Sartre

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Testo

JEAN PAUL SARTRE (1905-1980)
La psicologia fenomenologica. Il primo progetto filosofico di Sartre, realizzato alla fine degli anni Trenta, è una vasta indagine di psicologia che, rifacendosi alla psicologia della forma (Gestaltpsycologie) ed alla fenomenologia di Husserl, oltrepassi il positivismo ancora presente nella psicologia francese del tempo. Sartre si rifà al concetto husserliano di intenzionalità della coscienza: la coscienza è caratterizzata da una ineliminabile trascendenza verso il mondo e le cose, è sempre “coscienza-di-qualcosa”, cosicchè essa non può costituire né il fondamento per un ritorno spiritualistico all’interiorità (à la Bergson) né essere sostanzializzata in un principio metafisico separato dal corpo (à la Cartesio). Su questa base, Sartre studia l’emozione e l’immaginazione, analizzandole come modi particolari della coscienza di rapportarsi al mondo e di conferirgli un significato. In particolare, la funzione immaginativa è al centro della psicologia fenomenologica sartriana perché permette di evidenziare la proprietà della coscienza di distanziarsi dalle cose e dai fatti, annullando la totalità dell’esistente e oltrepassandola in vista della possibilità e dei significati che la coscienza liberamente pone (per es. nella creazione e nella fruizione artistica, allorchè la coscienza assume l’atteggiamento “irrealizzante” che le consente di oltrepassare il dato presente reale - la tela, i colori e i segni dipinti - in vista di quel “nulla” che è il suo significato estetico - il personaggio rappresentato).
L’esistenzialismo negativo de “L’essere e il nulla”. Dalle ricerche fenomenologiche emerge così la libertà come dimensione caratteristica della coscienza rispetto alla realtà presente. Il trattato di ontologia L’essere e il nulla (1943) annuncia fin dal titolo il dualismo ontologico tra l’”essere-in-sé” (la realtà fattuale massiccia e opaca, priva di valore e significato, di cui si può dire solo che “è ciò che è”) e il “nulla” della coscienza, o “essere-per-sé” (caratterizzata dalla possibilità e dalla libertà assoluta). Su questo impianto, Sartre sviluppa un’analitica con risvolti marcatamenti etici: la libertà assoluta genera l’angoscia di fronte ai possibili e il sentimento di una responsabilità altrettanto assoluta da cui la coscienza cerca di fuggire assumendo il modo di essere delle cose, ossia assumendo comportamenti e valori codificati come se essi fossero dati naturali e necessari e non scelte libere di cui la coscienza ha la responsabilità. E’ questa la malafede in cui si rifugiano i salauds, i borghesi “sudicioni”, che Sartre prende di mira soprattutto nelle opere letterarie di questo periodo. Ne La nausea (1938), il protagonista - l’intellettuale di provincia A.Roquentin che lavora ad una insignificante opera di storiografia su di un personaggio minore del Settecento - scopre la mancanza di senso di tutto ciò che esiste, la sua assoluta gratuità e contingenza, il suo essere drammaticamente “di troppo”. Ma alla denuncia della malafede e all’esortazione ad assumere coraggiosamente la libertà assoluta che ci caratterizza (“io sono condannato ad essere libero”) non fa riscontro, ne L’essere e il nulla, l’indicazione di un possibile modo d’essere positivo o autentico del soggetto. Il rapporto con gli altri si configura negativamente come reciproca sopraffazione e riduzione a oggetto (a “in-sé”) fin dall’esperienza primaria dello “sguardo”, per cui “l’essenza del rapporto tra le coscienze è il conflitto” (“l’inferno sono gli altri”, secondo la celebre battuta del dramma A porte chiuse, del 1945). Il senso ultimo delle diverse scelte operate dagli individui e analizzate dalla “psicoanalisi esistenziale” (cui è dedicato un capitolo dell’opera del 1943) è il progetto fondamentale di raggiungere un’impossibile sintesi di in-sé e per-sé, assoluta libertà e assoluta necessità, che corrisponde all’idea di Dio,. Ma si tratta di un progetto contraddittorio, dal momento che la necessità dell’in-sé esclude la libertà del per-sé e viceversa. L’uomo è un Dio mancato, una “passione inutile”, e le diverse scelte individuali si equivalgono in un’identica mancanza di senso: “E’ la stessa cosa ubriacarsi in solitudine o guidare i popoli”.
Esistenzialismo e umanismo. Nel dopoguerra Sartre, che aveva partecipato marginalmente alla resistenza, attenua la disperata negatività di queste conclusioni e cerca di sottolineare gli aspetti positivi del suo “esistenzialismo ateo”, riqualificandolo come dottrina umanistica dell’impegno e dell’assunzione di responsabilità storiche, denuncia di tutte le alienazioni e oppressioni. Nel celebre L’esistenzialismo è un umanismo del 1946, l’esistenzialismo è definito come dottrina nella quale “l’esistenza precede l’essenza” - il che comporta sempre la definizione della realtà umana come libertà assoluta e l’attribuzione al soggetto della responsabilità per il suo progetto fondamentale e le sue scelte. Ora, però, la responsabilità non è più soltanto quella del singolo di fronte a se stesso e non induce l’uomo all’inerzia, ma si definisce anche in relazione agli altri e quindi assume una valenza etico-politica portando il soggetto all’impegno e all’azione in difesa della libertà (“volendo la libertà scopriamo che essa dipende dalla libertà degli altri, che la libertà degli altri dipende dalla nostra”).
L’impegno del dopoguerra. In una prima fase (tra il 1945 e i primi anni Cinquanta), questa svolta umanistica si traduce nella fondazione - insieme alla sua compagna Simone de Beauvoir, al filosofo Merleau-Ponty e ad altri intellettuali francesi - della rivista progressista “Les Temps Modernes”; nella teorizzazione dell’intellettuale impegnato (engagé), svolta nel saggio Che cos’è la letteratura (1947); nel tentativo di dar vita ad un raggruppamento politico di “terza forza” tra liberalismo occidentale e comunismo sovietico (il Rassemblemente démocratique révolutionnaire, del 1948-49). In una seconda fase, nel clima di sempre più radicale contrapposizione di schieramenti determinata dalla guerra fredda, Sartre sceglie invece di sostenere il Partito comunista francese (PCF) e l’URSS, rimanendo un “compagno di strada” con posizioni indipendenti e talvolta critiche. Ciononostante, le sue opere di questo periodo (il dramma Il diavolo e il buon Dio del 1951) e le radicali posizioni politiche assunte in occasione della guerra di Corea del 1950-53 (I comunisti e la pace del 1952-54) lo porteranno a rotture dolorose con intellettuali antifascisti un tempo vicini (Raymond Aron), amici esistenzialisti (A.Camus) e filosofi e collaboratori della rivista (M.Merleau-Ponty, che lo accuserà di “ultrabolscevismo” nel 1955).
Esistenzialismo e marxismo. Verso la fine degli anni Cinquanta, Sartre prende le distanze dall’URSS e dal PCF a livello politico e dal marxismo sovietico a livello teorico. Il marxismo è riconosciuto come “orizzonte insuperabile del nostro tempo”, ma richiede una riforma che respinga il “materialismo dialettico” di origine engelsiana e poi staliniana e, grazie all’apporto dell’esistenzialismo e delle nuove scienze umane (dalla psicoanalisi alla microsociologia ecc.), riscopra la libertà inesauribile dell’ individuo concreto. Nelle Questioni di metodo del 1957, il marxismo così arricchito viene proposto come un potente strumento “euristico”, capace di interpretare la realtà storica e sociale dell’uomo. Per comprendere l’individuo, infatti, è senz’altro necessario riportarlo al suo contesto economico-sociale ed alla sua origine di classe (come insegna il materialismo storico) ma non bisogna mai smarrire la specifica libertà del soggetto che a partire dalle condizioni di partenza progetta comunque la propria esistenza (“Valery è senz’altro un piccolo borghese, ma non ogni piccolo borghese è Valery”). A partire da queste riflessioni metodologiche, Sartre si dedica ad un intenso lavoro teoretico, culminato nella Critica della ragione dialettica (1960), nel quale ripensa il proprio esistenzialismo alla luce del marxismo e viceversa. Lo schema di fondo della propria ontologia della libertà viene mantenuto, ma la libertà non è più assoluta bensì condizionata e oggetto centrale di analisi diventano gli insiemi “pratico-inerti”, ossia tutte le realtà sociali (dal prodotto del lavoro alle istituzioni) che si presentano come oggettivazione alienata della praxis. La libertà si perde allorchè si aliena nell’esteriorità delle pratiche, nella “serialità” di comportamenti codificati, mentre risorge allorchè si strappa alla passività e all’inerzia in un’azione comune. In queste pagine, esemplificate da suggestive ricostruzioni storiche relative alla rivoluzione francese, è chiaro il riferimento critico all’esperienza sovietica, in cui la rivoluzione, da iniziale momento di esperienza comunitaria e libertaria, è rifluita in istituzioni burocratiche sclerotiche e alienanti. Fedele a queste posizioni, Sartre condanna l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956 e della Cecoslovacchia nel 1968, ma anche la politica coloniale francese in Algeria nei primi anni Sessanta e l’intervento americano in Vietnam fra il 1966 e il 1967 e si viene avvicinando alle posizioni dell’estrema sinistra extraparlamentare in occasione del “maggio” ’68.

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