossessivo del gesto e della voce … raccontare è sentire nella diversità del reale una cadenze significativa, la seduzione di una verità sempre sul punto di rivelarsi e sempre sfuggente. La monotonia è un pegno di sincerità”. La narrativa di Pavese obbedisce alla legge statica della ripetizione: un volta presa coscienza della propria condizione interiore il ritmo e lo stile serviranno non per presentare un’immagine naturalistica della realtà ma per operare una sua trascrizione per via di simboli. A Pavese non interessa rappresentare la realtà esterna e oggettiva delle cose, ma i sensi molteplici di una realtà segreta, che egli definisce “realtà simbolica”. I personaggi si muovono in un ambiente determinato, appartengono ad una classe o ad una condizione sociale, vivono in un periodo ben definito; tuttavia l’analisi di questi elementi produce una realtà ulteriore, oscura e ancestrale e il simbolo viene reso attraverso la metafora (mammella – collina). Il significato unitario dell’opera di Pavese consiste nel fare in modo che tutti i simboli convergano in uno solo la vicenda umana. Così la narrativa pavesiana si presenta con le caratteristiche e la struttura del monologo, sul piano del linguaggio e delle strutture formali. Pavese rifiuta le costruzione elaborate e complesse, tende al discorso parlato usando cadenze dialettali, spezzature del periodo, paratassi, con andamento scarno ed essenziale.

La luna e i falò
La circostanza di questo romanzo è assai significativa: esso nasce da una autentica collaborazione con Pinolo Scaglione che nel romanzo sarà l’ex partigiano Nuto. Pinolo riceve nell’estate del 1949 molte lettere di Pavese da Torino in cui lo scrittore lo invita a chiarirgli avvenimenti del passato e in modo particolare i motivi che spingevano certe famigli di Santo Stefano Belbo a chiedere al comune un trovatello da allevare. La ragione di questo suo interesse viene poi spiegata da Pavese nel romanzo: alla famiglia del trovatello veniva corrisposta una certa somma finché il ragazzo o la ragazza non fossero in grado di lavorare. Ma il fatto che il protagonista del romanzo, cioè Pavese stesso si proclami “bastardo” ha un significato profondo: bastardo sta per estraneo e soprattutto sta per un uomo che ha perduto il senso della propria origine. Questo Pavese sradicato, identificato con il ragazzo Cinto e proiettato paurosamente nel buoi è in realtà il Pavese che pochi mesi dopo si toglierà la vita. La luna e i falò è contemporaneamente una conferma e una smentita della posizione letteraria di Pavese (neorealismo). Una conferma perché lo stile dell’autore non è forse mai stato così lucido e così limpido, così innestato nella terra dei suoi ricordi che è però anche la terra del suo presente: e quindi la maniera di Pavese acquista qui un tono perfettamente consono al realismo che fu la dottrina letteraria della sua vita. Tutto diventa incisivo, il racconto è perfettamente inquadrato. È però anche una smentita perché la nota complessiva del romanzo ha un carattere fantastico, tragico e dissolvente. In questo romanzo scritto in prima persona Pavese immagina di essere un emigrato negli Stati Uniti che ritorna al suo paese; si disegna in forma volutamente grottesca: come un “omone” pieno di quattrini che da bastardo che era ha varcato l’oceano e ha fatto fortuna. Il racconto è centrato su tre personaggi: il protagonista, il falegname Nuto e il ragazzo Cinto. Nuto ha un risvolto autobiografico infatti ha molti ha molti tratti ricavati dalla figura di Pinolo Scaglione, l’amico d’infanzia di Pavese, partigiano antifascista. Il protagonista percorre le vie del paese, si inoltra nella campagna dove tutto è cambiato dalla sua infanzia e giovinezza, si imbatte nel ragazzo Cinto, un piccolo contadino sciancato e insieme a Nuto ricorda. Nella mente del protagonista e nei suoi colloqui con Nuto, personaggio decisamente positivo, ancorato ad un passato di ideali e di sofferenze concrete, passano le immagini di un tempo: ad esempio le tre belle figlie del sor Matteo con il loro corte di innamorati. Ma intanto altre cose avvengono che non sono ricordi come l’indemoniato furore di un contadino sfruttato che lascia orfano Cinto. L’identificazione di Pavese con Cinto emerge nell’ultimo gesto che il protagonista compie prima della sua partenza dal paese: affidare il ragazzo a Nuto. La luna e i falò è il romanzo di Pavese più fitto di segni emblematici, di motivi autobiografici; la collina piemontese è la geografia poetica dell’autore: i falò accesi verso la luna, la musica suonata da Nuto di villaggio in villaggio, l’amore inteso come fantasticheria sugli intrighi di donne privilegiate, la vita di un villaggio nella sua grettezza e nella sua cupa intensità, tutto questo è nel libro di Pavese presentato sotto forma di racconto poetico.

Esempio



  


  1. Dodo

    Sto cercando la spiegazione delle strofe della poesia ritorni sempre col mattino di Cesare Pavese

  2. martina

    sto cercando l'analisi del brano ''il nome'' di Cesare Pavese

  3. Sarah

    sto cercando gli appunti su Cesare Pavese. Ho un'interrogazione di quinto liceo linguistico.