La modernità di Spinoza

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La modernità di Spinoza
traccia n. 1 pag. 199
Tra le menti filosofiche che più hanno influenzato la costruzione dello stato liberale in Occidente, un posto di tutto riguardo non può che essere riconosciuto a Spinoza: in quest’ottica va infatti letta l’affermazione contenuta del testo scritto da Remo Cantoni a proposito della “modernità” di Spinoza.
Se da un lato il pensiero spinoziano è definibile altamente “umanista”, in riferimento alla concezione centrale dell’uomo nella società , e soprattutto a proposito dei rapporti tra Stato e individui, non è condivisibile, a mio personale modo di vedere, l’analisi sulla “religiosità” spinoziana.
Da buon illuminista Spinoza non nega certamente l’esistenza di una sfera religiosa, o di un Dio: ma tenta di ricercare Dio con gli strumenti della ragione. Ecco che il panteismo spinoziano, il concetto secondo cui dio è ontologicamente presente in tutto ciò che è il mondo, è paradossalmente la negazione più assoluta di Dio.
Spinoza cerca di proporci un Dio soltanto nascosto, ma raggiungibile: l’uomo può tutto con la ragione, dunque può trovare Dio nella natura. Anche nel Cristianesimo ci sono esempi evidenti di quello che potrebbe essere definito un “panteismo cristiano”, mi riferisco all’esperienza umana di San Francesco d’Assisi nel suo rapporto con la natura, ma con una differenza di fondo: Dio può essere riflesso nella natura, e nella bellezza dell’infinito, proprio perché creatore.
In linea con il suo tempo, e in gran parte anche con il nostro, sta proprio qui la “modernità” di questo filosofo, Spinoza, così come Newton e Galilei, forse abbagliati dai prodigiosi sviluppi scientifici ritengono che anche l’orizzonte più lontano dell’esistenza umana sia potenzialmente calcolabile e analizzabile, e dunque risolvibile, in termini razionali.
Data questa premessa non può che essere liquidato come “superstizione” tutto ciò che va oltre il calcolo, tutto ciò che è impossibile all’analisi razionale: paradossalmente Spinoza, in questo, è più dogmatico dei dogmi e delle superstizioni che afferma di voler combattere.
E come lui anche gran parte dell’illuminismo, e del nostro tempo che dell’illuminismo è figlio, nega pregiudizialmente una razionalità di carattere metafisico: è indubbio che la modernità di Spinoza sia inequivocabile sul punto religioso.
Dio non viene negato, ma forse addirittura si cerca di incatenarlo nei limiti della ragione umana: non riconoscendo nulla oltre l’uomo e la sua razionalità, si crea così una crepa enorme tra religione (liquidata per forza di cose come “superstizione”) e ragione, che viene però ad essere quasi idolatrata come nuova divinità.
A fianco al pensiero spinoziano, così radicale e ideologico, è utile affiancare un pensiero diverso, anch’esso figlio di questo nostro tempo: Benedetto XVI nei suoi numerosi libri ha sempre attaccato duramente, a partire da Galilei in poi, il razionalismo illuminista non da posizioni di carattere “irrazionalistico” o fideistico, bensì con gli stessi mezzi fornitici dalla ragione.
Proprio il pensiero di Ratzinger rappresenta, secondo me, il giusto equilibro tra fede e ragione: la fede soccorre la ragione umana che è per forza di cose limitata (proprio perché umana) e la ragione si sviluppa appieno (perché dono di Dio all’uomo) fintanto che non tenti di sostituirsi a Dio.
Inoltre nello spiegarsi del pensiero spinoziano c’è un forte richiamo all’autonomia della filosofia da tutto ciò che potrebbe rappresentare per essa una sorta di corruzione: la purezza della filosofia non può essere messa al servizio di null’altro se non dell’amore del sapere.
Anche questo pensiero del filosofo può ben essere utilizzato per interessanti paragoni ed analogie con quanto accade ancora ai giorni nostri.
E’ questa, a mio avviso, una posizione che rende la filosofia una disciplina di nicchia, estranea al mondo e ai suoi fenomeni. A che servirebbe conoscere il mondo se poi, in base alle teorie di Spinosa, il filosofo non dovrebbe occuparsi in concreto (politica) dell’umanità?
Personalmente mi ritengo più vicino in proposito alla posizione adottata da Platone, anche se magari si tratta di un’idea più utopica. Secondo lui difatti dovevano essere proprio i filosofi i sovrani degli stati, in quanto “illuminati”.
Certamente anche Platone aveva, a suo tempo, sottolineato il pericolo presente nella politica: pericolo di corruzione anche degli ideali più nobili.
Predicare il dogma della separazione tra vita filosofica e vita politica mi sembra un’arrendersi davanti a una sfida, mi sembra quasi un rinchiudersi in un mondo a parte.
Penso che anche i filosofi che come al giorno d’oggi spendono le loro stesse persone nel tentare di fare camminare le loro filosofie nella società siano degni di rispetto e di stima. Al di là delle loro personali convinzioni, ritengo che forse proprio oggi spesso e volentieri siano gli stessi filosofi prestati alla politica ad essere più credibili alle volte degli stessi politici per mestiere. Vi sono nel nostro mondo politico numerosi esempi di filosofi prestati alla politica: da Pera a Vattimo, da Buttiglione a Fisichella, da Bianchi a Cacciari.
Uno scrittore americano del secolo scorso, Ezra Pound, sosteneva che “le idee sono vere solo quando possono diventare azioni”: pur essendo consapevole di essere lontano dalle idee e dal pensiero di Spinoza, credo che vi sia un fondo di verità in queste parole.

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