Il problema etico dalle sue origini fino a Leibniz

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Categoria:Filosofia

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Testo

PROBLEMA ETICO
L'etica è quella branca della filosofia che studia i fondamenti oggettivi e razionali che permettono di distinguere i comportamenti umani in buoni, giusti, o moralmente leciti, rispetto ai comportamenti ritenuti cattivi o moralmente inappropriati.
L'etica può anche essere definita come la ricerca di uno o più criteri che consentano all'individuo di gestire adeguatamente la propria libertà nel rispetto degli altri. Essa pretende inoltre una base razionale, quindi non emotiva, dell'atteggiamento assunto, non riducibile a slanci solidaristici o amorevoli di tipo irrazionale. In questo senso essa pone una cornice di riferimento dei canoni e dei confini entro cui la libertà umana si può estendere ed esprimere. In questa accezione ristretta viene spesso considerata sinonimo di filosofia morale: in quest'ottica essa ha come oggetto i valori morali che determinano il comportamento dell'uomo. Ma l'etica si occupa anche della determinazione di quello che può essere definito come il senso dell'esistere umano, il significato profondo etico-esistenziale della vita del singolo e del cosmo che lo include.
Anche per questo motivo è consuetudine differenziare i termini 'etica' e 'morale'. Un altro motivo è che, sebbene essi spesso siano usati come sinonimi, si preferisce l'uso del termine 'morale' per indicare l'assieme di valori, norme e costumi di un individuo o di un determinato gruppo umano. Si preferisce riservare la parola 'etica' per riferirsi all'intento filosofico di fondare la morale intesa come disciplina.
Nell’impostazione generale del suo pensiero Eraclito fu il primo tra i filosofi della “physis”ad affrontare la questione etica, interpretando l’anima come fuoco e a giudicare l’anima saggia come quella più secca e a far coincidere la dissennatezza con l’umidità. Egli con l’idea della dimensione infinita dell’anima apre uno spiraglio verso qualcosa di non fisico e sembra anche aver accolto alcune idee degli Orfici sulla natura umana, come quella che la vita del corpo è mortificazione dell’anima e che la morte del corpo è vita dell’anima, credette inoltre in castighi e premi dopo la morte.
Successivamente i Pitagorici spostano la problematica del principio su un piano più elevato, individuandolo non in un elemento fisico ma nel numero. La scienza pitagorica era coltivata come mezzo per raggiungere un ulteriore fine che consisteva nella pratica di un tipo di vita atto a purificare e a liberare l’anima dal corpo. Pitagora è stato il primo filosofo a sostenere la dottrina orfica dalla metempsicosi, secondo cui l’anima, a motivo di una colpa originaria, è costretta a reincarnarsi in successive esistenze corporee per espiare quella colpa. Sostiene che il fine della vita è di liberare l’anima dal corpo attraverso la purificazione; e poiché il fine ultimo era quello di ritornare a vivere tra gli dei, introdusse il concetto del retto agire umano come un farsi “seguace d Dio”, come un vivere in comunione con la divinità. I Pitagorici furono gli iniziatori di quel tipo di vita chiamata contemplativa, cioè una vita spesa nella ricerca della verità e del bene tramite la conoscenza, che è la più alta comunione col divino.
Anche Empedocle, il primo dei Pluralisti, subì l’influenza orfica, di cui egli era profeta e messaggero. Esprimeva, infatti, il concetto che l’anima dell’uomo è un demone che è stato bandito dall’Olimpo a causa di una sua colpa originaria, e gettato in balia del ciclo delle nascite sotto tutte le forme di viventi per espiare la colpa. La trasmigrazione dell’anima in più corpi sottintende una concezione negativa del corpo e un ideale etico che tende a purificare l’anima e a staccarla il più possibile dal corpo.
In Democrito, fondatore della dottrina atomica, non c’è alcun rapporto tra il suo materialismo e la sua etica. Sosteneva che l’anima è la dimora della nostra sorte e che nell’anima appunto e non nei beni e nelle cose esteriori sta la radice della felicità. Fa una profonda distinzione tra felicità e piacere, e sottolinea che la felicità non consiste nello stesso piacere, ma nella serenità spirituale che si perde se si inseguono i desideri materiali, diversi per ogni uomo poiché diversa è la loro sensibilità. Inoltre l’eccedere e il trasgredire provocano turbamenti e squilibri nell’anima. Dunque l’etica democritea si fonda sull’equilibrio dei moti dell’animo e del corpo: la felicità nasce dalla repressione dei moti sfrenati e delle passioni di cui l’uomo saggio si pone al di sopra, amando il bene per sé e rispettando gli altri. Inoltre in lui era già matura una visione cosmopolitica.
I Sofisti avanzano una nuova concezione del mondo greco concentrando la riflessione filosofica non più sulla physis ma sull'uomo. La base della ricerca della verità diviene quella del tutto umana della città, dello scontro politico e dei rapporti intersoggettivi dove assume i contorni del vero ciò che ognuno ritiene tale. Non si cerca più la verità assoluta e definitiva valida per tutti ma relativa, connessa alle esperienze di vita di ciascuno. É questo il relativismo gnoseologico che escludendo ogni verità certa nella conoscenza la esclude anche nella morale dove il bene e il male vengono rapportati al giudizio individuale. Sostiene Protagora che "L'uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono"volendo affermare non che ognuno possa arbitrariamente decidere ciò che è vero e ciò che è falso ma che la distinzione tra il vero e il falso, tra il bene e il male, dipenda dal rapporto che ognuno ha con il mondo sia quello della natura sia quello della società in cui vive. La verità è sempre soggettiva e mai oggettiva, e l'unico mezzo per far prevalere la propria visione delle cose su quella di un altro è l'esercizio della retorica, ovvero della logica formale per far prevalere il proprio punto di vista su quello di un altro, ma senza credervi veramente. Dunque per Protagora tutto è relativo, non esiste un bene assoluto e nemmeno valori morali assoluti; esiste qualcosa che è più utile, più conveniente, più opportuno che solo il sapiente conosca e sa convincere anche gli altri a riconoscerlo e ad attuarlo.
Come i Sofisti, anche Socrate incentra sull’uomo il problema filosofico giungendo a fondo della questione. La sapienza umana di cui Socrate si dice maestro consiste nella ricerca di un fondamento della vita morale che consiste nella natura stessa o essenza dell’uomo, affermando che l’uomo è la sua anima. E per anima egli intendeva la conoscenza, la personalità intellettuale e morale. Se l’uomo è l’anima, la virtù dell’uomo si attua con la “cura dell’anima”, e nel far sì che essa si realizzi nel miglior modo possibile. E siccome l’anima è attività conoscitiva, la virtù sarà essenzialmente un potenziamento di quest’attività, ossia sarà scienza. Socrate pensa che la conoscenza delle verità faccia automaticamente agire in conformità ad essa. Un uomo che conosce il vero bene, non può che agire benevolmente. Questa teoria è detta dell'intellettualismo etico, poiché presuppone una conoscenza intellettuale della verità del principio etico. Socrate non può quindi pensare che l'uomo scelga il male pur conoscendo la verità del bene, atteggiamento noto come volontarismo etico, nel caso un uomo agisca in questo modo è senz'altro perché non ha vera conoscenza del bene, poiché è allontanato dalla verità dagli istinti e dalle passioni. Quest'idea presuppone che la verità, e quindi la stessa virtù, siano raggiungibili per via razionale prima che per via sentimentale o per un semplice adeguarsi ai principi di una tradizione. Socrate pensa inoltre che la verità sia un bene così superiore rispetto ad ogni altra cosa che non può che vincolare l'uomo alla sua legge, ecco perché pensa che chi sceglie il male, lo faccia perché del tutto inconsapevole del vero bene. L'idea di Socrate è che qualora l'uomo venisse a conoscenza del vero significato del bene non commetterebbe più alcun male: se l'uomo fosse realmente a conoscenza del vero significato del bene, avrebbe davanti a sé più chiaramente quali sarebbero le conseguenze delle azioni che sta per compiere, perché se l'uomo tende naturalmente al maggior piacere possibile, un'azione veramente giusta costituirebbe un piacere ben più stabile e duraturo rispetto a un piacere fuggevole e incerto o alla conseguenza del tutto nefasta che ne deriverebbe da un'azione ingiusta. Aggiunge inoltre che la più significativa manifestazione dell’eccellenza della ragione è la libertà interiore, intesa come auto dominio; l’anima raggiunge la sua libertà quando si affranca da tutto ciò che è irrazionale, ossia dalle passioni e dagli istinti. Anche la felicità assume una valenza spirituale, e si realizza quando nell’anima prevale l’ordine, raggiunto tramite la virtù.
Platone ha ben presente la figura di Socrate, che aveva fatto della ricerca la componente di base della filosofia vera e propria. Per rendere possibile la ricerca socratica, Platone elabora la famosa dottrina della reminiscenza, secondo la quale l’apprendere è un ricordare, l’anàmnesis. Tale dottrina si rifà alla credenza religiosa propria dell'orfismo e del pitagorismo secondo il quale quando il corpo muore, l'anima si reincarna in un altro corpo, poiché è immortale. Platone sfrutta tale mito fondendolo con l'assunto fondamentale che esistano delle Idee che hanno caratteristiche opposte agli enti fenomenici: sono incorruttibili, ingenerate, eterne, non soggette a mutamento. Queste Idee albergano nell'iperuranio, mondo soprasensibile e che è parzialmente visibile alle anime slegate dai loro corpi. Per essere più chiari le anime sono come cocchi alati che procedono in schiere dietro ai carri degli dèi: in questa loro processione riescono, più distintamente di altre, a scorgere le Idee che appaiono attraverso uno squarcio tra le nuvole, diaframma obbligato tra il mondo sensibile e quello soprasensibile. Quando queste anime precipitano nei corpi, reincarnandosi, dimenticano la loro visione delle idee e, usando i sensi, identificano la realtà col mondo sensibile. L’opera del filosofo dialettico (la cui anima ha visto e conosciuto le idee meglio delle altre) è quella di riportare all’anima la memoria del mondo delle idee, attraverso il dare e ricevere discorso, dialogando con l’anima e persuadendola della verità. Questa idea dell’apprendere come ricordare riconduce immediatamente alla cura dell’anima professata da Socrate: la conoscenza è, di fatto, un conoscere meglio se stessi, riportando alla luce dell’intelletto ciò che l’anima ha dimenticato nel momento della reincarnazione. Di fatto, come Platone stesso suggerisce in numerosi passi, è impossibile recuperare completamente la conoscenza del mondo delle Idee anche per il filosofo. La conoscenza perfetta di queste è propria solo degli dèi, che le osservano sempre. La conoscenza umana, nella sua forma migliore, è sempre filosofia, amore del sapere ed inesausta ricerca della verità. Ciò suggerisce una frattura "sofistica" all’interno del pensiero platonico: per quanto l’uomo si sforzi il raggiungimento della verità è impossibile, perché confinata nel mondo iperuranio e dunque assolutamente inconoscibile. La parola, che è lo strumento utilizzato dal filosofo dialettico per persuadere le anime della verità e dell’esistenza delle idee, non rispecchia che parzialmente la realtà ultrasensibile, che è irriproducibile e non è presentabile. La conoscenza intuitiva, dunque, è inapplicabile al mondo delle idee, e ci si può basare, per conoscere queste in modo meno confutabile possibile, sull’uso dei lògoi, ossia dei discorsi che si fanno attorno a queste. L’opera di ricerca filosofica è un persuadere le anime; Platone fa esplicito riferimento alla metafora della seconda navigazione. Con questo termine i greci indicavano la navigazione a remi, più faticosa di quella a vela (prima navigazione) e utilizzata in caso di necessità. La seconda navigazione è proprio l’uso dei lògoi, che pongono una sostanziale differenza e frattura tra pensiero-parola e realtà. Platone, ben lungi dall’essere il filosofo della scienza forte e dottrinaria che per molti anni gli è stata erroneamente attribuita, ha scoperto, di fatto, l’impossibilità di raggiungere una verità piena ed incontrovertibile.
Nel suddividere le scienze in teoretiche, pratiche e poietiche Aristotele colloca l’etica tra quelle pratiche insieme alla politica, in quanto entrambe riguardano l’agire dell’uomo in ambito privato e politico. Aristotele comincia affermando che gli uomini agiscono in vista di fini e scopi, osservato questo, enuncia la sua prima tesi secondo cui il fine dell'agire umano è il bene.
Ma non vi sono soltanto fini relativi ma anche un sommo fine, un sommo bene del nostro agire che è la felicità. Noi perseguiamo la salute in vista di quello stato di salute che ci permetterà di essere felici. Tutti i fini sono relativi in quanto mirano ad altro. Per la maggior parte degli uomini, la felicità sta nel piacere fisico, godimento fisico. Aristotele è molto critico e dice, questa idea di piacere è una vita da bestie, da schiavi. Altri uomini sostengono che la felicità sta negli onori, le cariche pubbliche, quindi il potere, il prestigio, cioè il successo ma è una felicità del tutto esteriore, che dipende da altro e da altri. Altri uomini ancora dicono che la felicità sta nella ricchezza, nell’avere, possedere. Questo tipo di felicità è contro natura, non nel senso che asceticamente non da valore alla ricchezza, ma nel senso che la ricchezza dev’essere un mezzo e mai un fine. La felicità non sta in un oggetto, in un qualcosa, nell’ottenere qualcosa. La felicità non è nemmeno una condizione o uno status acquisito da possedere, ma è un’attività, un fare, si è felici quando si fa. È l’attività dell’anima, riguarda l’anima dell’uomo che agisce secondo la più perfetta virtù. Aristotele parlando di virtù opera una distinzione tra virtù etiche e dianoetiche.
Etiche: Sono le virtù proprie del comportamento pratico. Sono quelle virtù che realizzano il dominio da parte dell’anima razionale sulle parti irrazionali dell’anima, ovvero sull’anima vegetativa e sull’anima sensitiva. Queste virtù si acquisiscono attraverso l’esercizio costante, pratico fino a che divengono degli abiti comportamentali, dei modi d’essere che finiscono per appartenere ad un uomo. La caratteristica fondamentale di queste virtù è il loro rappresentare sempre il giusto mezzo tra due estremi. Dianoetiche: Sono le virtù della mente, che riguardano l’anima razionale, le virtù della vita della mente. Queste virtù sono 5 e sono:
1. ARTE
2. SCIENZA
3. INTELLIGENZA
4. SAGGEZZA
5. SAPIENZA
La saggezza è la virtù razionale, la capacità della ragione di agire in modo conveniente, adeguato nei confronti dei beni umani. In particolare è una saggezza deliberatamente, capace di scegliere tra il bene e il male. Riguarda quindi anche la sfera mutevole del vivere, un uomo è saggio per come vive, per le faccende del vivere. La sapienza è la virtù dianoetica più alta, è la sintesi perfetta della conoscenza dei principi primi veri, delle premesse vere delle scienze e della scienza stessa. Cioè scienza della capacità dimostrativa della capacità di ragionare sillogisticamente. Il sapiente possiede al massimo grado intelligenza e scienza. La felicità sta nell’attività contemplativa, nella vita teoretica, nella vita della mente. Di conseguenza l’uomo felice è il sapiente. Solo il sapiente basta perfettamente a se stesso, la sua felicità non dipende da altro. Il suo fine è il sapere per il sapere. Se per l’uomo la felicità è la vita di pensiero vuol dire che l’uomo cerca di avvicinarsi a Dio.
Se tutto è materia, anche l’anima dell’uomo sarà materiale, contro le teorie di Platone e Aristotele, dunque, come il corpo anche l’anima sarà mortale. Questo è ciò che caratterizza il pensiero di Epicuro. Gli dei esistono, però la loro natura è definita con una formula molto ambigua, non sono corpo ma quasi corpo, non anima ma quasi anima. Gli dei vivono negli intermundia, in degli spazi tra i diversi, infiniti mondi. Gli dei non si interessano minimamente del mondo e degli uomini, sono beati e imperturbabili.
Epicuro nell’etica si occupa della vita dell’uomo del fine della vita dell’uomo, della felicità e dei mezzi per raggiungerla. Quindi anche l’etica di Epicureo è eudemonistica. Fornì una sintesi del suo messaggio nel cosiddetto Tetrafarmacon, e le quattro pillole della felicità
vogliono liberare l’uomo dalle sue paure più profonde che sono anche le cause più profonde dell’infelicità. 1: è un rimedio contro la paura degli dei e dell’aldilà. Il timore degli dei è vano perché sono perfettamente indifferenti all’uomo. Anche la paura dell’aldilà è vana, perché non esiste nessun aldilà. L’anima muore col corpo. 2: è contro le paure più radicate, cioè la paura della morte. Per Epicureo è assurda, è inutile perché per noi la morte, l’evento del morire è un nulla, ovvero finché siamo vivi, la morte non c’è. 3: riguarda il tema centrale della sua etica, cioè il piacere, perché il bene coincide col piacere. Se l’essenza dell’uomo è materiale, anche il bene sarà di carattere materiale, quindi coinciderà con il piacere. Il piacere per Epicuro significa due cose: aponia, assenza di dolore fisico; atarassia, assenza di turbamento nell’anima. Il piacere è dunque un’assenza di dolore. Questo piacere è sperimentabile e raggiungibile, Epicuro fa una "tavola dei piaceri" dove distingue tre tipi di piacere:
1. I piaceri naturali e necessari: concernono la conservazione del nostro vivere, cioè mangiare se si ha fame, bere se si ha sete, riposare quando si è stanchi; intende pane, acqua e due olive e un riparo sotto cui dormire. Tra i piaceri non pone i piaceri d’amore o sessuali. Questi piaceri eliminano questi dolori e sono autolimitativi, hanno un limite naturale, non eccedono. Si nota il principio greco della misura.
2.i piaceri naturali non necessari: sono una variazione della prima classe nel segno del superfluo, come mangiare bene, cioè un cibo buono, bere cose buone. Dormire bene, in case sontuose. Questi piaceri per Epicureo vanno evitati perché portano a un sorpasso del limite quindi dolore e turbamento.
3. I piaceri non naturali e non necessari: sono vani, desiderio di ricchezza, onore e potere. Questo tipo di piaceri non solo non eliminano un dolore fisico, ma anzi generano un turbamento dell’anima perché dipendono da fattori esterni.
Una delle nostre più grandi paure è la paura del dolore ma Epicuro dice di non farsi turbare da questa paura perché se il dolore è lieve è facilmente sopportabile, se è acuto passa presto e se è acutissimo porta alla morte, alla dissoluzione, cioè all’insensibilità, al nulla.
Anche per gli Stoici il fine del vivere è raggiungere la felicità. Per gli stoici la felicità si ottiene nel vivere, secondo natura, realizzando la propria oikeiosis che significa appropriazione di sé. Nel senso che ogni essere vivente è caratterizzato dalla tendenza e dallo sforzo di conservare se stesso, appropriarsi di sé e di ciò che è utile a conservare se stesso, evitare ciò che è contrario a sé e a conciliarsi con sé. L’uomo deve vivere appropriandosi di quanto gli è più proprio e dal momento che la natura più propria è la ragione, la razionalità vivere così sarà vivere secondo ragione. Questa impostazione sull’etica ha come conseguenza una nuova concezione dei valori, cioè una nuova concezione del bene e del male. Sulla base di ciò, per gli stoici il bene sarà ciò che conserva, incrementa il nostro essere; il male sarà ciò che lo danneggia, distrugge o diminuisce il nostro essere. Il bene e il male morale significano virtù e vizio. La virtù è tutto ciò che conserva, cioè incrementa il nostro essere più proprio. Quindi virtù e vizio concernono il vivere o meno secondo ragione, conformandosi al logos. Per gli stoici ciò implica una conseguenza radicale, se ciò è vero, tutto ciò che concerne l’esteriorità, a partire dal nostro stesso corpo fisico, sarà moralmente indifferente. Cioè, la stessa vita, la morte, la salute o la malattia, la bellezza o la bruttezza, la ricchezza o la povertà, l’onore o il disonore, tutto ciò sarà moralmente indifferente. Per lo stoico la virtù, quindi la felicità, dipendono soltanto dalla propria interiorità, del proprio io. Successivamente gli Stoici giunsero ad ammettere che anche per la componente fisica doveva esserci una precisa oikèiosis, che permetteva di distinguere le cose che nuocciono al corpo da quelle che gli giovano, attribuendo alle prime il carattere di “indifferenti che vanno respinte” e alle seconde di “indifferenti preferibili”. Ma mentre il bene e il male hanno valore assoluto, i preferibili sono preferibili solo rispetto ai respinti.
Plotino è il fondatore del neoplatonismo, cioè quella ultima grande corrente della filosofia antica, ispirata appunto a Platone, ma influenzata dal Cristianesimo che ormai stava diffondendosi in modo decisivo nel bacino dell'Impero romano. Plotino ritiene che la materia sia la radice del male, sia qualcosa di intrinsecamente cattivo, ma che il male sia più una mancanza di essere che un essere positivo vero e proprio, infatti la materia è il grado di massimo impoverimento dell'essere. Tutto dall'Uno procede, e all'Uno l'uomo, essere intelligente che partecipa del Nous, desidera in qualche modo tornare, ripercorrendo a ritroso il cammino visto fin qui, risalendo la piramide ontologica dal gradino più basso, la materia, verso la sua sommità infinitamente perfetta. Questo ritorno si basa anzitutto sulla riflessione filosofica: è la ragione filosofica che riconosce nell'Uno la sorgente prima di tutto, e la suprema Bellezza, che sola merita di essere ricercata per sè stessa. Dunque si tratta anzitutto di coltivare la filosofia. A ciò peraltro deve affiancarsi un impegno pratico, cioè la coltivazione della virtù: non basta sapere che il vero Bene è l'Invisibile, se poi praticamente i nostri affetti e le nostre passioni sono polarizzati dal visibile. Al vertice di questo intreccio reciprocamente rimandante tra contemplazione razionale e azione virtuosa sta la suprema conoscenza possibile in questa vita, ossia la contemplazione metarazionale, immediata, dell'Uno, una sorta di esperienza mistica naturale, che Plotino stesso chiama estasi.
Tutto ciò è soltanto un'immagine, un modo allusivo, di cui si servono i profeti sapienti per indicare come il Dio supremo va contemplato; ma un saggio sacerdote che comprenda l'allusione, può giungere alla vera visione solo che entri all'interno del penetrale
L'anima, infatti, non può mai arrivare al non-essere assoluto; se scende in basso, scende al male, e cioè verso il non-essere, ma non al non-essere assoluto; invece, se corre sulla via opposta, giunge non ad un altro ma a se stessa; e così, poiché non è in un altro, non può essere in nulla ma solo in se stessa.
Agostino è il più importante dei Padri della Chiesa e la sua conversione con la conquista della fede rappresentano l’asse attorno al quale ruota l’intero pensiero di Agostino. Egli considera il problema del male secondo tre punti di vista: metafisico, morale e fisico. Dal punto di vista metafisico nel cosmo non esiste male, ma esistono solo gradi inferiori di essere rispetto a Dio, dipendenti dalla finitudine delle cose create perché ogni cosa ha una sua ragion d’essere e quindi costituisce un positivo se misurata secondo il metro dell’intero e non della nostra utilità. Il male morale è invece il peccato che dipende dalla cattiva volontà. Questa ha una sua causa deficiente che la porta a tendere non al Bene Sommo ma ai beni creati e finiti, preferendo così la creatura a Dio. Il male fisico è la conseguenza del peccato originale, dunque del male morale e può avere un significato catartico in vista della salvezza. Alla tematica del male è connesso il concetto di volontà, che Agostino considera come autonoma della ragione. La ragione conosce e la volontà sceglie, e può scegliere anche contro la ragione. Tuttavia la volontà raggiunge la sua perfezione e la sua piena libertà quando non fa il male, ma in ciò ha bisogno della grazia.
Il successore cristiano di Agostino è Tommaso, per cui l’uomo è natura razionale, capace cioè di conoscere il fine delle cose, ma non ha una comprensione immediata del loro fine ultimo, cioè di Dio. Se avesse la visione di Dio, ne sarebbe fatalmente attratto, ma conoscendo solo fini parziali, la sua volontà è libera di volerli o non volerli. L’uomo ha altresì una disposizione naturale a comprendere i principi delle azioni buone, ma può anche deliberatamente rifiutarli e quindi peccare, dunque il peccato dipende dal libero arbitrio. Tommaso distingue quattro tipi di legge: la lex aeterna, la lex naturalis, la lex humana e la lex divina. La lex aeterna è il piano razionale di Dio, l’ordine dell’universo che è in parte sconosciuto all’uomo e in parte noto: la parte nota costituisce la legge naturale, la cui essenza consiste nel fare del bene ed evitare il male, e il bene è ciò che tende alla conservazione e il male alla distruzione di sé. Legata alla legge naturale è la legge umana, cioè il diritto positivo posto dal Dio. Sopra queste leggi c’è la legge divina, rivelata nel Vangelo, che è connessa con il fine soprannaturale dell’uomo, ossia la beatitudine eterna.
L’età dell’Umanesimo e del Rinascimento è contrassegnata da una massiccia reviviscenza del Platonismo, che crea una temperie spirituale inconfondibile. Il Neoplatonismo fa capolinea anche nel pensiero di Cusano che di fronte all'impossibilità di definire in modo certo la natura infinita di Dio, definisce l'uomo spettatore della Creazione, ma non uno spettatore passivo. L'uomo è il fine ultimo della Creazione, creato per riconoscere il valore divino della Creazione stessa. Dio si può avvicinare seguendo la strada della teologia negativa, definendo ciò che Dio non è, oppure seguendo la strada della teologia positiva, affermando che Dio è l'infinito, la terza via è la parola di Cristo, la fede, la volontà di credere in ciò che è scritto nelle Sacre Scritture. Ma Cristo è anche Dio, quindi la sua infinita perfezione divina è per l'uomo motivo di imitazione terrena. In questo processo di imitazione l'uomo sperimenta le possibilità della sua perfettibilità, del suo continuo tendere al miglioramento. Questa tendenza deve necessariamente sfociare, sul piano civile, in una etica del dialogo tra gli uomini, conseguenza naturale della perfettibilità umana. Il dialogo, data la sua capacità di mediare tra le diverse istanze morali e politiche, è l'unica forma di ricomposizione dei dissidi che garantirebbe l'idea di quella coincidenza degli opposti che dal piano teoretico verrebbe trasmessa sul piano pratico, associata al tentativo di realizzarla a livello sociale.
Anche Ficino si avvicina al Neoplatonismo, comportandosi non solo da filosofo, ma anche da mago e sacerdote. Sosteneva che l'anima fosse la copula del mondo. Perché la saldatura sia possibile, la teologia non deve parlare solo di Dio, ma anche dell'uomo. Ficino distingue cinque gradi di realtà: al vertice c'è Dio, quindi gli angeli, poi l'anima dell'uomo, la qualità e il corpo. Dio e il corpo sono i due estremi, tra loro vi è la più assoluta diversità. L'angelo, il grado più prossimo a Dio, a Lui rivolto e trascura i corpi. L'anima dell'uomo è il termine medio, quel grado che è a contatto sia con Dio che con i corpi. La qualità dei corpi è inferiore all'anima in quanto si rivolge solo ai corpi trascurando il resto. Posta la gerarchia dei diversi gradi di realtà, Ficino afferma che il grado che costituisce il fulcro del mondo è l'anima dell'uomo, poiché costituisce l'unione tra la dimensione spirituale e quella fisico-naturale, riuscendo a percepire la grandezza di Dio quanto le cose del mondo sensibile. L'anima agisce tra le cose mortali senza essere mortale: l'anima è dunque copula del mondo, cioè "termine medio", nodo cruciale. La centralità dell'anima non può che trasmettersi anche all'uomo, il quale, animato dall'anima che è copula del mondo, risulta egli stesso il termine "centrale" della Creazione. Ciò che ha permesso all'universo di essere creato è un principio che Ficino chiama "amore", la forza positiva che ordina le cose e le fa tendere al bene, come già per il platonismo. L'amore rappresenta per Ficino sia il motivo che spinge Dio a creare il mondo e a ordinarlo secondo le sue leggi, sia quella forza che permette all'uomo di avvicinarsi a Dio e godere della sua grazia.
La posizione di Ficino ha un corrispettivo analogico in quella di Pico della Mirandola. Riguardo alla concezione di Dio sosteneva che Egli creò ogni essere vivente dotandolo di particolari qualità, ogni animale possiede un istinto particolare che lo rende più abile di altri in particolari situazioni. Quando Dio creò l'uomo non volle invece attribuirli la supremazia di una sola qualità sulle altre, ma preferì dotarlo di tutte le qualità attribuite agli animali. Così l'uomo si trova nell'invidiabile posizione di avere in sé ogni qualità e possedere la libertà di scegliere tra il degenerarsi nelle cose inferiori o il rigenerarsi in quelle superiori. La particolarità dell'uomo è proprio nella possibilità del libero arbitrio che gli è concesso, ovviamente la via che conduce alla rigenerazione passa dal recupero della sapienza antica, intesa come sapienza neoplatonica che riconduce l'uomo all'unico principio divino.
Bernardino Telesio fu l’iniziatore dell’indagine della natura secondo i propri principi, ricostruendo le leggi della sua fisica su base sensistica, convinto che il senso riveli la realtà della natura, essendo essa stessa vitalità e sensibilità. Anche la morale trova il proprio fondamento nel senso. Il piacere ed il dolore sono infatti generati dal contatto delle cose con l'anima-calore, la quale prova piacere nel contatto con ciò che la conserva e dolore in ciò che la distrugge. Ne risulta un'identificazione tra il piacere ed il bene e tra il dolore ed il male, anche se non tutte le azioni che producono immediatamente piacere sono buone, poiché non è detto che queste siano veramente in grado di partecipare alla conservazione dello spirito. E' necessario quindi operare una distinzione tra il piacere e la virtù, intesa a valutare le azioni rispetto al contributo da queste date alla conservazione dello spirito. Per Telesio, perciò, la virtù è intesa esclusivamente in senso naturalistico: essa è infatti motivata dal fine dell'autoconservazione ed è rivolta ai fatti del mondo nella sua naturalità, non essendo altro che il calcolo operato al fine di garantire il massimo piacere.
Bruno è certamente il filosofo rinascimentale più interessante. Egli esprime la sua concezione etica nei De gli eroici furori, ma ance ne “lo Spaccio de la bestia trionfante” in cui le bestie trionfanti sono i segni delle costellazioni celesti, rappresentate da animali: occorre spacciarle, cacciarle dal cielo in quanto rappresentanti vecchi vizi che è tempo di sostituire con moderne virtù, occorre una nuova serie di valori cui l'uomo moderno possa e debba fare riferimento.
Nella nuova gerarchia di valori il primo posto spetta alla verità, cui segue la prudenza, la caratteristica del saggio che, conosciuta la verità, ne trae le conseguenze con un comportamento adeguato. Al terzo posto Bruno inserisce la sofia, la ricerca della verità e dopo viene la legge, che disciplina il comportamento civile dell'uomo. Vengono poi la fortezza, la forza dell'animo, virtù interiore cui seguono virtù indirizzate agli altri, la filantropia e la magnanimità. È questa evidentemente un'etica che richiama i valori tradizionali dell'Umanesimo, cui Bruno non ha mai dato molta importanza. Bruno individua tre specie di passioni umane: quella per la vita speculativa, volta alla conoscenza, quella per la vita pratica e attiva, e quella per la vita oziosa. Le due ultime tendenze sono espressione di un furore di poco valore, il desiderio di una vita volta alla contemplazione è l'espressione di un furore eroico. Questa ricerca è simile ad una caccia, non la comune caccia ove il cacciatore ricerca e cattura le prede, ma quella in cui il cacciatore diviene esso stesso preda, come Atteone che, avendo visto la bellezza di Diana, si è fatto preda dei cani, i pensieri de cose divine, che lo divorano. La conoscenza della natura è lo scopo della scienza e della nostra vita stessa, che da questa scelta viene trasformata in un «furore eroico» che ci assimila alla perenne e tormentata vicissitudine in cui si esprime il principio che anima tutto l'universo.
Il Seicento fu caratterizzato dalla rivoluzione scientifica e dalle varie scoperte tecnologiche, e ciò distolse l’attenzione dal piano etico. Solo Cartesio, il fondatore della filosofia moderna,
ritorna ad affrontare il problema. Dunque per Cartesio i corpi sono mossi da due istanze principali: le azioni e le affezioni. Le azioni sono gli atti volontari dettati dall'anima razionale, le affezioni sono quegli atti involontari e istintuali che sono il frutto degli spiriti vitali, che rappresentano l'azione delle forze meccaniche che agiscono nei corpi. L'uomo è dunque animale razionale e proprio la ragione è il motivo che lo distingue dall'animale, e per poter agire correttamente deve dare ascolto alla sua parte razionale senza lasciarsi sopraffare dalle affezioni, le quali, del resto, non sono del tutto nocive: tristezza e gioia indicano infatti alla parte razionale il pericolo delle cose che possono nuocere all'anima o le cose che invece possono esserle utili. Come già per gli antichi, il dominio delle passioni è comunque propedeutico alla saggezza, anche per Cartesio l'uomo più saggio è infatti colui il quale si lascia guidare dalla ragione e dall'esperienza. Nel mondo cartesiano, la natura in quanto res extensa è necessariamente determinata da leggi naturali e quindi non è libera, mentre è libero il pensiero, e quindi anche le azioni che sono conseguenza del pensiero. E libero è certamente Dio, il quale, a motivo della sua perfetta onnipotenza, ha creato il mondo con un atto della sua libera volontà. Gli uomini liberi di agire devono comunque attenersi, come visto, ai principi della ragione se vogliono agire correttamente, e in particolare Cartesio detta alcune regole che definisce di "morale provvisoria", ovvero un prontuario di primo soccorso etico per l'uomo che non riuscisse a decidersi tra azione e giudizio razionale. La prima regola della morale provvisoria è l'obbedienza alle leggi e ai costumi del paese in cui si vive. E' buon uso secondo Cartesio attenersi nella vita pubblica ad opinioni che siano lontane dagli eccessi, è buona regola civile non pretendere di imporle. Occorre distinguere infatti tra uso della vita e contemplazione della verità: nel primo caso l'uomo deve poter decidere senza attenersi necessariamente alla verità e all'evidenza, nel secondo caso, che rappresenta il metodo della filosofia e della scienza, non bisogna decidere finché non si sia raggiunta l'evidenza. La seconda regola consiste nel perseverare nelle azioni che si ritengono indubbiamente valide, e risulta un'affermazione alquanto ambigua perché il ritenere indubbiamente valide alcune azioni rispetto ad altre dipende innanzitutto dalla bontà del metodo. La terza regola recita che è meglio cambiare se stessi piuttosto che il mondo, meglio tentare di vincere i propri timori prima di far affidamento sulla sola fortuna. La quarta regola consiglia invece di indagare il vero, sempre e con metodo, ma abbiamo visto come questa regola trovi le sue deroghe nella distinzione tra uso della vita e contemplazione della verità, con riferimento alla prima.
Come meta suprema dell’itinerario filosofico, Spinoza predicò la visione delle cose sub specie aeternitatis, che è una visione capace di liberare dalle passioni e di donare un superiore stato di pace e di tranquillità. Ecco perché l’interesse di Spinoza è soprattutto di carattere etico, mentre quello di Cartesio era essenzialmente gnoseologico. Secondo Spinoza, dato che tutto accade sotto il segno della necessità più rigorosa, non esistono nella natura bene e male, così come non esistono fini: quello che si può correttamente chiamare bene è solo l’utile, e male è il suo contrario. Quindi, agire assolutamente per virtù significa vivere, conservando il nostro essere sotto la guida della ragione, e ciò sul fondamento della ricerca del nostro utile. L’unico fondamento della virtù è la conoscenza adeguata, in cui risiede la vera salvezza dell’uomo. Spinoza intende le passioni come scaturenti dalla tendenza a perseverare nel proprio essere; quando la tendenza è riferita solo alla mente si chiama volontà, quando è riferita anche al corpo si chiama appetito. L’intuizione intellettiva, la quale è un sapere le cose in Dio e quindi in sapere se medesimi in Dio, dà inoltre l’amore intellettuale di Dio, perché si accompagna all’idea di Dio come causa. L’amore intellettuale della mente verso Dio è l’amore stesso di Dio, col quale Dio ama se stesso in quanto può essere spiegato mediante l’essenza della mente umana, considerata eterna. L’amore intellettuale di Dio è la visione di tutte le cose sotto il segno della necessità divina e l’accettazione gioiosa di tutto ciò che accade, appunto perché tutti dipende dalla divina necessità.
Riguardo alla questione sulla libertà dell’uomo, Leibniz cerca di assumere una via di mezzo tra Spinoza, difensore della necessità, e la concezione classica del libero arbitrio. La libertà dell’anima, le cui condizioni sono l’intelligenza, la spontaneità e la contingenza, consiste nel dipendere solo da se stessa e non da altro; ma gli atti umani, oltre che come predicati inclusi necessariamente nel soggetto, vengono concepiti da Leibniz anche come eventi previsti e prefissati da Dio ab aeterno, e all’uomo non è dato comprenderli nella loro ragione ultima. Allo spirito dell’uomo è riconosciuto il massimo valore: lo spirito vale tutto il mondo, perché lo conosce in modo consapevole e ne indaga le cause, ed è inoltre immortale, nel senso che mantiene sempre la propria personalità. Il destino escatologico dell’uomo dovrà dunque consistere in una felicità che è un progresso continuo verso nuovi piaceri e nuove perfezioni, ossia un conoscere Dio e un fruire di Dio in grado sempre maggiore, all’infinito.

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