Foscolo, Goldoni, Cervantes e Alfieri

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Testo

Cervantes
Cervantes nacque ad Alcalá de Henares nel 1547 era il quarto dei sette figli di un povero “chirurgo”, cosi veniva definito un medicastro senza laurea e senza prestigio sociale, forse d’origine ebraica, sempre pieno di debiti, non poté quindi compiere studi regolari, se non per brevi periodi.
Studio presso i gesuiti, a Cordova e a Siviglia, e presso la Scuola Municipale di Madrid, diretta da López de Hoyos il quale presentò, nel 1568, i primi versi di Cervantes in una raccolta dedicata alla memoria della regina Isabella di Valois, terza moglie di Filippo II, chiamandolo «il mio caro e amato discepolo».
In sostanza Cervantes fu un autodidatta, ma la sua cultura umanistica e rinascimentale fu ugualmente vasta e profonda, perché sempre sorretta da un inestinguibile desiderio di leggere e di sapere.
Nel 1569, ricercato dalla polizia madrilena per aver ferito in una rissa un certo Antonio Sigura e condannato in contumacia, Cervantes fuggì in Italia dove trascorse sei anni molto decisivi per la sua formazione d’uomo e di scrittore.
Visse dapprima a Roma, al servizio del cardinale Giulio Acquaviva, e poi fu soldato dell'esercito spagnolo, a Napoli, in Sicilia e probabilmente anche in Sardegna e in varie città del continente.
Il 7 ottobre 1571, a bordo della galera veneziana La Marchesa, prese parte alla battaglia navale di Lepanto, riportando gravi ferite al petto e alla mano sinistra, che i chirurghi militari gli resero poi definitivamente storpia.
Dopo vari mesi trascorsi all'ospedale di Messina partecipò ad altre spedizioni nel Mediterraneo, soggiornò a Napoli, città che gli doveva essere carissima, per molto tempo e qui forse lasciò un figlio illegittimo, natogli da una donna misteriosa e crudele, da lui ricordata nella Galatea e in altre pagine sotto il nome di «Silena».
Il 20 settembre 1575 s’imbarcò a Napoli sulla galera El Sol, diretto in Spagna, dove probabilmente intendeva continuare la carriera militare, ma sei giorni dopo, nei pressi di Marsiglia, venne catturato dai pirati moreschi, assieme al fratello Rodrigo, e trasportato ad Algeri e per il suo riscatto venne fissato un prezzo esorbitante, che solo cinque anni dopo poté essere pagato, indebitando ancor più la misera famiglia dello scrittore.
Quei cinque anni di schiavitù ad Algeri furono terribili, per le continue sofferenze fisiche e morali ma Cervantes ne uscì spiritualmente più forte.
Nell'ottobre del 1580, rimetteva piede in Spagna dopo undici anni d’assenza; ma, se aveva sperato di vedere riconosciuti in patria i meriti acquisiti, dovette disilludersi ben presto: infatti, nella Spagna di Filippo II i reduci disoccupati pullulavano, come del resto i letterati e i teatranti quindi per Cervantes, sconosciuto e povero, aprirsi una strada in quest’universo di miserie doveva essere pressoché impossibile.
Dopo aver tentato senza successo le vie burocratiche pensò di dedicarsi al teatro, la grande scoperta popolare del momento: i comici italiani dell'Arte mietevano grandi successi di pubblico nei primi teatri stabili di Madrid e compagnie spagnole li emulavano, percorrendo tutto il Paese
Compose molte opere teatrali e le vide rappresentate trent'anni dopo, nel prologo delle Ocho comedias (1615), di questi drammi due soli ci sono pervenuti in testi difettosi pubblicati per la prima volta nel 1784 da Antonio Sancha: El cerco de Numancia (L'assedio di Numanzia) ed El trato de Argel (Il mercato d’Algeri), gli altri andarono perduti; e specialmente La batalla naval, che con ogni probabilità si riferiva alla battaglia di Lepanto.
Contemporaneamente al teatro Cervantes tentò un'altra via: il romanzo.
Nel 1585 un modesto editore d’Alcalá de Henares, Juan Gracián, pubblicava la prima parte della Galatea, un romanzo pastorale in prosa e versi, iniziato probabilmente in Italia sul modello dell'Arcadia di Sannazzaro, ma che non fu mai compiuto.
Poco apprezzata, in genere, la Galatea ha invece un'importanza considerevole, non solo perché contiene molti dati autobiografici e ricordi di molti cari amici degli anni d'Italia, ma anche perché vi si pongono per la prima volta temi tipicamente cervantini, ripresi poi nelle opere maggiori.
Lo stesso anno, 1585, registra però un vero colpo di scena nella vita dello scrittore egli infatti'abbandona ogni attività letteraria e la stessa città di Madrid, per dedicarsi, in Andalusia, ad un umile mestiere: la raccolta di viveri per la spedizione che Filippo II preparava contro l'eretica Inghilterra, la famosa Invincibile Armata (1588).
All’età di trentasette anni lo scrittore sposò la giovanissima: Catalina Salazar, nata e vissuta in un villaggio della Mancia, Esquivias (il paese di Don Chisciotte) i coniugi non ebbero figli e la sola discendente diretta di Cervantes, oltre al fantomatico figlio napoletano, resterà Isabel de Saavedra, nata nel novembre del 1584 da un’attrice, Ana Franca de Rojas.
Don Chisciotte della Mancia
Nel 1597 la bancarotta e la fuga di un banchiere-appaltatore procurarono a Cervantes un soggiorno d’alcuni mesi nella prigione di Siviglia; e qui probabilmente, cominciò a comporre il Don Chisciotte, sotto forma di novella corta.
Lasciando definitivamente l'Andalusia, ai primi del Seicento, per trasferirsi a Valladolid, sede della corte e del governo, a sistemare i suoi complicati conti con il fisco, Cervantes portava seco un notevole bagaglio letterario: diverse novelle, e quasi tutta la prima parte del Don Chisciotte, per la quale chiese e ottenne nel 1604 il prescritto «privilegio».
ll Don Chisciotte della Mancia fu pubblicato in due fasi distinte: una prima parte, scritta probabilmente tra il 1598 e il 1604, vide le stampe nel 1605 a Madrid, in una pessima edizione dell'editore Juan de la Cuesta, e il successo fu immediato quanto inatteso.
Una seconda parte uscì nel 1615 dopo che, in seguito al successo e quindi alle numerose ristampe della prima edizione, un non meglio identificato Alonso Fernandez de Avellaneda aveva pubblicato l'anno prima il Secondo tomo della vita dell'ingegnoso hidalgo Don Chisciotte della Mancia: opera d’imitazione che spinse Cervantes, preoccupato di vedere il proprio personaggio sfruttato da altri autori, ad accelerare la scrittura della seconda e ultima parte delle sue avventure.
In entrambe le edizioni, la vicenda, ruota intorno ai viaggi nell'est della Spagna compiuti dal protagonista, Don Chisciotte.
Questi, avido lettore della letteratura cortese, lascia per tre volte il suo villaggio d'origine in cerca d’imprese cavalleresche da compiere per emulare gli eroi che gli hanno fatto perdere la nozione della realtà, facendogli immaginare d’essere egli stesso un cavaliere errante.
Il romanzo inizia con la presentazione del protagonista, Alonso Chisciana, un nobiluomo (hidalgo) di campagna ormai cinquantenne, che vive in un piccolo paese della Mancia e che dopo anni di letture di libri cavallereschi impazzisce e comincia a pensare che tutto ciò che ha letto corrisponda al vero e che egli debba ripetere le gesta dei cavalieri erranti alla ricerca di fama e di gloria.
Perciò si dota dell'armatura dei suoi avi (ma la sua visiera è di cartone), ribattezza il suo magro cavallo Ronzinante, sceglie per sé come nome di battaglia quello di Don Chisciotte della Mancia ed elegge come sua dama una contadina del luogo alla quale cambia il nome in Dulcinea del Toboso.
Così dà inizio al suo vagabondaggio. Questa prima sortita solitaria è però destinata a breve durata, siccome, dopo qualche disavventura e una buona dose di legnate inflittegli da chi ha sfidato, è ritrovato alquanto malconcio da un suo compaesano che lo riconduce a casa.
Qui è assistito dalla nipote, dal curato e dal barbiere, i quali, ritenendo responsabili della follia del loro amico i libri cavallereschi della sua biblioteca, ne bruciano la quasi totalità.
Nel frattempo Don Chisciotte si rimette e si decide immediatamente ad una seconda uscita (capp. VII - LII); prima però si sceglie uno scudiero, un contadino del paese - Sancio Panza - attratto dalla possibilità di guadagni e dalla promessa di ottenere un'isola da governare: si forma così una delle coppie più celebri della storia della letteratura: il cavaliere alto, magro e allampanato in sella al suo Ronzinante, e lo scudiero basso e tondo in groppa al suo somaro.
Seguono alcune delle avventure più celebri del romanzo tra le quali la battaglia contro i mulini a vento, scambiati da Don Chisciotte per dei giganti e quindi sfidati a duello. Dopo una serie di comiche peripezie che li vedono, spesso, avere la peggio, i due si dividono perché Don Chisciotte chiede a Sancio di recapitare una lettera d'amore a Dulcinea ma durante il viaggio egli incontra il barbiere e il curato e rivela loro dove si trova Don Chisciotte e insieme, attraverso uno stratagemma, riescono a riportarlo a casa.
La terza uscita di Don Chisciotte è al centro della seconda parte del romanzo, edita nel 1615. Al ritorno nel suo villaggio, Don Chisciotte apprende che è stato pubblicato un libro che narra le sue avventure, ma le descrive in modo poco glorioso, perciò il nobiluomo si decide ad una terza sortita proprio per affermare i suoi ideali di giustizia, di cortesia, di difesa degli oppressi tanto derisi nel libro appena pubblicato. Numerose vicende si susseguono, ma il nostro protagonista ha sempre la peggio, anche perché, oramai divenuto famoso, è vittima delle beffe di coloro che incontra e lo riconoscono come il folle che si crede un cavaliere errante. Motivo distintivo, infatti, della seconda parte del romanzo è che non è più tanto Don Chisciotte a trasformare la realtà secondo la sua immaginazione, quanto piuttosto i personaggi intorno a lui, incluso Sancio, a volerlo convincere a compiere stramberie per poterne poi ridere. Anche questa sortita si conclude, in ogni modo, con un ritorno al villaggio. Qui Don Chisciotte è preso da una forte febbre che lo tiene a letto. La malattia lo rinsavisce, ma proprio allora muore.
Il Don Chisciotte è un'opera di una complessità straordinaria, sia a livello tematico sia stilistico, e di conseguenza molte sono state le interpretazioni datene, anche di segno opposto tra loro.
L'universalità dei personaggi creati dal Cervantes, inoltre, ha spesso indotto i critici a leggere il romanzo quasi come opera loro contemporanea. Le varie analisi critiche, in ogni caso, sono riconducibili, fondamentalmente, a due tipi di letture: da un lato quella "giocosa", secondo la quale la follia del Don Chisciotte altro non sia che gioco, parodia, comicità; dall'altro l'interpretazione affermatasi durante il Romanticismo, che vede invece nell'hidalgo un campione dell'idealismo costretto a scontrarsi con una prosaica realtà priva d’ogni eroismo.
Dell’opera è importante rilevare la modernità stilistica. Essa, infatti, unisce tutte le esperienze delle letterature precedenti per creare qualcosa di assolutamente originale ed unico, definito da molti come il primo romanzo moderno.
In esso il Cervantes testimonierebbe la crisi di fiducia del suo tempo nelle acquisizioni rinascimentali, quali l'armonioso equilibrio tra la natura e l'uomo, la fiducia nell'agire umano guidato dalla razionalità. Nel suo romanzo regnano, infatti, la confusione, l'incertezza, il disinganno, l’esatto contrario del pensiero umanistico.
Càrlo Goldóni
Càrlo Goldóni nacque a Venezia nel 1707. Dal 1716 iniziò gli studi, prima a Perugia, presso il collegio dei gesuiti, poi si trasferì a Rimini, da cui fuggì in barca, con una compagnia di comici, a Chioggia; fu studente di giurisprudenza al collegio Ghislieri di Pavia ma ne fu espulso nel 1725 per aver scritto una satira goliardica sulla bruttezza delle ragazze della città.
La morte del padre interruppe le sue allegre esperienze, si laureò a Padova (1731), dopo una notte trascorsa al tavolo da gioco,
Nel 1736, quando sposò Nicoletta Conio, ebbe fine la sua vita di’”avventuriero onorato”, come lui stesso amava definirsi, poiché la moglie con pazienza e decisione introdusse nella sua vita irrequieta maggiore regolarità ed equilibrio.
L'incontro a Verona nel1734 con il capocomico G. Imer gli aveva intanto offerto l'occasione per intensificare la sua attività di scrittore teatrale, che alternò alla professione legale fino al 1747, quando un celebre attore del tempo, C. Darbes, lo convinse a farsi scritturare come autore stipendiato dalla compagnia di G. Medebac, che lavorava al Teatro Sant'Angelo di Venezia.
Creatosi un suo pubblico, Goldoni dovette sostenere la rivalità di P. Chiari, contro il quale condusse un'aspra battaglia teatrale, culminata con la promessa al pubblico di diciassette commedie nuove nella stagione teatrale 1750-51.
Passato nel 1753 al Teatro San Luca dei fratelli Vendramin, Goldoni fu costretto a piegarsi al genere esotico e patetico per controbattere su quel terreno i successi di Chiari, sul quale trionfò nel periodo 1760-62, definito dalla critica il felice triennio dei capolavori.
Intanto si avanzava sulla scena un altro e più temibile rivale, C. Gozzi, che, con il successo delle sue Fiabe e con l'accusa di sovversione sociale rivolta al teatro goldoniano, indusse l'amareggiato Goldoni ad accogliere l'invito, rivoltogli dal Théâtre-Italien, di recarsi a Parigi; qui dovette ricominciare da capo con i «canovacci» la sua battaglia per la riforma.
Accolto alla corte di Versailles come maestro d’italiano della famiglia reale, ottenne da Luigi XVI una modesta pensione, che però nel 1792 gli fu sospesa dalla Convenzione; il 7 febbraio 1793, il poeta J. M. Chénier ottenne, dalla stessa, che gli fosse restituita, ignorando che il giorno prima Goldoni era spirato.
L'opera goldoniana si muove tra due estremità: l'aderenza alla vita concreta e reale e la fedeltà, sia pure in forme nuove, alla tradizione artistica di carattere popolare rappresentata dalla Commedia dell'Arte.
Con la sua riforma, Goldoni appagava le esigenze di un nuovo pubblico, quello borghese, che aveva elaborato un'etica nuova fondata sul buon senso, sul lavoro e sul culto della famiglia, che, rifiutando l'evasione dalla realtà quotidiana, chiedeva un teatro nuovo, che rispecchiasse la sua condizione sociale, le sue difficoltà, le sue aspirazioni.
La Locandiera
Uno dei suoi maggiori capolavori è La locandiera, commedia in tre atti rappresentata per la prima volta nel 1753, che segna il trionfo dell'antiretorica: Mirandolina, infatti, con le sue adorabili finzioni, critica il linguaggio dei suoi spasimanti, facendo cadere l’ostacolo tra le parole e le cose.
La commedia era definita, dallo stesso Goldoni, la più “utile, morale e istruttiva perché mostrava l’ardire delle donne” e la loro capacità e destrezza nel “mettere i lacci agli innamorati per poi disprezzarli”.
Goldoni fa capire in questo modo che l’universo femminile è stato e sarà sempre mutevole e incomprensibile poiché, spesso, ciò che appare non è, e ciò che è non appare.
La trama racconta di come, il conte d’Albafiorita e il marchese di Forlipopoli, ospiti nella locanda di Mirandolina a Firenze, si contendono il suo amore: il primo con doni che può facilmente permettersi, grazie alla sua buona posizione economica, il secondo, appartenente a quella parte di nobiltà decaduta e ormai senza mezzi, tenta di conquistarla con promesse di protezione.
Nella locanda è ospitato anche il cavaliere di Ripafratta, un convinto misogino che si vanta d’essere immune al fascino femminile ed anzi sostiene di disprezzare l'intero sesso "debole". Mirandolina, risentita del suo atteggiamento e della sua insensibilità, decide di provarsi nel farlo innamorare di sé e senza troppe difficoltà ci riesce, causando gelosie e liti tra i tre pretendenti.
Riuscita nell'intento di far capitolare il cavaliere, ella però ne rifiuta l'amore così come prima aveva rifiutato la corte dei due nobiluomini e concede la propria mano al cameriere della locanda Fabrizio.
Questa commedia, che non fu mai tra le preferite del Goldoni, dimostra l'ormai raggiunta maturità artistica del suo autore con l'assoluta padronanza del mezzo scenico, l'attenta caratterizzazione di tutti i personaggi, i dialoghi ben calibrati, il chiaro delineamento dell'ambiente sociale all'interno del quale si svolge l'azione; ma anche il raggiungimento di una "forma" teatrale originale e a lungo ricercata negli anni, la materializzazione scenica di quella riforma teatrale che doveva ispirarsi alla società contemporanea, i cui intrecci dovevano essere plausibili e che doveva avere fini educativi e di denuncia.
Il principale merito attribuito dai critici al gran commediografo veneziano è quello di aver introdotto nel teatro due punti fermi: un testo scritto fisso, non modificabile dagli attori, in sostituzione dei canovacci della Commedia dell'Arte, e l'eliminazione delle maschere.
Così Mirandolina La locandiera è un personaggio ben definito non solo caratterialmente, ma anche socialmente; non è più la "servetta" intrigante della commedia precedente, il tipo della "donnina brillante e capricciosa", ma è una locandiera con i suoi affari, i suoi interessi.
È un personaggio radicato in una precisa realtà sociale, lontano da generalizzazioni e stereotipi, il cui comportamento è dettato non da caratteristiche fisse ed immutabili, ma dalle sue esperienze e dalla sua posizione sociale è indicativo che, a conclusione della commedia, Mirandolina sposi un borghese come lei, il cameriere Fabrizio.
Una conclusione che conferma come, aldilà del piacere per una storia ben congeniata, molti siano i temi sociali di quest'opera come l'irrompere sul palcoscenico di valori borghesi, quali l'operosità, il senso della misura, l'attenzione al guadagno.
Ugo Foscolo
Il poeta Ugo Foscolo, nato nell’isoletta greca di Zante nel 1778 dal medico veneziano Andrea e dalla greca Diamantina Spathis, ricevette il nome di Niccolò, cui, dal 1797, aggiunse quello d’Ugo; visse, nella''chiara e selvosa Zacinto'', circondata da un mare carico di leggenda e a contatto con una natura splendida, una fanciullezza libera e felice.
Dopo aver compiuto gli studi primari nel seminario di Spalato, morto il padre, si trasferì, con la madre e i fratelli, a Venezia dove fu accolto nei salotti letterari e mondani grazie alla protezione d’Isabella Teotochi Albrizzi, colta nobildonna veneziana.
Si dedicò agli studi dei classici antichi e moderni e lesse le opere filosofiche latine e greche, tra i filosofi contemporanei, predilesse soprattutto Rousseau.
Era un’anima inquieta e sfogava i suoi umori malinconici scrivendo lunghe lettere in cui, colloquiando con se stesso, cercava di disciplinare il suo tumultuoso mondo interiore.
Foscolo prese intensissima parte agli avvenimenti politici del tempo e, per sottrarsi alle persecuzioni della polizia, fuggì a Bologna, dove si arruolò nel corpo dei Cacciatori a cavallo.
Quando a Venezia fu proclamata la nuova repubblica democratica, ritornò nella città lagunare, ottenendo la carica di segretario della municipalità; ma, quando Napoleone, con il trattato di Campoformio, deluse le attese giacobine, si distaccò definitivamente dalla sua seconda patria e si recò in volontario esilio a Milano, dove conobbe Parini e si legò d'amicizia con Monti.
Nel 1798 il poeta fu a Bologna dove avviò alla stampa le Ultime lettere di Jacopo Ortis, qui si arruolò nella Guardia Nazionale e combatté contro gli Austro-Russi; ferito a Cento, si distinse nell'assedio di Genova dove fu ferito una seconda volta.
Rientrato a Milano con il grado di capitano, Foscolo fu incaricato di varie missioni e, nel 1802, ripubblica l’Ortis alternando all'autobiografia sentimentale della prima edizione la meditazione morale e la passione civile coinvolgendo così nel racconto tutta la sua personalità.
Il ritorno della Restaurazione trovò il Foscolo ormai disimpegnato e stanco: dapprima accettò di collaborare con il governo austriaco, assumendo la direzione di un giornale letterario, ma poi, successivamente scelse l'esilio.
L’esilio era idealizzato dalle generazioni risorgimentali come una consapevole scelta politica per non sottomettersi al volere degli “usurpatori” mentre era in realtà una definitiva rinuncia all'azione da parte di chi poteva educare il popolo a credere nell’Italia libera e unita.
Dapprima di trasferirsi in Svizzera, dove pubblicò la terza edizione dell'Ortis (1816) poi andò in Inghilterra dove fu accolto con simpatia dagli ambienti liberali, col passare del tempo, si chiuse in una scontrosa solitudine, vivendo in ristrettezze e povertà
Assistito dalla figlia Floriana, nata dalla sua relazione con Sophia Hamilton negli anni della dimora in Francia, il poeta si spense in un sobborgo di Londra il 10 settembre 1827 e fu seppellito nel piccolo cimitero di Chiswick.
Nel 1871 le sue spoglie furono traslate a Firenze, nella chiesa di Santa Croce.
Ultime lettere di Jacopo Ortis
L'Ortis può essere considerato il primo romanzo moderno della nostra letteratura; offre, in forma epistolare, una tematica complessa, imperniata sulla duplice delusione di Jacopo, il protagonista: quella politica, per il tradimento di Napoleone che, con il trattato di Campoformio, ha venduto la sua patria, Venezia, agli Austriaci; quella amorosa, perché la donna amata, Teresa, è stata promessa dal padre al ricco Odoardo, personificazione dell'uomo gretto e calcolatore; la conseguenza di questo duplice disillusione non può essere che il suicidio.
Nonostante il tono enfatico e gli squilibri tra i diversi livelli narrativi, l'Ortis mette a fuoco i motivi fondamentali che dominano l'arte foscoliana (dal tema dell'esilio a quello della bellezza che rasserena, dal tema della tomba a quello dei sepolcri illustri) ed è lo specchio della crisi italiana nel passaggio dal Settecento all'Ottocento, dal razionalismo illuministico alle prime vampate dell'età romantica.
La pubblicazione
Sin dal 1796 il Foscolo aveva tracciato l'idea di un romanzo epistolare (Laura, lettere) che doveva essere un misto di realtà e finzione letteraria in cui veniva narrato l'amore infelice per una ragazza veneziana e l'emozione indimenticata per la sorte di un giovane morto suicida, Girolamo Ortis, studente dell'Università di Padova, dove il Foscolo ascoltava le lezioni del Cesarotti.
Ma gli eventi storici, nei quali rimase coinvolto il Foscolo in prima persona, daranno una veste nuova alla prima idea dell’opera.
Alla fine del 1798 l'editore Jacopo Marsigli di Bologna, dove il Foscolo si era stabilito, comincia la pubblicazione del romanzo, un insieme di lettere che Jacopo Ortis aveva inviato all'amico Lorenzo F.; ma l'arrivo degli austro-russi e la fuga di Foscolo ne interrompe la stampa alla lettera XLV (l'addio di Jacopo a Teresa).Il romanzo viene quindi a trovarsi improvvisamente senza una conclusione l'editore allora affida al letterato bolognese Angelo Sassoli il compito di completarlo con venti nuove lettere insieme ad ”Alcune memorie appartenute alla storia di Teresa”
.La parte scritta dal Sassoli, pur ispirandosi ai temi foscoliani e pur imitando lo stile del Foscolo, è in ogni caso molto diversa dalla prima parte originale.
Marsigli, quindi, pubblica l'opera con il titolo di “Vera storia di due amanti infelici ossia Ultime lettere di Jacopo Ortis” e vi aggiunge un” Avviso al lettore” e alcune “Annotazioni” destinate al nuovo pubblico che avrebbe comprato il libro.
Il titolo e le annotazioni cercano di dare risalto al filone romanzesco dell'opera anche per ottenere più facilmente il visto della censura degli austriaci giunti a Bologna dopo il trattato di Campoformio.
Ma la vittoria di Napoleone a Marengo, il rientro dei democratici a Bologna e il conseguente ritiro degli Austriaci che abbandonano definitivamente la Romagna, spingono l'editore Marsigli a ripristinare la prima veste editoriale soprattutto per guadagnarsi i favori dei nuovi governanti. Foscolo sconfessa in ogni modo l'operazione del Marsigli, e prepara a Milano, nel 1799 presso l'editore Mainardi, una nuova edizione del romanzo, che si ferma sempre alla lettera XLV ma per uno screzio con l'editore, le copie vanno al macero: si salvano soltanto due copie, tra cui quella che era stata inviata a Goethe.
La prima edizione completa vede la luce nell'ottobre 1802, e presenta alcune sostanziali modifiche rispetto al testo precedente: Lorenzo F. diventa Lorenzo A. (solo dal 1817 si chiamerà Lorenzo Alderani); il numero delle lettere passa da 45 a 67; il tempo della storia si dilata: nel primo dura dal 3 settembre 1797 alla fine di maggio del 1798, ora va dall'11 ottobre 1797 al 25 marzo 1799.
Le modifiche riguardano comunque aspetti sostanziali dell'opera, come il tema del suicidio, della passione politica e della passione amorosa; lo stesso personaggio d’Odoardo, il promesso sposo di Teresa se prima suscitava sentimenti di stima e perfino di simpatia in Ortis, ora diventa un giovane arido dedito agli affari, che desta qualche sentimento d’ostilità.
Le innovazioni, infine, riguardano profondamente anche lo stile, spesso conciso e talvolta figurativo,che porta subito il lettore a "vedere" la scena con i propri occhi.
L'edizione definitiva del romanzo è del 1816 ed avviene a Zurigo (anche se la stampa reca la falsa indicazione Londra 1814) in essa viene ritoccata la forma, aggiunta la lettera datata 17 marzo ed inserita una Notizia bibliografica. L'ultima edizione esce nel 1817 a Londra, con qualche lieve modifica rispetto alla precedente.
La trama
La vicenda del romanzo, rimasta sostanzialmente immutata nelle varie edizioni, racconta le vicende di Jacopo Ortis, giovane veneziano di buona famiglia, studente e patriota d’ideali giacobini, che è costretto a lasciare la città di Venezia dopo che questa è stata ceduta all'Austria col trattato di Campoformio firmato da Napoleone e ratificato il 17 ottobre 1798. Ortis per scampare alle persecuzioni politiche cerca rifugio in una sua proprietà di campagna sui colli Euganei, dove conosce la famiglia del Signor T, padre di Teresa, la divina fanciulla di cui si innamora, pur sapendo che la ragazza è stata promessa sposa dal padre, contro la volontà della madre, al marchese Odoardo, un ricco possidente, dedito più agli affari che agli affetti familiari. Teresa ricambia il sentimento per Jacopo, ma nello stesso tempo non può opporsi alla volontà del padre, come già sua madre non aveva potuto opporsi alla volontà del suo che l'aveva promessa sposa al Signor T*
Il padre di Teresa viene a sapere dell'amore di Jacopo, dopo aver capito qualcosa attraverso lo strano contegno che il giovane teneva soprattutto con Odoardo durante le sue visite.
Quando Jacopo si ammala il Signor T. va a trovarlo e cerca di persuaderlo ad allontanarsi dai Colli Euganei, così, senza un addio, Jacopo parte cedendo alle insistenze del padre di Teresa
La seconda parte narra di Jacopo che cerca di distogliersi dall'amore per Teresa, viaggiando per l'Italia: Bologna, Firenze e la Toscana, Milano, la Liguria fino a Ventimiglia, la Romagna e Ravenna con la tomba di Dante.
Infine ritorna ai Colli Euganei e va a casa del Signor T. che in quel momento stava passeggiando con Odoardo preceduto da Teresa e Isabellina; vedendo Jacopo Teresa quasi sviene, reggendosi al braccio del padre: i saluti sono freddi e asciutti: solo Isabellina gli corre fra le braccia in un silenzio imbarazzato.
Gli eventi precipitano, finché Jacopo si suicida con un colpo di pugnale nella notte del 25 marzo 1799. L'Ortis è un romanzo epistolare ed autobiografico, perché sostanzialmente Foscolo narra una parte della propria vita: più che narrare una vicenda, Foscolo indaga sulle proprie ansie d’esule, medita sulla vita, sulla storia, sui valori e sui grandi ideali che agitano il suo tempo.
I primi anni trascorsi lontano da Venezia, l'interruzione degli studi e il forzato distacco dagli amici e dalle compagnie in cui cresceva e imparava a maturare e a vivere, lo portano inevitabilmente a racchiudersi in se stesso.
Un posto importante assume nell’opera il paesaggio, come proiezione dei sentimenti che agitano l'anima e, mentre per quanto riguarda Teresa esso ha una funzione secondaria poiché non possiamo parlare di paesaggio vero e proprio ma di spazio chiuso: una stanza o la casa del padre, per Jacopo è essenzialmente esterno ed è lussureggiante, verde, luminoso o fosco o tempestoso secondo i sentimenti che prova in quel momento;spesso lo vediamo passeggiare solitario perché nella natura può ritrovare e sfogare il suo senso di libertà, di rifiuto di qualsiasi atto di sottomissione ad un altro uomo o alla società. Il paesaggio- spazio di Teresa è caratterizzato dalla perpetua immobilità: una stanza è addobbata sempre allo stesso modo, ha sempre gli stessi mobili, nel corso degli anni è illuminata sempre allo stesso modo dal sole o dal lume delle candele. È in questo spazio che la figura della donna assume una caratteristica fondamentale della sua esistenza: quella d’essee un elemento equilibratore di tutte le passioni che agita i frequentatori o gli abitanti della casa: nella dolcezza della casa possiamo ritrovare la dolcezza della donna e la mitezza delle passioni che non scoppiano mai violente. Spazio e paesaggio caratterizzano rispettivamente la funzione femminile e la funzione maschile nella società del tempo.
I personaggi
Jacopo Ortis: rappresenta la crisi delle speranze rivoluzionarie, dell'idea di libertà e di patria vissuta in modo istintivo. Egli è l'eroe romantico che lotta inutilmente per realizzare un atto di fede che affonda le sue radici nella continua ricerca, da parte dell’uomo, della libertà e dell’indipendenza. Il suicidio di Jacopo appare come un atto di protesta politica,di denuncia contro gli usi e le consuetudini dell'epoca ed è motivato non soltanto dalla fine dell'infelice amore per Teresa ma anche dal tradimento perpetrato da Napoleone Bonaparte che vende Venezia all'Austria col trattato di Campoformio, ratificato il 17 ottobre, deludendo le speranze di molti nobili idealisti del tempo, che aspiravano ad un’Italia unita.
Il suicidio d’Ortis è originato dal dolore per il fallimento della passione amorosa e dal fallimento della passione politica. Il crollo degli ideali di patria e libertà da un lato, e di quelli di famiglia e amore dall'altro, costretto com'è a vivere ramingo lontano dall'amata Venezia e impossibilitato a formarsi una propria famiglia perché nessun padre, come il Signor T, gli avrebbe concesso la mano della propria figliuola, portano Jacopo ad una disperazione sempre più profonda e radicale e infine al ripudio dell'esistenza, proprio in questa esistenza incerta possiamo trovare l'origine dell'eroe romantico.
Teresa: rappresenta l'amore, la dolcezza, il senso dell'infinito sul piano del sentimento, ma anche l'oggetto, come abbiamo visto, del padre prima (che se ne serve come scambio per ottenere per sé una sostanziale tranquillità anche sul piano poliziesco), e del marito poi: i matrimoni sono un contratto sociale, come aveva ben scritto il Rousseau, e la vittima di questo contratto, la parte debole è proprio la donna, così legata al focolare domestico e al decoro della casa, da non avere per sé assolutamente nessun momento poiché la sua vita deve essere dedicata interamente alla casa, ai figli e al marito... e alla preghiera, come dirà Carducci circa settantanni dopo.
All'uomo la vita pubblica, alla donna la vita privata.
Ma la sofferenza di Teresa di fronte alla mancata realizzazione dell'amore per Jacopo, il dolore muto vissuto fra il padre e il marito che pure per Jacopo provavano qualche simpatia e che il qualche modo si sentono responsabili della sua morte, come sistema se non proprio come individui, è chiaramente manifesto e non viene mai messo in discussione nemmeno da coloro che sono preposti alla sua vigilanza: il padre e il marito.
In lei non c'è odio o avversione, ma una sottomissione alla volontà del padre e la coscienza che nel suo intimo può vivere il suo amore per Jacopo, soffrire delle pene che soffre Jacopo, sentire la mancanza di Jacopo assente e non lamentarsi, ma rivelare i suoi sentimenti appena lo vede da lontano avvicinarsi perché sa che lui è lí per lei, col suo amore senza pretese. In Teresa non c'è esasperazione dei sentimenti, ma mitezza: soffre per la lontananza della madre ma non farebbe mai come la madre perché non è una ribelle. In questo anticipa la funzione della donna nella società romantica: colei che protegge il focolare domestico dalle forze disgregatrici che provengono dall'esterno.
Vittorio Alfieri
Vittorio Alfieri nacque ad Asti nel 1749 e morì a Firenze nel 1803.
D’antica e nobile famiglia piemontese, fu istruito dapprima da un precettore, quindi (1758) iscritto all'Accademia di Torino dove egli, però, si sentiva costretto ad uno studio infruttuoso.
Uscito dall'accademia (1766), intraprese una serie di viaggi in Italia e in Europa nei quali sembrava cercare uno sfogo alla sua giovinezza dissipata in varie passioni (preminente quella per i cavalli).
Amori, duelli, tentati suicidi si susseguirono in quei viaggi, che non appagavano la sua anima inquieta, attratta solo dal paesaggio desertico e sconfinato dell'Europa settentrionale.
Si ritrasse invece, sdegnato, da città come Berlino e da corti come quella di Maria Teresa d'Austria, dove aveva visto servilmente genuflesso il Metastasio.
Nel 1772, stabilitosi a Torino, si dedicò allo studio dei classici latini e italiani per rimediare alla frammentarietà della sua cultura, fatta fino allora soprattutto di letture degli illuministi francesi.
Scoprì la sua vocazione d’autore teatrale componendo una tragedia, Cleopatra. Rappresentata con successo al Teatro Carignano di Torino, nel giugno 1775, lo spinse a conseguire la gloria in quel genere tragico che non aveva visto eccellere nessuno scrittore italiano.
Si recò allora in Toscana dove iniziò la sua attività letteraria, cui volle dedicarsi in piena indipendenza anche dai doveri di suddito, donando i suoi beni patrimoniali alla sorella Giulia in cambio di una pensione.
A Firenze, nel 1777, conobbe Luisa Stolberg, contessa d'Albany e consorte di Carlo Edoardo Stuart, la quale fu per la fedele compagna fino all’ultimo.
Soggiornò in Toscana, a Roma (dal 1781 al 1783), in Alsazia, e, dal 1787 al 1792, a Parigi, dove salutò con entusiasmo lo scoppio della rivoluzione, che poi rinnegò, sdegnato dagli sviluppi popolari e sanguinosi degli avvenimenti parigini.
Tornò nel 1792 in Italia e si stabilì a Firenze, dove visse in solitudine.
Fu sepolto in Santa Croce, dove Luisa Stolberg gli fece erigere dal Canova un monumento sepolcrale.
IL PENSIERO D’ALFIERI
L'opera alfieriana rompe l'equilibrio illuministico tra natura e ragione e annuncia il Romanticismo, in una serie di contraddizioni che rispecchiano il ristagno della cultura nel Piemonte del Settecento.
La contraddizione fondamentale è quella di una mente che accetta la polemica antimetafisica e antireligiosa dell'Illuminismo, e di un cuore che rifiuta i limiti della natura umana.
Scissa da questo contrasto interiore, la personalità dell'Alfieri approda a un estremo individualismo, nettamente antisociale e anarchico.
La libertà è, per l'Alfieri, negazione della storia: l'uomo, perennemente schiavo nella società, è libero solo se n’evade; ma tal evasione è negata alla plebe.
Al vertice della vita spirituale dell'Alfieri si colloca la poesia, legata strettamente al concetto di libertà: il letterato è un eroe, è l'uomo del dissenso e della radicale contestazione d’ogni tirannide.
Saul
Alfieri ebbe l’idea di scrivere il Saul il 30 marzo 1782, durante il soggiorno romano, poi, come era abituato a lavorare, stese in prosa l’opera, dal 2 all’8 aprile, infine lavorò alla versificazione di essa, portandola a termine il 26 settembre dello stesso anno. La stesura del testo è preceduta e accompagnata, come sappiamo dalle testimonianze presenti nella Vita, dalla lettura intensa e prolungata della Bibbia, ed in particolare del Primo Libro dei re, là dove si narra attraverso 15 paragrafi (16/1-31/13) della vita e delle gesta di David e della sua successione a Saul. E che qui stia la fonte decisiva della tragedia è lo stesso autore a confermarlo. Del resto, come già faceva da tempo con le tragedie di ambientazione greca e romana, egli si era ben esercitato a proiettare nel passato attraverso l’utilizzo di personaggi "passionali" e psicologicamente elaborati, le sue idee ed inquietudini storico-politiche. Non a caso il trattato alfieriano Della tirannide, precede di poco (cinque anni) il Saul stesso.
Il primo atto mette subito in scena David impegnato in un accorato monologo. Egli svela ad apertura di sipario di essere perseguitato da Saul, fomentato dal perfido Amner, nonostante il suo valore e nonostante il legame di parentela che lo lega al re, avendone sposato la figlia, Micol. Lo rincuora l’amico Gionata, che lo informa d’altra parte del pericolo in cui versa Israele, sotto la minaccia dai Filistei. Anche il secondo atto introduce subito un monologo, quello di Saul, stavolta, che ricorda i tempi felici della sua giovinezza, e si sofferma aspramente sull’"empio spirto", l’oscuro sconvolgimento psicologico, che lo ha portato all’odio verso David, un tempo suo amico carissimo. Con il terzo atto, dopo un apparente momento di tregua delle passioni, Saul si scaglia di nuovo contro David, accusandolo ingiustamente di aver rubato la spada di Golia, conservata nel tabernacolo di Nob. David lo placa con il suo canto, espresso in un ampio polimetro. Il IV atto vede di nuovo al centro dell’attenzione Saul, da un lato sconvolto dal sentimento di odio misto a stima per David, dall’altro per la lucida e impietosa consapevolezza di come David sia in mano alle mire e ai disegni della classe sacerdotale che vuole distruggere la sua stirpe dinastica. Fa così uccidere il sacerdote Achimelech, accusandolo di aver aiutato David. Nell’atto quinto, infine, viene mostrato un personaggio sconvolto dai suoi impeti più oscuri ed incontrollabili. La situazione peraltro è ormai giunta ad un altissimo livello drammatico, e con essa l’azione, al suo culmine, in seguito all’avvicinarsi dei Filistei, che hanno decimato l’esercito di Israele. Saul non sente più alcuna speranza di risoluzione. Attribuisce il crollo del suo regno all’iroso disegno divino e si uccide, chiuso nella sua idea di un potere assoluto, privo di possibili limitazioni dall’esterno.
Al centro della tragedia, il protagonista, sovrano assoluto non più così certo né convinto della sua onnipotenza, suggerisce una delle questioni politiche più attuali nell’Europa di fine Settecento ormai alle soglie della rivoluzione francese: quella dell’ereditarietà del potere. Il problema, fulcro degli stessi modelli tragici classici (come nell’Edipo re di Sofocle), dopo aver attraversato tutta la modernità, con il culmine dell’Amleto shakespeariano, giunge ad Alfieri, che lo sottopone al giudizio generale, in tutta la sua drammaticità.
Di splendida modernità ci appare oggi questa tragedia alfieriana. I possenti, marmorei protagonisti delle opere precedenti si trasformano. Alfieri non mette più in scena figure che incarnano individualmente caratteri unici, il cui contrasto emerge dal contrasto dei personaggi stessi. Qui egli rappresenta la battaglia psicologica all’interno di un unico personaggio, denso di chiaroscuri, sfumature; eroico nella sua immensa forza, ma reale, quasi "borghese", nella sua contraddittorietà.

Esempio



  


  1. Bho99

    Personaggi e tipi e i tratti Materia:Antologia

  2. Bho99

    Personaggi e tipi e i tratti Materia:Antologia

  3. leonardo

    saggio breve sui Sepolcri di Foscolo devo scrivere un saggio breve frequento il quinto anno di Liceo Scientifico