Materie: | Tesina |
Categoria: | Generale |
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Data: | 13.07.2000 |
Numero di pagine: | 35 |
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Testo
Pensieri di Giacomo Leopardi
Nel 1845 il Ranieri, all’interno di una edizione delle Opere leopardiane da parte della casa editrice Le Monnier, pubblicò una raccolta di centoundici pensieri, che il Leopardi aveva lasciato incompiuta. Era quasi certamente il nucleo essenziale di un manuale di filosofia pratica e il tentativo di dare ordine al suo pensiero con un lavoro di affinamento e di riordino delle tante note sparese sul comportamento umano, di cui era attento osservatore. "Come altri grandi autori prima di lui – Pascal, Montaigne, Rousseau – voleva fare della sua esperienza esistenziale un’indagine capace di cogliere gli aspetti universali dell’uomo", non tanto con velleità di filosofo (ben diversa avrebbe dovuto essere l’organicità dell’opera e della ricerca filosofica), quanto con intenti d’artista, che vede la vita e l’uomo e cerca di coglierne l’essenzialità.
Così il 2 marzo 1837 da Napoli Leopardi scrive a Luigi De Sinner a Parigi, a proposito di un’edizione della sue opere presso l’editore parigino Baudry, in particolare dei Canti e delle Operette morali: Je veux publier un volume inédit de Pensées sur les caractères des hommes e sur leur conduite dans la Société. Ma l’improvvisa morte, avvenuta il 14 giugno, impedirà il compiersi del desiderio di pubblicare questa operetta, che stando a questa lettera, doveva già avere una sua qualche compiutezza.
I Pensieri sono ricavati dalle annotazioni sparse dello Zibaldone e rappresentano un insieme di massime morali intorno alle quali, quasi certamente fra il 1830 e il 1835, Leopardi aveva lavorato, come testimonia lo stesso Ranieri nello scritto Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, dopo l’interruzione della scrittura dello Zibaldone, la cui ultima annotazione è datata Firenze 4 dicembre 1832. Lo stesso Carlo Leopardi, fratello di Giacomo, asseriva di averne visti molti, comunque più dei 111 che verranno pubblicati e Pietro Giordani in una sua lettera a Prospero Viani del 1845 riferiva che Ranieri gli aveva parlato parecchi anni addietro di oltre 600 pensieri.
Anche questo può aver contribuito a lasciare quell’impressione di incompletezza nel lettore, che comunque vi trova le linee fondamentali della concezione leopardiana della vita e dei comportamenti umani. Questi i temi fondamentali, in un elenco che non ha pretese di esaustività ma semplicemente quello di essere un punto d’avvio alla lettura e alla comprensione dei Pensieri. Personalmente non vedo in questa raccolta nessuna ricerca di tipo filosofico o l’enunciazione di una particolare poetica, come avviene per molti scrittori; piuttosto vi vedo momenti di riflessione sull’uomo, sulla mentalità, sul modo di vedere se stessi e gli altri; e sono pensieri che non si possono limitare a un determinato periodo storico, a come era l’uomo ai tempi del Leopardi, ma possono essere validi in ogni epoca, e quindi trovano anche oggi la loro validità.
1)
il mondo si divide in uomini illustri (pochi) e birbanti (tanti)
I CI
2)
la morte
VI-VII
3)
la malvagità
XVI XXXVIII CIX
4)
inabili alle cose del mondo
5)
l’uomo
XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVIII XXXI XXXIIXXXV XLIII XLIV XLVI LXXXII XCIII XCVI XCVIIXCVIII
6)
la letteratura
XXIX LIX LX
7)
presente e passato
XXX XXXIX
8)
inganno e affabilità, gentilezza
XXXIII XXXIV XCII
9)
l’intolleranza e l’amore per gli altri
XXXVII XLIX L
10)
amor proprio
XL XLI XLII
11)
il trascorrere del tempo
XLV LXXX
12)
la gioventù
XLVII LXX LXXI LXXII LXXIX C CII
13)
la noia
LXVII LXVIII
14)
la donna
LXXIII LXXIV LXXV
15)
la salute
LXXVII
16)
il riso
LXXVIII
17)
la civiltà
LXXXIV LXXXV CIV
18)
la vanità
LXXXVIII
19)
la rimembranza
LXXXVII
20)
il ridicolo e l’apparenza
XCIX
Per concludere diamo nella tavola seguente l'elenco dei riferimenti dei Pensieri alle pagine dello Zibaldone, elenco tratto da: Leopardi, Tutte le opere, vol. I, a cura di Walter Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Sansoni, Firenze 1969, pag. 1438)
II
2453 – 2454
V
4131 – 4132
VIII
339-340; 1535-1537; 2471-2472
XII
45
XIII
60; 2255
XIV
283-285
XV
197-198; 454-455
XVI
463-465; 669-674; 1100; 1913; 2473-2474
XVII
334
XXI
507-508
XXIII
663-666
XXIV
2429
XXV
1727-1728
XXVI
1673-1675
XXVII
1252
XXVIII
1721
XXIX
1787-1788
XXXII
256; 3545-3546; 3720-3722
XXXIV
3360-3361
XXXVII
3684
XXXVIII
4197-4198
XXXIX
4241-4242
XLII
4141
XLIV
4247
XLVIII
4201
L
4481-4482
LI
4058-4060
LIII
4188; 4469
LIV
1547; 4525
LV
2342-2343; 4096
LVI
4140
LVIII
4037-4038
LIX
4268-4269
LX
4153-4154; 4329; 4508
LXI
4284
LXII
4283
LXIII
4285
LXIV
612-613
LXV
4294-4295
LXVI
4300
LXVII
4306-4307
LXIX
4308
LXXIII
1083; 1431-1432
LXXIV
4390
LXXV
2155-2156; 2258
LXXVI
4525
LXXVII
4333-4334
LXXVIII
4391
LXXIX
4420-4421
LXXXI
4295-4297
LXXXIII
4471
LXXXIV
112; 611
LXXXV
611
LXXXVI
4482
LXXXVII
4485
LXXXVIII
4493-4494
LXXXIX
4513
XC
4508
XCI
4389-4490; 2401
XCII
4501
XCIV
4523
XCVI
4167; 4523
XCVII
4525
C
2401-2402; 2415; 2485-2486
CI
2401-2402; 930; 2436-2441
CIII
724
CIV
1472-1473
CV
2259-2263
CVIII
4525
CX
4524
“Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non sapere nulla, l’altra di non essere nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte.”
G. Leopardi
“Tutto nasce, diviene e scompare: ecco l’unica grande evidente verità.
La realtà è solo un unico infinito divenire.”
Per gli antichi, la Verità era il rimedio contro l’angoscia provocata dall’annientamento della vita e delle cose. Essa era l’Epistéme che fondava l’esistenza dell’Eterno.
Leopardi, invece, porta alla luce l’inevitabilità della distruzione di ogni Eterno e di ogni Epistéme.
Contenuto della verità è l’annientamento e l’annientabilità di ogni cosa, quindi, essa non è rimedio, ma, anzi, la radice stessa dell’angoscia1.
Una soluzione a questa situazione potrebbe essere la dimenticanza della verità, ma ciò è ormai poco fattibile in un tempo di ragione e tecnica. Ecco che l’unica via percorribile resta solo quella della piena accettazione della nullità del tutto.
Il Nichilismo
Il nichilismo è la fede nell’esistenza e nell’evidenza del divenire (inteso come “sporgenza” delle cose dal nulla), fede che alle sue spalle implica necessariamente la coscienza che l’essere (e quindi la vita) è nulla. Questa è la grande contraddizione su cui si fonda il pensiero di Leopardi e sulla quale anche Nietzsche tanto insisterà. L’evidenza del divenire è la stessa evidenza della contraddizione che avvolge l’essere in quanto essere (se l’essere diviene, diviene non essere e perciò non è più essere).
La contraddizione è esistente e la verità sta nell’esistenza di questa contraddizione. Questa è la grande scoperta ed il punto debole del pensiero leopardiano. Con questo, Leopardi è giunto sull’orlo dell’abisso e del caos, ed ha tentato invano di non cadervi.
Frammentarietà
Tacciare come semplice “punto di vista” il pensiero leopardiano, solo perché frammentario, è errato. Dopotutto il frammento è un tratto peculiare dell’Occidente moderno. Esso corrisponde, in campo umanistico-filosofico, alla specializzazione in campo scientifico.
Non esistendo alcun Eterno ed alcuna Verità (se non l’evidenza del divenire), l’Essere non è altro che una “sporgenza” casuale e precaria delle cose dal nulla, in una successione in cui tale “sporgenza” è occupata da cose sempre diverse, tra le quali non vi è alcun legame necessario, e che, quindi, non sono che semplici fatti senza una ragione. Tutto questo perché ciò che proviene dal nulla non può legarsi al già esistente, non potendo avere né una vocazione originaria né uno scopo.
Ora, dato che la totalità dell’Essere non è che una sommatoria di cose, provvisoriamente ed accidentalmente fuoriuscite dal nulla, tra cui, come già detto, non sussiste legame alcuno, se ne deduce che essa è pertanto una giustapposizione casuale di elementi, in cui tutto è frammento, e quindi per natura predisposto ad essere considerato all’interno d’uno studio “specialistico” (“matematico” direbbe Leopardi → Pensieri).
Leopardi vede scaturire la frammentarietà dell’esistente dalla mancanza di ogni eterno ed di ogni verità assoluta. Ciò non significa che il suo pensiero manchi di un filo conduttore capace, se non di dare unità sistematica (quella di leopardiana non può essere definita, come pure quella di Nietzsche, una filosofia sistematica) alla sua filosofia, almeno di darle una certa coerenza. Tale coerenza è data per l’appunto dalla concezione del divenire dell’essere e dell’essere del divenire, ossia in quanto “natura”, cioè tendenza o volontà di restare il più a lungo possibile al di fuori del nulla.
La distruzione dell’Eterno
Solo il nulla è eterno. La grandezza di Leopardi sta proprio in questo: nel negare ogni eterno ed ogni immutabile.
L’eternità e l’infinità del nulla, nel quale l’essere non è che un attimo, un punto acerbo (→ Ruysch), non sono l’ipostatizzazione del nulla, ma l’esclusione più totale che il non essere dell’essente possa consentire un permanere dell’essente, al di fuori delle sue vane e temporanee manifestazioni. Se tutto ciò che si annichilisce nel nulla fosse anche in minima parte recuperabile dall’Essere – ed il suo non-essere non fosse perciò eterno – l’eternità sarebbe esclusiva dell’essente.
Questa negazione dell’eternità dell’Essere coincide, in Leopardi, così come in Nietzsche, con la negazione di ogni forma di platonismo.
Un esempio molto appropriato che egli adduce per mostrare la vanità del concetto di Idea o modello è quello del prototipo di bello. Leopardi fa notare come tale concetto non sia assoluto e sempiterno, bensì positivo, condizionato dalla situazione, dalla cosiddetta “seconda natura o abito umano” (→ esempio delle orecchie tagliate in P80).
Quello che vale per il prototipo di bello vale poi, in definitiva, per qualsiasi modello: qualsiasi Idea è cioè contingente , “figlia del momento e schiava del tempo” (→ critica all’innatismo in P156 e P299). Il tempo, infatti, è regolato dalla legge del divenire, e questo esclude categoricamente l’esistenza di ogni immutabile.
L’evidenza del divenire è la certezza dell’annientamento di ogni cosa: la vita è “evidentemente nulla”; “la vanità delle cose è sensibile e palpabile”; l’andare del tutto verso il nulla è una fatale e tangibile realtà (“fatale” sia per ciò che implica nella vita dell’uomo che per la sua non smentibilità, P141).
Nel dialogo di Timandro e Eleandro, Leopardi afferma che “nessuna cosa è più manifesta e palpabile che l’infelicità”, prodotta dal divenire, aggiungerei.
Il divenire è l’Epistéme
Da sempre, nella tradizione filosofica, l’Epistéme (ossia l’insieme degli “assiomi astratti”, dei raziocini) ha voluto mostrare come il mondo avesse necessariamente e realmente un senso, cioè come tutto l’esistente si conformasse ad una qualche regola trascendente.
La novità di Leopardi sta in questo: nel aver scoperto e tentato di dimostrare come non esiste alcuna “ragione perché le cose esistenti esistano e siano come sono” (P1138-42), cioè come “fosse in arbitrio che fossero altrimenti”.
Le cose sporgono dal nulla, entità – se così la si può definire – priva di regole e pertanto non sono anticipabili e determinabili a priori dall’Epistéme, che invece ha la presunzione di adeguare al proprio contenuto il Tutto.
Nel pensiero leopardiano la distruzione degli immutabili, degli eterni, degli assoluti, si presenta per la prima volta con una forza dirompente, che di rado sarà conservata nella filosofia contemporanea. Solo Nietzsche oserà spingersi oltre Leopardi, ed è per questo che tra i due, come sottolinea lo stesso filosofo tedesco, si può benissimo individuare una linea comune di speculazione filosofica.
Come detto, il pensiero di Leopardi è così radicale che, sebbene in alcuni passi egli accenni ad un creatore, questa non può essere considerata una contraddizione interna. Il creatore di cui egli parla ha ben poco a che fare col Dio biblico-cristiano, non avendo alcun contenuto eterno e non essendo luogo e fonte di idee assolute, ma presentandosi come pura forza creatrice-annientatrice, e quindi coincidendo infine col processo del divenire.
La condizione umana, ossia l’insensatezza della vita.
“Tutto è male”, così Leopardi definisce la realtà che ci circonda e, in special modo, la vita. (→ Baudelaire: Spleen)
Ma perché questa definizione ?
La risposta è semplice: egli ha scoperto qualche cosa di distruttivo e cioè che la realtà non ha senso, tutto è dovuto al caso e non ci sono cause o fini superiori.
Nel P835-6 del 21 marzo 1821 si dice: “[…] dunque il puro e semplice caso entrava nel sistema primordiale della natura; dunque ella (la natura) lo ha calcolato come mezzo necessario; dunque ella si è contentata che, non accadendo il tale e tale altro caso, o non accadendo in quel tal modo ec. ec. o accadendo bensì quello ma non questo ec., la specie umana, la maggiore delle sue opere, restasse imperfetta ed infelice, e priva del fine della sua esistenza[…]. Bisogna osservare che la sfera del caso si stende molto più che non si crede […]”.
L’insensatezza della vita, e la consapevolezza di ciò, si manifestano quindi nella sofferenza dell’uomo, incapace di spiegare e giustificare la propria condizione. Egli, invano, tenta di quietare il dolore o cercando una motivazione trascendente (sofferenza = colpa da espiare → ideale ascetico di Nietzcshe), o “imponendo” alla natura delle regole che non le appartengono (→ Dialogo Islandese + P446 → Nietzsche: critica alla scienza ed al positivismo).
Leopardi non condanna né elogia questo atteggiamento dell’uomo: è naturale ch’egli s’illuda per poter sopravvivere. Dopotutto, infatti, non tutti sarebbero in grado di “alzar gli occhi mortali” (→ Lucrezio: “Primum Graius homo”) e guardare in faccia la realtà.
Solo il Genio (→ übermensch non ancora completo) può cercare di fare ciò, senza però essere certo della riuscita ed è per questo che ci deve sempre essere la poesia, come ultimo rifugio. Lo stesso Leopardi ammette di non essere riuscito per molto tempo ad accettare pienamente la tragicità della vita, cercando anzi riparo nelle varie illusioni.
Insomma, solo pochi possono arrivare a comprendere a pieno l’unica verità della vita, paradossalmente l’unico suo senso: la sua casualità ed insensatezza. E ancor meno sono coloro che riescono ad accettare questa situazione e a scoppiare in un “fragoroso riso”.
La morte
Per quanto concerne il rapporto che Leopardi ha con la morte, a mio avviso, non si può fare niente di meglio che citare le parole dello stesso poeta.
Tuttavia, prima di procedere, è forse opportuno chiarire la visione che egli ha della morte, una visione molto simile a quella di Nietzsche.
Per Leopardi, la morte ha una duplice accezione: essa è negatività, in quanto ricongiungimento dell’essere al nulla (con la morte tutto finisce); ma allo stesso tempo, la morte è la fine di tutti i mali dell’uomo.
Con questo, non significa che Leopardi istighi al suicidio: l’uomo, semplicemente, deve accettare con tranquillità la morte, come momento ultimo e fondamentale della propria esistenza (e questa può sembrare una contraddizione). La morte non va temuta ! Dopotutto, si tratta di una sorta di sonno, dal quale sì, non ci si può svegliare, ma che di certo non reca dolore (→ coro di Ruysch).
Addirittura è preferibile morire giovani, quando i desideri non si sono ancora assopiti e non si è in decadenza. Come ogni cosa, anche la morte sarebbe auspicabile al momento giusto. Dice Nietzsche nello Zarathustra: “Muori al momento giusto! […] Io vi mostro la morte che compie, che diventa per i vivi uno sprone ed una promessa […]. E chiunque voglia aver fama deve accomiatarsi per tempo dagli onori, ed esercitare la difficile arte di andarsene al momento giusto. […] Lodo a voi la mia morte, la libera morte, che viene a me perché io voglio !” (→ no al suicidio: voler la morte = accettarla).
Amore e morte (1832)
Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
altre il mondo non ha, non han le stelle.
Nasce dall’uno il bene,
nasce il piacer maggiore
che per lo mar dell’essere si trova;
l’altra ogni gran dolore,
ogni gran male annulla.
Bellissima fanciulla,
dolce a veder, non quale
la si dipinge la codarda gente,
gode il fanciullo Amore
accompagnar sovente;
e sorvolano insieme la via mortale,
primi conforti d’ogni saggio core.
Né cor fu mai più saggio
che percosso d’amor, né mai più forte
sprezzò l’infausta vita,
né per altro signore
come per questo a perigliar fu pronto:
ch’ove tu porgi aita,
Amor, nasce il coraggio,
o si ridesta; e sapiente in opre,
non in pensier invan, siccome suole,
divien l’umana prole.
Quando novellamente
nasce nel cor profondo
un amoroso affetto,
languido e stanco insiem con esso in petto
un desiderio di morir si sente:
come, non so: ma tale
d’amor vero e possente è il primo affetto.
Forse gli occhi spaura
allor questo deserto: a sé la terra
forse il mortal inabitabil fatta
vede omai senza quella
nova, sola, infinita
felicità che il suo pensier si figura:
ma per cagion di lei grave procella
presentendo in suo cor2, brama quiete,
brama raccôrsi in porto
dinanzi al fier disio,
che già, mugghiando, intorno oscura.
Poi quando tutto avvolge
la formidabil possa,
e fulmina nel cor l’invitta cura,
quante volte implorata
con desiderio intenso,
Morte, sei tu dall’affannoso amante !
Quante la sera, e quante
abbandonando all’alba il corpo stanco,
sé beato chiamò s’indì giammai
non rilevasse il fianco,
né tornasse a veder l’amara luce !
E spesso al suon della funebre squilla,
al canto che conduce
la gente morta al sempiterno obblio,
con più sospiri ardenti
dell’imo petto invidiò colui
che tra gli spenti ad abitar sen giva.
Fin la negletta plebe,
l’uom della villa, ignaro
d’ogni virtù che da saper deriva,
fin la donzelletta timidetta e schiva,
che già di morte al nome
sentì rizzar le chiome,
osa alla tomba, alle funeree bende
fermar lo sguardo di costanza pieno
osa ferro e veleno
meditar lungamente,
e nell’indotta mente
la gentilezza del morir comprende.
Tanto alla morte inclina
d’amor la disciplina. Anco sovente,
a tal venuto il gran travaglio interno
che sostener nol può forza mortale,
o cede il corpo frale
ai terribili moti, e in questa forma
pel fraterno poter Morte prevale;
o così sprona Amor là nel profondo,
che da se stessi il villanello ignaro,
la tenera donzella
con la man violenta
pongon la membra giovanili in terra.
Ride ai lor casi il mondo,
a cui pace e vecchiezza il ciel consenta.
Ai fervidi, ai felici,
agli animosi ingegni
l’uno o l’altro di voi conceda il fato,
dolci signori, amici,
all’umana famiglia,
al cui poter nessun poter somiglia
nell’immenso universo, e non l’avanza,
se non quella del fato, altra possanza.
E tu, cui già dal cominciar degli anni
sempre onorata invoco,
bella Morte, pietosa
tu sola al mondo dei terreni affanni,
se celebrata mai
fosti da me, s’al tuo divino stato
l’onte del volgo ingrato
ricompensar tentai,
non tardar più, t’inchina
a disusati prieghi,
chiudi alla luce omai
questi occhi tristi, o dell’età reina.
Me certo troverai, qual si sia l’ora
che tutte le penne al mio pregar dispieghi,
erta la fronte, armato,
e renitente al fato,
la man flagellando si colora
nel mio sangue innocente
non ricolmar di lode,
non benedir, com’usa
per antica viltà l’umana gente;
ogni vana speranza onde consola
sé coi fanciulli il mondo,
ogni conforto stolto
gittar da me; null’altro in alcun tempo
sperar, se non te sola;
solo aspettar sereno
quel dì ch’io pieghi addormentato il volto
nel tuo virgineo seno.
Dialogo di Tristano e di un amico.
[…] E di più vi dico francamente, ch’io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno altri uomini; e ardisco desiderar la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanto credo fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi. […] Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall’altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi.
La morale
Anche per ciò che riguarda la morale, Leopardi anticipa la concezione nietzschiana. Egli, infatti, ritiene non possa esistere una legge morale trascendente, cioè un qualcosa che debba condizionare la vita senza appartenerle.
Il sistema dei valori e delle azioni morali non è altro che uno “scudo” che l’uomo si è creato per proteggersi dall’insensatezza della vita, una falsa via di fuga per preservarsi dall’angoscia. A questo punto è facile vedere una stretta relazione tra questo modo di concepire la morale e quello nietzschiano di una morale dalla genesi psico-antropologica. Ovviamente, Leopardi porta molti esempi a suffragio della propria tesi. Egli, innanzitutto, sottolinea come i principi stessi della morale, come la virtù, l’idea di bene e di giustizia, siano solo concetti relativi e tutt’altro che assoluti, dato che cambiano da popolo a popolo (→ pag 70 Zarathustra). Essi non sono che “fantasmi”, ed un’attenta analisi della storia ce ne dà subito conferma. Inoltre, anche solo dal punto di vista teorico, una morale a priori, eterna, non può esistere. Essa, infatti, contraddirebbe l’unica grande verità: l’evidenza del divenire, distruttrice di ogni epistéme.
Infine, nel P1461-64, Leopardi fa notare come l’uomo, inconsciamente consapevole della nullità dell’esistenza, tenti di far sopravvivere la morale, attribuendone la causa ad un Essere superiore, che impersonifichi tutto ciò che di “perfettissimo” si può pensare. Questo essere è Dio.
Ecco che un’Idea assoluta, la divinità, si trova ad essere fondamento di un sistema di idee, la morale. Siamo di fronte ad un serpente che si morde la coda. Ma non esistendo alcun assoluto, non esiste neppure Dio (→ vedi) e quindi alla base dei valori morali vi è il nulla.
Dio ed il cristianesimo
Per Leopardi Dio (nel senso cristiano del termine) non esiste, è solo un’illusione, un espediente creato dall’uomo, un qualcosa a cui anelare e da cui dipendere, un “ideale ascetico”, insomma (→Nietzsche). L’Occidente, infatti, si figura Dio come un essere eterno, perfetto, dalle infinite qualità positive ed assolute. Tuttavia, già più volte, Leopardi ha mostrato come non esista alcun essere eterno, visto che altrimenti si entrerebbe in contraddizione col divenire del tutto. Ma questo non basta, non solo non esistono eterni, ma anche tutte le qualità che l’uomo ascrive alla divinità sono opinabili, relative. E poi, Dio non deve necessariamente incarnare la perfezione: gli dèi greci, ad esempio, avevano sì le più grandi qualità, ma anche i difetti umani.
In questi termini, la divinità è la più grande e vana credenza umana, la maggiore delle “Idee Platoniche”. E quando si comprende che queste non esistono, ma sono solo frutto dell’immaginazione umana, quella di Dio è la prima certezza a cadere.
Leopardi, nello Zibaldone, distrugge quindi da subito il Dio cristiano. Tuttavia, prima di giungere ad un completo e metodico ateismo, egli per un breve periodo tende ad identificare la divinità col divenire, quindi con la Natura. Questo dio è l’infinità possibilità, ma non più necessità; egli non è più giudice e guida del mondo, ma un aspetto del mondo stesso e della sua contingenza.
Come detto, però, Leopardi presto supera questa fase di transizione, eliminando completamente l’idea di Dio, e rinchiudendosi definitivamente in quello che è l’uomo con le sue capacità.
Definita la concezione leopardiana di Dio, non resta che soffermarsi sul rapporto che Leopardi ha con la religione dominante, quella con cui più si scontra: il cristianesimo (forse è proprio in questo campo che si trovano le maggiori analogie tra il filosofo di Recanati e Nietzsche).
Il miglior modo per esprimere il pensiero di Leopardi circa il cristianesimo è utilizzare le sue stesse parole. Egli lo definisce in due modi: un “freno all’azione” ed il “parto più spietato della ragione”.
Ma prima di analizzare nel dettaglio queste due affermazioni, sottolineerei come, per Leopardi, così come per il filosofo dello Zarathustra, il cristianesimo, ai suoi albori, sia stato un qualcosa di positivo, prima di degenerare, visto che ha tentato di dare un senso all’assurdità della sofferenza umana, preservando l’uomo antico, ancora impreparato, dalla scontro con la verità.
Tornando alle definizioni, nei P253-4-5, Leopardi vede il cristianesimo come un “freno all’azione”, un qualcosa che illanguidisce le passioni, le pulsioni vitali, l’entusiasmo. Esso, infatti, proponendo un atteggiamento contemplativo, e ponendo i fini ultimi della vita al di fuori di essa, spinge l’uomo ad essere rinunciatario, passivo, a frenare i propri istinti. Addirittura Leopardi giunge ad affermare che il cristianesimo è un mezzo di potere (→ Anticristo). Esso, infatti, anche se non direttamente (e qui sta l’astuzia !) rende l’uomo assuefatto alle varie forma di dispotismo. Questo perché “se l’uomo considera questa terra come un esilio, e non ha cura se non di patria situata nell’altro mondo, che gl’importa della tirannia ?”.
Insomma, il cristianesimo rende il corpo servo, ma se lo è il corpo, non lo è anche l’anima ?
Abbiamo anche detto che Leopardi definisce il cristianesimo come il “parto più spietato della ragione”. Perché ?
Semplice, l’Idea di religione, sommo danno per l’uomo, prima svilisce completamente la vita, relegandola ad essere una vano “intermezzo” predeterminato, un’immagine sbiadita della vera esistenza, dopodiché impedisce all’uomo di fuggirne, condannando il suicidio, forse l’unica (seppur apparente) via di fuga.
Questa idea di suicidio-salvezza è molto presente nel Leopardi giovane, ma va poi scomparendo con la maturità, man mano che la speculazione filosofica avanza, come testimonia il dialogo di Plotino e Porfirio. Egli giunge ad abbandonare completamente l’idea di suicidio, ritenendo che l’uomo, il Genio anzi, debba sollevare “gli occhi suoi mortali” verso il comun fato, verso la realtà, e accettarne la tragicità (→ übermensch / → Epicureo di Lucrezio).
La scienza
Così come in Nietzsche, l’atteggiamento di Leopardi nei confronti della scienza è ambivalente. Da una parte, infatti, essa scaccia le superstizioni e l’ignoranza totale, “vie di morte”, ponendosi come una scuola di rottura e rigore. Dall’altra, però, un abuso di scienza diviene distruttivo, dato che, forzando quelle che sono le “credenze naturali”, spinge l’uomo a crearsi un sistema artificiale, nel quale le primitive inclinazioni umane vengono soffocate (P1461-5).
Inoltre, Leopardi sottolinea come ormai, nel mondo moderno, la scienza sia divenuta talmente presuntuosa, da voler spiegare ogni cosa, anche ciò che un senso non ha. Si è arrivati ad uno stadio di adorazione della presunta verità oggettiva, a quello che egli definisce uno stoicismo intellettuale, un vero e proprio culto dei fatti.
La scienza “esasperata” vuole trovare legami nascosti e necessari tra tutte le cose, ma a questo mondo, “punto acerbo nel mare del nulla” (→ Ruysch), non vi è niente di necessario: tutto è, per così dire, stocastico. Infatti, si è già detto come sia improbabile, anzi impossibile, che un qualcosa uscente dal nulla si leghi a qualcos’altro di già esistente (seppur precariamente).
La cultura scientifica, quindi, paradossalmente, giunge ad amare e crearsi un mondo diverso e contrapposto a quello della vita e della natura. Ne consegue (ecco di nuovo Nietzsche) un impoverimento dell’energia vitale: la dialettica viene a prevalere sull’istinto.
L’uomo si ostina, insomma, a cercare una realtà fatta di dati, che lo possa rassicurare, quando invece inconsciamente, se uomo comune, o consciamente, se Genio, sa benissimo che l’unico vero dato è l’insensatezza, la precarietà di ciò che ci circonda.
L’Arte
L’Arte, come tutte le attività umane, ha, per Leopardi, una duplice valenza.
È positiva perché si presenta come una forma di consolazione (P257) per l’uomo, che con essa si sente creatore, dando vita ad un mondo che abbia un senso. Inoltre, fino ad un certo punto, l’Arte può addirittura essere una fonte di conoscenza (→ vedi musica). Infatti, se l’opera d’arte nasce dalla cooperazione di più discipline artistiche, quali musica, danza, poesia, pittura, etc, essa può arrivare ad incarnare la natura, anche se parzialmente. Ma qui sta il punto, il limite stesso dell’arte: le varie discipline devono collaborare.
Leopardi fa notare come ogni arte divenga sterile se si specializza e cerca da sola di riprodurre la natura. Già tutte le arti assieme non riescono ad eguagliare a pieno la realtà, figuriamoci le singole discipline.
In epoca moderna, le arti, così come le scienze, si sono separate, rispecchiando la frammentarietà dell’esistenza, ma precludendosi ogni opportunità di creare la vera grande Opera d’Arte (→ Wagner).
Sullo stesso piano di Leopardi, si trova più di mezzo secolo dopo l’irlandese Oscar Wilde, rappresentante dell’estetismo, e portavoce di un’arte salvifica, unico rimedio per l’uomo per salvarsi dalla disperazione della vita (→ Wilde).
La musica
Per Leopardi la musica è qualcosa d’inseparabile dalla poesia, quando questa raggiunge la propria forma più alta, la lirica. Non a caso, egli chiama Canti le proprie poesie.
Lirica e musica devono essere una cosa sola. Visto che la forza poetica del linguaggio richiede il vago e l’indeterminato, la musica non può che essere condizione suprema della poesia.
La parola, infatti, per Leopardi, come per Madame de Staël, ha la capacità di esprimere il “vago e l’indeterminato” del sentimento, ma non ha il dono dell’immediatezza (P79-80), caratteristica peculiare della musica, unica e vera “immagine immediata”.
Purtroppo, però, Leopardi sente come ormai, nel mondo moderno, poeta e musico non siano più la stessa persona. Solo gli antichi, i Greci, erano riusciti a mantenere al meglio quest’unione, ed il risultato di ciò, ossia la tragedia, è quindi stato il livello più alto raggiunto dall’Arte, intesa come “piena manifestazione della natura” (ibidem).
Il dividere musica e poesia non fa altro che rendere sterili queste due forme espressive. Isolata dall’altra, ognuna di esse si rinchiude in sé, nelle proprie regole, allontanandosi sempre più dalla natura e divenendo sempre più una questione di numeri, come la matematica, massima espressione della sterilità e della freddezza della ragione.
Leopardi, quindi, come detto, vede nella tragedia greca la massima espressione dell’arte e, in questo, non può che essere accomunato a Nietzsche, in primis, e a Wagner di conseguenza (→ Wagner).
Tempo
“Il tempo non è una cosa. Esso è un accidente della cose, e indipendentemente dall’esistenza delle cose è nulla; è un accidente di quest’esistenza; o piuttosto una nostra idea, una parola” (P4233). Con queste poche parole è descritta la concezione leopardiana del tempo: il tempo, quello lineare, fatto di attimi che si susseguono senza tregua, tutti quantitativamente uguali (→ Vattimo: concezione edipica del tempo), è un artificio dell’uomo. Il tempo, inteso come successione infinita di momenti, che vanno tutti in un’unica direzione passato-futuro, è soltanto un’altra di quelle regole che l’uomo ha tentato di dare alla natura per darle un senso. Ma il male, per Leopardi, non sta in questo, egli ritiene comprensibile che l’uomo tenti di crearsi dei “paraocchi”; il male sta nel fatto che, ormai, nato come semplice espediente, mezzo “scientifico” di conoscenza, il tempo sia divenuto una gabbia per l’uomo.
Per gli antichi, il tempo non era un peso, ma un semplice strumento per rendere più “semplice” la quotidianità. L’uomo moderno, invece, è letteralmente schiacciato dallo scorrere del tempo, egli ne è succube: oppresso dal peso di un passato “irrecuperabile” (come si suol dire “quel che è fatto è fatto”) e attanagliato dall’incertezza del futuro, egli non è in grado di godersi nemmeno la minima gioia del presente.
Sin dalla sua nascita, l’uomo inizia ad essere schiavo del passato e del futuro, ma perché ?
Per quanto riguarda il passato, l’uomo né è dipendente a causa della memoria, del ricordo, peculiarità tipica dell’essere umano e basta. Per citare Nietzsche, “l’uomo è costretto a vivere in modo storico”. Egli, a differenza dell’animale, non è naturalmente capace dell’oblio e, quindi, la vita passata continua a tormentarlo come un fantasma.
All’uomo piacerebbe poter dimenticare ma, purtroppo, questo non gli è possibile (→ Canto di un pastore errante dell’Asia → Saggio sull’utilità e il danno della storia per la vita).
Il futuro, invece, lo opprime perché, consapevole della sofferenza di vivere, l’uomo si pone mille e mille interrogativi per quanto riguarda il proprio avvenire.
Tutto questo, se ci si guarda attorno, non ha senso: la realtà, continuo divenire, ci si presenta come un ritornare senza fine dell’essere dal non essere e viceversa. Il gioco tra essere e non essere è continuo e vicendevole, essi non fanno altro che alternarsi in quello che è il mondo. Tutto nasce, tutto muore, ma nelle infinite possibilità tutto può tornare.
In definitiva, quindi, Leopardi critica la concezione lineare del tempo, sottolineando come tutto in natura sia ciclico; tuttavia egli si ferma a questo punto: toccherà a Nietzsche proseguire (→ Eterno ritorno dell’uguale).
Bibliografia
Leopardi, Canti – Operette Morali – Pensieri (P2), Ed De Agostini
Leopardi, Zibaldone di Pensieri (P) a cura di Francesco Flora, Ed Mondadori
Severino, Cosa arcana e stupenda, Ed Rizzoli
Severino, Il destino della necessità, Ed Adelphi
Severino, l’Anello del ritorno, Ed Adelphi
Vattimo, il Soggetto e la Maschera, Ed Bompiani
Vattimo, Al di là del Soggetto, Ed Bompiani
Vattimo, Ipotesi su Nietzsche, Ed Bompiani
Nietzsche, L’Anticristo, Ed Adelphi
Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Ed Adelphi
Nietzsche, Al di là del bene e del male, Ed Adelphi
Nietzsche, Saggio sull’utilità ed il danno della storia per la vita, Ed Adelphi
Nietzsche, Schopenhauer come educatore, Ed Adelphi
Nietzsche, Annotazioni del 1880-82, Ed Adelphi
Nietzsche, Umano troppo umano, Ed Adelphi
Nietzsche, Gaia scienza, Ed Adelphi
Nietzsche, Aurora, Ed Adelphi
Massaroni, Corso di letteratura poetica e drammatica, Ed Zanibon
AA.VV., I Grandi dell’opera, Ed De Agostini
Lucrezio, De rerum natura, Ed De Agostini
Wilde, Aforismi, Ed Rizzoli
Baudelaire, Les Fleurs du Mal, Ed Mondadori
1 Il rimedio è un altro, e solo il Genio, “colui che ardisce sollevare gli occhi mortali”, ne può godere a pieno. Si tratta della poesia, ultima grande illusione, che fusa alla verità (il nulla) permette di sopportare il “terribile spettacolo del vero”.
2 P3444
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Leopardi come anticipatore del nichilismo nietzschiano
Leopardi
IL DIVENIRE DISTRUGGE L’ESSERE
LA CONDIZIONE UMANA, OSSIA L’INSENSATEZZA DELLA VITA
LUCREZIO BAUDELAIRE
(PRIMUM GRAIUS HOMO) (SPLEEN)
LA MORTE
LA MORALE
DIO ED IL CRISTIANESIMO
LA SCIENZA
L’ARTE
A
OSCAR WILDE
(ONLY ART COULD SAVE…)
LA MUSICA
A
WAGNER
(LA TRAGEDIA VA RIFONDATA)
IL TEMPO
Nietzsche
ZIBALDONE DI PENSIERI: ALCUNI PASSI.
Pensiero 79
Le altri arti si limitano ed esprimono la natura da cui si trae il sentimento, ma la musica non imita e non esprime che lo stesso sentimento in persona, ch’ella trae da se stessa e non dalla natura, e così l’uditore. Ecco perché la Staël dice: “De tous les beaux arts c’est (la musique) celui qui agit le plus immédiatement sur l’âme. Les autres la dirigent vers telle ou telle idée, celui-là seul s’adresse à la source intime de l’existence, et change en entier le disposition intérieure. ” La parola nella poesia ec. non ha tanta forza d’esprimere il vago e l’infinito del sentimento se non applicandosi a degli oggetti, e perciò producendo un’impressione sempre secondaria e meno immediata, perché la parola, come i segni e le immagini della pittura e scultura, hanno una significazione determinata e finita. L’architettura per questo lato si accosta un poco di più alla musica, ma non può avere tanta subitaneità, ed immediatezza.
Pensiero 80
La speme che rinasce in un col giorno.
Dolor mi preme del passato, e noia
Del presente, e terror dell’avvenire.
Si può osservare che il Cristianesimo, senza perciò fargli nessun torto, ha per un verso effettivamente peggiorato l’uomo.
[…] E secondo me a questo cioè al Cristianesimo si deve in gran parte attribuire (giacché il guasto cristianesimo era una parte di guasto incivilimento) la nuova idea della scelleratezza dell’età media molto differente e più orribile di quella dell’età antiche anche più barbare […]
Pensiero 141
[…] Un’arte: 1. non può mai, da sola, eguagliare la natura; 2. per quanto sia familiare agli uomini, si danno certi momenti in cui questi non la sanno adoperare. […]
Pensieri 208-9
[…] la massima parte delle cose e delle verità che noi crediamo assolute e generali, sono relative e particolari[…].
In somma dal detto qui sopra e da mille altre cose che si potrebbero dire, si deduce quanto giustamente i moderni ideologismi abbiano abolite le idee innate. […] Abbiamo si può dire innata l’idea della convenienza, ma quali cose si convengano in morale, appartiene alle idee relative.
Considerate la morale dei diversi popoli, massimamente barbari. E mettetevi nello stato primitivo dell’uomo. Vedrete che il far male agli altri per il vostro bene non vi ripugna. Il vostro simile in natura non è una cosa così inviolabile, come credete […].
Pensieri 252-5
[…] La tirannia non è mai sicura se non quando il popolo non è capace di grandi azioni.
Da questa affermazione capite come il Cristianesimo debba aver reso l’uomo inattivo e ridottolo invece ad essere contemplativo, e per conseguenza come egli sia favorevole al dispotismo, non per principio (perché il cristianesimo né loda la tirannia, né vieta di combatterla, o di fuggirla, o d’impedirla), ma per conseguenza materiale, perché se l’uomo considera questa terra come un esilio, e non ha cura se non di patria situata nell’altro mondo, che gl’importa della tirannia? Ed i popoli abituati alla speranza di beni d’un’altra vita, divengono inetti per questa, o se non altro, incapaci di quei grandi stimoli che producono le grandi azioni. […] Paragonate ora queste conseguenze, a quelle delle religioni antiche, secondo le quali questa era la patria, e l’altro mondo l’esilio.
Il costume e la massima di macerare la carne e indebolire il corpo per ridurlo, come dice San Paolo, in servitù, dovea necessariamente illanguidire le passioni e l’entusiasmo, e render soggetti anche gli animi di chi cercava di soggiogare il corpo, e così per una parte contribuire infinitamente a spegner la vita nel mondo, per l’altra ad appianare la strada al dispotismo, perché non ci sono forse uomini così atti ad essere tiranneggiati come i deboli di corpo, da qualunque cagione provenga questa debolezza, o da lascivia e mollezza, come presso i Persiani, che dopo i tempi di Ciro divennero l’esempio dell’avvilimento e della servitù, o da macerazione ec. Nel corpo debole non alberga coraggio, non fervore, non altezza di sentimenti, non forza d’illusioni ec. Nel corpo servo anche l’anima è serva.
Pensieri 257-8
Bisogna distinguere in fatto le belle arti, entusiasmo, immaginazione, calore, ec., da invenzione massimamente di soggetti. La vista della bella natura desta entusiasmo.
[…] Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita, o nelle più acerbe e mortifere disgrazie […] servono sempre di consolazione.
Pensieri 342-3
Quanto sia vero che i doveri e la morale determinata non provengano da legge naturale né sieno fondate sopra idee innate e comuni a tutti gli uomini, si può anche vedere per questo esempio. Il rispetto e l’immunità degli araldi, considerati antichissimamente come persone sacre ed inviolabili, e da Omero chiamati cari a Giove, entra nel diritto così detto universale delle genti, e l’abitudine ce la fa riguardare come un dovere naturale. Ora mettiamoci coll’immaginazione nello stato di natura e vedremo che l’uomo non ha nessuna ripugnanza di far male al suo nemico, sotto qualunque aspetto se gli presenti, come non l’hanno gli altri animali, perché il nemico è sempre nemico e l’uomo inclina a nuocergli quanto e come e quando e dove possa. Così che l’inviolabilità degli araldi non è fondata sull’istinto, non è insegnata dalla natura, ma è legge di pura convenienza, cagionata dall’utilità e necessità sua, utilità e necessità riconosciuta dalla ragione e per via di argomento, non istillata e ingenita negli animi dalla natura senza bisogno di riflessione. E così il diritto delle genti, che si crede naturale, vediamo per questo esempio che contiene una legge di pura convenzione, la quale, prima ch’esistesse, non era colpa il contravvenirle, come si sarà mille volte fatto […].
Pensieri 353-4
Quanto anche la religione cristiana sia contraria alla natura, quando non influisce se non sul semplice e rigido raziocinio, e quando questo solo serve di norma, si può vedere per questo esempio. Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solo non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl’invidiava intimamente e sinceramente, perché questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avean liberato i genitori dall’incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa età, non pregava Dio che li facesse morire, perché la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Era esattissima negli uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell’anima desiderava che fossero inutili, ed arrivò a confessare che il solo timore che provava nell’interrogare i medici, era di sentire opinioni o ragguagli di miglioramento.[…] Considerava la bellezza una disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti e deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia. […] Questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissimo, ed era stata così ridotta dalla ragione. Ora questo che altro è se non barbarie ?
Pensieri 426-9
[…] Ed ecco il punto in cui comparve il Cristianesimo, cioè quel momento in cui l’eccessivo progresso della ragione e del sapere, negando tutto o dubitando di tutto (perché tutto è veramente falso o dubbio), spegnendo tutte le illusioni o credenze primitive, gettava l’uomo nell’inazione, nell’indifferenza, nell’egoismo […]. E il Cristianesimo fece certo un gran bene, e sostenne il mondo crollante, sovvenendo con una medicina composta della ragione, alla malattia mortale cagionata da essa ragione. Ma appunto perché la medicina era composta di ragione, e perché le origini del Cristianesimo furono quelle che ho spiegate, cioè il guasto fatto dalla ragione e la necessità di un rimedio ragionevole, perciò quel rimedio era bensì l’unico applicabile a quei tempi, e giovò, ma relativamente al peggiore stato in cui si era, non a quello anteriore del male. […] Ma la vita, sebbene torno ad essere vita, fu però molto minore, meno attiva, meno bella, meno varia, e precisamente più infelice, giacché il Cristianesimo non aveva insegnato all’uomo che la vita è ragionevole, e ch’egli deve vivere, se non insegnandogli che deve indirizzare questa ad un’altra vita, rispetto alla quale solamente, è ragionevole questa: e che questa sarebbe necessariamente infelice.
Pensieri 446-7-8
L’uomo si allontana dalla natura, e quindi dalla felicità, quando a forza di esperienze di ogni genere, ch’egli non doveva fare, e che la natura aveva provveduto non facesse (perché s’è mille volte osservato ch’ella si nasconde al possibile, e oppone milioni di ostacoli alla cognizione della realtà); a forza di combinazioni, di tradizioni, di conversazione scambievole ec., la sua ragione comincia ad acquistare dati, comincia a confrontare,e finalmente a dedurre altre conseguenze sia dai dati naturali, sia da quelli che non doveva avere. E così alterandosi le credenze, o ch’elle arrivino al vero, o che diano in errori non più naturali, si altera lo stato naturale dell’uomo; egli non ubbidisce più alle sue primitive inclinazioni, perché non giudica più di doverlo fare, né più ne cava la conseguenza naturale ec.[…] Da queste osservazioni deducete che propriamente la nemica della natura non è la ragione, ma la scienza e cognizione, ossia l’esperienza che ne è madre.
Pensiero 452
La verità, che una cosa sia buona, che un’altra sia cattiva, vale a dire il bene e il male, si credono naturalmente assoluti, e non sono altro che relativi. Quest’è un’osservazione vastissima che distrugge infiniti sistemi filosofici ec.; e appiana e toglie infinite contraddizioni e difficoltà nella gran considerazione delle cose, massimamente generale, e appartenente ai loro rapporti. Non v’è altra verità assoluta se non che Tutto è relativo. Questa dev’esser la base di tutta la metafisica.
Pensieri 816-7
Se la religione non è vera, s’ella non è se non un’idea concepita dalla nostra misera ragione, quest’idea è la più barbara cosa che possa esser nata nella mente dell’uomo: è il parto più mostruoso della ragione il più spietato. […] La nostra sventura, il nostro fato, ci fa miseri, ma non ci toglie, anzi ci lascia nelle mani il finir le miseria nostra quando ci piaccia. L’idea della religione ce lo vieta, e ce lo vieta inesorabilmente, e irrimediabilmente […]. L’idea della religione è finalmente il più grande male dell’uomo, e il sommo danno che gli abbiano fatto le sue disgraziate ricerche e ragionamenti e meditazioni o i suoi pregiudizi.
Pensieri 1138-1142
Insomma questa idea benché entri subito nel bello ideale, è figlia della madre comune di tutte le idee, cioè dell’esperienza che deriva dalle nostre sensazioni, e non già di un insegnamento e di una forma ispirataci e impressaci dalla natura nella mente avanti l’esperienza, il che non è più bisogno dimostrare dopo Locke. Ma quello che mi tocca trovare sì e, che queste sensazioni, sole nostre maestre, c’insegnano che le cose stanno così, perché così stanno, e non perché così debbano assolutamente stare, cioè perch’esista un bello e un buono assoluto ec. Questo noi lo deduciamo pure dalle nostre sensazioni, (e lo deduciamo naturalmente, come ne deduciamo naturalmente le idee innate, della quale opinione questa è una conseguenza) ma questo è ciò che non ne possiamo dedurre; e non possiamo, appunto perché tutto ci è insegnato dalle sole sensazioni, le quali sono relative al puro modo si essere ec. e perché nessuna cognizione o idea ci deriva da un principio anteriore all’esperienza. Quindi è chiaro che la distruzione delle idee innate distrugge il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta, e de’ loro contrarii. Vale a dire di una perfezione ec., la quale abbia un fondamento, una ragione, una forma anteriore all’esistenza dei soggetti che la contengono, e quindi eterna, immutabile, necessaria, primordiale ed esistente prima dei detti soggetti, e indipendentemente da loro. Or dov’esiste questa ragione, questa forma? E in che consiste? E come la possiamo noi conoscere o sapere, se ogn’idea ci deriva dalle sensazioni relative ai soli oggetti esistenti? Supporre il bello e il buono assoluto, è tornare alle idee di Platone, e risuscitare le idee innate dopo averle distrutte, giacché tolte queste, non v’è altra possibile ragione per cui le cose debbano assolutamente e astrattamente e necessariamente essere così o così, buone queste e cattive quelle, indipendentemente da ogni volontà, da ogni accidente, da ogni cosa di fatto, che in realtà è la sola ragione del tutto, e quindi sempre e solamente relativa, e quindi tutto non è buono, bello, vero, cattivo, falso, se non relativamente; e dunque la convenienza delle cose fra loro è relativa, se così posso dire, assolutamente.
In somma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ec. E tutte le cose sono possibili, cioè non v’è ragione assoluta perché una cosa qualunque, non possa essere, o essere in questo o in quel modo ec. E non v’è divario alcuno assoluto fra tutte le possibilità, né differenza assoluta fra tutte le bontà e perfezioni possibili.
Vale a dire che un primo ed universale principio delle cose, o non esiste, né mai fu, o, se esiste o esisté non lo possiamo in niun modo conoscere, non avendo noi né potendo avere il menomo dato per giudicare delle cose avanti le cose, e conoscerle al di là del puro fatto reale. Noi, secondo il naturale errore di credere assoluto il vero, crediamo di conoscere questo principio, attribuendogli in sommo grado tutto ciò che noi giudichiamo perfezione, e la necessità non solamente di essere ma di essere in quel tal modo, che noi giudichiamo assolutamente perfettissimo. Ma queste perfezioni, son tali solamente nel sistema delle cose che noi conosciamo, vale a dire in uno solo dei sistemi possibili; anzi, solamente in alcune parti di esso, in altre no, come ho provato in tanti altri luoghi: e quindi non sono perfezioni assolutamente, ma relativamente: né sono perfezioni in se stesse, e separatamente considerate, ma negli esseri a' quali appartengono, e relativamente alla loro natura, fine ec., né sono perfezioni maggiori o minori di qualunque altra ec. e quindi non costituiscono l’idea di un ente assolutamente perfetto, e superiore in perfezione a tutti gli enti possibili; ma possono anche essere imperfezioni, e talora lo sono, pure relativamente ec. Anche la necessità di essere, o di essere in un tal modo, e di essere indipendentemente da ogni cagione, è perfezione relativa alle nostre opinioni ec. Certo è che distrutte le forme Platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio.
Pensiero 1185
(Circa l’idea di bello). Ecco subito l’idea di una proposizione non assoluta, ma relativa; idea non innata, ma acquisita, non derivata dalla natura né dall’essenza delle cose, né da un tipo e da una nozione preesistente nel suo intelletto (del fanciullo), né da un orine necessario, ma dall’assuefazione del senso della vista circa quel tale oggetto, e dall’arbitrio della natura che ha fatto realmente la maggior parte degli uomini in quel tal modo.
Pensieri 1461-1465
Noi stessi nelle nostre riflessioni giornaliere le meno profonde, conosciamo e sentiamo che la virtù, per esempio, è un fantasma, e che non c’è ragione per cui tal cosa sia virtù se non giova, né vizio se non nuoce; e siccome una cosa ora giova, ora nuoce; a questo giova, a quello no; ad un genere di essere sì, ad un altro no, ec. ec., così veniamo a confessare che la virtù, il vizio, il cattivo, il buono è relativo. Noi non troviamo nell’ordine di questo mondo alcuna ragione perché una cosa che giova a me (anche grandemente) e nuoce ad altri (anche leggermente) non si possa fare e sia colpa; […]
Le ragioni di tutto ciò noi siamo costretti a riporle in un Essere dove personifichiamo il bene, la virtù, la verità, la giustizia ec. facendolo assolutamente, e per assoluta necessità, buono: ché se così non facessimo, neppure in lui avremmo trovato il confine delle cose, e la ragione per cui questo o quello sia assolutamente buono o cattivo. Noi consideriamo dunque detto Essere come un tipo, a norma del quale convenga giudicare della bontà o bellezza ec. della bruttezza o malvagità delle cose (ecco le idee di Platone). Quello che somiglia o piace a lui, è dunque assolutamente, primordialmente, universalmente e necessariamente buono, e viceversa. Benissimo: altra ragione infatti che questa non vi può essere del buono ec. assoluto; e, come ho detto altrove, tolte le idee di Platone, l’assoluto si perde. Ma qual ragione ha questo tipo di essere tale e quale noi ce lo figuriamo, e non diverso? Che possieda tutte le qualità che noi gli ascriviamo? Che queste sino buone necessariamente? […] La ragione che abbiamo è Dio. Dunque noi proviamo l’idea dell’assoluto coll’idea di Dio, e l’idea di Dio coll’idea dell’assoluto. Iddio è l’unica prova delle nostre idee, e le nostre idee sono l’unica prova di Dio. Da tutto ciò si conferma ciò che ho detto altrove che il principio delle cose è il nulla.
L’animo umano è così fatto ch’egli prova molto maggiore soddisfazione di un piacere piccolo, di un’idea di una sensazione piccola, ma di cui non conosca i limiti, che di una grande, di cui veda e senta i confini. La speranza di un piccolo bene, è un piacere assolutamente maggiore del possesso di un bene grande già provato (perché, se non ancora provato, sta sempre nella categoria della speranza). La scienza distrugge i principali piaceri dell’animo nostro, perché determina le cose e ce ne mostra i confini, benché in moltissime cose, abbia materialmente ingrandito d’assaissimo le nostre idee. Dico materialmente e non spiritualmente, giacché, per esempio la distanza del sole dalla terra, era assai maggiore nella mente umana quando si credeva di poche miglia, né si sapeva quante, di quanto ora si sa essere di tante precise migliaia di miglia. Così la scienza è nemica della grandezza delle idee, benché abbia smisuratamente ingrandito le opinioni naturali.[…] Quindi l’ignoranza, la quale sola può nascondere i confini delle cose, è la fonte principale delle idee ec. indefinite. Quindi è la maggior sorgente di felicità, e perciò la fanciullezza è l’età più felice dell’uomo, la più paga di se stessa, meno soggetta alla noia.
Pensiero 1624
[…] La legge naturale varia secondo le nature. Un cavallo che non è carnivoro giudicherà forse ingiusto un lupo che assalga e uccida una pecora, l’odierà come sanguinario, e proverà un senso di ribrezzo e d’indignazione abbattendosi a vedere qualche sua carneficina. Non così un lione. Il bene ed il male morale non ha dunque nulla di assoluto. Non v’è altra azione malvagia, se non quelle che ripugnano alle inclinazioni di ciascun genere di esseri operanti: né sono malvagie quelle che nocciono ad altri esseri, mentre non ripugnino alla natura di chi le eseguisce.
Pensieri 2263-4
[…] Sogliono dire i teologi, i Padri, e gl’interpreti in proposito a molte parti dell’antica divina legislazione ebraica, che il legislatore si adattava alla rozzezza, materialità, incapacità e spesso (così pur dicono) alla durezza, indocilità, sensualità, tendenza, ostinazione, caparbietà ec. del popolo ebraico. Or questo medesimo non dimostra dunque evidentemente la non esistenza di una morale assoluta, antecedente (il cui dettato non avrebbe il divino legislatore potuto mai preterire d’un apice); e che essa, come ha bisogno di adattarsi alle diverse circostanze e delle nazioni e de’ tempi (e delle specie, se diverse specie di esseri avessero morale, e legislazione), così per conseguenza da esse dipende e da esse sole deriva ?
Pensieri 2419-20
[…] L’animo forte ed alto resiste alla necessità, ma non resiste al tempo, vero ed unico trionfatore di tutte le cose terrene. Quel dolore profondissimo e ostinatissimo, che sdegnava e calpestava la consolazione volgare delle sventura, cioè l’inevitabilità, e l’irreparabilità della medesima, e il non poterne altro, che rinasceva ogni giorno e talvolta con maggior forza di prima, che per lunghissimo spazio, era sembrato indomabile e inestinguibile, e piuttosto pareva accrescersi gi giorno in giorno che scemarsi;per tutto ciò non può far che ricusi e non ammetta la consolazione del tempo, e dell’assuefazione che il tempo insensibilmente e dissimulatissimamente introduce, e che in ultimo, dopo ostinata guerra non si trovi vinto e morto, e che quell’animo feroce non pieghi il collo, e non s’adatti a strascinare il suo male senza sdegno, e senza forza di solersene.
Pensiero 4104
Il tale diceva che noi venendo in questa vita, siamo come chi si corica in un letto duro e incomodo, che sentendovisi star male, non vi può star quieto, e però si rivolge cento volte da ogni parte, e proccura in vari modi di appianare, ammollire ec. il letto, cercando pur sempre e sperando di avervi a riposare e prender sonno, finché senz’aver dormito né riposato vien l’ora di alzarsi. Tale e da simil cagione è la nostra inquietudine nella vita, naturale e giusta scontentezza d’ogni stato; cure, studi ec. di mille generi per accomodarci e mitigare un poco questo letto; speranza di felicità o almen di riposo, e morte che previen l’effetto della speranza.
Pensiero 4233
Il tempo non è una cosa. Esso è un accidente delle cose, e indipendentemente dalla esistenza delle cose è nulla; è uno accidente di questa esistenza; o piuttosto è una nostra idea, una parola. La durazione delle cose che sono, è il tempo: come 7200 battute di un pendolo da oriuolo sono un’ora; la quale ora però è un parto della nostra mente, e non esiste, né da se medesima, né nel tempo, come membro di esso, non più di quel che ella esistesse prima dell’invenzione dell’oriuolo. Insomma l’esser del tempo non è altro che un modo, un lato per dir così, del considerar che noi facciamo la esistenza delle cose che sono, o che possono o si suppongono poter essere. Medesimamente dello spazio. Il nulla non impedisce che una cosa che è, sia, stia, dimori. Dove nulla è, quivi niuno impedimento è che una cosa non vi stia o non vi venga. Però il nulla è necessariamente luogo. È dunque una proprietà del nulla l’esser luogo; proprietà negativa, giacché anche l’esser di luogo è negativo puramente e non altro. Sicché come il tempo è un modo o un lato del considerar l’esistenza delle cose, così lo spazio non è altro che un modo, un lato, del considerar che noi facciamo il nulla. Dove è nulla quivi è spazio, e il nulla senza spazio non si può dare. Per tanto è manifesto che eziandio fuori degli ultimissimi confini dell’universo esistente, v’è spazio, poiché nulla v’è. E se qualche cosa potesse essere o creata o spinta di là da quegli estremi confini, troverebbe luogo; che è quanto dire non troverebbe nulla che la impedisse di andarvi o starvi. La conclusione si è che tempo e spazio non sono in sostanza altro che idee, anzi nomi. E quelle innumerabili e immense questioni agitate dalla origine della metafisica in qua, dai primi metafisici d’ogni secolo, circa il tempo e lo spazio, non sono che logomachie, nate da malintesi, e da poca chiarezza d’idee e poca facoltà di analizzare il nostro intelletto, che è il solo luogo dove il tempo e lo spazio, come tante altre cose astratte, esistano indipendentemente e per se medesimi, e siano qualche cosa.
Pensiero 4487
[…] La ricordanza del passato, di uno stato, di un metodo di vita, di un soggiorno qualunque, anche noiosissimo, abbandonato, è dolorosissima, quando esso è considerato come passato, finito, che non è, non sarà più, fait.