Simposio

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Testo

De Fanti Marina I C
Di Platone sono giunti fino a noi, interamente, 36 dialoghi. Il problema che ci si pone circa queste opere è duplice e riguarda da un lato la loro autenticità, dall’altro la loro datazione.
Per quanto riguarda l’autenticità dei dialoghi, alcuni sono, senza dubbio, non attribuibili a Platone: Alcibiade II, Ipparco, Amanti, Tergete, Clitofonte, Minosse; si tratta, infatti, di opere risalenti al IV sec scritte nello stile dei dialoghi platonici.
Altri sono di attribuzione incerta: Alcibiade I, Ione, Menesseno, Ippia maggiore, Epinomide, Lettere; i rimanenti 24 dialoghi sono sicuramente di Platone.
Esaminando il problema della datazione possiamo dichiarare che, nonostante le innumerevoli obiezioni, i dialoghi platonici vengono divisi in tre gruppi: •Dialoghi giovanili (Repubblica, Apologia di Socrate, Repubblica libro I…) •Dialoghi della maturità (Fedone, Simposio, Fedro…) •Dialoghi della tarda maturità e della vecchiaia (Politico, Parmenide, Sofista…).
Il tentativo di stabilire una plausibile datazione, è affidato o al ritrovamento di un’allusione ad un episodio storico databile con precisione, oppure all’esistenza di riferimenti ad altre opere che non presentano problemi sulla data della loro composizione.
Nel caso del Simposio sono alcune parole pronunciate da Aristofane ad assumere un particolare significato: “A causa di un agire empio – egli dice, infatti, – siamo stati dispersi come gli Arcadi dai Lacedemoni”. Questa espressione sembrerebbe far riferimento allo smembramento degli abitanti di Mantinea per opera degli Spartani, avvenuto nel 385 a.C. e testimoniato da Senofonte nelle Elleniche.
Un’altra ipotesi la associa, invece, allo scioglimento dell’Unione Arcadica del 418/7 a.C.
Per quanto riguarda il contenuto dell’opera ci accorgiamo che Platone affida il ruolo di narratore non direttamente a Socrate ma ad un altro personaggio; questo lascia pensare che questo dialogo, come anche il Fedone, sia stato composto da Platone per venir recitato anche in sua assenza, in altre parole, avrebbe introdotto un’altra figura per riferire di Socrate ciò che egli stesso non avrebbe potuto o voluto dire di sé. Dunque Platone, al momento della composizione del Simposio e del Fedone, sapeva che avrebbe lasciato Atene, e per questo motivo, essi non possono che essere collocati nel periodo tra l’invito in Sicilia da parte di Dionisio il Vecchio e la partenza di Platone, vale a dire tra il 369 e la primavera del 367 a.C.
Sempre facendo riferimento alle date del Simposio, parlando però della storia narrata, possiamo sicuramente affermare, in base alle prime battute dell’opera (“riportò il trionfo con la sua prima tragedia, […] il giorno dopo aver celebrato assieme ai coreuti il sacrificio per la vittoria”), che il banchetto di cui si parla avvenne nell’anno 416 a.C. Più difficile è invece stabilire il momento in cui ha luogo la narrazione di quel banchetto da parte di Apollodoro. Le sue parole ci offrono, in ogni caso, diverse informazioni: egli dichiara che sono trascorsi molti anni da quando Agatone ha lasciato Atene; per di più ricorda che da tre anni è discepolo di Socrate.
In base a queste affermazioni il racconto si svolge, senza dubbio, prima del 399 a.C. in una data compresa fra il 404 e il 400 a.C.
Analizzando l’opera per quanto riguarda la narrazione, notiamo che questa si apre con un prologo, nel quale Apollodoro si appresta a raccontare ad un amico ciò che avvenne durante un convito al quale parteciparono, tra gli altri, Agatone, Socrate ed Alcibiade; benché a quel tempo egli fosse troppo giovane, ne udì il racconto da Aristodemo che aveva preso parte a quel banchetto.
Questo racconto riferito inizia proprio con il personaggio di Aristodemo, che incontra Socrate insolitamente vestito mentre si sta recando ad un banchetto a casa di Agatone, il quale l’aveva offerto per celebrare la sua vittoria nel concorso tragico. Socrate, dopo aver spiegato ad Aristodemo il motivo del suo abbigliamento così inconsueto, lo invita al banchetto.
Aristodemo giunge però solo a casa di Agatone: Socrate, come era solito fare, si trattiene lungo la strada e, in seguito, si apparta, totalmente immerso nei suoi pensieri.
A metà del banchetto, entra nella sala ed Agatone lo invita a sedersi al suo fianco, così da poter ricevere un po’ di sapienza dal filosofo “come l’acqua che attraverso un filtro passa dal bicchiere pieno a quello vuoto”.
Alla fine del pasto inizia il simposio ma, questa volta, tutti i commensali sono d’accordo sulla possibilità di non eccedere nel vino, ma di bere “ciascuno per quel che gli andava”. Erissimaco, il medico, propone infine di congedare la suonatrice di flauto e suggerisce, prendendo spunto da un discorso di Fedro, il tema della conversazione. Quest’ultimo, infatti, molto spesso si era lamentato di come gli uomini dedicassero poche attenzioni ad un dio potente come Amore, mentre altrettanto spesso si erano prodigati per elogiare altri dei e cose meno significative. Erissimaco suggerisce, quindi, di riprendere questo argomento, e che ciascuno, partendo da destra, tenga un discorso in onore di Amore.
Il primo a prendere la parola è Fedro. Egli esordisce dicendo che Amore è il più onorabile fra gli dei perché è il più antico e i suoi progenitori non sono ricordati da nessuno scrittore. Citando Esiodo, afferma che dapprima ci fu il Caos da cui si originarono la Terra e poi Amore e, allo stesso modo, testimoniano Acusilao e Parmenide. Amore è la causa per gli uomini dei beni più grandi ed è proprio questo dio che è in grado di provocare in coloro che amano, la vergogna per le cose immorali e il desiderio di imitazione verso tutto ciò che è dignitoso e moralmente elevato.
Secondo Fedro chi ama è sempre disposto a sacrificare la propria vita per quella della persona amata e per attestare la sua affermazione fa riferimento ai miti di Alcesti ed Admeto, di Orfeo ed Euridice, di Achille e Patroclo.Questi racconti descrivono ognuno un “sacrificio” per amore. Alcesti simboleggia l’esempio eccelso di un comportamento ispirato da questo sentimento: Essa fu la sola a voler morire al posto del suo sposo e questo gesto fu giudicato così bello dagli dei che consentirono a questa fanciulla il ritorno alla terra.
Superiore al suo gesto è quello di Achille, il quale preferì vendicare l’amato Patroclo, pur sapendo che se avesse ucciso Ettore sarebbe morto anche lui nella guerra di Troia. Gli dei onorarono Achille mandandolo alle isole dei beati poiché “colui che ama è cosa più divina di chi si lascia amare perché il dio lo possiede”.
Orfeo, invece, mosso dalla presunzione e dal desiderio farsi ammirare per le sue doti di cantore, nel tentativo di riportare in vita Euridice, cercò di ingannare gli dei e da questi fu punito poiché a essi, il suo animo, non sembrò ispirato da Amore.
Pausania inizia il suo discorso rivolgendo una critica a Fedro poiché, secondo lui, egli aveva trattato l’argomento in modo troppo semplicistico.
Amore, infatti, non è unico, ma come esistono due Afroditi, l’una Urania o Celeste l’altra Pandemia o Volgare, allo stesso modo ci devono essere due tipi d’amore, uno Celeste, l’altro Volgare.
Non ogni Amore è dunque degno di lode, ma solo quello che protende verso le cose nobili.
L’Amore Pandemio è quello favorito dagli uomini di poco valore, i quali amano gli uomini quanto le donne e preferiscono di questi i corpi piuttosto che le anime.
L’Amore Celeste è quello che va rivolto ai maschi, poiché chi è preso da questo tipo di amore è attratto da ciò che naturalmente è più forte e dotato di più intelletto.
Questi uomini hanno come caratteristiche la moderazione e la fedeltà perché non cercano di attirare i fanciulli ma si rivolgono ai ragazzi che iniziano a dare prova di intelligenza.
Importante è anche il riferimento con i costumi di Atene, secondo lui, infatti, in questa città, Amore godrebbe di una posizione privilegiata, poiché ad Atene si ritiene più bello amare apertamente piuttosto che di nascosto, “chi è virtuoso e nobile anche se è più brutto degli altri”. Infatti, secondo Pausania, non bisogna farsi tentare dalle apparenze e da facili promesse, ma bisogna in ogni cosa cercare sempre la virtù poiché “concedersi per ottenere in cambio virtù è bello”.
A questo punto viene il turno di Aristofane, il quale viene però sostituito da Erissimaco, poiché, a causa di un improvviso attacco di singhiozzo non può parlare.
Erissimaco si basa sulla sua esperienza di medico per spiegare che Amore non risiede solo negli esseri umani ma anche in tutti gli altri esseri viventi ed è, infatti, secondo lui, il principio che ordina l’universo.
Egli ha anche potuto notare come nei corpi dei viventi ci sia un doppio amore che si manifesta con la salute e la malattia, e l’una va assecondata, l’altra combattuta. Il compito del medico è, stabilire amore e armonia tra questi due elementi.
Citando Eraclito “L’unità in sé discorde, con se stessa si accorda, come l’armonia dell’arco e della lira”, ricava da questa espressione che, poiché la musica è sinonimo di armonia, essa può essere definita la scienza dell’amore perché è in grado di riconciliare ciò che prima era diviso.
L’intervento del medico si conclude con una breve discussione tra Erissimaco ed Aristofane.
Aristofane, quindi, introduce il suo discorso partendo da un mito secondo i quale inizialmente gli uomini erano divisi in tre generi: il maschile, il femminile e l’androgino, uomo e donna nello stesso tempo; in secondo luogo “la forma di ogni uomo era circolare, aveva quattro mani, quattro gambe, due facce su una stessa testa, quattro orecchie e doppi organi genitali”. Gli uomini possedevano una forza straordinaria al punto da osare sfidare gli dei. Zeus, quindi, preoccupato da quest’arroganza, decide, anziché ucciderli, di dividerli in due parti per renderli più deboli ed ordina ad Apollo di medicare le ferite. Ma, poiché ciascuna metà non poteva vivere lontana dall’altra, esse si cercavano continuamente, finché, una volta trovatesi, rimanevano abbracciate e si lasciavano morire.
Zeus, dunque, impietosito per le sorti degli uomini, interviene una seconda volta facendo sì che le due metà, unendosi, possano procreare.
Secondo Aristofane, è innato negli uomini il reciproco amore che li riconduce alle origini e che di due esseri cerca di farne uno solo risanando, così, la natura umana.
Ciascuno di noi è come la metà di un unico elemento e va continuamente in cerca dell’altra metà.
Questa divisione, come già detto, portò grandi sofferenze agli uomini, i quali per non venire divisi nuovamente e per ottenere il bene portato da Amore, devono essere pii verso gli dei e soprattutto verso Amore stesso, il quale permetterà ad ognuno di ricongiungersi con la propria anima gemella.
Ora, gli uomini che si sentono attratti dalle donne, sono derivati dalla divisione dell’androgino; mentre le tendenze all’omosessualità sono proprie di quegli esseri umani derivati dai generi maschile e femminile.
Secondo Aristofane la dimostrazione più degna di Amore si manifesta nell’amore omosessuale maschile poiché questi uomini, essendo virili, valorosi e arditi, ricercano il loro simile. In età matura saranno soltanto questi a diventare veri uomini e a partecipare alla vita politica.
A questo punto Socrate interviene dicendo di essere molto preoccupato per il fatto di dover parlare dopo Agatone perché teme di non riuscire ad eguagliare il suo discorso. Il poeta interpreta le parole di Socrate come una provocazione e i due danno vita ad una discussione.
Fedro interviene e li interrompe, invitando i due a pagare ciascuno il proprio debito nei confronti di Amore e ad iniziare, dunque, l’elogio.
Agatone, prima di cominciare il suo discorso, riferisce il modo in cui lo articolerà. Innanzi tutto egli ritiene importante definire l’oggetto del discorso poiché fin a quel momento tutti avevano fatto riferimento ai beni che l’umanità riceve da Amore ma non alla figura del dio in sé.
Amore, dunque, tra tutti gli dei è il più felice perché è il più bello e il più buono, nonché il più giovane (questa affermazione si trova in contrasto con quella fatta inizialmente da Fedro, il quale considerava Amore antico quanto il Caos e la Terra). Egli, inoltre, è un dio delicato poiché ha posto la sua dimora nel cuore e nell’animo degli uomini e degli dei, non in quello di tutti ma solo di coloro che sono più gentili.
Le qualità di Amore sono la giustizia, in quanto non fa e non riceve torti da nessuno e la temperanza, cioè il controllo sulle passioni e sui piaceri, poiché egli, essendo superiore ad ogni altro piacere, li domina tutti.
Amore è anche forte poiché è in grado di conquistare e vincere anche gli dei più potenti, e sapiente poiché chiunque venga sfiorato da lui diventa un poeta anche se non lo è mai stato.
Da quando nacque si iniziarono ad apprezzare le cose belle ed è grazie a lui che gli uomini possono vivere serenamente in armonia con se stessi e con gli altri, godendo dei doni che Amore fornisce loro.
Finito il discorso, tutti i convitati applaudono calorosamente Agatone e Socrate esprime nuovamente il proprio imbarazzo nel tentare di superare un discorso come quello di Agatone.
Utilizzando l’ironia, Socrate afferma di aver creduto, fino a quel momento, che per fare un elogio bisognasse dire la verità e fra tutte le cose vere scegliere le più belle e significative. Ascoltando i suoi interlocutori, invece, si era reso conto che tutti avevano attribuito ad Amore meriti e qualità meravigliosi, sia che questi fossero veri, sia che fossero falsi, solo per fare in modo che la figura del dio risultasse bellissima e perfetta.
Non accettando di riferire un discorso simile a quelli precedenti, Socrate chiede di poter rivelare la verità su Amore, formulando un discorso nel modo a lui più opportuno.
Socrate esordisce rivolgendosi ad Agatone e a lui domanda: se Amore è amore di qualche cosa o amore di nulla; se Amore desidera ciò di cui è amore; se Amore desidera ciò che possiede già o ciò che gli manca.
Da queste domande prende il via il processo della dialettica. Socrate sta facendo in modo che Agatone si renda conto che le sue affermazioni, esposte precedentemente nel suo elogio, sono contraddittorie e quindi false.
Alla fine, Agatone viene portato dalle dichiarazioni di Socrate, ad affermare che Amore, poiché desidera ciò che ancora non possiede, non può essere né bello né buono, perché egli, come sostiene lo stesso Agatone, è portato a ricercare proprio queste due qualità.
A questo punto, Agatone non è più in grado di contraddire Socrate perché la verità è stata esposta e, quest’ultima, è l’unica cosa incontestabile.
Finito di discorrere con Agatone, Socrate narra del discorso che udì da una sapiente sacerdotessa di nome Diotima, la quale lo istruì sulle questioni d’amore.
Prima di parlare con questa donna, anche Socrate sosteneva che Amore fosse un grande dio e che si rivolgesse a tutto ciò che è bello. Diotima spiegò a Socrate ciò che quest’ultimo aveva appena convenuto con Agatone, che cioè Amore non è né bello, né buono. Nonostante Amore non sia caratterizzato dalla bellezza, non deve essere necessariamente considerato brutto; esiste, infatti, una via di mezzo in tutte le cose.
Amore non può neppure essere un dio poiché un dio non può non essere bello e buono ma Amore non è neanche un mortale, è dunque un demone possente che si colloca tra la dimensione divina e quella umana. Tramite i demoni la divinità si mette in contatto con gli uomini sia quando questi sono svegli sia durante il sonno.
Amore fu concepito il giorno della nascita di Afrodite ed è figlio di Poro (dio dell’abbondanza) e Penia (Povertà). Dai suoi genitori egli ereditò le sue caratteristiche: come la madre è sempre povero, pellegrino e legato alla miseria; come il padre è audace, virile, curioso, tremendo cacciatore ed abile imbroglione.
Si trova inoltre a metà tra sapienza e ignoranza; poiché né i sapienti (che già la possiedono), né gli ignoranti (che non ne sentono la mancanza, hanno il desiderio di occuparsi di filosofia (sapienza), quelli che si interessano di filosofia, sono gli uomini che si collocano in una posizione intermedia tra i sapienti e gli ignoranti e tra questi c’è anche Amore. Essendo quest’ultimo amante delle cose belle è impossibile dunque che egli non sia anche filosofo, poiché la sapienza è una delle cose più belle.
Si ricava, inoltre, che gli uomini amano e desiderano il bello e il bene perché per mezzo di questi riescono ad essere felici. Ogni agire umano è quindi improntato all’amore poiché la felicità e il suo conseguimento sono le massime aspirazioni dell’uomo.
Per Diotima Amore non è la ricerca della propria metà o di una parte di noi stessi, ma di ciò che è bene. Da queste affermazioni è possibile dichiarare che Amore è il possesso perenne del bene.
A questo punto del discorso Diotima solleva un altro interrogativo e chiede a Socrate quale sia il fine ultimo dell’amore. Secondo lei questo scopo è “la procreazione nel bello”. Tutti gli uomini hanno in sé un seme fecondo, e ad un certo punto della loro vita avvertono il bisogno di procreare e questo è possibile solo nel bello perché quando ci si avvicina al bello l’uomo diventa sereno e solo con questo stato d’animo è in grado di generare. La gravidanza è un fatto divino perché costituisce quanto di immortale è presente in un essere destinato a morire. L’amore diventa, a questo punto, amore di immortalità, poiché la stessa natura mortale tende a essere immortale. Il desiderio di essere immortali e sopravvivere nella mente dei posteri è talmente pressante negli uomini che questi sono disposti anche a morire solo per poter essere ricordati eternamente.
Imposto come presupposto che la procreazione avviene solo nel bello, è necessario capire, dopo aver colto la bellezza fisica, la bellezza spirituale, la quale ha pregi maggiori di quella fisica. Infine l’uomo si deve avvicinare alla scienza per conoscerne la bellezza e capire, quindi, come questa si estenda su tutti gli avvenimenti del mondo. Solo proseguendo gradualmente, seguendo questi passaggi, l’uomo può innalzarsi fino a raggiungere il Bello in sé, e, a questo punto, egli potrà dar vita ad una virtù vera.
Subito dopo l’intervento di Socrate, mentre tutti si scambiavano opinioni sulle parole pronunciate dal filosofo, ecco che fa irruzione nella sala Alcibiade, ubriaco fradicio, giunto per rendere omaggio ad Agatone.
Accetta, poi, di prendere parte al Simposio, purché si beva, e afferma che il suo elogio non sarà rivolto ad Amore, bensì a Socrate.
Socrate è simile alle statuette dei Sileni, le quali, aprendosi, mostrano all’interno statue di divinità; allo stesso modo, Socrate, seppur non sia di gradevole aspetto, racchiude in sé una saggezza capace di sbalordire ed affascinare.
Alcibiade, sotto l’influenza del vino, racconta ai commensali come un tempo cercò di conquistare Socrate, credendo che questo fosse interessato alla sua bellezza. In realtà il filosofo si dimostrò superiore e si beffò della bellezza del giovane, respingendo ogni suo tentativo di approccio.
Alcibiade si era reso conto di aver incontrato un uomo incorruttibile e straordinario, totalmente diverso da ogni altro essere umano.
Anche i suoi discorsi assomigliano ai sileni che si aprono perché, se all’apparenza essi sembrano ridicoli, una volta schiusi acquistano un loro senso profondo e sono ricchi di virtù e di pensieri sublimi.
Finito di parlare, nella sale irrompe un grande numero di gente festante che fa dimenticare ogni ordine che si era fino a quel momento stabilito.
All’alba Aristodemo si risveglia e scorge Socrate che ancora discorre con Agatone ed Aristofane. Poi, dopo che anche questi ultimi vengono vinti dal sonno, Socrate esce di casa e, giunto al Liceo, si dedica alle solite attività della giornata.
BIBLIOGRAFIA
PLATONE – Raccolta di opere, Collezione I Garzanti – I Grandi Libri
Roberto Luca, PLATONE SIMPOSIO, La Nuova Italia
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  1. Giovanna

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