kant

Materie:Riassunto
Categoria:Filosofia

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Testo

Da Kant all’idealismo

Con Kant, la filosofia moderna approda ad una radicale riformulazione del concetto di “verità”, per il quale la verità stessa si costituisce non già in una dimensione oggettiva, ma proprio all’interno del soggetto pensante. Solo a questa condizione, per il criticismo kantiano, è veramente possibile una conoscenza assoluta, incontrovertibile, ossia è possibile quell’epistéme progettata dai greci e mai effettivamente fondata nello sviluppo della filosofia occidentale.
Per tale fondazione è infatti necessario ridurre l’ambito dell’incontrovertibile a quella dimensione (l’Apparire), la cui indubitabilità Cartesio considerava invece solo come un primo passo verso la conoscenza di verità metafisiche. La “rivoluzione copernicana” di Kant consiste nella rinuncia ad una conoscenza dell’Oggetto (Objekt) inteso come indipendente dal soggetto, ed a cui quindi il soggetto si dovrebbe adeguare “a-posteriori”, per una conoscenza fondata sulla stessa costituzione dell’oggetto dell’esperienza (Gegenstand) ad opera del soggetto (secondo quel rapporto tra verum e factum già in qualche modo formulato da Vico).
Secondo Kant, questa rinuncia al sapere metafisico è dunque la condizione che permette di stabilire il dominio del soggetto conoscente su una ben definita regione dell’essere (il fenomeno, cioè il mondo dell’esperienza). Si tratta bensì di un’isola, e tuttavia su tale isola lo spirito umano non solo è in possesso di una verità assoluta, ma si costituisce esso stesso come struttura razionale della verità (“legislatore supremo del mondo fenomenico”).

Sia l’unità della coscienza: l’Io penso (che è la forma generale in cui ci sono dati gli oggetti), sia quell’unificazione suprema progettata dal pensiero razionale, che è l’Idea di un Tutto incondizionato, sono per Kant forme soggettive. Ma mentre la prima ha un contenuto ben preciso (la totalità degli oggetti fenomenici che adesso appaiono), la seconda non ha né può avere alcun contenuto determinato (giacché il Tutto in essa progettato non può mai essere espresso da una serie fenomenica); dunque essa non può produrre alcuna conoscenza, ma è destinata a costituire la semplice apertura di un problema. La sola “totalità” che ci è dato conoscere (e che costituisce anzi l’ambito trascendentale della conoscenza umana) è dunque la prima, quella relativa all’unità del mondo fenomenico, la quale, per definizione, non può essere assolutamente considerata come una proprietà delle “cose in sé”.
Tuttavia, se nella visione di Kant ogni tentativo della conoscenza umana di spingersi al di là della sfera del fenomeno è un passo illecito, costituzionalmente destinato all’insuccesso, il concepire un Assoluto, un Incondizionato che oltrepassi la serie fenomenica dei condizionati, è non soltanto un atto lecito, ma addirittura un’esigenza imprescindibile, un aspetto strutturale necessario della realtà in cui consiste la soggettività umana.
All’orizzonte del fenomeno, cioè, non appare (e non può in alcun modo apparire) un contenuto “in sé”, ma appare da un lato la necessità che il pensiero riferisca ogni suo contenuto a quel “pensabile” che è appunto la “realtà in sé”, dall’altro la necessità del costituirsi, a partire dai contenuti dell’esperienza, dell’Idea dell’Incondizionato (che resta certo espressione di un’esigenza solo soggettiva, ma non per questo eludibile).
L’errore non consiste quindi nel pensare l’Incondizionato, e neanche nel considerare il fenomeno come aspetto visibile della “cosa in sé”, ma nella pretesa di poter assumere quest’ultima come oggetto di conoscenza, attribuendole magari proprio i tratti di quell’Idea necessaria della ragione, in cui l’Incondizionato consiste. L’uso “regolativo” della ragione stessa è dato dalla consapevolezza della necessità di pensare l’Incondizionato, ed insieme dell’impossibilità di farne un contenuto della nostra conoscenza.
Kant ha visto chiaramente, comunque, che la concretezza di ogni oggettività fenomenica si realizza solo all’interno della soggettività trascendentale, e che quindi sarebbe assurdo concepire un mondo di oggetti fisici indipendenti dal pensiero: da questo punto di vista l’idealismo non è altro che l’estensione di questa scoperta kantiana ad ogni possibile, progettabile oggettività (cioè ad ogni possibile significato).
Il residuo realistico che impedisce a Kant di cogliere nella struttura dell’Apparire la stessa verità dell’essere, senza limitazioni (e dunque di cogliere nello spirito il “legislatore supremo” dell’essere, e non solo di quell’isola della verità in cui consiste il mondo fenomenico), sta proprio nella convinzione che il fenomeno, l’apparire, sia soltanto una parte (la parte visibile) dell’essere stesso. E’ l’individuazione del carattere gratuito, cioè infondato, di quest’ultima convinzione ad aprire la strada al pensiero idealistico.
Come osserverà infatti Hegel, per sapere che un’isola è un’isola occorre in qualche modo spingere lo sguardo oltre i suoi confini, e dunque conoscere in qualche modo il mare che la circonda. Per cui il progetto di Kant di tracciare i limiti della nostra conoscenza (progetto che Hegel definisce una “metafisica del finito”, intendendo così metterne in luce la contraddittorietà) appare, sempre a Hegel, simile al tentativo di quel tale che “voleva imparare a nuotare prima di entrare in acqua”.
Ossia, per Hegel, “in acqua” si è già da sempre, che ci se ne renda o non ci se ne renda conto: la verità con cui l’uomo ha a che fare è la verità dell’Infinito, dell’Assoluto (e non semplicemente di una parte, di un aspetto dell’essere). Proprio quando formula anche soltanto il progetto di una “cosa in sé”, il pensiero ha già originariamente recuperato al proprio interno il contenuto di tale progetto: il tentativo di “saltare oltre la propria ombra” andrebbe dunque riferito proprio alla pretesa del pensiero di porre, anche solo come possibilità, una dimensione oggettiva, esterna a se stesso.

Se dunque per Kant è contraddittorio voler conoscere la “cosa in sé” (giacché se la si conosce non può più essere “in sé”), per l’idealismo è già contraddittorio volerla pensare (nell’atto in cui è pensata non è più “in sé”). Kant obbietterebbe che l’impossibilità di pensare senza contraddizione una cosa è altro dall’impossibilità del suo esistere, ma l’idealismo risponderebbe che anche quest’ultima distinzione è formulata in un pensiero. L’impossibilità di pensare la “cosa in sé” senza contraddirsi esclude proprio la possibilità di prospettarne un’esistenza indipendente dal pensiero: questo stesso prospettare è infatti (anche se non si vorrebbe riconoscerlo) un preciso atto di pensiero.
In base ad un ragionamento analogo si ricostituisce, nell’ottica idealistica, la validità dell’argomento ontologico (respinta da Kant, riaffermata da Hegel): infatti la necessità di pensare il Perfetto come esistente (che Kant distingue dalla necessità del suo effettivo, oggettivo esistere), rappresenta per l’idealismo la stessa impossibilità di progettare, a qualsiasi titolo, la non-esistenza del Perfetto. L’errore di Kant è di non essersi reso conto che, negando la validità oggettiva di quell’argomento, egli sta appunto formulando un pensiero autocontraddittorio (sta cioè trasgredendo proprio quella “necessità di pensare...” da lui stesso appena riconosciuta).
L’Idea kantiana dell’Incondizionato (cui l’apparire del mondo necessariamente rimanda) non va più accolta dunque come una semplice esigenza soggettiva, ma, proprio nel suo carattere di necessità-per-il-pensiero, essa si rivela immediatamente come necessità assoluta, necessità incontrovertibile dell’essere.

In conclusione: l’idealismo si rende conto che il pensiero è una dimensione essenzialmente intrascendibile, e che quindi non solo gli oggetti del mondo fisico e la verità delle sue strutture, ma qualsiasi positività significante, ed anzitutto la stessa struttura assoluta della verità, è data sempre in un apparire. Ogni necessità logica, ed in particolare l’incontraddittorietà dell’ente, si realizza sempre all’interno di un atto di pensiero (vedi la fondazione della Dottrina della Scienza da parte di Fichte): separata dal pensiero la necessità logica è un astratto, ossia un contenuto del pensiero (cioè dell’Apparire) del quale non è riconosciuta consapevolmente l’appartenenza al pensiero stesso (ma che esiste solo perché è data anzitutto l’autocoscienza dello spirito, cioè quell’Apparire in cui appare ogni significato possibile).

Della relazione tra oggettività “in sé” e pensiero come relazione tra astratto e concreto era stato consapevole, prima ed in modo più radicale di Kant, il filosofo irlandese G. Berkeley, che si può considerare legittimamente come il primo grande pensatore idealista.
Solo che Berkeley, dal punto di vista dell’idealismo maturo (che è sostanzialmente quello di Hegel, dato che in Fichte e Schelling c’è una residua tendenza al ricostituirsi dell’Oggetto assoluto), ricade in qualche modo nel realismo là dove individua l’ambito intrascendibile (cioè la dimensione spirituale che contiene ogni oggettività) in un pensiero separato da quello umano, cioè appunto nel pensiero divino, di cui il primo sarebbe una sorta di derivazione o di riflesso secondario.
Il Dio di Berkeley si presenta cioè ancora con quei caratteri della “cosa in sé” che esclude l’uomo dal diretto accesso alla verità dell’essere. Sulle tracce di Spinoza, Hegel formula invece la tesi dell’immanenza del divino nell’umano, individuando nel pensiero dell’uomo storico non già un “riflesso”, ma un momento, un aspetto organico del pensiero universale, che si realizza proprio e soltanto tramite i suoi momenti particolari: unità di finito e Infinito.

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