Discorso sul metodo, R. Descartes

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Testo

Recensione del “Discorso sul metodo” di René Descartes

Cartesio (René Descartes) nasce a La Haye, in Francia, il 31 marzo 1596.
Educato in un collegio gesuita per otto anni, dal 1604 al 1612, qui riceve un’educazione umanistica, seguendo un programma di studi modellato sulla tradizione scolastica delle scienze.
Completato questo periodo di formazione, nel 1618 compie un primo viaggio in Olanda, e in seguito si arruola volontario a Breda, in uno dei reggimenti francesi inquadrati nell’esercito olandese, per combattere in quella che poi sarà la guerra dei trent’anni.
Nel 1619 dice di avere scoperto “i fondamenti di una scienza meravigliosa”, in grado di modellare il nostro sapere sui principi matematici, e quindi nel 1620 abbandona la vita militare.
Dopo essersi reso conto che le sue proprietà risultano tali da consentirgli una vita agiata senza impegni professionali, decide di viaggiare e di dedicarsi allo sviluppo di questa “scienza meravigliosa”. Muore il primo febbraio del 1650 a Stoccolma, dopo essersi ammalato di polmonite.
Le maggiori opere di Descartes sono: tre saggi (la Diottrica, le Meteore e la Geometria) pubblicati a Leyda nel 1637 e preceduti da un’opera programmatica, il Discorso sul metodo;un sommario destinato alle scuole (Principi di filosofia, 1644); un trattato di metafisica (Meditazioni sulla filosofia prima intorno all’esistenza di Dio e all’immortalità dell’anima).
Il Discorso sul metodo fu concepito inizialmente come una sorta d’introduzione alla ricerca scientifica, e per questo fu redatta in francese, con un linguaggio abbastanza semplice e in una prosa abbastanza scorrevole, proprio per il suo carattere didattico e divulgativo.
L’opera si presenta come una sorta di biografia, nella quale Cartesio racconta l’evoluzione del proprio pensiero.
Secondo lui “il buon senso è tra tutte le cose quella meglio distribuita”; Cartesio dichiara perciò che “il mio scopo dunque non è di insegnare il metodo che ciascuno deve seguire per ben condurre la propria ragione, ma semplicemente di far vedere in che modo ho cercato di condurre la mia”.
“…presentando questo mio scritto semplicemente come una storia o, se preferite, come una favola, dove, in mezzo ad alcuni esempi che si possono imitare, se ne potranno forse trovare molti altri che giustamente non si vorranno seguire, spero che esso sarà utile a certuni, senza essere di danno a nessuno, e che tutti mi saranno grati per la mia franchezza.”
Cartesio, era stato educato sin dalla fanciullezza allo studio delle lettere e delle scienze, e nutriva un vivissimo desiderio di apprenderle, perché era stato persuaso che per mezzo di loro si poteva acquistare una conoscenza chiara e sicura di tutto ciò che è utile alla vita.
“Ma una volta portato a termine l’intero corso di studi, alla fine del quale si è di solito annoverati nel numero dei dotti, cambiai radicalmente opinione. Mi trovi infatti intricato in tanti dubbi ed errori che tutti gli sforzi da me compiuti nel tentativo di istruirmi, non mi sembrava che mi avessero permesso di trarne altro profitto se non quello di aver scoperto sempre di più la mia ignoranza.”
“…non appena l’età mi permise di liberarmi dalla tutela dei miei precettori, abbandonai del tutto lo studio delle lettere e, deciso a non trovare altra scienza se non quella che poteva trovarsi in me stesso o nel grande libro del mondo, trascorsi quanto rimaneva della mia giovinezza a viaggiare, a visitare corti ed eserciti […] a riflettere su tutto ciò che mi si presentava, in modo da trarne qualche profitto.
Mi sembrava infatti che avrei potuto riconoscere molte più verità nei ragionamenti che ciascuno svolge relativamente agli affari che gli stanno maggiormente a cuore[…], che non nei ragionamenti compiuti nel chiuso del suo studio da un uomo di lettere, che specula su questioni che non producono alcun effetto, e la cui unica conseguenza non sarà forse altra se non che egli ne trarrà tanta maggiore vanità quanto più esse saranno lontane dal senso comune, dato che avrà dovuto impiegare tanto maggiore ingegno e artificio per renderle verisimili.
Tuttavia nutrivo pur sempre un estremo desiderio di imparare a distinguere il vero dal falso, per vedere chiaro nelle mie azioni e procedere con sicurezza in questa vita.”
E allora, mentre era in Germania (inverno del 1619), dice di avere scoperto i fondamenti di una scienza meravigliosa.
Il suo nuovo metodo “assommando in sé tutti i vantaggi di queste tre scienze (la logica, la geometria e l’algebra) fosse tuttavia esente dai loro difetti. E come spesso il gran numero delle leggi fornisce scuse ai vizi, per cui uno Stato è tanto meglio regolato quanto, avendone pochissime, esse vi vengono rigorosamente osservate, così invece del gran numero di precetti dei quali è composta la logica, ritenni che mi sarebbero bastate le quattro regole seguenti, purchè prendessi la ferma e costante risoluzione di non venir meno, neppure una volta, alla loro osservanza.
La prima era di non accogliere nulla come vero che non conoscessi con evidenza essere tale: di evitare cioè accuratamente la precipitazione e la prevenzione, e di non comprendere nei miei giudizi nulla che non si presentasse alla mia mente con tale chiarezza e distinzione da non aver alcun motivo per metterlo in dubbio.
La seconda prescriveva di suddividere ciascuna difficoltà da esaminare in tutte le parti in cui era possibile e necessario dividerla per meglio risolverla.
La terza consisteva nel condurre con ordine i miei pensieri iniziando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscersi per salire progressivamente, come per gradi, fino alla conoscenza di quelli più complessi; e supponendo un ordine anche tra quelli di cui gli uni non precedono naturalmente gli altri e viceversa.
E infine l’ultima era di fare ovunque enumerazioni così complete e rassegne così generali, da essere certo di non aver tralasciato nulla.”
Inoltre “quelle lunghe catene di ragioni, assolutamente semplici e facili, che i geometri impiegano per pervenire alle loro dimostrazioni più difficili, mi avevano suggerito l’idea che tutte le cose accessibili alla conoscenza degli uomini si collegassero tra di loro in quello stesso modo.”
In seguito, Cartesio espone le sue “tre o quattro massime”, ”per non rinunziar a vivere da allora in poi quanto più felicemente mi sarebbe stato possibile”.
“La prima di queste massime consisteva nell’ubbidire alle leggi e ai costumi del mio paese, conservando inflessibilmente la religione [da me giudicata ottima] nella quale Dio mi ha dato la grazia di essere stato istruito fin dall’infanzia, e regolandomi per tutto il resto secondo le opinioni più moderate e più lontane da ogni eccesso, che fossero generalmente accolte e messe in pratica dalle persone più assennate con le quali avrei dovuto vivere. Cominciando infatti - dato che volevo esaminarle tutte – a non tenere in alcun conto le mie proprie opinioni, ero convinto che non avrei potuto far nulla di meglio se non di seguire quelle dei più assennato. E quantunque fra i persiani e i cinesi possano esserci forse persone altrettanto assennate che da noi, mi sembrava che la cosa più utile fosse di conformarmi alle regole di coloro con i quali avrei dovuto vivere, e che per sapere quali fossero veramente le loro opinioni dovevo stare attento a come effettivamente si comportassero, anziché a quello che dicevano, e questo non soltanto perché, data la corruzione dei nostri costumi, ci sono ben poche persone che dicono tutto ciò in cui credono, ma anche perché sono molti coloro che lo ignorano […] Tra gli eccessi ponevo, in particolare, tutte le promesse che in un certo modo tolgono qualcosa alla nostra libertà […]
La mia seconda massima consisteva nell’essere quanto più possibile fermo e risoluto nelle mie azioni, e nel seguire anche le opinioni più dubbie, una volta che avessi deciso di accoglierle, con la perseveranza che mi sarei imposto se fossero state assolutamente sicure, imitando in ciò i viaggiatori che, quando si trovano smarriti in una foresta, non devono vagare volgendosi or da una parte, or dall’altra, e meno ancora fermarsi in un posto, ma procedere sempre, il più possibile, in una stessa direzione senza mai cambiarla per futili motivi, per quanto all’inizio, forse, possa essere stato solo il caso a determinare la loro scelta. In tal modo infatti, anche se non si dirigono esattamente dove vorrebbero, alla fine arriveranno pur sempre da qualche parte, dove probabilmente si troveranno meglio che non nel bel mezzo di una foresta.
Così, dato che spesso le azioni della vita non ammettono alcun indugio, non c’è dubbio che, quando non è in nostro potere distinguere le opinioni più vere, noi dobbiamo tuttavia deciderci per alcune di esse, non considerandole più, da allora in poi, per quello che concernono l’attività pratica, come dubbie, ma come verissime e cortissime, perché verissima e certissima è la ragione che ce le ha fatte scegliere”.
“La mia terza massima era di cercare sempre e di vincere me stesso piuttosto che le fortuna, e di cambiare i miei desideri anziché l’ordine del mondo e, in generale, di assuefarmi a credere che non vi è nulla interamente in nostro potere, se non i nostri pensieri, di modo che, dopo aver fatto del nostro meglio per quanto riguarda le cose esterne, tutto ciò che non ci riesce, non è assolutamente in nostro potere. Questa unica regola mi sembrava sufficiente ad impedirmi di desiderare per l’avvenire qualche cosa che non potevo ottenere, ed anche a rendermi soddisfatto. La nostra volontà è infatti portata a non desiderare niente altro se non ciò che il nostro intelletto le rappresenta, in qualche modo, come possibile, per cui non vi è dubbio che se consideriamo tutti i beni fuori di noi come egualmente lontani dal nostro potere, non proveremo maggior rammarico ad esser privati di beni che ci sembrano confacenti alla nostra nascita, quando ciò avvenga senza nostra colpa, di quanto non ne proviamo a non possedere i regni della Cina o del Messico; e facendo, come si suol dire, di necessità virtù, non desidereremo di essere sani, quando siamo malati, o di essere liberi quando invece siamo in prigione, più di quanto non desideriamo ora di avere un corpo formato da una materia così poco corruttibile come i diamanti, o delle ali per volare come gli uccelli.
Riconosco che ci vuole un lungo esercizio e una meditazione spesso rinnovata, per abituarsi a considerare tutte le cose da questo punto di vista, ma io credo che in questo soprattutto consistesse il segreto di quei filosofi che in altri tempi sono riusciti a sottrarsi all’impero della fortuna e, nonostante tutti i dolori e le indigenze, a gareggiare in beatitudini con le loro divinità[…]
A conclusione di siffatta morale, mi proposi di fare una rassegna delle diverse occupazioni che impegnano gli uomini di questa vita, per cercare di scegliere la migliore; e senza voler dare alcun giudizio su quelle altrui, pensai che non avrei potuto far di meglio se non continuare in quella stessa che mi impegnava, a dedicare cioè tutta la vita a coltivare la mia ragione e a progredire, per quanto mi era possibile, nella conoscenza della verità seguendo il metodo che mi ero prescritto. Da quando avevo incominciato a seguite questo metodo avevo provato tali e tante soddisfazioni che non credevo se ne potessero avere delle più dolci e delle più innocenti in questa vita.”
Cartesio poi espone la sua metafisica, ma sembra farlo controvoglia, solo perché “si possa giudicare se i fondamenti da me stabiliti siano sufficientemente solidi”.
Il filosofo francese sembra riprendere il ragionamento Agostiniano del “dubito dunque sono” ampliandolo in “penso dunque sono”.
“In seguito a ciò, riflettendo sul fatto che dubitavo e che , di conseguenza, il mio essere non era del tutto perfetto (vedevo infatti chiaramente che conoscere era una perfezione più grande che dubitare) ritenni di dover ricercare da dove io avessi imparato a pensare a qualcosa di più perfetto di quello che io non fossi, e riconobbi con evidenza che dovevo averlo appreso da una natura che era realmente più perfetta di me.”
Secondo Descartes era impossibile trarre una simile idea dal nulla, né trarla de dentro di sé, “perché è altrettanto incompatibile che il più perfetto consegua e dipenda dal meno perfetto di quanto lo è che dal nulla proceda qualche cosa. Così rimaneva soltanto che tale idea fosse stata posta in me da una natura veramente più perfetta della mia e che racchiudesse in sé tutte le perfezioni di cui potevo avere un’idea, cioè, per dirlo in una parola sola, che fosse Dio. Poiché inoltre conoscevo alcune perfezioni che non avevo, giudicai che non ero l’unico essere che esisteva (mi si permetta di usare qui liberamente i termini della Scuola) ma che doveva esserci necessariamente qualche altro essere più perfetto, dal quale io dipendevo e dal quale avevo tratto tutto quello che avevo. Se infatti io fossi stato l’unico essere, indipendente da qualsiasi altro, così che avessi avuto da me stesso tutto quel poco per il quale partecipavo dell’essere perfetto, avrei potuto per la stessa ragione, dare a me stesso tutto il sovrappiù che sapevo di non avere e, in tal modo essere io stesso infinito, eterno, immutabile, onnisciente, onnipotente, dotato insomma di tutte le perfezioni che potevo considerar in Dio.”
Cartesio poi mostra “tutta la catena delle altre verità che ho dedotto da queste prime”, e discorre ampiamente sull’anatomia umana, esponendo la sua teoria sull’apparato nervoso e circolatorio, che pensa funzionare secondo i principi della dilatazione termica. Il sangue, secondo lui, è più caldo in uscita dal cuore (e quindi più “rarefatto”), e più freddo (e quindi più distillato) in entrata. Dato che questo calore deve essere trasmesso in tutto il corpo, il sangue deve essere continuamente riscaldato e riportato alle varie membra, che altrimenti si raffredderebbero troppo.
Dice poi che è la ragione a porre un discrimine tra uomo e animale, discrimine reso manifesto soprattutto dall’uso del linguaggio articolato e, soprattutto, pensato (non come accade nei pappagalli o nelle gazze), e dalla flessibilità della ragione.
Questa anima razionale “non può assolutamente essere tratta dalla potenza della materia, come tutte le altre cose di cui avevo parlato, ma deve essere espressamente creata; e non basta che essa sia posta nel corpo umano come un pilota nella sua nave, se non fosse per muovere le sue membra, ma che deve essergli congiunta e unita più strettamente perché possa provare, oltre a ciò, sentimenti e passioni simili ai nostri, e comporre in tal modo un vero uomo.”
In conclusione d’opera, Cartesio intraprende una polemica contro l’Aristotelismo scolastico, definendo gli aristotelici come “edera, che non tende a salire più in alto degli alberi che la sostengono, ma che spesso, anzi, dopo essere salita fino alla cima, torna a ridiscendere vero il basso. Così mi sembra che ridiscendano, cioè divengano in qualche modo meno sapienti di quanto lo sarebbero se non continuassero a studiare, coloro i quali, non contenti di conoscere tutto quello che è intelligibilmente spiegato nel loro autore, pretendono, oltre a ciò, di trovarvi la soluzione di molti altri problemi di cui egli non fa parola, e ai quali forse non ha mai pensato.”
Egli ammette l’importanza dell’esperienza e del lavoro congiunto di scienziati e artigiani, di “scienza” e “tecnica”.
Infine ammette di aver scritto in francese e non in Latino perché “spero che quanti si servano esclusivamente della loro ragione naturale, potranno giudicare le mie opinioni meglio di quanti credono soltanto ai libri antichi.”

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