I dodici abati di Challant

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Testo

Laura Mancinelli
I DODICI ABATI DI CHALLANT
IPOTESI DI LAVORO
Sulla lettura storico-sociologica
a) Quali mezzi si utilizzano nel romanzo per parlare della storia del Medioevo? Quali sono gli aspetti su cui si sofferma maggiormente l’autrice?
La storia di San Bernardo da Chiaravalle e di un’immaginaria Isabella d’Aquitania, sua seduttrice, servono all’autrice per mettere in luce uno dei punti chiave del Medioevo: la repulsione della chiesa per le donne. Questo scontro, che si ripeterà tra la marchesa di Challant e gli abati, non fa altro che confermare anche un altro aspetto caratteristico dei secoli presi in considerazione: lo scontro tra nobiltà e clero.
Nel romanzo compaiono personaggi come il filosofo, accusato d’eresia, poiché con il suo pensiero e con le basi d’Abelardo, filosofo eretico anch’esso, aveva, in un certo qual modo, dato come altresì valida la dottrina di Maometto. La cosa fu alquanto grave ed incriminante nel periodo in cui la religione cristiana doveva essere osservata ciecamente.
Attraverso queste figure di “ertici”, la letterata analizza la posizione di quella che è stata una delle protagoniste dei secoli presi in esame: l’autorità ecclesiastica.
La chiesa, tramite il suo “tribunale della Santa Inquisizione”, influenzò, sebbene in modo negativo, gli avvenimenti dell’età di mezzo.
L’autrice si sofferma particolarmente su tutto questo: il clima conflittuale che persisteva tra laici ed ecclesiastici, tra nuovi e vecchi, intransigenti, pensatori; insomma tra lo scontro di mentalità diverse che realizzò la storia del Medioevo.
Tramite la figura d’Enrico di Morrazzone e del mercante di Venezia, s’intravede, oltre che la nascita delle potenti repubbliche marinare: Amalfi, Genova, Pisa, Venezia, anche la figura del mercante: uomo che tra il VI e il IX secolo, sia a causa delle difficoltà nei trasporti e della povertà generale, sia a causa di un rifiuto della chiesa nei suoi confronti, era tenuto ai margini della società; ma che tra il XIV e il XV secolo è riconosciuto come una delle figura di spicco della comunità: persona di ragguardevole cultura, di vitale importanza per il commercio e quindi per il benessere generale della popolazione.
Attraverso il personaggio del trovatore, inoltre, viene enunciato l’ideale cortese, simbolo di una società colta e raffinata; gli ideali dei cavalieri medioevali: coraggio, onore, lealtà, sono affiancati dall’amore cavalleresco e sopraggiungono alle regge tramite una lirica dotta e ingentilita.
Tutta la narrazione del romanzo si svolge sullo sfondo di un castello: costruzione peculiare della “Età di mezzo”.
b) Elenca gli elementi che nel testo testimoniano l’evoluzione sociale e culturale nel secolo XIII
Per prima cosa un elemento che pone l’accento sull’evoluzione sociale è proprio il castello.
Sorsero le prime rocche con le invasioni barbariche verso la fine del IX secolo e gli inizi del X. Costruiti sopra un promontorio su antiche fondamenta celtiche o romane, questi erano in molti casi luoghi impervi come il territorio che li circondava. Con la mancanza di vetri che chiudessero le feritoie e con l’impossibilità di mantenere fuochi sempre accesi nelle stanze, in inverno erano pressoché invivibili.
Successivamente, verso la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, comparvero lastre sorrette da fili di rame a proteggere del freddo e, nelle stanze, furono edificati veri e propri camini. Ammettiamo che il romanzo si fosse ambientato solamente circa tre secoli prima, la marchesa, nell’affacciarsi alla finestra, tra la pioggia battente, per vedere la venuta del troviero, si sarebbe infradiciata (vedi capitolo “Il trovatore”); il filosofo, al suo arrivo, non si sarebbe sistemato tanto comodamente davanti al caminetto senza “affumicarsi” un po’ (vedi capitolo “Il filosofo”) e, parimenti, la marchesa non si sarebbe potuta concedere un bagno così caldo e profumato come descritto nel capitolo “le esequie”.
Nei castelli, inoltre, si veniva a creare una vera e propria “vita di classe” dove la donna era posta in primo piano.
Nella società antica, la femmina era colei che doveva provvedere all’allevamento dei figli e all’andamento della casa. Non le era permesso saper né leggere né scrivere (anche se, naturalmente, c’erano molte eccezioni), non faceva vita di società e aveva pochissimi diritti.
Successivamente, con l’affermazione della chiesa come “autorità vigilante”, la donna era considerata uno strumento di Satana. Ritenute inferiori, non avevano il permesso di possedere alcun bene e, addirittura, un atteggiamento inammissibile era la sola cura del corpo. Così la sensualità e gli atteggiamenti seduttori della bella Maravì (vedi capitolo “Amore e morte”) sarebbero stati considerati oltraggiosi e peccaminosi se non si fosse trovata in un castello del XIII secolo: con lo sviluppo, infatti, della vita cortese, la donna era “adagiata al centro dei desideri” degli uomini di corte. In questo modo la marchesa di Challant divenne “l’irraggiungibile incanto” del duca Franchino, dello stesso abate Mistral e del trovatore.
Questi, di fatto, fu un’altra figura che si sviluppò nel XIII secolo. Le sue origini risalgono agli istrioni romani o nientemeno che ai rapsodi greci; passando per “quegli uomini di dubbia moralità” che erano chiamati saltimbanchi, poi giullari, si arriva fino ai trovatori Provenzali del XII/XIII secolo.
Costoro, accompagnati da uno strumento musicale come la viella, il liuto o l’arpa, componevano liriche d’amore, di fatti o desideri personali, di gesta d’altri o accompagnavano semplicemente le danze.
Ecco, dunque, che in questi secoli si sviluppano balli spensierati e gioiosi come la ronda, il branle, la ballata e il saltarello. Tutto questo in contrapposizione con le primitive danze a sfondo erotico o con significato magico, poi bandite dalla chiesa.
Il trovatore, difatti, nella narrazione, si propone come un abile musico, intrattenitore e romantico seduttore (vedi capitolo “Il trovatore”).
Non meno importante è l’evoluzione della scuola, quindi della medicina e dell’astrologia.
Nei secoli precedenti a quello preso in esame, la scuola aveva sede nei monasteri e l’istruzione era vincolata alla carriera ecclesiastica; successivamente, con l’inizio d’alcune ribellioni contro la chiesa, sorsero le prime università; si ricorda in particolare quella di Napoli. Successivamente furono istituite cattedre d’anatomia, come quella dell’università di Salerno da cui proveniva il personaggio di Goffredo. Va ricordato, però, che lo studio dell’anatomia era una pratica riprovevole per la chiesa; non bisogna, quindi, stupirsi se Goffredo da Salerno era stato accusato d’eresia per aver voluto iniziare la pratica dei trapianti sull’uomo (vedi capitolo “Amore e morte”).
Infine l’evoluzione che caratterizzò la fine del medioevo fu proprio la rinascita delle città e quindi dei commerci. Ecco dunque che con la figura del mercante di Venezia, troviamo un uomo colto, di buone maniere, capace di vendere con astuzia la propria merce (vedi capitolo “Il mercante veneziano); nel XIII/XIV secolo, con la figura del mercante ricco e benvoluto, in contrapposizione all’antico trafficante povero e reietto, si ha la definitiva evoluzione verso la società borghese.
c) Una delle tematiche costanti nel testo è lo scontro tra la mentalità ecclesiastica e quella laica. Rintraccia gli episodi e i dialoghi in cui il contrasto ti sembra più evidente.
Lo scontro tra queste due mentalità, cioè tra quella ecclesiastica e quella laica, si ripete molto spesso tra la marchesa di Challant e gli abati su varie tematiche. Per prima cosa, se ricordiamo che per i chierici la cura eccessiva del corpo era peccato, mentre nelle corti si affermava sempre di più il culto del lusso e dell’eleganza, dobbiamo notare come l’abate Torchiato, nel capitolo “Le esequie”, riprenda la marchesa dopo il suo bagno…
“Quando entrò nella stanza il profumo dell’acqua di rose si mescolò al profumo dolce del vino e un vapore caldo si sparse nella sala. [...] Poi subito dal gruppo si staccò il grosso abate Torchiato, verboso e zoppicante, e con molte parole prese a rimproverare la marchesa per il suo abbigliamento, pei i capelli sciolti, per il profumo e infine: - Un bagno, - disse, - e a quest’ora!
Tutti volsero gli occhi a lui. La marchesa lo lasciò parlare quanto volle. Quando l’abate rosso e ansimante, poi che d’eccesso di sangue soffriva, si tacque, la marchesa lo guardò sorridendo, alzò un poco verso di lui la sua coppa e disse:
- Non dovreste mai dimenticare, messere, che su di me non avete alcun potere.
Torchiato ammutolì, si guardò intorno cercando lo sguardo dei suoi confratelli; capì il suo errore e si sedette mortificato. Mortificato soprattutto da quel “messere”, umiliante, detto a bell’apposta, in presenza di tutti.”
…Non bisogna, però, stupirsi se le provocazioni partissero anche dalle file laicali. La marchesa rimprovera ai religiosi, nel capitolo “La saggia pretessa”, la prassi di formarsi una famiglia, anche se costretti, dall’obbligo della castità, al contrario. Naturalmente, l’abate Foscolo, smentisce categoricamente...
“Non so perché la chiamano pretessa, forse è la vedova di un prete.
- Come dite? La vedova di un prete? Ma i preti non hanno mai vedove, - intervenne vivacemente l’abate Foscolo. E aggiunse severamente: - state attenta, madonna, certe cosa non si dicono neppure per scherzo -. La marchesa, che l’aveva detto seriamente, lo guardò sollevando le sopracciglia, e tacque.”
…La concertazione su questo argomento continua anche nel capitolo “Amore e Morte”, quando l’arrivo di un bambino d’oscure origini, fa allarmare l’abate Foscolo…
“L’unico che ebbe a ridire sulla presenza di Cicco fu l’abate Foscolo, prete saccente e autoritario che vedeva nel bambino un figlio del peccato.
- Marchesa, - disse un giorno affrontando l’argomento, - non potete tenere in casa vostra uno che non sapete chi sia.
- Perché? - chiese madonna Bianca.
- Perché non sapete chi sia.
- A maggior ragione lo tengo, - rispose la marchesa, - pensate che potrebbe essere un principe, anzi dev’essere un principe di sicuro; oppure il figlio del papa, oppure il figlio di qualche santo importante -. L’abate Foscolo interruppe questo discorso da cui capiva di non poter ricavare molto. Si limitò a guardare il bambino con occhi malevoli, ma lui non se ne accorse perché non aveva nessun motivo di guardare l’abate Foscolo.”
Ora il battibecco si sposta su “campo artistico”. L’abate Ipocondrio sostiene che…
“- Quel fanciullo non dovrebbe possedere un flauto. […]
- Nessun fanciullo dovrebbe possedere un flauto, - ribadì l’abate.”
A lui, questa volta, si contrappone Venafro…
“ - Perché? - chiese Venafro, e intanto pensava che tutti i bambini dovrebbero possedere un flauto, o un piffero, o un’ocarina.
- Il flauto non dovrebbe nemmeno esistere, - ampliò il suo pensiero l’abate avanzando nella sala; - e non solo il flauto, ma la viola, il liuto, i tamburelli e tutti i maledetti istrumenti seduttori.[…]
- Mille volte dannato sia, chi inventa uno strumento da far musica, poiché anime perdute sono quelle che amano suonare e cantare. Anche il canto conduce a perdizione.”
Anche la marchesa, intende prendere parte alla discussione, intenta a difendere le proprie convinzioni…
“- Ahimè, monsignore, il grande Gregorio non pensava come voi”
L’abate ipocondrio, tuttavia, continua ad attaccare, in tono quasi apocalittico, la musica e il canto profano…
“ - Il grande Gregorio fece canto da farsi in chiesa. In chiesa può farsi canto ed anche musica, signora, ma fuori dei luoghi consacrati è bene che siano banditi l’uno e l’altra, perché son arti del demonio. E’ il demonio stesso che insegna a modulare i toni, che suggerisce i suoni sensuali e seduttori che si traggon dagli istrumenti e che la perversa razza dei poeti lega alle canzoni stolte e licenziose sì che ogni suono, ogni nota, ogni parola, diventa veicolo di lussuria. E il diavolo si desta, e s’accosta non visto a suonatori ed a cantanti, e presta il suo potere diabolico alla lor arte, accende i cuori di chi fa musica e di chi ascolta, e impure fiamme serpeggiano nel sangue e accendono desideri innominabili che trascinano uomini e donne nell’abisso del peccato.
Tutti ascoltavano in silenzio, tranne la marchesa che domandò:
- Quei desideri innominabili, monsignore, sarebbero forse desideri d’amore?
- Madonna non fatemi dire parole impure. Ricordate che il demonio è sempre pronto alle nostre spalle. E ricordate che suoni e parole sono i veicoli che lo lasciano entrare in noi. Per questo tutti i suoni e certe parole si possono fare e dire solo nei luoghi consacrati, dove il demonio non può entrare, ma resta confinato sulla soglia a divorarsi di rabbia. Allora suoni e canti diventano veicoli di emozioni pure, linguaggio per parlare con Dio. Ma guai a chi li porta fuori delle chiese, guai a chi con essi offre al demonio il mezzo per sedurre gli altri. Non oso pensare che cosa può essere un flauto nelle mani di un ignaro fanciullo, o d’una donna, che di saggezza è pari ad un fanciullo. Non oso pensare che cosa diventerebbe il mondo se un giorno ogni uomo, donna o fanciullo potesse maneggiare uno strumento da far musica, per cantare e per danzare e fare tutte quelle cose stolte e sconce che dal canto sono alimentate e dalla musica. La seduzione correrebbe per le strade, la lussuria scivolerebbe per ogni vena e all’uomo pio non resterebbe che esser cieco e sordo per sfuggire alle tentazioni e salvare l’anima sua”.
Certo, non si possono biasimare le obbiezioni di Ipocondrio, se si considera a che cosa dà luogo, nel capitolo “Autodafè”, l’abate Ildebrando!
Quest’ultima parte non è che l’esempio più lampante delle ideologie cattoliche: il rogo è l’unico mezzo per purificare l’uomo dai peccati…
“-Tutti, tutti, - disse, - siete in peccato mortale poi che avete appreso ad amare il piacere e fuggire la sofferenza, e tutti gemerete nella fiamme dell’inferno! Ma prima – e qui il suo sguardo ebbe lampi di follia – prima io distruggerò la Babilonia infernale, e purgherò il mondo da questa Sodoma e Gomorra, sì che anche voi perirete nel fuoco e tra le fiamme sconterete i vostri peccati: pregate Iddio misericordioso che si tenga soddisfatto del fuoco terreno che distruggerà i vostri corpi sì che voglia risparmiare le vostre anime. Siate grati, che vi do l’ultima speranza di sfuggire alle fiamme dell’inferno – […] – Castello maledetto! – Gridava la figura avvolta nella nera tonaca svolazzante, - perirai con tutti i tuoi abitanti! E io, io avrò fatto giustizia di tanti peccatori! –“
Tutte le cose, pur essendo giuste in partenza, portate all’estremo, sono quasi sempre sbagliate.
La vera (e giusta) filosofia di vita, che aprirà le porte ai nuovi secoli, è quella proposta da Venafro…
“…Nulla è più saggio nella vita che cercarvi la gioia che vi si può trovare. La penitenza fa l’uomo triste, e l’uomo triste ama che anche gli altri sian tristi. […]
…Io credo che l’unico peccato al mondo è il male che si cagiona a se stessi e agli altri. I piaceri della tavola diventano peccato quando si porta via il cibo agli altri, i piaceri del corpo quando si costringe altri a subirli contro la sua volontà. Ma è più grande peccato avvelenarli col mostro dell’inferno, è più gran peccato indur tristezza, angoscia e disperazione nell’animo altrui che molcir le membra di carezze. E più gran peccato minacciar trombe del giudizio che suonar viole, flauti e mandolini.[…]
- A noi resta la scelta tra l’esser giusti o ingiusti, […] e anche il più umile servo può divenire tiranno, poi che troverà sempre una creatura più debole di lui, che possa opprimere per sentirsi forte. Ma se non cerca e non desidera questo, neppure un re è un tiranno.”
d) Le opinioni sull’amore e sulla sessualità sono, nel nostro romanzo, piuttosto moderne che medioevali. Rileggi le pp. 55-56, 87, 90-91, 110 e indica in che cosa consiste questa modernità.
Nel colloquio tra la marchesa e il filosofo, come in quello che costei intrattiene con il trovatore, bisogna notare come la padrona del castello si accosti ai suoi pretendenti. Occorre ricordare che la dama, nella società cortese, era posta al centro delle attenzioni e dei desideri. La sua immagine era quasi venerata ed il suo corpo era inarrivabile. L’unico metodo che il cortigiano aveva di avvicinarsi a lei, era quello di amarla, di corteggiarla e di trattarla come una regina. Difficilmente una marchesa medioevale si sarebbe concessa al suo spasimante senza prima averlo fatto soffrire di pene d’amore, quasi fino a farlo impazzire.
Nel capitolo “Il trovatore”, quindi, si sarebbe limitata a farsi baciare i piedi e sarebbe rimasta un po’ più distaccata da lui.
Nel capitolo ”L’abate Mistral”, le parole di questi: “ - […]E se pure non si dovessero asciugare, sappi, che è meglio piangere perché si ama, che non piangere perché il cuore è vuoto.”, sono più tipiche di un prete moderno piuttosto che di un chierico del XII/XIII secolo.
Nel periodo preso in considerazione, sarebbe stato poco probabile un ragionamento del genere da parte di un prete, giacché per la chiesa l’amore era un male da fuggire con tutti i mezzi e tutte le forze. Contraddicono, infatti, i pensieri di Mistral, lo stratagemma inventato dall’abate Prudenzio e la stessa cronaca d’apertura del romanzo sulla storia tra San. Bernardo da Chiaravalle e Isabella d’Aquitania.
Parole romantiche s’incontrano nel capitolo “Ottobre”, quando il filosofo avrebbe voluto dipingere la marchesa nuda e ricolma d’oro “Là dove nasce la vita e muore la morte, dov’è il centro dell’universo e il baricentro della gioia”.
La modernità di questa considerazione, sta nel fatto che dipingere una donna, nel medioevo, che non fosse la Vergine Maria, per di più nuda e ricolma d’oro, sarebbe stato come dipingere l’immagine di Satana trionfante.
e) Quale visione della donna hanno gli abati e qual è l’immagine che propone la marchesa?
Pur essendo tutti esponenti della chiesa, i vari abati hanno una visone della donna alquanto soggettiva, ovverosia questa cambia a seconda d’ognuno di loro.
Vanno, però, esclusi gli abati Umido, Nevoso, Cleorio e Santoro che scompaiono dal romanzo senza lasciare considerazioni personali sulla donna, ognuno inseguendo i propri interessi: Umido, ricercando il benessere fisico con le erbe che, con dose eccessiva, lo guideranno alla morte; Nevoso, la comodità che lo condurrà in fondo ad un fiume; Cleorio, il caldo del camino della cucina che lo porterà a morire sotto la padella dei Challant, infine Santoro, inseguendo la stella della santità.
Si notino, invece, le divergenti reazioni degli abati restanti: Mistral se n’andrà dal castello innamorato della marchesa; Leonzio, rincorrendo le proprie passioni, finirà ucciso dal suo stesso impeto di voluttà per Pilar; Malbruno, sebbene dubitando, gode del rimedio contro il mal di lombi prescrittogli da Goffredo da Salerno “adoprandosi in amar donne leggiadre”; mentre Prudenzio finisce ucciso nello sfuggir dalle grinfie d’Iledgonda. Si osservino, soprattutto, gli abati: Torchiato, Foscolo, Ipocondrio e Ildebrando. Questi ultimi hanno una considerazione della donna, tipica dei canoni chiesastici del medioevo: considerano, infatti, la femmina come una forza demoniaca in combutta con Satana; avrebbero voluto che le dame del castello non si vestissero elegantemente, che non curassero il proprio corpo, insomma che si comportassero da schiave.
La marchesa, al contrario, si propone come una nobile seducente, capace di suscitare desideri nascosti anche negli abati.
Possiamo ricordare come, l’entrata nella sala da pranzo dopo il rilassante bagno caldo (vedi capitolo “Le esequie”), abbia acceso i desideri del duca Franchino e dell’abate Mistral. Ricordiamo, per questo, l’uscita dell’abate Torchiato volta a ricordare alla marchesa quali dovrebbero essere i costumi femminili: la cura del corpo è un godimento immorale, perché accende la concupiscenza e induce alla tentazione. Questa, a sua volta, ricorda all’abate che su di lei, bella e nobile, la chiesa non ha alcun potere.
L’immagine femminile, difatti, che è proposta dalla marchesa è forse il contrario dell’immagine muliebre voluta dagli ecclesiastici: la prima si comporta quasi come una donna contemporanea, cura, infatti, il proprio corpo, è inserita nella società, è colta, intelligente, padrona di sé e cosciente delle proprie scelte; la seconda è lo spettro dei tempi passati, vale a dire, trasandata, ignorante, dipendente da un tutore maschile, reietta dalla società virile e, quasi, priva d’ogni sorta di diritto.
Sulla lettura narratologica
a) La descrizione dello spazio è spesso filtrata attraverso il punto di vista di un personaggio. Nel capitolo “Il trovatore”, la visione di paesaggi bellissimi si carica di tristezza, mentre “la natura aspra del nord” e la pioggia rendono felice il viaggiatore. Spiegane i motivi e individua a quale corrente letteraria appartiene questo modo di rappresentare lo spazio.
Il viaggio del trovatore è descritto con caratteristiche di fine romanticismo/realismo. La descrizione dell’itinerario del troviero, ricorda il modo di scrivere tipico del realismo. In questo movimento, gli artisti adottarono, infatti, strumenti d’analisi imparziali ed obiettivi, come per esempio la fotografia, che si può dedurre dal taglio fotografico di numerosi luoghi (vedi, per esempio, la descrizione dei paesaggi d’Avignone o della Camargue). La partecipazione, però, del narratore all’analisi dei territori e delle circostanze, non permette di classificare la descrizione come realista, il ciò sembra più una sfumatura di fine romanticismo. Ecco perché, a mio avviso, la descrizione dovrebbe essere considerata tra fine romanico e realista.
Ricordando che non è il viaggio in sé, ma è l’attesa di questo che ci da gioia, il trovatore, non vedendo l’ora di contemplare “l’azzurro crogiuolo di limpidi cristalli”, lasciò il suo castello quando ancora le bianche nevi circondavano il paesaggio; affrontò la solitudine della foresta, ma con l’allegria nel cuore: l’attesa lo rendeva felice. A mano a mano che stava per raggiungere il proprio traguardo, però, il suo cuore non era raggiante come prima. In ultimo, al contatto con il mare, la gaiezza si tramutò in tristezza e quella bella primavera fu, per lui, solo un cupo autunno.
Come i migliori uomini che non si accontentano di se stessi e, raggiunto il traguardo, sono di nuovo infelici e di nuovo volenterosi d’altre sfide, così il trovatore decise di ripartire.
Come per Adamo che, colmo di cose e d’occupazioni, rivolto solo all’avere, si ritrova ancora scontento e l’apparire della donna sopprime ogni solitudine, le beatitudini, i mali, le preoccupazioni, i problemi dell’uomo si trasfondono nell’animo di un’altra creatura, “aiuto a lui corrispondente” (Vedi Genesi 2, 21/24), così egli, resosi conto d’essere solo, infelice e di esserlo nell’avvenenza, decise di ripartire per “la natura aspra del nord”. Più il paesaggio si faceva impervio, più lui si rese conto di essere veramente appagato. Ogni metro oltrepassato era un metro in meno che mancava alla letizia, raggiunta al massimo grado ai piedi della marchesa: come la vita c’insegna ogni giorno, la vera felicità si assapora solo quando si è insieme con un nostro simile. Non avrebbero senso la natura “e tutto il creato”, se non ci fossero gli uomini a goderne. Così quella pioggia battente che, forse, prima sarebbe stata considerata fastidiosa, ora scendeva come lacrime di gioia e rallegrava l’animo del trovatore a tu per tu con la padrona del castello di Challant.
Per lui, anonimo forestiero, non aveva senso godere dei fiori che sbocciano tra la gioia dei paesani, non v’era alcun piacere nel compiacersi della natura (come della vita stessa) nella solitudine. Così le ciliegie erano (e sono!) più buone se mangiate con amici, così la vita in compagnia, anche in luoghi ostili, era (ed è!) migliore che in luoghi ameni.
b) Nel testo la rappresentazione dello spazio è spesso connessa alla stagione. Ricerca quali caratteristiche si attribuiscono all’autunno, all’inverno e alla primavera. Indica quali sentimenti suscitano le diverse stagioni.
Il racconto si apre quando “i colchici (fiori indaco-rosati, che nascono da un piccolo bulbo biancastro profondamente infisso nel terreno) cominciavano a fiorire nei pascoli annunciando i primi freddi autunnali”. Le ultime passioni estive si andavano spegnendo, mentre “le mura, la valle, gli alberi, tutto era sparito avvolto nella nebbia che a fitte ondate saliva e fluttuava, e un silenzio immenso gravava sulla terra. Sembrava che la vita fosse fuggita da quei luoghi.” A mano a mano che la stagione avanzava, venne autunno inoltrato, quando “la nebbia scendeva nei boschi, condensata in neve larga e molle che impastava i sentieri e li rendeva scivolosi”. Ormai nei cuori si andava estinguendo quel lieve tepore, per far spazio al gelido inverno che, quando arrivò, portò con sé “giorni cupi, di scarso sole velato, di silenziose nevicate, poveri di luce, e lunghe notti”. Tra la nebbia e la neve tutto il paesaggio poteva dirsi scomparso. “Furono tristi aurore tarde, giorni pallidi e stanchi, crepuscoli precoci e sere interminabili di noia”. Il castello e i suoi abitanti si erano chiusi in se stessi, e di questo n’è un esempio lapalissiano la figura del duca Franchino che... “Se ne stava interi giorni rannicchiato nel suo scanno, avvolto in pellicce, a mormorare contro la sua sorte che l’aveva sbattuto in quel mostruoso angolo della terra, dove arrivava la primavera quando altrove è estate, e giunge l’autunno prima che l’estate sia cominciata”.
Venne, poi, il “Favonio (vento caldo di ponente) che spezzava il ghiaccio atroce in un giocoso alternarsi di vento e primavera. Nebbia e gelo scomparivano, le grondaie del castello sgocciolavano allegramente la vecchia neve dei tetti, la corte divenne un impasto di fango e neve fondente. Il cielo era di un tenero azzurro solcato di strisce bianche.” Esso segnava la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. Di questo periodo ricordiamo la tristezza di Cicco, poiché il suo piccolo amico Mirò, con l’avvicinarsi della stagione degli amori, era andato in cerca di una compagna; “anche molti uomini e donne erano tristi e nervosi, mentre il bosco sembrava scuotersi baldanzoso e dispettoso nella precoce primavera. E i larici già si riempivano di pennacchi rosati”.
In aprile arrivò la primavera con la sua “pioggia calda e sciroccosa che inturgidiva i rami degli alberi e gonfiava i semi nella terra”. Tutti diventarono briosi, nel castello si fecero canti e balli. C’era chi partiva, come l’abate Mistral, in cerca di fortuna, e chi arrivava, come il trovatore, sicuro di trovare la fortuna stessa ai piedi della marchesa. Questi portò nel castello una primavera travolgente, fatta di sentimenti, passioni, proveniente da Avignone, da Chamargue e da Bourget.
Assente la rappresentazione dell’estate, il romanzo si chiude, di nuovo, in autunno.
c) Tra i personaggi minori compaiono nel romanzo diverse donne: fai il ritratto di una di esse e confrontalo con quello della marchesa.
Madonna Maravì proveniva dalla corte angioina di Napoli; con i suoi “riccioli ramati” s’innamorò di messer Goffredo da Salerno. Per la sua lotta di conquista aveva deciso di vestirsi con un abito di raso rosso ciliegia, bordato allo scollo e alle maniche, il rosso del vestito “accentuava il rosso dei capelli e il candore del collo e del seno che generosamente appariva dall’ampia scollatura.” Portare un tal vestito nel mese di febbraio, però, avrebbe sicuramente danneggiato un organismo proveniente dal clima dell’Italia del sud. Difatti mal di capo e impulso di tossire non furono che l’inizio di un tremendo raffreddore o, per una considerazione Aristotelica della malattia, di un tremendo morbo dell’anima. “Occhi rossi e un po’ gonfi, labbra screpolate e acconciatura trasandata”, sono i sintomi della “malattia dell’amore” in cui era incappata questa damigella ostinata. Impulsiva nelle reazioni, persa ormai la battaglia per messer Goffredo, solo confrontandosi con la marchesa riuscì ad apprendere una nuova filosofia d’amore.
Quest’ultima, anch’essa seducente, aveva un carattere più pacato e “cogitativo”. La marchesa di Challant, soleva andare a cavallo la sera prima del tramonto; “possedeva due splendidi cavalli uno bianco e superbo, dal trotto lento e solenne, dal lungo collo robusto e dolcemente flessuoso.” Quando cavalcava su di esso si vestiva tutta di bianco. “L’altro cavallo era nero come la notte, agile, nervoso e scattante, col corpo sottile come un puledro, il collo lunghissimo, e lunghissima criniera.” Mal rispondeva alle briglie e al morso. Quando lo cavalcava si vestiva tutta di nero. Tutto ciò indica, come per Maravì, una grand’eleganza nel vestirsi e un carattere deciso. La marchesa era, come la damigella partenopea, molto bella e il suo aspetto ricordava più una donna mediterranea che una femmina nordica.
La padrona, oltre che nel paragone con la damigella, spicca, tra i personaggi, per un elevato carisma e un’elevata saggezza nei confronti degli affari di tutti i giorni. E’ dotata anche di una mente molto aperta alle innovazioni; ed è proprio lei che “aprirà le porte del suo castello in fiamme” al nuovo periodo borghese.
Sulla lettura stilistico-linguistica
a) La lingua e lo stile adottati nel romanzo variano a seconda dei personaggi. Prova a confrontare la lingua usata dalla marchesa, dal filosofo e dal trovatore e spiega le ragioni delle differenze.
Essendo una donna pratica o, come diremmo oggigiorno, “di mondo”, la marchesa ha una parlata molto chiara e concisa. In pensieri molto profondi, le frasi sono ugualmente semplici e immediate, vale a dire, senza tanti giri di parole.
“-Non potete costringere una persona ad amare. […] O ama, o non ama. E’ come il sole: o c’è o non c’è ed è nuvolo.” (Vedi capitolo “Amore e Morte”)
“La primavera non porta fortuna a questo castello, Mistral. Tu hai visto l’amore nei miei occhi, Mistal, ma non ti sei accorto che c’era anche del pianto.” (Vedi capitolo”L’abate Mistral”).
Contrariamente ad essa, i periodi del filosofo sono, per lo più, complessi con posticipazione del verbo per ricreare una maggiore sonorità e solennità nelle sue spiegazioni.
“E tutto il sapere antico andai indagando per cercare sostegni alla mia fede”; “[…] più i dubbi si facevano profondi, come ferite vive nel pensiero”; “[…]che non nell’esperienza umana poggiasse le sue basi”; “ […] ma mi sfuggì di mano come un pugno di sabbia su cui passi l’onda del mare.” (Vedi capitolo “il filosofo”).
Similmente alla sua, anche quella del trovatore è complessa e ricca di poetica. Differentemente, però, le frasi sono più lineari e sono presenti molte più metafore. Sono inoltre inseriti molti, poetici, attributi e/o apposizioni.
“io ero felice come un re. E felice discesi giù per la bella Provenza di castello in castello, come guerriero alla conquista del mondo: e la primavera si faceva ogni giorno più viva e più calda.” ; “Giunto al mare […] guardavo la mia immagine riflessa nell’acqua che era limpida e quieta come quella di un lago.” ( Vedi capitolo “Il trovatore”).
Ogni parlata ha, però, un suo senso insito nella vita e nella funzione stessa del personaggio. Il compito del trovatore, per esempio, era quello di intrattenere e appassionare la gente con la sua musica, i suoi racconti. Il suo linguaggio, “per garantirgli la sopravivenza”, doveva essere arricchito di molte figure retoriche per aumentarne la poeticità, ma al tempo stesso non doveva essere contorto per favorirne l’orecchiabilità. Cosa di cui, certamente, non aveva bisogno il filosofo. I suoi discorsi sono peculiari a trattati filosofici di cui “si nutre”.
Diversa da entrambi i precedenti stili, è la lingua usata dalla marchesa: lei non ha bisogno né di intrattenere né emulare trattati di saggistica. Il suo compito è di amministrare il castello e di badare al buon andamento della vita di corte; deve essere, quindi, semplice ed esplicita.
b) Le scelte linguistiche del romanzo, soprattutto in certi brani, riproducono la lingua del Duecento. Rileggi per esempio l’avventura dell’abate Leonzio a pp. 99-100 e individuane le differenze linguistiche e sintattiche rispetto alla nostra lingua.
Nella narrazione della vicissitudine dell’abate Leonzio, è utilizzata lo stile duecentesco; in esso si usano latinismi e termini arcaici. Andiamo, però, ad analizzare varie righe…
“Non passò gran tempo che, come Iddio volle, non potendo più reggere l’abate di solo vedere i nove volti di Pilar, anco colle mani volesse alcuna cosa strignere et abbracciare, e più volte alla desidiata forma la man tendesse, ma pur mai quella vera cogliesse, sibben vana parvenza e inconsistente. Et allora correr si diè in diverse parti, dietro le immagini che cangiavano continuamente e alcuna volta scomparivano poi che la bella Pilar, per gusto di giocare, dietro ad un cespo di rose si celava e in altra parte riappariva da quella ov’era prima. ”
Come si può facilmente notare, sono numerose le espressioni oggi desuete:
- gran tempo: molto tempo
- di solo: solamente
- anco colle: anche con le
- et: e
- strignere: stringere
- desidiata: desiderata
- sibben: sebbene
- si diè: si diede
- cangiavano: cambiavano
- ov’era: dov’era
Per aumentare la poeticità è, talvolta, ripresa la rima: “la man tendesse […] quella vera cogliesse”. Molte sono la parole tronche per incrementare la scorrevolezza e dare solennità al componimento (man, sibben, correr, ov’era…), oltre che frasi con verbi omessi (sibben vana parvenza e inconsistente); altrettante sono le inversioni, inconsuete nella lingua orale dei giorni nostri:
- Iddio volle: volle Iddio
- più reggere: reggere più
- di solo vedere: vedere di solo / di vedere solo
- alcuna cosa strignere et abbracciare: stignere et abbracciare alcuna cosa
Senza contare frasi che, dopo un segno di punteggiatura forte, iniziano con una congiunzione, cosa che, al tempo contemporaneo, è tipica della lingua parlata, ma sconsigliabile nei testi.
Curatola Michele 3^ C

II

Esempio



  


  1. mario

    i dodici abati di challant lintero libro