Socrate:testi vari

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Testo

Socrate e il rifiuto della scrittura. Il mito di Theuth
Il dialogo platonico Fedro è dedicato all’amore, all’indagine sulla natura dell’anima umana e a una analisi accurata della retorica e della dialettica. Verso la fine del dialogo, per affrontare il problema del valore del discorso scritto, Platone, come in altre occasioni, utilizza un mito. Attraverso il mito di Theuth, Socrate mostra che conoscenza e sapienza non sono la stessa cosa. Chi aumenta le proprie conoscenze leggendo gli scritti degli altri, facilmente può pensare di aumentare cosí anche la propria sapienza. Ma si tratta di una presunzione infondata e pericolosa.
1 [274 c] [...] Socrate – Ho sentito narrare che a Naucrati d’Egitto dimorava uno dei vecchi dèi del paese, il dio a cui è sacro l’uccello chiamato ibis, e di nome detto Theuth. Egli fu l’inventore dei numeri, [d] del calcolo, della geometria e dell’astronomia, per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle lettere dell’alfabeto. Re dell’intiero paese era a quel tempo Thamus, che abitava nella grande città dell’Alto Egitto che i Greci chiamano Tebe egiziana e il cui dio è Ammone. Theuth venne presso il re, gli rivelò le sue arti dicendo che esse dovevano esser diffuse presso tutti gli Egiziani. Il re di ciascuna gli chiedeva quale utilità comportasse, e poiché Theuth spiegava, egli disapprovava ciò che gli sembrava [e] negativo, lodava ciò che gli pareva dicesse bene. Su ciascuna arte, dice la storia, Thamus aveva molti argomenti da dire a Theuth sia contro che a favore, ma sarebbe troppo lungo esporli. Quando giunsero all’alfabeto: “Questa scienza, o re – disse Theuth – renderà gli Egiziani piú sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria”. E il re rispose: “O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E cosí ora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei [275 a] inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non piú dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà [b] una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti”. Fedro – O Socrate, ti è facile inventare racconti egiziani e di qualunque altro paese ti piaccia! Socrate – Oh! ma i preti del tempio di Zeus a Dodona, mio caro, dicevano che le prime rivelazioni profetiche erano uscite da una quercia. Alla gente di quei giorni, che non era sapiente come voi giovani, bastava nella loro ingenuità udire ciò che diceva “la quercia e la pietra”, purché [c] dicesse il vero. Per te, invece, fa differenza chi è che parla e da qual paese viene: tu non ti accontenti di esaminare semplicemente se ciò che dice è vero o falso. Fedro – Fai bene a darmi addosso anch’io son del parere che riguardo l’alfabeto le cose stiano come dice il Tebano.
2 Socrate – Dunque chi crede di poter tramandare un’arte affidandola all’alfabeto e chi a sua volta l’accoglie supponendo che dallo scritto si possa trarre qualcosa di preciso e di permanente, deve esser pieno d’una grande ingenuità, e deve ignorare assolutamente la profezia di Ammone se s’immagina che le parole scritte siano qualcosa di piú [d] del rinfrescare la memoria a chi sa le cose di cui tratta lo scritto. Fedro – È giustissimo. Socrate – Perché vedi, o Fedro, la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia messo in iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l’intende tanto di chi non ci ha nulla [e] a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato ed offeso oltre ragione esso ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché esso da solo non può difendersi né aiutarsi. Fedro – Ancora hai [276 a] perfettamente ragione. Socrate – E che? Vogliamo noi considerare un’altra specie di discorso, fratello di questo scritto, ma legittimo, e vedere in che modo nasce e di quanto è migliore e piú efficace dell’altro? Fedro – Che discorso intendi e qual è la sua origine? Socrate – Il discorso che è scritto con la scienza nell’anima di chi impara: questo può difendere se stesso, e sa a chi gli convenga parlare e a chi tacere. [...]
Socrate. “So di non sapere”
Siamo di fronte ad una delle tesi piú famose di tutta la storia della filosofia: quella della “docta ignorantia”, che Socrate espone in un momento drammatico della sua vita, durante il processo che si concluderà con la sua condanna a morte. L’equilibrio fra una grande fiducia nella ragione e la profonda consapevolezza della propria ignoranza è uno dei doni piú preziosi che il filosofo Socrate ha lasciato in eredità ai posteri, fino ai nostri giorni.
1 [20 e] [...] Della mia sapienza, se davvero è sapienza e di che natura, io chiamerò a testimone davanti a voi il dio di Delfi. Avete conosciuto certo Cherefonte. Egli fu mio [21 a] compagno fino dalla giovinezza, e amico al vostro partito popolare; e con voi fu esule nell’ultimo esilio, e ritornò con voi. E anche sapete che uomo era Cherefonte, e come risoluto a qualunque cosa egli si accingesse. Or ecco che un giorno costui andò a Delfi; e osò fare all’oracolo questa domanda: – ancora una volta vi prego, o cittadini, non rumoreggiate – domandò se c’era nessuno piú sapiente di me. E la Pizia rispose che piú sapiente di me non c’era nessuno. Di tutto questo vi farà testimonianza il fratello suo che è qui; perché Cherefonte è morto.
2 [b] Vedete ora per che ragione vi racconto questo: voglio farvi conoscere donde è nata la calunnia contro di me. Udita la risposta dell’oracolo, riflettei in questo modo: “Che cosa mai vuole dire il dio? che cosa nasconde sotto l’enigma? Perché io, per me, non ho proprio coscienza di esser sapiente, né poco né molto. Che cosa dunque vuol dire il dio quando dice ch’io sono il piú sapiente degli uomini? Certo non mente egli; ché non può mentire”. – E per lungo tempo rimasi in questa incertezza, che cosa mai il dio voleva dire. Finalmente, sebbene assai contro voglia, mi misi a farne ricerca, in questo modo. Andai da uno di [c] quelli che hanno fama di essere sapienti; pensando che solamente cosí avrei potuto smentire l’oracolo e rispondere al vaticinio: “Ecco, questo qui è piú sapiente di me, e tu dicevi che ero io”. – Mentre dunque io stavo esaminando costui, – il nome non c’è bisogno ve lo dica, o Ateniesi; vi basti che era uno dei nostri uomini politici questo tale con cui, esaminandolo e ragionandoci insieme, feci l’esperimento che sono per dirvi; – ebbene, questo brav’uomo mi parve, sí, che avesse l’aria, agli occhi di molti altri e particolarmente di se medesimo, di essere sapiente, ma in realtà non fosse; e allora mi provai a farglielo capire, che [d] credeva essere sapiente, ma non era. E cosí, da quel momento, non solo venni in odio a colui, ma a molti anche di coloro che erano quivi presenti. E, andandomene via, dovetti concludere meco stesso che veramente di cotest’uomo ero piú sapiente io: in questo senso, che l’uno e l’altro di noi due poteva pur darsi non sapesse niente né di buono né di bello; ma costui credeva sapere e non sapeva, io invece, come non sapevo, neanche credevo sapere; e mi parve insomma che almeno per una piccola cosa io fossi piú sapiente di lui, per questa che io, quel che non so, neanche credo saperlo. E quindi me ne andai da un altro, fra coloro che avevano fama di essere piú sapienti di quello; [e] e mi accadde precisamente lo stesso; e anche qui mi tirai addosso l’odio di costui e di molti altri.
3 Ciò nonostante io seguitai, ordinatamente, nella mia ricerca; pur accorgendomi, con dolore e anche con spavento, che venivo in odio a tutti: e, d’altra parte, non mi pareva possibile ch’io non facessi il piú grande conto della parola del dio. – “Se vuoi conoscere che cosa vuole dire l’oracolo, dicevo tra me, bisogna tu vada da tutti coloro che hanno fama di essere sapienti”. – Ebbene, o cittadini [22 a] ateniesi, – a voi devo pur dire la verità, – questo fu, ve lo giuro, il risultato del mio esame: coloro che avevano fama di maggior sapienza, proprio questi, seguitando io la mia ricerca secondo la parola del dio, mi apparvero, quasi tutti, in maggior difetto; e altri, che avevano nome di gente da poco, migliori di quelli e piú saggi. Ma voglio finire di raccontarvi le mie peregrinazioni e le fatiche che sostenni per persuadermi che era davvero inconfutabile la parola dell’oracolo.
4 Dopo gli uomini politici andai dai poeti, sí da quelli che scrivono tragedie e ditirambi come dagli [b] altri; persuaso che davanti a costoro avrei potuto cogliere sul fatto la ignoranza mia e la loro superiorità. Prendevo in mano le loro poesie, quelle che mi parevano le meglio fatte, e ai poeti stessi domandavo che cosa volevano dire; perché cosí avrei imparato anch’io da loro qualche cosa. O cittadini, io ho vergogna a dirvi la verità. E bisogna pure che ve la dica. Insomma, tutte quante, si può dire, le altre persone che erano presenti, ragionavano meglio esse che non i poeti su quegli argomenti che i poeti stessi avevano poetato. E cosí anche dei poeti in breve conobbi questo, [c] che non già per alcuna sapienza poetavano, ma per non so che naturale disposizione e ispirazione, come gl’indovini e i vaticinatori; i quali infatti dicono molte cose e belle, ma non sanno niente di ciò che dicono: presso a poco lo stesso, lo vidi chiarissimamente, è quello che accade anche dei poeti. E insieme capii anche questo, che i poeti, per ciò solo che facevano poesia, credevano essere i piú sapienti degli uomini anche nelle altre cose in cui non erano affatto. Allora io mi allontanai anche da loro, convinto che ero da piú di loro per la stessa ragione per cui ero da piú degli uomini politici.
5 Alla fine mi rivolsi agli artisti: tanto piú che dell’arte loro sapevo benissimo di non intendermi affatto, [d] e quelli sapevo che li avrei trovati esperti di molte e belle cose. E non m’ingannai: ché essi sapevano cose che io non sapevo, e in questo erano piú sapienti di me. Se non che, o cittadini di Atene, anche i bravi artefici notai che avevano lo stesso difetto dei poeti: per ciò solo che sapevano esercitar bene la loro arte, ognuno di essi presumeva di essere sapientissimo anche in altre cose assai piú importanti e difficili; e questo difetto di misura oscurava la loro stessa sapienza. Sicché io, in nome dell’oracolo, [e] domandai a me stesso se avrei accettato di restare cosí come ero, né sapiente della loro sapienza né ignorante della loro ignoranza, o di essere l’una cosa e l’altra, com’essi erano: e risposi a me e all’oracolo che mi tornava meglio restar cosí come io ero.
6 Or appunto da questa ricerca, o cittadini ateniesi, [23 a] molte inimicizie sorsero contro di me, fierissime e gravissime; e da queste inimicizie molte calunnie, e fra le calunnie il nome di sapiente: perché, ogni volta che disputavo, credevano le persone presenti che io fossi sapiente di quelle cose in cui mi avveniva di scoprire l’ignoranza altrui. Ma la verità è diversa, o cittadini: unicamente sapiente è il dio; e questo egli volle significare nel suo oracolo, che poco vale o nulla la sapienza dell’uomo; e, dicendo Socrate sapiente, non volle, io credo, riferirsi propriamente a me Socrate, ma solo usare del mio nome come di un [b] esempio; quasi avesse voluto dire cosí: “O uomini, quegli tra voi è sapientissimo il quale, come Socrate, abbia riconosciuto che in verità la sua sapienza non ha nessun valore”. – Ecco perché ancor oggi io vo dattorno ricercando e investigando secondo la parola del dio se ci sia alcuno fra i cittadini e fra gli stranieri che io possa ritenere sapiente; e poiché sembrami non ci sia nessuno, io vengo cosí in aiuto al dio dimostrando che sapiente non esiste nessuno. E tutto preso come sono da questa ansia di ricerca, non m’è rimasto piú tempo di far cosa veruna considerabile né per la città né per la mia casa; e vivo in estrema [c] miseria per questo mio servigio del dio. [...]

Socrate e l’arte della maieutica
Nel dialogo Teeteto, Platone presenta un altro aspetto originale e giustamente famoso del pensiero di Socrate: il compito del filosofo non sarebbe quello di insegnare, ma quello di applicare la maieutica, l’arte dell’ostetrica, per aiutare colui che ascolta a “partorire” la Verità che già possiede dentro di sé.
1 [149 a] Socrate – Oh, mio piacevole amico! e tu non hai sentito dire che io sono figliuolo d’una molto brava e vigorosa levatrice, di Fenàrete? Teeteto – Questo sí, l’ho sentito dire. Socrate – E che io esercito la stessa arte l’hai sentito dire? Teeteto – No, mai! Socrate – Sappi dunque che è cosí. Tu però non andarlo a dire agli altri. Non lo sanno, caro amico, che io possiedo quest’arte; e, non sapendolo, non dicono di me questo, bensí ch’io sono il piú stravagante degli uomini e che non faccio che seminar dubbi. Anche questo [b] l’avrai sentito dire, è vero? Teeteto – Sí. Socrate – E vuoi che te ne dica la ragione? Teeteto – Volentieri. Socrate – Vedi di intendere bene che cosa è questo mestiere della levatrice, e capirai piú facilmente che cosa voglio dire. Tu sai che nessuna donna, finché sia ella in stato di concepire e di generare, fa da levatrice alle altre donne; ma quelle soltanto che generare non possono piú. Teeteto – Sta bene. Socrate – La causa di ciò dicono sia stata Artèmide, che ebbe in sorte di presiedere ai parti benché vergine [c]. Ella dunque a donne sterili non concedette di fare da levatrici, essendo la natura umana troppo debole perché possa chiunque acquistare un’arte di cui non abbia avuto esperienza; ma assegnò codesto ufficio a quelle donne che per l’età loro non potevano piú generare, onorando in tal modo la somiglianza che esse avevano con lei. Teeteto – Naturale. Socrate – E non è anche naturale e anzi necessario che siano le levatrici a riconoscere meglio d’ogni altro se una donna è incinta oppure no? Teeteto – Certamente. Socrate – E non sono le levatrici che, somministrando farmaci [d] e facendo incantesimi, possono svegliare i dolori o renderli piú miti se vogliono; e facilitare il parto a quelle che stentano; e anche far abortire, se credon di fare abortire, quando il feto è ancora immaturo? Teeteto – È vero. Socrate – E non hai mai osservato di costoro anche questo, che sono abilissime a combinar matrimoni, esperte come sono a conoscere quale uomo e quale donna si hanno da congiungere insieme per generare i figliuoli migliori? Teeteto – Non sapevo codesto. Socrate – E allora sappi che di questa lor [e] arte esse menano piú vanto assai che del taglio dell’ombelico. Pensa un poco: credi tu che sia la medesima arte o siano due arti diverse il raccogliere con ogni cura i frutti della terra, e il riconoscere in quale terra qual pianta vada piantata e qual seme seminato? Teeteto – La medesima arte, credo. Socrate – E quanto alla donna, credi tu che altra sia l’arte del seminare e altra quella del raccogliere? [150 a] Teeteto – No, non mi pare. Socrate – Non è infatti. Se non che, a cagione di quell’accoppiare, contro legge e contro natura, uomo con donna, a cui si dà nome di ruffianesimo, le levatrici, che badano alla loro onorabilità, si astengono anche dal combinar matrimoni onesti, per paura, facendo codesto, di incorrere appunto in quell’accusa; mentre soltanto alle levatrici vere e proprie si converrebbe, io credo, combinar matrimoni come si deve. Teeteto – Mi pare. Socrate – Questo dunque è l’ufficio delle levatrici, ed è grande; ma pur minore di quello che fo io. Difatti alle donne non [b] accade di partorire ora fantasmi e ora esseri reali, e che ciò sia difficile a distinguere: ché se codesto accadesse, grandissimo e bellissimo ufficio sarebbe per le levatrici distinguere il vero e il non vero; non ti pare? Teeteto – Sí, mi pare.
2 Socrate – Ora, la mia arte di ostetrico, in tutto il rimanente rassomiglia a quella delle levatrici, ma ne differisce in questo, che opera su gli uomini e non su le donne, e provvede alle anime partorienti e non ai corpi. E la piú grande capacità sua è ch’io riesco, per essa, a discernere [c] sicuramente se fantasma e menzogna partorisce l’anima del giovane, oppure se cosa vitale e reale. Poiché questo ho di comune con le levatrici, che anch’io sono sterile ... di sapienza; e il biasimo che già tanti mi hanno fatto, che interrogo sí gli altri, ma non manifesto mai io stesso su nessuna questione il mio pensiero, ignorante come sono, è verissimo biasimo. E la ragione è appunto questa, che il dio mi costringe a fare da ostetrico, ma mi vietò di generare. Io sono dunque, in me, tutt’altro che sapiente, né [d] da me è venuta fuori alcuna sapiente scoperta che sia generazione del mio animo; quelli invece che amano stare con me, se pur da principio appariscano, alcuni di loro, del tutto ignoranti, tutti quanti poi, seguitando a frequentare la mia compagnia, ne ricavano, purché il dio glielo permetta, straordinario profitto: come veggono essi medesimi e gli altri. Ed è chiaro che da me non hanno imparato nulla, bensí proprio e solo da se stessi molte cose e belle hanno trovato e generato; ma d’averli aiutati a generare, questo sí, il merito spetta al dio e a me. Ed eccone la prova. [e] Molti che non conoscevano ciò, e ritenevano che il merito fosse tutto loro, e me riguardavano con certo disprezzo, un giorno, piú presto che non bisognasse, si allontanarono da me, o di loro propria volontà o perché istigati da altri; e, una volta allontanatisi, non solo il restante tempo non fecero che abortire, per mali accoppiamenti in cui capitarono, ma anche tutto ciò che con l’aiuto mio avean potuto partorire, per difetto di allevamento lo guastarono, tenendo in maggior conto menzogne e fantasmi che la verità; e finirono con l’apparire ignorantissimi a se stessi ed altrui. [151 a] Di costoro uno fu Aristíde, figlio di Lisímaco; e moltissimi altri. Ce n’è poi che tornano a impetrare la mia compagnia e fanno per riaverla cose stranissime; e se con alcuni di loro il dèmone che in me è sempre presente mi impedisce di congiungermi, con altri invece lo permette, e quelli ne ricavano profitto tuttavia. Ora, quelli che si congiungono meco, anche in questo patiscono le stesse pene delle donne partorienti: ché hanno le doglie, e giorno e notte sono pieni di inquietudine assai piú delle donne. E la mia arte ha il potere appunto di suscitare e al tempo [b] stesso di calmare i loro dolori. Cosí è dunque di costoro. Ce n’è poi altri, o Teeteto, che non mi sembrano gravidi; e allora codesti, conoscendo che di me non hanno bisogno, mi do premura di collocarli altrove; e, diciamo pure, con l’aiuto di dio, riesco assai facilmente a trovare con chi possano congiungersi e trovar giovamento. E cosí molti ne maritai a Pròdico, e molti ad altri sapienti e divini uomini. Ebbene, mio eccellente amico, tutta questa storia io l’ho tirata in lungo proprio per questo, perché ho il sospetto che tu, e lo pensi tu stesso, sia gravido e abbia le doglie del parto. E dunque affidati a me, che sono figliolo [c] di levatrice e ostetrico io stesso; e a quel che ti domando vedi di rispondere nel miglior modo che sai. Che se poi, esaminando le tue risposte, io trovi che alcuna di esse è fantasma e non verità, e te la strappo di dosso e te la butto via, tu non sdegnarti meco come fanno per i lor figliuoli le donne di primo parto. Già molti, amico mio, hanno verso di me questo malanimo, tanto che sono pronti addirittura a mordermi se io cerco strappar loro di dosso qualche scempiaggine; e non pensano che per benevolenza io faccio codesto, lontani come sono dal sapere [d] che nessun dio è malevolo ad uomini; né in verità per malevolenza io faccio mai cosa simile, ma solo perché accettare il falso non mi reputo lecito, né oscurare la verità. [...]
Il dialogo socratico
Nell’Apologia di Socrate, scritta da Platone, leggiamo come Socrate spiegò pubblicamente la propria concezione filosofica: esortare i propri concittadini alla Virtú e alla Verità, utilizzando come strumento il dialogo. Dalle parole di Socrate emerge anche la componente religiosa della sua vocazione, su cui si è molto discusso.

1 [29 b] [...] Cosicché, anche se voi ora mi [c] lasciaste andare, contro il volere di Ànito il quale diceva che o non bisognava fin da principio io venissi qui in tribunale o, una volta che c’ero venuto, non era possibile non condannarmi a morte, perché, se riuscivo a sfuggire alla condanna, diceva, da quel momento i vostri figlioli, seguitando a praticare gl’insegnamenti di Socrate, sarebbero stati tutti quanti senza piú rimedio guasti e corrotti; – se voi, a questo argomentare di Ànito, diceste a me cosí: “O Socrate, noi non vogliamo ora dar retta ad Ànito e ti lasciamo andare, a patto però che tu non perda piú il tuo tempo in codeste ricerche, né piú ti occupi di filosofia; e se sarai còlto a far tuttavia di codeste cose ne morirai”; [d] – se dunque, come dicevo, voi a questi patti mi lasciaste andare, ebbene, io vi risponderei cosí: “O miei concittadini di Atene, io vi sono obbligato e vi amo; ma obbedirò piuttosto al dio che a voi; e finché io abbia respiro, e finché io ne sia capace, non cesserò mai di filosofare e di esortarvi e ammonirvi, chiunque io incontri di voi e sempre, e parlandogli al mio solito modo, cosí: – O tu che sei il migliore degli uomini, tu che sei Ateniese, cittadino della piú grande città e piú rinomata per sapienza e potenza, non ti vergogni tu a darti pensiero delle ricchezze [e] per ammassarne quante piú puoi, e della fama e degli onori; e invece della intelligenza e della verità e della tua anima, perché ella diventi quanto è possibile ottima, non ti dài affatto né pensiero né cura?”. E se taluno di voi dirà che non è vero, e sosterrà che se ne prende cura, io non lo lascerò andare senz’altro, né me ne anderò io, ma sí lo interrogherò, lo studierò, lo confuterò; e se mi paia ch’egli non possegga virtú ma solo dica di possederla, io lo svergognerò dimostrandogli che le cose di maggior [30 a] pregio egli tiene a vile e tiene in pregio le cose vili. E questo io lo farò a chiunque mi càpiti, a giovani e a vecchi, a forestieri e a cittadini; e piú ai cittadini, a voi, dico, che mi siete piú strettamente congiunti. Ché questo, voi lo sapete bene, è l’ordine del dio; e io sono persuaso non ci sia per voi maggior bene nella città di questa mia obbedienza al dio.
2 Né altro in verità io faccio con questo mio andare attorno se non persuadere voi, e giovani e vecchi, che non del corpo dovete aver cura né delle ricchezze né [b] di alcun’altra cosa prima e piú che dell’anima, sí che ella diventi ottima e virtuosissima; e che non dalle ricchezze nasce virtú, ma dalla virtú nascono ricchezze e tutte le altre cose che sono beni per gli uomini, cosí ai cittadini singolarmente come allo stato. Se dunque parlando io in questo modo corrompo i giovani, sta bene, vorrà dire che queste mie parole sono rovinose; ma se taluno afferma che io parlo diversamente e non cosí, costui dice cosa insensata. Per tutto ciò, lasciate che io ve lo dica, o Ateniesi, o diate retta ad Anito o non gli diate retta, o mi assolviate o non mi assolviate, siate in ogni modo persuasi che io non farò mai altrimenti che cosí, neanche se non una [c] soltanto ma piú volte dovessi morire [...].
3 [30 e] Che se voi ucciderete me, non sarà facile troviate un altro al pari di me il quale – non vi sembri risibile il paragone – realmente sia stato posto dal dio ai fianchi della città come ai fianchi di un cavallo grande e di buona razza, ma per la sua stessa grandezza un poco tardo e bisognoso di essere stimolato, un tafàno. Cosí appunto mi pare che il dio abbia posto me ai fianchi della città: né mai io cesso di stimolarvi, di persuadervi, di rampognarvi, uno per uno, [31 a] standovi addosso tutto il giorno, dovunque. Io dico dunque che un altro come me non vi nascerà facilmente, o cittadini: e perciò, se mi volete dare ascolto, mi risparmierete. Ma voi forse siete infastiditi meco come chi stia per assopirsi se uno lo sveglia, e tirate colpi; e cosí per obbedienza ad Anito, mi condannerete a morte tranquillamente, e poi tutto il resto della vostra vita, seguiterete a dormire se il dio non si curi di voi mandandovi qualchedun altro in vece mia. E che sia proprio io persona siffatta che il dio [b] abbia scelta per dare in dono alla città, potrete riconoscere anche da questo: che non pare umano io abbia trascurati tutti gli affari miei e sopporti ormai da tanti anni che siano trascurate le cose di casa mia, e sempre invece io badi alle vostre, standovi da presso, un per uno, come farebbe un padre o un fratello maggiore, per persuadervi a seguire la virtú. Che se da questa vita io avessi qualche profitto, e per i consigli che do ricevessi qualche compenso, allora una ragione ci sarebbe: ma già lo vedete anche voi ora che gli accusatori miei, i quali mi hanno accusato cosí sfrontatamente di tante altre colpe, di questa non [c] hanno avuto mai la sfrontatezza di accusarmi, portandovi davanti un solo testimone a provare che anche una sola volta io mi sia fatto pagare un compenso o l’abbia domandato. E il testimone sicuro ch’è vero quello che dico posso portarvelo io: la mia povertà.
4 Forse potrà parere strano che io vada dattorno e mi dia tanto da fare per dar consigli a questo e a quello in privato, e se poi si tratta di dare consigli in pubblico alla città e di salire su la tribuna per parlare al popolo, allora mi manchi il coraggio. E la ragione di questo me l’avete sentita dire piú volte e in piú luoghi, che c’è dentro [d] me non so che spirito divino e demoniaco; quello appunto di cui anche Melèto, scherzandoci sopra, scrisse nell’atto di accusa. Ed è come una voce che io ho in me fino da fanciullo; la quale, ogni volta che mi si fa sentire, sempre mi dissuade da cosa che io sia per fare, e non mai ad alcuna mi persuade. È questa che mi vieta di occuparmi di cose dello stato; e mi pare faccia ottimamente a vietarmelo. Voi lo sapete bene, o Ateniesi: che se da un pezzo io mi fossi messo a occuparmi degli affari dello stato, da [e] un pezzo anche sarei morto e non avrei fatto cosa utile nessuna né a voi né a me. E voi non sdegnatevi se parlo cosí: è la verità. Non c’è uomo che possa salvarsi quando si opponga sinceramente non dico a voi ma a una qualunque altra moltitudine, e cerchi di impedire che troppe volte nella città si commettano ingiustizie e si trasgredisca alle [32 a] leggi; e anzi è necessario che chi davvero combatte in difesa del giusto, se voglia campare da morte anche per breve tempo, viva da privato e non eserciti pubblici uffici. [...]
Socrate e il concetto
Il passo, tratto dall’Eutifrone di Platone, ci mostra Socrate in piena azione, mentre cerca, con l’aiuto del suo interlocutore, di arrivare alla definizione universale dell’idea di santità.

[6 c] [...] [Socrate] – Ora vedi di dirmi piú chiaro [d] quello che ti domandai poco fa; perché con quella tua prima risposta, amico mio, non mi hai istruito abbastanza. Io ti domandavo che cosa è il santo, e tu mi hai detto solamente che è santo ciò che stai facendo tu ora, accusando d’omicidio tuo padre. Eutifrone – E dicevo la verità, o Socrate. Socrate – Può darsi: ma certo, o Eutifrone, molte altre azioni ancora tu dici che sono sante. Eutifrone – Molte altre, senza dubbio. Socrate – Ebbene, tu ricordi che non di questo io ti pregavo, di indicarmi una o due delle molte azioni che diciamo sante; bensí di farmi capire che cosa è in se stessa quella tale idea del santo per cui tutte le azioni sante sono sante. Dicevi, mi pare, che per un’idea unica le azioni [e] non sante non sono sante, e le sante sono sante; o non ti ricordi? Eutifrone – Sí, mi ricordo. Socrate – E allora insegnami bene questa idea in sé quale è; affinché io, avendola sempre davanti agli occhi e servendomene come di modello, quell’azione che le assomigli, di quante o tu o altri possiate compiere, questa io dica che è santa; quella che non le assomigli, dica che non è.

Socrate maestro
Platone, con impareggiabile arte, ci narra la grande dignità con cui Socrate accettò il verdetto di condanna e il suo comportamento negli ultimi istanti della vita. Le ultime parole di Socrate hanno da sempre suscitato un ampio dibattito e diverse interpretazioni. Il sacrificio di un gallo ad Asclèpio – di cui Socrate si sente debitore – avveniva di solito per ringraziare il dio della medicina per una guarigione. La guarigione di Socrate sarebbe la morte, che finalmente rende libera la sua anima dalla prigione del corpo (sul corpo come “prigione dell’anima” vedi cap. Uno, lettura 2).

1 [36 b] [...] Quest’uomo dunque chiede per me la pena di morte. Sta bene. E quale pena dovrò chiedere per me io, o cittadini di Atene? Certamente quella che merito, non è vero? E quale? Quale pena merito io di patire, o quale multa pagare, io che nella vita rinunciai sempre a ogni quiete, e trascurando quel che curano i piú non badai ad arricchire né a governare la mia casa, non aspirai a comandi militari né a favori di popolo né ad altri pubblici onori, non m’immischiai in congiure né in sedizioni cittadine, ritenendo me stesso troppo sinceramente onesto perché [c] potessi salvarmi se mi ci fossi immischiato; e insomma non m’intromisi là dove sapevo che intromettendomi non avrei recato vantaggio né a me né a voi; e volgendomi invece a beneficarvi singolarmente e privatamente di quello che io reputo il beneficio maggiore, a questo mi adoperai, cercando persuadervi, uno per uno, che non delle proprie cose bisogna curarsi prima che di se stessi chi voglia diventare veramente virtuoso e sapiente, e nemmeno degli affari della città prima che della città stessa, e cosí via del rimanente allo stesso modo? Dite, dunque, quale pena [d] merito di patire io se sono cosí come vi dico? Un premio, o cittadini di Atene, se mi si deve assegnare quello che io merito in verità. E tale ha di essere questo premio che mi si addica. E quale premio si addice a un uomo che è povero e benefattore vostro, e solo prega d’aver agio e tempo per la vostra istruzione? Non c’è premio che meglio si addica, o Ateniesi, se non che tale uomo sia nutrito nel Pritanéo; assai piú che non s’addica a quello di voi che con cavallo o biga o quadriga abbia riportato vittoria nei Giochi Olimpici. Perché costui fa solo che voi [e] sembriate felici, e io che siate; e quello non ha bisogno gli si dia da vivere, e io ne ho bisogno. Se dunque io debbo chiedere, secondo il diritto, quello che mi spetta, questo [37 a] io chiedo, di essere nutrito nel Pritanéo.
2 Ma voi, forse, anche in questo mio parlare di ora, credete scorgere press’a poco quel medesimo sentimento di dispettoso orgoglio che credevate dianzi quando parlavo del far suppliche e destare commiserazione. No, non è cosí, o Ateniesi, ma un’altra cosa piuttosto. Io sono persuaso di non aver fatto mai, volontariamente, ingiuria a nessuno; soltanto, non riesco a persuaderne voi: troppo poco tempo abbiamo potuto conversare insieme. E credo che se fosse legge tra voi, com’è presso altre genti, che [b] giudizio di morte non si possa dare in un giorno solo ma in piú, ve ne sareste, forse, già persuasi; e invece non è facile ora, in cosí breve tempo, liberarsi da imputazioni cosí gravi. E persuaso come sono di non avere mai fatto ingiuria ad alcuno, non so neanche pensare di far ingiuria a me stesso, e di dire io stesso contro di me che sono meritevole di pena, e di richiedere per me, quale essa sia, quella tale pena. E poi, per paura di che cosa dovrei fare cosí? Forse per paura d’aver a patire quello che per me domanda Melèto, e che io vi dico di non sapere se è bene o se è male? E in cambio di codesto dovrei scegliere alcuna di quelle pene che so di certo che sono mali, e farne [c] domanda? Il carcere dovrei domandare? E perché dovrei vivere in carcere, al servizio della perpetua magistratura degli Undici? Una pena in denaro, e restare in carcere finché non l’abbia pagata? Ma tant’è, è la stessa cosa che dicevo or ora, perché denari io non ho da pagarla. E allora chiederò l’esilio? Sí, forse è proprio questa la pena che voi vorreste per me. Ma io in verità, o cittadini di Atene, dovrei esser preso da una ben pazza voglia di vivere se fossi cosí irragionevole da non poter fare neanche questo ragionamento, che mentre voi, che siete pure concittadini miei, [d] non foste capaci di sopportare la mia compagnia e i miei discorsi, e anzi la mia compagnia vi fu tanto fastidiosa e odiosa che cercate ora stesso di liberarvene; altri invece la sopporteranno piacevolmente? Eh via, Ateniesi! che sarebbe una gran bella vita la mia, a questa mia età, andarmene in esilio, e mutar sempre da paese a paese, scacciato da ogni parte! Perché io lo so bene, dovunque io vada i giovani verranno ad ascoltarmi come qui: e, se io li allontano, saranno essi stessi che mi faranno cacciare [e] persuadendone i piú anziani; se non li allontano, mi cacceranno i lor genitori e parenti per cagion loro.
3 Qui forse uno potrebbe dirmi: “Ma silenzioso e quieto, o Socrate, non sarai capace di vivere dopo uscito di Atene?”. Ecco la cosa piú difficile di tutte a persuaderne alcuni di voi. Perché se io vi dico che questo significa disobbedire al dio, e che perciò non è possibile io viva quieto, voi non mi credete e dite che io parlo per ironia; [38 a] se poi vi dico che proprio questo è per l’uomo il bene maggiore, ragionare ogni giorno della virtú e degli altri argomenti sui quali m’avete udito disputare e far ricerche su me stesso e su gli altri, e che una vita che non faccia di cotali ricerche non è degna d’esser vissuta: s’io vi dico questo, mi credete anche meno. Eppure la cosa è cosí com’io vi dico, o cittadini; ma persuadervene non è facile. E d’altra parte io non mi sono assuefatto a giudicare me stesso meritevole di nessun male. Se avevo denari, avrei potuto multarmi di una multa che potessi pagare: perché [b] non ne avrei sentito alcun danno. Ma non ho denari, e non posso: salvo che non vogliate multarmi di quel poco soltanto che potrei pagare. Potrei pagarvi una mina d’argento. E dunque mi multo di una mina d’argento. Ma c’è qui Platone, o Ateniesi, e Critone, e Critobúlo e Apollodoro, i quali vogliono ch’io mi multi di trenta mine, e ne fanno garanzia loro stessi. E allora mi multo di trenta mine. E vi saranno garanti della somma questi [c] qui: persone degne di fede.
4 Per guadagnare un poco di tempo – oh, non molto di certo, o cittadini ateniesi – voi avrete nome e colpa, da coloro che vogliono offendere la città, di aver ucciso Socrate, uomo sapiente: perché appunto diranno ch’io sono sapiente, anche se non sono, quelli che vi vogliono fare oltraggio. Bastava che aspettaste ancora un poco, e la cosa veniva naturalmente da sé. Voi vedete la mia età, che è molto avanti ormai nella vita; e anzi vicina alla morte. [d] E questo non lo dico a tutti voi, ma a quelli di voi che hanno votato la mia morte. E a questi stessi un’altra cosa ancora io dico. Forse pensate, o cittadini, che io sia stato còlto in difetto di quegli argomenti coi quali avrei potuto persuadervi, se avessi creduto che bisognasse fare di tutto e dire di tutto pur di sfuggire alla condanna. Niente affatto. Sono stato còlto in difetto, è vero, ma non di argomenti, bensí di sfrontatezza e di impudenza; e perché non avevo nessuna voglia di parlarvi al modo che certo vi sarebbe stato graditissimo, con pianti e lamenti e con ogni sorta [e] di altrettali atti e parole che di me sono indegni, come io vi ripeto, ma che voi siete pur abituati a udire da altri. Io non credetti allora, per paura del pericolo, che dovessi comportarmi da uomo vile; né mi pento ora d’essermi difeso come mi difesi; e molto piú anzi preferisco d’essermi difeso in questo modo e morire che non in quello e vivere. Perocché né in tribunale né in guerra, né io né altri, [39 a] nessuno mai deve adoperare di codesti mezzi per sfuggire in ogni modo alla morte. Anche nelle battaglie si vede chiaro piú volte che schivar la morte sarebbe facile, chi buttasse le armi o si volgesse supplichevole a’ suoi inseguitori; e molti altri mezzi ci sono, nei diversi frangenti, quando non si abbia scrupolo, pur di scampare alla morte, di fare e di dire qualunque cosa. Ma state attenti, o cittadini, che non questo è difficile, sfuggire alla morte, bensí piú difficile assai sfuggire alla malvagità: corre piú celere [b] della morte la malvagità. Ora io, che sono tardo e vecchio, da quella che è piú tarda sono stato preso; e invece i miei accusatori, che sono validi e pronti, da quella che corre piú celere, dalla malvagità. E cosí io ora me ne vado a pagare il mio debito di morte, condannato da voi; e questi se ne andranno a pagare il loro debito di iniquità e di infamia, condannati dalla verità. Io accetto la mia ammenda: e questi accetteranno la loro. E forse era bene che la cosa andasse cosí; e credo sia la misura giusta per tutti.
5 [c] Ma a voi che mi avete condannato voglio fare una predizione, e dire quello che succederà dopo. Io sono ormai su quel limite in cui piú facilmente gli uomini fanno predizioni, quando stanno per morire. Io dico, o cittadini che mi avete ucciso, che una vendetta ricadrà su di voi, súbito dopo la mia morte, assai piú grave di quella onde vi siete vendicati di me uccidendomi. Oggi voi avete fatto questo nella speranza che vi sareste pur liberati dal dover rendere conto della vostra vita; e invece vi succederà tutto il contrario: io ve lo predíco. Non piú io solo, ma molti saranno a domandarvene conto: tutti coloro che fino a oggi [d] trattenevo io, e voi non ve ne accorgevate. E saranno tanto piú ostinati quanto piú sono giovani; e tanto piú voi ve ne sdegnerete. Che se pensate, uccidendo uomini, di impedire ad alcuno che vi faccia onta del vostro vivere non retto, voi non pensate bene. No, non è questo il modo di liberarsi da costoro; e non è affatto possibile né bello; bensí c’è un altro modo, bellissimo e facilissimo, non tagliare altrui la parola, ma piuttosto adoprarsi per essere sempre piú virtuosi e migliori. Questo è il mio vaticinio [e] a voi che mi avete condannato; e con voi ho finito.
6 Con voi altri invece che votaste la mia assoluzione vorrei ragionare di questo caso che m’è intervenuto; intanto che gli Undici sono occupati ad altro, e non è anche il momento ch’io vada colà dove entrato mi bisogna morire. Restate dunque con me, o cittadini, per questo poco di tempo. Niente impedisce che si discorra ancora [40 a] fra noi, finché è lecito. A voi che mi siete amici desidero dire, quel che m’è capitato oggi, che cosa significa. Perché m’è accaduta, o giudici – chiamando voi giudici credo chiamarvi col vostro giusto nome –, una cosa davvero meravigliosa. Quella mia solita voce profetica, quella del dèmone, per tutto il tempo passato io la sentivo continuamente e ad ogni occasione; e sempre mi si opponeva, anche in circostanze di poco conto, solo che fossi per far qualche cosa che non mi riuscisse a bene. Oggi m’è avvenuto un caso, lo vedete anche da voi, di quelli appunto che si possono giudicare, e la gente giudica, gli estremi dei [b] mali. Ebbene, né a me stamattina quando uscivo di casa si oppose il segno del dio, né quando salivo qui sul tribunale, e nemmeno durante la mia difesa, in nessun punto, ogni volta che ripigliavo a parlare. E sí che piú volte, in altri discorsi, mi fermò la parola anche a mezzo. Ora invece, per tutto questo processo, qualunque cosa fossi per fare o dire, non mi dette cenno mai di nessunissima opposizione. E allora la cagione di questo silenzio quale devo pensare che sia? Ve la dirò: questa: che il caso capitatomi oggi ha da essere sicuramente un bene; e certo non pensano [c] dirittamente quanti di noi ritengono che il morire sia un male. Ho avuto di ciò una grande riprova: non è possibile che il segno consueto non mi si sarebbe opposto se quel che stava per accadermi non avesse dovuto essere un bene.
7 Vediamo la cosa anche da questo punto, per quale altra ragione io ho cosí grande speranza che morire sia un bene. Una di queste due cose è il morire: o è come un non esser piú nulla e chi è morto non ha piú nessun sentimento di nulla; o è proprio, come dicono alcuni, una specie di mutamento e di migrazione dell’anima da questo luogo quaggiú a un altro luogo. Ora, se il morire [d] equivale a non aver piú sensazione alcuna, ed è come un sonno quando uno dormendo non vede piú niente neppure in sogno, ha da essere un guadagno meraviglioso la morte. Perché io penso che se uno, dopo aver come trascelta nella propria memoria tal notte in cui si fosse addormentato cosí profondamente da non vedere neppur l’ombra di un sogno, e poi, paragonate a questa le altri notti e gli altri giorni di sua vita, dovesse dirci, bene considerando, quanti giorni e quante notti in tutto il corso della sua vita egli abbia vissuto piú felicemente e piú piacevolmente di quella notte; io penso che colui, fosse pure non dico un [e] privato qualunque ma addirittura il Gran Re, troverebbe assai pochi e facili a noverare codesti giorni e codeste notti in paragone degli altri giorni e delle altri notti. Se dunque tal cosa è la morte, io dico che è un guadagno; anche perché la eternità stessa della morte non apparisce affatto piú lunga di un’unica notte. D’altra parte, se la morte è come un mutar sede di qui ad altro luogo, ed è vero quel che raccontano, che in codesto luogo si ritrovano poi tutti i morti, qual bene ci potrà essere, o giudici, maggiore di questo? [41 a] Che se uno, giunto nell’Ade, libero ormai da coloro che si spacciano per giudici qui da noi, troverà colà i giudici veri, quelli appunto che nell’Ade si dice esercitino officio di giudici, e Minos e Radamanti e Èaco e Trittolèmo e quanti altri fra i semidei furono giusti nella lor vita; sarebbe forse codesto un mutamento di sede spregevole? E ancora, per starsene insieme con Orfeo e con Musèo, con Omero e con Esiodo, quanto non pagherebbe ciascuno di voi? Io per me non una volta soltanto vorrei morire, se questo è vero. Che consolazione straordinaria avrei io di [b] tal soggiorno colà, quando, m’incontrassi con Palamède, e con Aiace figlio di Telamone, e con tutti quegli altri antichi eroi che ebbero a morire per ingiusto giudizio; e quale gioia, penso, paragonare i miei casi ai loro! E il piacere piú grande sopra tutti sarebbe di seguitare anche colà, come facevo qui, a studiare e a ricercare chi è davvero sapiente e chi solo crede di essere e non è. Quanto darebbe uno di voi, o giudici, per interrogare e conoscere colui che condusse contro Troia il grande esercito, oppure Odísseo, [c] o Sísifo, e quanti altri innumerevoli si possono ricordare, uomini e donne? Ragionare colà con costoro e viverci insieme e interrogarli, sarebbe davvero il sommo della felicità. Senza dire poi che, per codesto, non c’è pericolo quelli di là mandino a morte nessuno; essi che, oltre a essere, per altri motivi, piú felici di noi, anche sono oramai per tutta l’eternità immortali, se è vero quel che si dice.
8 Ebbene, anche voi, o giudici, dovete bene sperare dinanzi alla morte, e aver nell’animo che una cosa è [d] vera, questa, che a uomo dabbene non è possibile intervenga male veruno, né in vita né in morte; e tutto ciò che interviene è ordinato dalla benevolenza degli dèi. E cosí anche quello che càpita a me ora non è opera del caso; e anzi vedo manifestamente che per me oramai morire e liberarmi da ogni pena e fastidio era la cosa migliore. Per questo il segno del dio mai una volta cercò farmi piegare dalla mia strada; per questo nessun rancore io ho con coloro che mi votarono contro, né coi miei accusatori. Sebbene non certo con questa intenzione essi mi condannarono e mi accusarono, ma credendo anzi di farmi male; e perciò [e] sono degni di biasimo. Ora io a costoro non ho da fare altra preghiera che questa: i miei figlioli, quando siano fatti grandi, castigateli, o cittadini, cagionando loro gli stessi fastidi che io cagionavo a voi, se a voi sembra si diano cura delle ricchezze o di beni altrettali piuttosto che della virtú; e se diano mostra di essere qualche cosa non essendo nulla, svergognateli, com’io svergognavo voi, che non curino ciò che dovrebbero e credano valer qualche [42 a] cosa non valendo nulla. Se cosí farete, io avrò avuto da voi quel ch’era giusto che avessi: io e i miei figlioli. – Ma ecco che è l’ora di andare: io a morire, e voi a vivere. Chi di noi due vada verso il meglio è oscuro a tutti fuori che a Dio.
Elogio di Socrate
Durante il banchetto in onore di Agatone, dagli illustri ospiti viene affrontato l’argomento dell’amore. Alla fine interviene Socrate, che paragona l’amore alla filosofia. A questo punto entra nella sala del banchetto Alcibiade, già mezzo ubriaco e, avendo visto Socrate, ne tesse l’elogio. Ne esce un ritratto del filosofo particolarmente significativo.
1 Questo elogio di Socrate, o amici, mi proverò a farlo cosí, per immagini. Lui crederà che lo faccia per dire cose piú ridicole, ma l’imagine sarà per cogliere il vero, non per far ridere. Io dico cioè che costui è somigliantissimo a quei sileni esposti nelle botteghe degli scultori, che gli artisti figurano con zampogne e flauti, i quali, se li apri in due, mostrano dentro simulacri degli dèi. E dico ancora che lui assopmiglia al satiro Marsia; e che almeno nell’aspetto tu sia uguale a costoro, o Socrate, nemmeno tu potresti negarlo; e come somigli loro in tutto il resto, ascolta. Sei insolente, no? Se non consenti produrrò dei testimoni. E non flautista? Sí, e molto piú meraviglioso di Marsia. Costui almeno incantava gli uomini per mezzo dei suoi strumenti, con la potenza che gli usciva di bocca, e ancora fa cosí chi esegue le sue melodie – giacché quelle che suonava Olimpo le dico di Marsia che gliele ha insegnate. Dunque le sue melodie, sia che le esegua un flautista valente, sia una suonatrice da nulla, esse da sole, per la loro potenza divina, trasportando le anime in deliri e discoprono quali d’esse hanno bisogno degli dèi e d’essere iniziate. Ma tu sei diverso da lui solo in questo, che ottieni lo stesso effetto senza strumenti e con le nude parole. Noi, certo, quando ascoltiamo qualcun altro parlare, anche un bravo oratore, su altri argomenti, non ce ne importa nulla, per dirlo chiaro, di nessuno; ma quando si ascolta te o qualcun altro riporti, anche se è uno sciocco qualunque, i tuoi discorsi e li ascolti una donna, o un uomo, o un ragazzo, ne rimaniamo sbigottiti ed invasati. Io, sinceramente, o amici, se non fosse che potreste credermi ubriaco del tutto, vi direi giurando quali profonde emozioni ho provato ai discorsi di quest’uomo e provo tutt’ora. Perché quando lo ascolto, molto di piú che ai coribanti il cuore mi salta dentro e mi prendono le lacrime per effetto delle sue parole e vedo che anche moltissimi altri provano la stessa emozione. Ascoltando Pericle e altri bravi oratori, sentivo che parlavano bene, ma non soffrivo niente di simile, né l’anima mi tumultuava, né m’irritavo al pensiero di soggiacere come uno schiavo. Ma per questo Marsia qui spesso, sí, mi son trovato in tale stato da pensare di non poter piú vivere nelle condizioni in cui sono. E questo, o Socrate, non dirai che non è vero. Ancor oggi debbo riconoscere a me stesso che se soltanto fossi disposto a prestargli orecchio, non resisterei e proverei gli stessi effetti. Perché lui mi piega a confessare che, mentre difetto di mille cose, di me stesso non mi curo, ma m’occupo degli affari d’Atene. Facendomi violenza, distraggo le mie orecchie da lui, come dalle Sirene, e mi allontano fuggendo, perché non avvenga ch’io invecchi accoccolato vicino a lui. E solo di fronte a quest’uomo io ho provato, cosa che nessuno sospetterebbe in me, la vergogna di fronte a qualcuno. Ma io di lui solo provo vergogna perché riconosco in me stesso che non sono capace di controbattere che ciò che lui pretende non si debba fare; ma, appena mi allontano da lui, sono vinto dall’ambizione di onori pubblici. Lo tradisco come schiavo fuggitivo e lo abbandono, e quando lo vedo, mi assale vergogna per le cose che mi ha fatto riconoscere. E spesso sarei felice se non fosse piú tra i vivi! Ma so bene che se ciò avvenisse, ne sarei piú angosciato, cosí che non so proprio cosa farne di quest’uomo.
2 Proprio dalle melodie del flauto di questo satiro qui, io e molti altri abbiamo provato questi effetti. Ma ascoltate ancora come è simile a coloro ai quali l’ho confrontato e il meraviglioso potere che possiede. Perché, sappiatelo bene, nessuno di voi lo conosce! Ma io ve lo scoprirò giacché mi ci son messo. Voi vedete che Socrate è sempre in amore con le belle persone, gli è sempre intorno e ne è tutto turbato, poi ignora tutto e non sa nulla... almeno all’apparenza!. E non è da sileno questo? Ma è tutto lui! Perché questa è la sua veste di fuori, come nel sileno scolpito; ma, apritelo dentro, e immaginate mai, miei cari bevitori, di quanta temperanza è pieno? Sappiate che, se uno è bello, a lui non importa niente, ma lo sdegna quanto nessuno crederebbe, né gli importa se è ricco o possiede qualunque altra fortuna di quelle strabenedette dalla gente.. Lui ritiene che tutti questi possessi non valgono nulla e che noi siamo nulla: ve lo dico io e passa il suo tempo a far l’ingenuo e a prendersi gioco della gente: ma quando fa sul serio e si apre, non so se qualcuno ha mai visto i simulacri che ha dentro! ma io una volta li vidi e li sentii cosí divini e preziosi e cosí stupendi e meravigliosi che non mi rimase se non fare all’istante ciò che Socrate voleva. Ora, poiché credevo che egli prendesse sul serio la mia bellezza, pensai ch’ero ben fortunato ed avevo una straordinaria occasione, perché potevo, compiacendo Socrate, ascoltare tutto quanto lui sapeva. Perché della mia bellezza ero incredibilmente superbo. Pensato tutto questo, mentre prima solevo starmi con lui insieme a un servo e mai solo, da allora, congedato il servo, rimanevo solo con lui. Bisogna naturalmente che vi dica tutta la verità: state attenti e se mento, Socrate, sbugiardami. Lo incontravo, o amici, solo a solo e pensavo che presto mi avrebbe fatto quei discorsi che un amante fa al suo amore quando si trovino soli, e ne ero pieno di gioia. Ma di tutto ciò non avveniva nulla: discorreva con me secondo il solito, e trascorsa insieme la giornata, mi piantava e partiva. Allora lo invitai a far ginnastica insieme ed io mi esercitavo con lui sperando che lí avrei concluso qualcosa. Ebbene egli faceva gli esercizi con me, e spesso la lotta, senza alcuno presente, e che debbo dire? non ne veniva fuori nulla. Visto che in questo modo non ci riuscivo, mi parve che fosse necessario attaccare quest’uomo con la violenza, e non smettere, dal momento che avevo cominciato, finché la faccenda non si fosse chiarita. Ed ecco che lo invito a cena proprio come un amante che tende la trappola al suo amore. Ma neppure in questo mi dette retta alla svelta, tuttavia col tempo si lasciò persuadere. Quando venne la prima volta, appena finito di cenare voleva andarsene, e per allora, vergognandomi, lo lasciai partire. Ma di nuovo ripetei la trappola, e dopo ch’ebbe cenato m’intrattenni a parlare con lui fino a notte inoltrata e, quando volle andarsene, lo convinsi a rimanere col pretesto che era tardi. Riposava dunque sul letto vicino al mio, lí dove aveva cenato: nella stanza non dormiva nessuno, solo noi. Fin qui il mio racconto andrebbe bene anche a raccontarlo a chicchessia; ma da qui in avanti non udreste il mio racconto se, innanzitutto, secondo il proverbio, il vino (con o senza fanciulli) non fosse veritiero; e poi mi sembra ingiusto tralasciare un cosí superbo atto di Socrate, ora che mi son messo a farne l’elogio. Ma ancora io mi sento come un uomo morso da una vipera: dicono cioè che chi l’ha subito non sia disposto a raccontare com’è stato se non ai compagni di sventura perché essi soli comprendono e possono scusare se sotto l’azione di quella sofferenza ne combina e ne dice d’ogni colore. Io pure, ferito dal morso piú straziante e nella parte piú dolorosa in cui si possa essere addentati... perché nel cuore, nell’anima o come lo si voglia chiamare, sono stato piagato e morso dai discorsi di filosofia che addentano piú selvaggi d’una vipera quando s’attaccano a un’anima giovane e non ignobile, e la inducono a fare e dire qualunque cosa... e poi vedo qui i Fedri, gli Agatoni, gli Eurissimachi, i Pausania, gli Aristodemi, gli Aristofani – e di lui, Socrate che dire? e quanti altri...? perché tutti siete accomunati dal delirio e dal furore bacchico per la filosofia... perciò mi starete tutti a sentire e scuserete i miei atti di allora e ciò che dico adesso. Ma i servi e chiunque altro ci sia profano e rozzo, mettetevi spesse porte alle orecchie.
3 Quando dunque, o amici, si spense il lume e i servi furono usciti, mi parve che non fosse il caso di fare il sottile con lui, ma di dirgli liberamente quello che pensavo. Cosí lo scossi e dissi: “Socrate, dormi?”. “No” mi rispose. “Sai cos’ho pensato?”. “Che cosa mai?” disse. “Ho pensato – risposi – che tu se l’unico amante degno che io abbia e vedo che esiti a dichiararti. Ora, io la sento cosí: ritengo che sarebbe del tutto stupido se non ti compiacessi anche in questo come in tutto quello di cui tu avessi bisogno, dei miei beni e dei miei amici. Per me nulla è piú importante che divenire quanto è possibile migliore, e io credo che per questo nessuno mi può essere di piú valido aiuto che te. E certo di fronte alla gente che sa mi vergognerei di non concedermi a un uomo come te, molto di piú che di fronte al volgo ignorante, se ti compiacessi”. Egli mi stava a sentire e poi, con quella solita aria innocente ed ironica, tutta sua: “Mio caro Alcibiade – disse – rischi di non essere affatto sciocco se per caso son vere le cose che dici di me e se c’è dio sa quale potere in me che ti potrebbe rendere migliore. Ecco tu vedresti in me una irresistibile bellezza del tutto incomparabile pure alla grazia delle tue forme: se avendola scoperta cerchi di appropriartene barattando bellezza con bellezza, miri a guadagnarci non poco alle mie spalle! Via, in cambio di una bellezza apparente tenti di guadagnarci una bellezza vera e calcoli, alla lettera, di scambiare “oro con rame”. Ma, o beato, guarda meglio, che io non sia nulla e tu non te ne accorgi! Certo la vista della mente comincia a vedere piú acutamente quando quella degli occhi tende a declinare: e tu ci sei ancora lontano”. Lo ascoltai e poi: “Da parte mia, dissi, è cosí, e non ti ho detto niente di diverso da quello che penso. Decidi tu quel che sia meglio per te e per me”. “Cosí parli bene, rispose, perché avremo tempo per decidere e faremo ciò che ci parrà piú giusto in questa ed altre questioni”. Io naturalmente dopo quello che aveve udito e quello che avevo detti, lanciando per cosí dire i miei strali, credevo che egli fosse ferito. Mi rizzai e senza lasciargli dire piú nulla lo ricopersi con il mantello che avevo (poiché era inverno), e, sdraiatomi sotto questo suo solito gabbano, gettai le braccia attorno a quest’uomo veramente demoniaco e straordinario e giacqui con lui l’intera notte. E neppure adesso puoi dire, Socrate, che mento. Malgrado tutti questi miei sforzi, costui di tanto mi superò, sdegnò e derise la mia bellezza, e la offese ... eppure credevo che valesse qualcosa, o giudici (ché voi siete giudici della superbia di Socrate) ... ebbene, sappiatelo, lo giuro per gli dèi e per le dee, dormii con Socrate e mi levai né piú né meno che se avessi dormito col padre o con un fratello maggiore.
4 Dopo questo, come pensate che fosse il mio animo? Avere coscienza d’essere svilito da lui, ma dovere ammirarne il suo essere, la sua temperanza e la sua fortezza. Pensare d’essere capitato con un uomo quale mai certamente avrei piú potuto trovare cosí sapiente e forte. Cosicché non ero capace d’essere in collera né di privarmi della sua compagnia, né riuscivo a strologare come attirarlo a me. Perché sapevo perfettamente che alla ricchezza era molto piú invulnerabile, da ogni parte, che non Aiace alla spada, e nell’unica cosa con cui credevo di poterlo catturare, m’era sfuggito. Ed eccomi, senza una via d’uscita, ridotto schiavo da quest’uomo come nessuno mai da un altro non facevo che girargli attorno. Tutti questi fatti mi erano già accaduti, quando in seguito fummo insieme soldati al campo di Potidea, dove avevamo il rancio in comune. Per cominciare, nelle fatiche non solo era superiore a me, ma a tutti quanti. Quando, rimasti isolati in qualche parte, come avviene in guerra, ci capitava di dover sostenere la fame, gli altri, in confronto, non valevano nulla in resistenza. Ma nelle baldorie, invece, lui solo sapeva godere fino in fondo e a bere, – non che lo volesse, ma quando lo si forzava – vinceva tutti; ma ciò che piú meraviglia è che Socrate nessuno uomo mai l’ha visto ubriaco. E di ciò, credo, presto se ne avrà la prova. Quanto a sopportare l’inverno (perché là erano tremendi) faceva miracoli e, fra gli altri, una volta che c’era un gelo da inorridire e tutti stavano rintanati dentro o se uno usciva si avvolgeva in una incredibile quantità di panni, si calzava e si fasciava i piedi con feltri e pellicce, lui, con un tempo simile, se ne usciva con questa gabbanina che ha sempre, e scalzo camminava sul ghiaccio, piú tranquillo che gli altri tutti iscarponati. E i soldati lo sbirciavano credendo che li volesse mortificare.
5 E questo basti per tale argomento. “Ma che compí e sostenne il forte eroe”, una volta, laggiú al campo, merita ascoltarlo. Tutto assorto in qualche idea s’era piantato ritto lí, fino dall’alba, meditando; e poiché non ne veniva a capo, continuava, ritto in piedi, la sua ricerca. E già era mezzogiorno e alcuni uomini se n’erano accorti e meravigliati dicevano l’un l’altro: “Socrate se ne sta lí impalato dall’alba in un qualche pensiero”. Alla fine, alcuni Ioni, scesa la sera, dopo aver cenato – poiché allora era estate – portarono fuori i giacigli e si misero a riposare all’aperto e nello stesso tempo a controllare se stesse piantato là tutta la notte. Ed egli vi stette finché fu l’alba e si levò il sole. Allora si mosse e se ne andò dopo aver fatto la sua preghiera al sole. Se poi volete, eccolo nelle battaglie, perché è giusto riconoscergli anche questo. Quando ci fu la battaglia per la quale gli strateghi mi decorarono al valore, nessun altro mi salvò se non lui, che non volle abbandonarmi ferito: anzi portò in salvo le armi e me stesso. Ed io, o Socrate, anche allora pregai gli strateghi che premiassero te: né di ciò puoi biasimarmi né dire che sia falso. Ma gli strateghi, considerando il mio grado sociale, volevano insignire me, e tu stesso fosti piú sollecito di loro acché le insegne le avessi io invece che te. Ancora, amici, meritava davvero di vedere Socrate quando l’esercito si ritirava in rotta da Delio! Mi capitò appunto di essergli accanto, io a cavallo e lui a piedi come oplita. Si ritirava dunque, rotte le file, insieme a Lachete: ed io mi ci imbatto contro per caso. Appena li vedo li esorto a star sú d’animo e dico che non li abbandonerò. Qui davvero veder Socrate era spettacolo piú bello che a Poltidea. Io avevo meno da temere perché ero a cavallo, ma lui, innanzitutto vedevo quant’era superiore a Lachete in presenza di spirito; e poi mi pareva che anche là camminasse come qui, Aristofane, come tu dici “tutto gonfio e sbirciando di traverso” e squadrava con calma amici e nemici mostrando chiaro ad ognuno anche di lontano che se qualcuno avesse toccato quest’uomo, con gran forza si sarebbe difeso. Anche per questo si ritiravano sicuri lui e l’altro, perché coloro che hanno quest’animo in guerra, si può dire che non sono toccati, ma viene inseguito chi fugge in disordine. In molte altre cose e meravigliose si potrebbe lodare Socrate, ma di altre sue qualità si potrebbero dire le stesse cose anche di un altro, invece che egli non somigli ad alcuno fra tutti gli uomini antichi e moderni questa è la maggior meraviglia. Cosí le qualità di Achille si potrebbero assomigliare a quelle di Brasida e d’altri, e quelle di Pericle a Nestore e Antenore, e non sono i soli; e tutti gli altri potrebbero essere confrontati in questo modo. Ma un uomo come questo qui, con le singolarità sue e dei suoi discorsi, non lo si troverebbe che gli somigli neppur di lontano, a cercarlo fra gli uomini d’oggi né fra quelli di ieri; a meno che non lo si paragoni, non a uomini, ma a quelli che dicevo, ai sileni e ai satiri, lui e i suoi discorsi. Perché c’è ancora questo, che ho tralasciato all’inizio: i suoi discorsi sono quasi identici ai sileni che si aprono in due.
6 Chi dunque si mette a sentire i discorsi di Socrate, sulle prime li troverebbe del tutto ridicoli, tali sono le parole e le espressioni di cui s’avvolgono di fuori, qualcosa come la pelle d’un satiro insolente: parla di asini bastati, di certi fabbri, ciabattini e conciapelli e con le stesse voci pare sempre che ripeta le stesse cose. Cosicché ogni inesperto o sciocco potrebbe riderci sopra a questi discorsi. Ma chi li veda aperti e vi penetri dentro, troverà innanzitutto che essi soli, fra tutti i discorsi, hanno una mente, e poi che sono i piú divini e pieni di ogni immagine di virtú e tendono a ciò che v’è di piú grande, anzi a tutto quanto bisogna mirare per chi vuole diventare un uomo nobile e eccellente. Ecco, amici, ciò per cui lodo Socrate: quanto ai biasimi, ve li detti mescolati al resto, narrando come mi ha insultato. Ma non solo me ha trattato cosí, ma anche Carmide, figlio di Glaucone, Eutidemo di Diocle, e moltissimi altri che egli ha ingannato facendo l’innamorato con loro e poi finendo piuttosto come amato invece che amante. E queste cose le dico anche a te, Agatone, perché non ti lasci ingannare da costui, ma anzi reso esperto dalle mie sventure, te ne stia in guardia e perché non t’accada, come dice il proverbio “d’imparare a tue spese come uno sciocco”.

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