L'età realista

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Testo

DOPO L’UNITÀ D’ITALIA: RICERCA DELL’EQUILIBRIO
Proclamato ormai, il 18 febbraio 1861, il Regno d’Italia, cominciò una difficile ricerca dell’equilibrio.
La Destra storica governa ininterrottamente l’Italia sino al 1876. Il suo programma politico è tracciato dal conte di Cavour: terminare l’unificazione dell’Italia, liberando i territori veneti e quelli del papato.
Inoltre, all’unificazione territoriale, deve seguire quella legislativa, economica e monetaria. I governi della Destra storica, succedutesi dopo la morte di Cavour, realizzano interamante questo programma, ma a costo di duri sacrifici.
Il prezzo dell’unificazione è pagato non solo dalle classi più deboli, ma anche dalle singole regioni, che vedono cancellate le loro leggi, le loro tradizioni e loro autonomie. Infatti, i vecchi Stati italiani cessano di vivere, tutti, meno uno: il Regno di Sardegna, che incorpora i territori e impone i suoi istituti, le sue leggi e la sua economia, dando vita ad un governo fortemente accentratore.
Così, innanzi tutto, il Regno d’Italia eredita le istituzioni del Regno di Sardegna ed in particolare re e Costituzione. Infatti, Vittorio Emanuele II è proclamato re d’Italia e lo Statuto di Carlo Alberto diventa la costituzione del nuovo regno: tutte le leggi degli altri stati sono abrogate.
In campo politico amministrativo, il territorio nazionale è suddiviso in province rette da un prefetto; ogni provincia in circondari, i quali a loro volta sono divisi in comuni.
Quanto all’esercito, il sistema piemontese che fissa l’età della leva obbligatoria a vent’anni e ne stabilisce la durata in cinque anni è esteso a tutto il Paese. La medesima situazione si verifica per l’istruzione scolastica, la sanità e i codici civili e penali.
In campo economico, infine, vengono eliminate le dogane, favorendo così il progredito nord a scapito degli artigiani, degli industriali e dei contadini del sud. Al nord, infatti, è in atto la rivoluzione industriale, con l’apertura di numerose fabbriche e l’agricoltura in parte è modernizzata; il sud, invece, continua ad essere diviso in grandi latifondi, in mano ai “signori”, con i poveri contadini costretti a “servi” e, in più, costretti a pagare molte tasse.
Si compie in tal modo quello che gli storici chiamano > d’Italia: tutto il paese è uniformato al Regno di Sardegna e il governo, gestisce la nuova situazione favorendo la classe che ha voluto questo tipo d’unità e cioè la borghesia.
La società italiana dopo l’unificazione è attraversa da due linee di demarcazione: la prima separa il nord dal sud, la seconda i ricchi dai poveri.
Il primo muro che separa gli abitanti del nuovo Regno è costituito dalla lingua e dalla cultura. I borghesi, infatti, sono i soli a parlare e a scrivere l’italiano, ad usare le scuole e ad usufruire dei mezzi di comunicazione che consentono a rimanere al passo con i tempi. Contadini ed operai, invece, parlano e capiscono solo il loro dialetto, sono per lo più analfabeti e perciò possiedono unicamente una cultura tradizionale.
Il secondo muro è costituito dall’assenza, o quasi, di vie di comunicazione. Nel sud, la maggior parte dei centri abitati, è collegata da piste inagibili durante la cattiva stagione; il battello rimane così il mezzo di comunicazione più sicuro per andare da sud a nord.
La prima sfida che attende la Destra storica, quindi, riguarda la costruzione di scuole, strade e ferrovie. In realtà, almeno sotto quest’aspetto, la d’Italia produce ben presto effetti positivi e il paese in pochi decenni abbatte il muro dell’incomunicabilità.
Gravi sono le condizioni del Mezzogiorno d’Italia, che peggiorano in modo deciso dopo l’unità. Le vere vittime sono i contadini, ai limiti della sopravvivenza: tra loro proliferano malattie dovute alla scarsa e cattiva alimentazione, ai luoghi di lavoro insalubri e alla scarsa igiene.
Nell’Italia meridionale si creano così le condizioni economiche che favoriscono lo sviluppo di una fra le prime e più serie minacce alla stabilità del nuovo Regno: grande brigantaggio, un imponente fenomeno di rivolta già sorto mentre si compiva l’impresa dei Mille. Molti soldati borbonici, infatti, fedeli al loro re, si erano rifugiati nelle montagne, pur di non giurare fedeltà a Vittorio Emanuele II. Nel 1861, ad unificazione avvenuta, ben 50.000 giovani chiamati alla leva, non rispondono e raggiungono i loro compaesani sui monti per combattere i Piemontesi. Il governo italiano usa subito il pugno di ferro; i Piemontesi bruciano i villaggi che danno ospitalità ai fuori legge. In soli tre anni fucilano o uccidono in combattimento almeno 5000 briganti e ne catturano 8.600; i briganti, dal canto loro, ardono vivi o massacrano centinaia di soldati catturati.
Alla fine il grande brigantaggio è stroncato e, ancora una volta, nel 1869, quando i contadini si ribellarono all’imposizione della tassa sul macinato, il governo italiano risolve la crisi con l’esclusivo uso della forza. La repressione violenta è, dunque, l’unica via praticata dai Piemontesi che considerano i briganti una massa di lazzaroni, d’avventurieri e di fuorilegge. Ma la mancata comprensione delle ragioni profonde della rivolta, produce il risentimento del sud nei confronti dei Piemontesi e la spaccatura dell’Italia in due: un nord che conquista e un sud conquistato e sfruttato.
Né la Destra storica, né i successivi governi della Sinistra, sono stati in grado di risolvere la cosiddetta .
Dopo l’unità d’Italia uno dei fenomeni sociali che si è accentuato maggiormente fino alla fine del secolo, oltre al brigantaggio, è quello dell’emigrazione. Le cause sono comprensibili: incremento demografico, miseria e disoccupazione, volontà di sottrarsi allo sfruttamento dei padroni, soprattutto nel sud.
Il flusso migratorio era diretto principalmente verso l’America, e nel tempo cresceva sempre di più. Partivano fiduciosi, in cerca di fortuna, lasciando in patria moglie e figli, ma la vita oltre oceano non è sempre rosea. Negli U.S.A., per esempio non erano accettati mendicanti, bambini soli, ammalati, persone oltre i 50 anni e le donne senza marito.
Quelli che riuscivano ad entrare venivano assunti come manovali o minatori, oppure erano costretti a svolgere lavori umilianti, pericolosi e mal pagati, che gli americani in genere rifiutavano, un po’ come avviene oggi per gli extracomunitari. Quasi sempre c’era la Mano Nera, alla quale i lavoratori dovevano pagare un contributo e chi rifiutava o tradiva, non perdeva solo il lavoro, ma veniva addirittura ucciso. La realtà, quindi, non è quella di fare soldi all’estero per goderseli poi in Italia, ma è quella di una separazione definitiva dalla famiglia e dalla madrepatria.
Dal punto di vista territoriale, l’unità d’Italia non è ancora del tutto completa, perché manca alla penisola Roma, saldamente nelle mani del Papa Pio IX, e il Veneto, legato all’impero asburgico. A questo punto, un’altra grossa gatta da pelare per il nuovo governo è risolvere queste due questioni.
Il problema di Roma è di più difficile soluzione; in primo luogo perché il Papa Pio IX continuava a condannare aspramente l’unità italiana e rifiutava ogni negoziato; in secondo luogo perché Napoleone III, imperatore dei Francesi, a nessun costo voleva l’eliminazione dello Stato Pontificio e, quindi, minacciava di intervenire in difesa del Papa ogni qual volta si tentava di attaccarlo. Furono necessari, perciò, vari tentativi per poter annettere Roma al regno d’Italia.
Il primo tentativo invano, è fatto da Garibaldi e dal Partito d’Azione nel 1862, che termina con la loro sconfitta sulle montagne dell’Aspromonte. Ma Napoleone III non è ancora soddisfatto. Egli, infatti, per ritirare le truppe napoleoniche da Roma, pretende che il governo italiano trasferisca la capitale da Torino a Firenze, rinunciando così definitivamente a Roma. Il trasferimento della capitale a Firenze rappresenta, comunque, un avvicinamento a Roma ed al resto della penisola. L’Italia si , cioè non è più considerata come un’appendice del Piemonte, ma come uno Stato nuovo. L’idea di Roma capitale, comunque viene condannata dal Papa.
Dopo la terza guerra d’indipendenza, nel 1867 il Partito d’Azione fa un nuovo tentativo, che si conclude con la sconfitta, da parte di un corpo di spedizione francese, dei volontari garibaldini a Mentana.
La buona occasione si ha quando, nel 1870, la Prussia sbaraglia a Sedan l’esercito francese. A questo punto la Francia non può più difendere lo Stato Pontificio e lo Stato Italiano si sente libero da ogni impegno preso con Napoleone III nella Convenzione di Settembre. Così il 20 settembre 1870, i bersaglieri italiani, comandati dal generale Cadorna, attraverso una breccia aperta a Porta Pia, irrompono nella città di Roma. Il Parlamento italiano, preso possesso della città, nel 1871 emana la Legge delle guarentigie, con la quale assicura al Papa “il libero esercizio di ogni sua attività spirituale”, una cospicua rendita annua e l’esercizio d’alcune sue prerogative. Il Papa respinge aspramente la legge delle guarentige e si dichiara prigioniero dello Stato italiano il quale, nel frattempo, trasferisce il governo a Roma, che diviene capitale del Regno d’Italia.
Per quanto riguarda la questione veneta, la sua positiva soluzione, viene offerta dalla guerra che la Prussia nel 1866 intraprese contro l’Austria per estrometterla dalla Confederazione germanica. La Prussica, infatti, sotto l’abile guida politica del ministro Bismarck, stipulò un’alleanza militare con l’Italia permettendole in caso di vittoria la restituzione del Veneto, così da impegnare l’esercito austriaco su due fronti. Scoppiata la guerra, un primo contingente italiano fu duramente sconfitto a Custoza e due corazzate furono affondate presso l’isola di Lissa. Soltanto Garibaldi, vincendo a Bezzecca, si aprì la strada verso Trento. Contemporaneamente però la Prussia sbaragliò l’esercito austriaco a Sadowa costringendo l’Austria alla resa. La pace di Vienna sancì la cessione del Veneto a Napoleone III e da questi all’Italia. Così, con un atto umiliante, si conclude la “questione del Veneto”.
Verso la fine dell’Ottocento,come conseguenza della grave crisi agricola e delle pessime condizioni di vita e di lavoro degli operai, si verificò un’ inasprimento dei conflitti tra le masse contadine ed operaie e i governi al potere, che portò all’affermazione dei sindacati.
Il socialismo si radicò ben presto in tutta Italia e con esso anche gli scioperi e le manifestazioni finalizzate ad ottenere salari più alti, la giornata lavorativa di otto ore. Nel 1892, nel Congresso di Genova, i socialisti italiani costituirono il Partito dei Lavoratori, diventato successivamente il Partito Socialista.
I socialisti, però, non essendo tutti d’accordo con il programma di riforme elaborato dai deputati socialisti, che prevedeva il suffragio universale, la libertà di sciopero e la giornata lavorativa di otto ore, giunsero a scindere il Partito in due correnti: una riformista, formata da coloro che volevano impossessarsi del potere senza distruggere il governo borghese e quello liberale, ma collaborando con esso; l’altra rivoluzionaria o massimalista, formata da coloro che volevano giungere immediatamente al potere, distruggendo, con una rivoluzione, lo stato liberale e quello borghese.
Dopo la conquista di Roma, i rapporti tra Chiesa e Stato diventarono “roventi”. Infatti, il papa, Pio IX, aveva scomunicato i governi liberali e aveva proibito ai cattolici di votare e di partecipare alla vita politica. Perciò,durante questo periodo,tra i cattolici si erano formati due gruppi: i cattolici transigenti, che cercavano un accordo tra Chiesa e Stato; e i cattolici intransigenti, che obbedivano ciecamente agli ordini del Papa e, quindi, non andavano a votare. Quello che ebbe , in Italia, il maggior numero di aderenti fu il gruppo dei cattolici intransigenti. Tra questi vi furono molti uomini che cercarono di offrire delle soluzioni alla “questione sociale”:fondarono delle case d’accoglienza per tutti i bambini abbandonati, dove provvedevano alla loro educazione e formazione professionale; crearono oratori e scuole per i figli delle classi popolari.
Nacque cosi l’idea di fondare un partito popolare, che potesse competere con quello liberale e socialista.
Questi gruppi di cattolici innovatori, si denominarono democratici cristiani, e furono proprio loro a fondare prima il Partito Popolare e poi anche il partito della Democrazia Cristiana.
Nel 1876, si verifica l’avvento al governo della Sinistra con Depretis, succeduto dieci anni dopo da Crispi.
A differenza della Destra, che ha sviluppato una politica di unificazione del territorio, liberando Roma e rendendola capitale del Regno, di rafforzamento dello Stato, creando l’apparato amministrativo, e di pareggio del bilancio statale, ottenuto da Quintino Sella, la Sinistra liberale, invece, si è impegnata soprattutto in una politica di riforme.
Agostino Depretis, infatti, operò una politica di riforme: rese la scuola obbligatoria (Legge Coppino 1887), abolì la tassa sul macinato, estese il diritto di voto. Ma fu soprattutto il creatore del trasformismo, un sistema politico che prevedeva l’utilizzo al governo di deputati sia di Destra che di Sinistra. Questo si rivelò una politica negativa, in quanto attuò programmi poco chiari e poco definiti.
In politica estera Depretis seguì una politica moderata nelle relazioni internazionali, che causò l’allontanamento dagli altri paesi europei,come dimostrò il congresso di Berlino, in cui l’Italia fu l’unico paese a non ottenere nessun territorio da colonizzare.
Ma quando la Francia occupò la Tunisia , regione africana più vicina all’ Italia che offriva lavoro a molti italiani, allora Depretis fu spinto ad aderire alla Triplice Alleanza con l’imperatore tedesco e quello austriaco, ma anche ad intraprendere una politica coloniale. Infatti, acquistata la baia di Assab sul mar Rosso, tentò la conquista dell’Etiopia, fallita con la sconfitta di Dogalì del 1887.
Ad Agostino Depretis successe il governo di Francesco Crispi. Egli, poiché voleva creare uno stato forte e autoritario, capace di imporsi come potenza coloniale e militare, spesso governo senza il controllo del Parlamento.
Crispi cominciò una politica di riforme, tra cui ricordiamo l’approvazione di un Nuovo Codice di leggi , preparato da Giuseppe Zanardelli. Dopo il 1893 egli governò sempre più autoritariamente, reprimendo con le armi le sommosse e i tumulti che scoppiavano in ogni parte d’Italia a causa della crisi delle campagne, dall’aumento del costo del grano, e soprattutto dalla diffusione del “partito socialista”. L’episodio più grave si verificò, in Sicilia, dove i minatori, uniti in leghe, dette Fasci Siciliani, si ribellarono per avere migliori condizioni di lavoro. Crispi, dunque, fece intervenire l’esercito, procedette a migliaia di arresti e sciolse i Fasci.
In politica coloniale, Crispi tentò una nuova impresa militare contro l’Etiopia, partendo dalla colonia dell’Eritrea sul mar Rosso. All’inizio l’imperatore d’Etiopia riconobbe all’ Italia il possesso dell’Eritrea e firmò il trattato d’Uccialli, con il quale sembrava accettare il protettorato dell’Italia su tutto l’Impero etiopico.
Subito, però, si hanno le prime divergenze sul trattato e si venne ad uno scontro aperto, che vide subito le prime sconfitte italiane ad Amba Alagi, e a Makallè.
Ma Crispi non si diede ancora per vinto e ordinò un attacco finale. Anche questa volta si concluse con una disastrosa sconfitta ad Adua che fece cadere lo stesso ministro Crispi .
La questione etiopica fu risolta dal ministro Di Rudinì, successo a Crispi, con il trattato di Addis Abeba con il quale l’Etiopia riconosceva all’Italia il possesso coloniale dell’Eritrea e il protettorato sulla Somalia.
La Sinistra si trovò a dover fronteggiare anche gli effetti della crisi dell’agricoltura, causata dall’immissione sul mercato dei prodotti americani e la più generale crisi dell’economia nazionale, che non teneva il passo con quell’europea e mondiale.
IL REALISMO IN LETTERATURA
L’Italia appena costituita in unità, continuava ad avere seri problemi, soprattutto in ambito sociale; infatti, i rapporti fra patronato e masse lavoratrici, divenivano sempre più complicati. Ciò spinse alcuni filosofi, artisti e letterati a fare delle loro opere uno strumento rivolto ad analizzare questa “realtà” umana e sociale degli ultimi decenni dell’Ottocento.
Nasce così, in Francia, il Naturalismo, il cui carattere fondamentale si esprime attraverso la composizione d’opere letterarie che hanno come argomento la realtà umana e sociale rappresentata con rigore scientifico, cioè in modo oggettivo e distaccato. In questi scrittori c’è l’esigenza di indagare nella realtà per portare all’ attenzione dei lettori i problemi che affliggevano le classi subalterne.
L’esponente maggiore del Naturalismo francese è Zolà, che attraverso i suoi romanzi mette in risalto le misere ed alienanti condizioni di vita degli operai parigini.
Questo tipo di letteratura si proponeva, quindi, di osservare ed indagare queste realtà nella speranza che ciò servisse a modificarle e a migliorarle.
Dietro la spinta del Naturalismo, si diffonde in Italia un’analoga espressione letteraria: il Verismo.
I veristi italiani, riprendono i principi del Naturalismo francese calandoli però in una situazione storica diversa. In Italia, infatti, l’industrializzazione che ha investito l’Europa, in particolare l’Inghilterra e la Francia, è solo agli inizi, per di più la raggiunta unità politica ha aggravato i problemi già esistenti, come il profondo divario tra regione e regione e la netta separazione tra Nord e Sud. Bisogna inoltre ricordare che in questi anni nasce la cosiddetta , che per molti aspetti è ancora oggi irrisolta. Mentre gli scrittori realisti francesi avevano dietro di sé una realtà matura e potevano quindi fare delle loro opere uno strumento di azione rinnovatrice, i nostri scrittori veristi si trovano dinanzi a masse culturalmente sprovvedute ed incapaci di recepire un messaggio sociale ad esse rivolto.
Il Verismo acquista così un carattere regionalistico, nel senso che gli scrittori analizzano e descrivono nelle loro opere le loro realtà regionali in tutta la loro crudezza e drammaticità: si propongono di raccontare il vero.
I caratteri fondamentali del Verismo sono:
- Fotografia della realtà: viene rappresentata una precisa realtà umana e sociale senza aggiungere o togliere nulla.
- Impersonalità dell’autore: egli non deve intervenire nella vicenda, ma deve restargli estraneo per lasciar parlare l’evidenza dei fatti; in tal modo la sua mano rimarrà invisibile nell’opera.
- Linguaggio semplice e diretto: deve riflettere il modo di esprimersi della gente umile; uno stile stringato, una sintassi semplice e una lingua paesana e viva, continuamente intercalata da espressioni popolaresche e proverbi che mettono in luce l’oggettività della narrazione. Il linguaggio è liberato da ogni raffinatezza teorica e accademica.
Il maggior rappresentante del Verismo italiano è Giovanni Verga. Egli ci presenta chiaramente la Sicilia dell’Ottocento rivolgendo la sua attenzione agli umili personaggi di quella terra. Nella sua produzione letteraria compaiono, infatti, braccianti, contadini, pescatori, visti nella loro quotidianità, in tutta la loro crudezza e drammaticità.
Verga applica coerentemente i principi della sua poetica nelle opere veriste, e ciò da origine ad una tecnica narrativa originale ed innovatrice. Nelle sue opere l’autore si , si cala nella pelle dei personaggi, vede le cose con i loro occhi e le esprime con le loro parole. A raccontare non è più il narratore “onnisciente” del Manzoni, il quale interveniva continuamente nel racconto ad illustrare i fatti, a tracciare il ritratto dei personaggi, a spiegare i loro stati d’animo. Ora, invece, è come se a raccontare fosse uno dei personaggi stessi, che però non compare direttamente nella vicenda e resta anonimo; il lettore così ha l’impressione di trovarsi .
L’autore, quindi, deve dall’opera e non deve intervenire in essa perché non ha il diritto di giudicare la materia narrata, secondo il pessimismo verghiano.
Il Verga ebbe una concezione tragica e dolorosa della vita, infatti credeva che tutti gli uomini sono sottoposti ad un destino crudele che li condanna all’infelicità, al dolore e a restare immobile all’interno dell’ambiente familiare, economico e sociale nel quale si sono trovati nascendo.
Chi cerca di uscire dalla condizione in cui il destino lo ha posto, non trova la felicità sognata, anzi va incontro a sofferenze maggiori. Per il Verga non rimane all’uomo che la rassegnazione eroica e dignitosa del suo destino.
Per molti aspetti la concezione della società che si può ricavare dalle affermazioni teoriche del Verga e soprattutto dalla sua rappresentazione della realtà, rientrano nell’ambito culturale del “Darwinismo Sociale”. La società, a tutti i suoi livelli, è dominata dal meccanismo crudele della , per cui il più forte schiaccia il più debole.
Tutti gli uomini sono mossi dalla volontà di sopraffare gli altri e, questa, è una legge di natura, universale, che governa qualsiasi società e proprio perché tale la realtà esistente non può essere cambiata. Allora, se è impossibile modificare l’esistente, ogni intervento giudicante appare inutile e privo di senso e, allo scrittore, non resta che riprodurre la realtà così com’è.
Comunque questo pessimismo non è un limite alla rappresentazione verghiana, ma al contrario gli fa cogliere con grande lucidità ciò che vi era di negativo in quella realtà. Come esempio può essere considerata la novella “Rosso Malpelo”, che è l’approdo al Verismo Italiano. In essa, infatti, lo scrittore, attraverso la vicenda del protagonista Rosso Malpelo, un povero ragazzo orfano dai capelli rossi che lavora in una cava di sabbia della Sicilia, descrive la durezza delle condizioni di vita e la realtà di sfruttamento della gente siciliana.
Questa novella poi, è narrata con un linguaggio nudo e scabro e il narratore adotta il loro modo di pensare e di sentire ed usa il loro modo di esprimersi: >. Questa frase rivela una visione primitiva e superstiziosa della realtà, che vede nell’individuo “diverso”, un essere maledetto dal quale difendersi.
In “Rosso Malpelo”, infine, è evidenziata la “pietas filiale”, ossia quel sentimento di devozione, affetto e senso del dovere che il protagonista manifesta quando scava nella rena con la speranza di ritrovare il padre.
Questa novella ci permette di riflettere su un grande problema attuale , lo sfruttamento minorile, presente purtroppo in molti paesi del mondo.
Non intendendosi fermare sui vincitori della “guerra universale”, e scegliendo come oggetto della sua narrazione i “vinti”, nacque così, preceduto da “Vita nei campi”, una raccolta di novelle ispirate al mondo popolare siciliano che riprende il modello già affermato dai Rougon-Macquart di Zolà, il ciclo dei . Questo è composto dai romanzi: “ I Malavoglia” ; “Mastro Don Gesualdo” ; di minore importanza sono invece ”La Duchessa di Leyra”, mai portato a compimento , “L’onorevole Scipioni” e “L’uomo di lusso” che non saranno neppure affrontati.
Il Romanzo “I Malavoglia”, considerato il suo capolavoro, è ambientato in un’arcaica Sicilia post unitaria e narra della vita dura e tragica di una famiglia di pescatori. I Malavoglia, nel tentativo di migliorare la loro precaria situazione economica, acquistano a credito una partita di lupini per rivenderli e ricavarne un profitto. Questo li condurrà ad una serie di sventure, dal naufragio della loro barca la Provvidenza, alla perdita, per debiti, della casa. Della famiglia, dispersa e disordinata, si salverà solo il giovane Alessi.
Ne “I Malavoglia”, si riscontrano due concezioni della vita: la concezione di chi, come padron’Toni si sente legato alla tradizione e riconosce la saggezza dei valori antichi come il culto della famiglia e il senso dell’onore, e la concezione di chi, come il nipote ‘Ntoni si ribella all’immobilismo dell’ambiente in cui vive rifiutandone i valori.
Attorno alle vicende dei Malavoglia brulica la gente del paese, che partecipa oralmente ad esse con commenti ora comprensivi e pietosi, ora ironici e maligni. Anche il paesaggio partecipa alla coralità della narrazione, ora quasi compiangendo, ora restando indifferente alla morte degli uomini.
Anche ne “I Malavoglia”, come in “Rosso Malpelo”, è presente quella visione primitiva e superstiziosa della realtà che è riscontrabile nel capitolo IV dei Malavoglia nel quale è illustrata la cerimonia per la morte di Bastianazzo. Infatti qui sono evidenziati due punti di vista opposti: quelli dei Malavoglia che piangono per la disgrazia e mostrano un profondo senso morale costituito dalla famiglia, dalla casa e dal lavoro, e quello degli abitanti, caratterizzato da una chiusura mentale e dalla insensibilità, caratteristiche proprie della comunità paesana.
Il Romanzo “Mastro Don Gesualdo” parla ancora una volta della vita popolare siciliana ed ha come protagonista Don Gesualdo Motta. L’ex muratore, con la sua tenace laboriosita’ e con il matrimonio con l’aristocratica Bianca Trao, riuscì ad arricchirsi. Ma attaccato alla sua , attorniato da personaggi gretti e meschini, Don Gesualdo va incontro ad un tragico fallimento nella sfera degli affetti familiari. Alla fine morirà in solitudine. Gesualdo è visto dallo scrittore come un materialmente, ma è un sul piano morale.
Questo romanzo si è elevato rispetto ai Malavoglia: non si tratta più di un ambiente popolare, bensì di un ambiente borghese e aristocratico. Di conseguenza anche il livello del narratore si innalza.
In tutti e due i romanzi, Verga ha adottato i canoni veristi dell’ e dell’ : personaggi, situazioni e vicende sono narrati senza partecipazione emotiva o interventi diretti dello scrittore. Il linguaggio è prettamente verista, è semplice e diretto, comprende espressioni tipiche siciliane ed è reso vivo e credibile dal “discorso indiretto libero”.
IL REALISMO IN ARTE
In questo contesto complessivo di grandi fermenti politici e sociali, anche l’arte attraversa una sorta di crisi d’identità. Di fronte ai nuovi fatti accaduti, l’artista non sembra poter più nascondersi fuggendo nel mondo incantato della mitologia: nasce il Realismo.
I movimenti realisti nascono, pertanto, proprio per rispondere in modo artistico a questa prepotente richiesta di vero e quotidiano. In pittura come in letteratura non si vuole più ingannare, proponendo soggetti falsi o inconsistenti, ma al contrario, si cerca di documentare la realtà, nel modo più distaccato possibile.
In Francia, in modo particolare, il Realismo si sviluppa come metodo scientifico per indagare la realtà, spiegando le contraddizioni e le miserie senza esserne coinvolti emotivamente. Il primo fine dell’artista sarà quello di annotare minuziosamente le caratteristiche del mondo che lo circonda, astenendosi il più possibile da qualsiasi giudizio di tipo soggettivo.
Il capostipite indiscusso del realismo pittorico francese è senza dubbio Gustave Coubert.
Nacque ad Ornans nel 1819 da una famiglia contadina benestante. Formatosi quasi da autodidatta inizia la propria attività dedicandosi alla copia del vero e al rifacimento di alcuni dipinti del Louvre. Successivamente l’artista comprende, che per rendere compiutamente il senso del vero, non poteva più vivere nei modi convenzionali della società borghese.
Nonostante Coubert sia sempre stato contrario all’insegnamento dell’arte, ai suoi pochi allievi insegnava innanzi tutto che “ non ci possono essere scuole: ci sono solo pittori ”. Coubert è, infatti, del parere che l’arte non possa essere appresa meccanicamente, ma che al contrario, essa “ è tutta individuale e che, per ciascun artista, non è altro che il risultato della propria ispirazione e dei propri studi sulla tradizione ”. Ai suoi allievi Coubert non impartiva mai lezioni teoriche, ma preferiva piuttosto che gli stessero accanto mentre dipingeva, al fine di apprendere i segreti del mestiere, come avveniva nelle botteghe medievali.
Nella scelta dei temi l’artista abbandona di colpo qualsiasi riferimento storicistico concentrandosi sui piccoli fenomeni del quotidiano, proponendo quadri i cui soggetti erano gente povera, semplice, brutta. Questa scelta di Coubert ebbe un effetto provocatorio e polemico perché aveva l’obiettivo di imporre al pubblico dell’arte, fatto di grandi borghesi, le descrizione di quelle sofferenze delle classi inferiori. Inutile dire quindi che l’arte di Coubert non ricevette un’ accettazione entusiastica.
Come esempio dei propri ideali artistici ed umani, può essere considerato il dipinto “Lo spaccapietre”, in cui Coubert rappresenta un manovale intento a frantumare dei sassi. L’artista scava nella realtà mettendone a nudo ogni risvolto: ecco allora le toppe sulle maniche della camicia, il panciotto strappato sotto l’ascella, i calzini bucati al tallone. A sinistra, sotto un cespuglio, vi sono anche una pentola e mezzo filone di pane, evidente accenno a quello che sarà il povero pasto dello spaccapietre. La natura circostante, infine, è tratteggiata in modo semplice ed essenziale.
In Italia non esiste un movimento realista come quello sorto in Francia. Tuttavia dopo il 1850 si iniziarono a manifestare fermenti vari, in concomitanza con la diffusione del positivismo, che produssero una maggiore attenzione alla descrizione scientifica ed obbiettiva della realtà. Tra queste varie tendenze più o meno realiste, la più omogenea e definita appare quella dei pittori Macchiaioli.
Il movimento nacque da un gruppo di artisti che si riuniva nel Caffè Michelangelo di Firenze. Questo gruppo fu definito per via della particolarità stilistica che li accomunava: dipingere per macchie di colore nette, senza velature ed effetti chiaroscurali.
Secondo i giovani artisti del gruppo, tutte le nostre percezioni visive avvengono grazie alla luce, ogni nuova pittura che miri al realismo doveva necessariamente riprodurre la sensazione stessa della luce. Poi, visto che nella realtà non esiste né il disegno né la linea di contorno, il nostro occhio è colpito solo dai colori; i limiti di un oggetto sono, infatti, dati dal brusco passaggio da un colore all’altro ed è proprio questa differenza di colori che ce ne determina l’esatto contorno. La pittura deve pertanto cercare di ricostruire la realtà per masse di colore ed il modo più semplice ed utile per riuscirvi è quello di dipingere le macchie.
I Macchiaioli, ottennero in questa maniera una pittura dall’aspetto più vero e realistico che, unendosi ai temi di vita quotidiana, permettono di considerare questo come un movimento fondamentalmente realista.
L’esponente più importante dei macchiaioli fu Giovanni Fattori, maggior pittore italiano dell’Ottocento, che considerava la macchia l’unico strumento per mezzo del quale è possibile avere quei risultati di verismo pittorico.
I temi preferiti dal Fattori macchiaiolo sono quelli che rappresentano la vita militare e il lavoro dell’uomo. Egli indaga le situazioni più quotidiane, meno appariscenti e, proprio per questo, spesso più dolorose e reali. I suoi soldati, infatti, non rappresentano per nulla degli eroi, ma l’artista li riconosce come contadini ed operai strappati al loro lavoro, alle loro case e ai loro affetti e costretti a morire spesso senza sapere neanche perché.
Fattori è il cantore della terra inaridita dal sole, del contadino che la lavora e dei buoi bianchi che trascinano enormi carri di legno, faticando e soffrendo insieme al contadino; di uomini ed animali, uniti da un unico destino di sofferenza, spesso anche di fame.
IL POSITIVISMO: AUGUSTE COMTE
A seguito dei gravi problemi economici e sociali del tempo, ma in particolare delle grandi invenzioni e del meraviglioso progresso delle scienze, assistiamo alla nascita di un nuovo indirizzo filosofico che ha dominato gran parte della cultura europea: Il Positivismo.
Il Positivismo nasce in Francia nella prima metà dell’Ottocento e si impone a livello europeo e mondiale nella seconda parte del secolo.
Questo movimento filosofico è caratterizzato da un’esaltazione della scienza, che si concretizza in una serie di convinzioni di fondo.
La scienza, innanzitutto, è l’unica conoscenza possibile ed il metodo della scienza è l’unico valido; pertanto tutto ciò che non sia accessibile al metodo della scienza non da origine a conoscenza e quindi la metafisica è priva di valore.
La filosofia positivista viene considerata come studio delle , in quanto enuncia i principi comuni alle varie scienze: il fine è, dunque, quello di riunire e coordinare i risultati delle singole scienze.
Il metodo della scienza, in quanto è l’unico valido, va esteso a tutti i campi, compresi quelli che riguardano l’uomo e la società; tant’è vero che la sociologia diviene prediletta dai positivisti.
Il progresso della scienza rappresenta la base del progresso umano e lo strumento per una riorganizzazione globale della vita in società.
Parlando del Positivismo in generale, risulta tuttavia indispensabile distinguere tra una ed una fase di esso. All’inizio, nella prima metà dell’Ottocento, il Positivismo, con Comte, si pone soprattutto come proposta di superamento di una socio-politica e culturale; nella seconda metà del secolo il Positivismo si presenta come riflesso e stimolo di un in atto.
Il Positivismo, per certi versi, si configura come una ripresa originale del programma illuministico; ciò presuppone, quindi, delle affinità e delle differenze nei confronti dell’illuminismo. Positivismo e Illuminismo presentano, infatti, schemi generali di pensiero simili. Entrambi sono fiduciosi nella ragione e nel sapere, concepiti come strumenti di progresso al servizio dell’uomo; esaltano la scienza a scapito della metafisica e di ogni sorta di sapere non-verificabile ed hanno in fine una visione laica ed immanentistica della vita.
Nello stesso tempo, positivisti ed illuministi differiscono tra loro per alcuni atteggiamenti di fondo. Infatti, gli illuministi rivoluzionari, si sono fatti promotori degli interessi di una borghesia in ascesa, mentre i positivisti anti-rivoluzionari agiscono in una mutata situazione intellettuale e sociale.
Illuminismo e Positivismo si diversificano anche per una differente maniera di intendere il compito della filosofia nei confronti della scienza. Gli illuministi appaiono indirizzati ad una fondazione gnoseologica e critica della scienza, i positivisti ritengono che il compito della filosofia sia quello di riordinare il quadro complessivo delle scienze.
Inoltre il Positivismo si rivela come >, ossia come l’esaltazione del sapere positivo, assunto ad unica verità e ad unica guida della vita umana in tutti i campi.
Il vero e proprio fondatore del positivismo è stato Auguste Comte, autore di un “Corso di filosofia positiva”.
Il punto di partenza della sua filosofia è la legge dei tre stadi, secondo la quale il processo storico dell’umanità è avvenuto attraverso tre stadi fondamentali: quello teologico, quello metafisico e quello positivo.
• Stadio teologico: è rappresentato dall’età antica e dal Medioevo ed è caratterizzato dal fatto che l’uomo attribuisce tutti i fenomeni naturali agenti divini, soprannaturali e trascendenti.
• Stadio metafisico: è rappresentato dall’epoca moderna, ed in questo caso l’uomo spiega i fenomeni della natura non in base ad enti divini, ma in base a forze astratte mediante l’uso della ragione.
• Stadio positivo: è rappresentato dal periodo che sta per nascere di cui lui si sente portavoce lo spirito umano riconosce infine l’impossibilità di raggiungere nozioni assolute, rinuncia a conoscere le cause intime dei fenomeni, per dedicarsi unicamente a scoprire le loro leggi effettive con l’uso ben combinato di ragionamento e osservazione, mediante l’esperienza.
La legge dei tre stadi è applicata da Comte, non solo alla vita spirituale dell’uomo, ma anche allo sviluppo delle scienze, ciascuna delle quali è giunto al periodo positivo in una successione storica, secondo una gerarchia: decrescente generalità e crescente complicazione. Hanno raggiunto, infatti, lo stadio positivo, prima le scienze più generali ed elementari e successivamente le più particolari e complesse.
Comte classifica le scienze secondo questo ordine di successione: astronomia, fisica, chimica, biologia e sociologia.
Sono state escluse dalla gerarchia la matematica, la logica e la psicologia. La matematica è stata esclusa perché costituisce la base di tutte le altre scienze; la logica perché Comte ritiene che essa si identifichi con il metodo concreto impiegato da ogni specifica branca del sapere; infine la psicologia perché non è ritenuta una scienza.
La scienza alla quale tutte le scienze sono subordinate è appunto la sociologia, il cui compito e quello di studiare empiricamente i fenomeni sociali con lo scopo di migliorarne le condizioni. Essa è divisa in statica sociale e dinamica sociale. La prima corrisponde al concetto di ordine e mette in luce la relazione necessaria che hanno tra loro le varie parti del sistema sociale; la seconda corrisponde al concetto di progresso, cioè allo sviluppo continuo e graduale dell’umanità; però entrambe sono strettamente unite e non possono essere separate, per cui egli parla di un ordine progressivo, ossia di un progresso ordinato.
L’opera di Comte, dunque, risulta diretta a favorire l’avvento di una società nuova, cioè di un regime fondato sulla sociologia che egli chiamò sociocrazia. Egli stesso avrebbe voluto essere il capo spirituale del Sistema di politica positiva che era diretto a trasformare la filosofia positiva in una religione positiva. La nuova società sarà retta da una Nuova Religione, la religione atea dell’Umanità. Il culto, secondo questa nuova religione, è rivolta all’Umanità, che diventa cosi un nuovo Dio da adorare. Comte sostituisce alla Trinità cristiana una nuova tripartizione e cioè:
• Il Grande Essere: l’Umanità, il vero essere supremo, >;
• Il Grande Feticcio: la Terra benefica che ci nutre;
• Il Grande Mezzo: lo Spazio;
Comte delinea anche il culto positivistico dell’umanità. Stabilisce un >, in cui i mesi e i giorni sono dedicati alle maggiori figure della religione dell’arte. Della politica e della scienza. La religione avrà, quindi, i suoi santi, i suoi angeli, i suoi Templi e i suoi Riti, e le sue feste.
Comte , infine, è stato considerato il Gran Sacerdote di questa nuova religione dell’Umanità.

THE SOCIAL SITUATION OF ENGLISH WORKERS
In 1837 Victoria ascended to the throne of Great Britain. This age, called Victorian Age, was an age full of contradictions of wide spread industrialization and technological progress, of extreme poverty and the exploitation of factory workers.
In the first decades of the century, workers condition in factories, high food price and economic depression caused much discontent among the lobourers and they began to organize themselves into working-class movements. Their discontent was voiced in 1838 by the Chartists, a group of radicals and workers, who presented to Parliament a document called the People’s Charter advocating a radical reform of parliament in six points:
1. A Vote for every man twenty-one years of age, of sound mind, and not undergoing punishment for crime ;
2. The Ballot. – To protect the elector in the exercise of his vote ;
3. no property qualification for Members of Parliament – thus enabling the constituencies to return the man of their choice, be he rich or poor ;
4. Payment of members, thus enabling an honest trade-man, working man, or other person, to serve a constituency, when take from his business to attend to the interests of the country ;
5. Equal constituencies, securing the same amount of representation for the same number of elector, instead of allowing small constituencies to swamp the vote of large ones ;
6. annual parliament, thus presenting the most effectual check to bribery and intimidation, since though a constituency might be bought once in seven years (even with the ballot), no purse could buy a constituency (under a system of universal suffrage) in each ensuing twelvemonth; and since members , when elected for a year only, would not be able to defy and betray their constituents as now.
For much of this period industrialization meant the ruthless exploitation workers. Men, women and children worked in factories sometimes up to 14 or 16 hours a day, while factory owners paid very low wages, and closed down factories during periods of economics slump. Very young children were exploitated in textile mills and mines. When Victoria came to the throne, the nation could be divided into: aristocracy, mainly large landowners; the middle class (manufacturers, bankers, financiers and merchant); and working-class(factory workers and rural labourers).
The situation of worker improved only when, the Government introduced a several bill: in 1847 and in 1867 the Factory Acts regulated the child labour in factories, in 1842 the Mine Acts forbade employment of children under ten and women underground, in 1870 the Education Act provided a system of State primary schools.
The gulf separating the rich from poor was so deep that a Tory Prime Minister, Benjamine Disraeli, in 1845 wrote of “the two nations” and many contemporary novelist such as Charles Dickens criticized the desperate situation of the working classes in their novels.
Charles Dickens was born at Landport, in the south England, in 1812. He was twelve when he was withdraw from school and sent to work in a shoe-blacking factory in London. This experience was marked from the beginning of Dickens’s social commitment and identification with the poor and the oppressed, wich are constantly preset in his fiction. He travelled in America, Switzerland, France and Italy and wrote accounts of his journey. He died at the age of fifty-eight, in 1870.
Dickens wrote fourteen novels, all characterized by elaborate plots and unique sense of humor. Oliver Twist and Nicholas Nickleby are adventure novels centred around the heroes that give title to the book. Dickens attacked what he considered the worst social abuses of his time, which are reflected in his recurrent themes: the exploitation of child labour, unsafe factory conditions, injustices caused by the ferocious penal code, imprisonment for debt and the unsanitary slumps.
Oliver Twist is a sort of fairy tale in which good triumphs over evil. The principal protagonist, Oliver, is an orphan brought up in a workhouse, in a institution for poor people, until he runs away to London to escape from starvation and ill-treatment. He falls into the clutches of the villainous Fagin, a thief who trains boys like Oliver to pick pockets. Although Oliver’s natural honesty remains uncorrupted, the boy is arrested on suspicion of stealing from an old gentleman. The plot is many more adventures and surprises, in fact we discover that the old gentleman is Oliver’s grandfather and the novel closes with a happy ending. The aim of Dickens is to expose a form of public charity which eliminates poverty by starving the poor.
IL REALISMO E PETRONIO
Il Realismo si è sviluppato, dunque, in questo periodo storico ed ha avuto rappresentanti come il Verga, l’artista Coubert ed altri. Nonostante ciò troviamo accenni di questa corrente anche in epoche passate, in particolare nel mondo latino con Petronio.
L’originalità del realismo di Petronio sta, non tanto nell’offrirci frammenti della vita quotidiana, ma nell’offrirci una visione critica del reale.
Non esistono elementi oggettivi per stabilire l’età in cui visse e quasi nulla sappiamo della sua vita. Petronio sarebbe stato un personaggio della corte neroniana, un uomo che condusse una vita raffinata, ma che fu poi accusato di aver partecipato alla congiura dei Pisoni che lo portò al suicidio obbligato.
La tradizione gli attribuisce, visto e considerato che poco sappiamo della sua vita, un’opera: il “Satyricon”. Del capolavoro sono incerti la data di composizione, il titolo ed il significato, l’estensione e la trama originaria, il genere letterario e le motivazioni per cui quest’opera venne scritta e pubblicata: in effetti, l’unico attestato dell’opera di Petronio è solo un frammento narrativo in prosa, con parti in versi, residuo di una narrazione molto più ampia, di un lungo romanzo.
Petronio è il primo a scrivere romanzi e riprende questo genere dalla Grecia dell’età ellenistica, che era basato sul tema amoroso, caratterizzato da una letteratura molto casta, molto innocente, in cui troviamo l’innamoramento, il litigio tra i due giovani, la separazione e la riconciliazione finale. Petronio invece, fa una specie di parodia del genere romanzo; infatti, alla coppia tradizionale, egli ne sostituisce una omosessuale. Questa è formata da Encolpio, un giovinastro che racconta i fatti parlando in prima persona, e Gitone, sua amante; i due sono accompagnati, durante un lungo viaggio in cerca di avventure per lo più erotiche, da Ascilto, un personaggio rozzo, avido, violento, e poi da Eumolpo, un poeta amorale, ma spiritoso e amante della vita. La vicenda è ambientata dapprima a Marsiglia, poi in una città di costumi greci dell’Italia meridionale e infine a Crotone.
Rispetto al romanzo greco, quindi, non mancano gli elementi di novità, scelti appositamente per conferire un carattere parodico a tutta l’opera. A parte la scelta della coppia non eterosessuale, l’elemento parodico va ricercato sia nella mancanza di serietà e di moralità dei personaggi, sia nell’assenza della benché minima castità nelle vicende narrate: i personaggi sembrano spesso ridere di se stessi e appaiono privi di valori morali, tutti protesi verso il soddisfacimento del piacere. Le vicende, nella maggior parte dei casi, presentano una forte connotazione erotica che serve soprattutto a porre in rilievo il carattere corrotto e privo di scrupoli del mondo rappresentato.
Dal punto di vista strutturale e stilistico, il Satyricon, costituisce un vero e proprio caso letterario: l’opera, infatti, anche per ciò che ne rimane, non può essere facilmente classificata all’interno dei generi tradizionali. La sua struttura richiama la satira Menippea, caratterizzata da una grande varietà di registri stilistici e dalla mescolanza di prosa e poesia. Entro tale struttura Petronio inserisce una serie di racconti che riprendono la tradizione milesia, ma non per ciò che riguarda sostanzialmente il carattere morale ed educativo.
Per quanto riguarda il linguaggio usato nell’opera, l’autore sa servirsi, a seconda delle situazioni e delle sue intenzioni ironiche o parodiche, di tutti i registri linguistici, ma quella che prevale nell’opera è una lingua nuova, moderna, assai più vicina ad una forma parlata, talvolta anche di uso popolare, che egli consapevolmente immette nella lingua letteraria.
Petronio presenta e ritrae un mondo corrotto, popolato da personaggi squallidi e anonimi, che traggono soddisfazione solo dai piaceri più essenziali ed immediati. Insomma egli raffigura una fascia sociale che non sembra animata da alcuna ispirazione ideale e che nella cultura ufficiale del tempo non trovava spazio. Eppure, Petronio fa ciò senza compiacimento, anzi quasi con distacco, prendendo le dovute distanze, ma non senza ironia e malizia: egli, cioè non offre ai suoi lettori nessun strumento di giudizio. Quindi, infine, possiamo dire, che il tratto più originale della poetica di Petronio è proprio la forte carica realistica.
L’episodio più lungo del Satyricon è “La cena Trimalchionis”, che da solo occupa i capitoli 27-78, quasi la metà di quanto ci è pervenuto, ed in cui viene descritta la cena a casa di Trimalcione, personaggio che i protagonisti avevano conosciuto alle terme. Il brano può essere diviso in tre sequenze. Nella prima, viene fornita una descrizione del padrone di casa, che fa il suo ingresso quando la cena è già cominciata: è un villano che ostenta la sua ricchezza e che come padrone di casa si comporta in modo tale da mettere in soggezione, piuttosto che a loro agio, gli ospiti. Nella seconda, vengono descritte le portate e le stramberie presentate dai camerieri agli invitati. Nell’ultima, viene sparecchiata la tavola, non senza colpi di scena; pur nell’allegria della cena, non tarda a insinuarsi in Trimalcione il pensiero della morte, destino comune a tutti gli uomini.
Ciò che più colpisce è decisamente il tono ironico del testo: la descrizione di Trimalcione mantiene un tono serio ma ha un intento comico, mette in ridicolo il personaggio che non fa altro che mostrare la sua falsa ricchezza.
Fisica
Il magnetismo
Geografia astronomica
IL CAMPO MAGNETICO TERRESTRE
La terra come il sole e gli altri pianeti possiede un campo magnetico. I geofisici ritengono che tale campo sia prodotto da moti convettivi degli elementi metallici presenti allo stato fuso nel nucleo terrestre. In generale diremo che in una certa regione di spazio è presente un campo magnetico, tutte le volte che un ago magnetico è soggetto, in quella regione, ad azioni meccaniche, cioè ad un momento dovuto alle forze agenti sui suoi poli. La struttura geomagnetica può essere descritta supponendo di porre al centro del pianeta una barra magnetica il cui asse formi con l’asse di rotazione terrestre un angolo di 11 gradi. Le linee di forza indicano che è presente una forza magnetica la cui l’intensità diminuisce con l’aumentare della distanza dalla terra: un ago magnetico libero di oscillare sotto l’influenza di questa forza si dispone parallelamente alla linea di forza su cui si trova, per cui si allinea quasi secondo la direzione Nord-Sud.
In realtà, la forma del campo geomagnetico, è più complesso di quella connessa ad un ago magnetico in quanto questo presenta un campo tipicamente dipolare, cioè, avente due poli verso i quali confluiscono tutte le linee di flusso. Il campo geomagnetico si può definire solo prevalentemente dipolare, poiché, rispetto all’andamento dipolare teorico, presenta alcune proprietà, che vengono attribuite a componenti del campo non dipolari.
Inoltre, al di sopra di una certa temperatura critica detta punto di Curie, i materiali magnetici perdono il loro magnetismo permanente e questa temperatura è di circa 500 gradi. Le ipotesi sull’origine del campo geomagnetico si sono orientate verso il modello della dinamo ad auto eccitazione.
In questa dinamo un disco di materiale buon conduttore di elettricità, posto in rotazione, si muove attraverso le linee di flusso di un campo magnetico: in tali condizioni si genera nel conduttore, una corrente elettrica indotta, che viene fatta fluire in un circuito. É proprio questa corrente che, attraversando un solenoide inserito nel circuito, genera e mantiene il campo magnetico attraverso cui ruota il disco conduttore. Per innescare la dinamo è necessario all’inizio la presenza di un campo magnetico esterno, come quello di un magnete, la cui azione viene assunta poi dal campo magnetico generato dalla corrente indotta: da quel momento il sistema continua a mantenere attivo il campo magnetico , finché il conduttore è in movimento.
Per quanto riguarda la terra, vi è la presenza di un buon conduttore di corrente che sarebbe il nucleo esterno di ferro fuso, quanto al campo magnetico iniziale richiesto per innescare la geodinamo, basta che la terra sia passata in qualche campo magnetico sporadico, probabilmente di origine solare, mentre già erano in atto i movimenti convettivi nel nucleo fluido.
La conoscenza del campo geomagnetico si è molto ampliata e ha schiuso prospettive inaspettate con la scoperta del paleomagnetismo, che consente lo studio del campo magnetico terrestre del passato. Ciò è possibile perché molte rocce conservano una magnetizzazione propria indotta dal campo geomagnetico esistente al momento della loro formazione. Si è scoperto cosi che il campo geomagnetico esiste da quasi 3,5 miliardi di anni e si è formato forse in tempi ancora più vicini a quelli della formazione della terra .
Nel corso degli anni ’50 alcuni ricercatori inglesi osservarono che la direzione della magnetizzazione conservata in rocce antiche era, in genere, diversa da quella del campo geomagnetico attuale; a seconda dell’età della roccia esaminata tale direzione risultava diversa , come se il polo Nord magnetico avesse occupato nel tempo posizioni diverse . Inoltre si è constato che rocce di continenti diversi indicavano una diversa posizione del polo magnetico. In effetti non erano stati i poli magnetici a spostarsi, ma erano stati i continenti a muoversi scivolando e ruotando lentamente sulla superficie terrestre, mentre i poli magnetici erano rimasti in pratica quasi sempre nella stessa posizione rispetto all’asse di rotazione della terra; di conseguenza , le rocce hanno cambiato posizione e orientamento nel tempo e con esse si è spostato , quando era presente, anche il loro campo magnetico fossile.
Il paleomagnetismo ha portato anche ad un’altra importante scoperta. Infatti, è stato osservato che in molte rocce di età recente, formatesi cioè quando i continenti avevano già raggiunto la loro posizione attuale, la direzione di magnetizzazione risultava esattamente opposta a quella del campo magnetico attuale, come se, al momento della formazione di quelle rocce, il polo nord magnetico fosse nella posizione del polo sud, e viceversa. Si è avuto così una vera e propria inversione di polarità. La conclusione che ne è stata tratta indica che il campo magnetico terrestre è passato alternativamente da normale, cioè orientato con il polo nord come oggigiorno, a inverso.

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