I sofisti e Socrate

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Testo

CAP.5. I SOFISTI E SOCRATE NELL'ATENE DEL V SECOLO: L'ORDINE DELLA CITTA'
(versione lunga di approfondimento; lettura facoltativa)

LETTURA INTRODUTTIVA: Tucidide. La democrazia e la cultura del discorso in Atene
I passi che seguono sono tratti dal secondo libro delle Storie di Tucidide. Si tratta del discorso funebre di Pericle per i morti del primo anno della “guerra del Peloponneso” contro Sparta (431-404), che segna per Atene la fine di quel periodo di egemonia su gran parte del mondo greco, di espansione economica e di prestigio politico culturale, che è detto appunto "età di Pericle" (462-429). Il grande statista ateniese fa risalire la potenza e il prestigio della città-stato alla sua antica tradizione di libertà e indipendenza (il riferimento è evidentemente alle guerre contro i persiani - §.36). Il merito è altresì della forma di governo democratica, fondata sull'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e sul riconoscimento dei loro meriti personali nella competizione elettorale per le cariche politiche (§.37); elogia poi la cultura e la florida ricchezza commerciale di Atene (§.38). Mostra anche che le decisioni efficaci (sul piano diplomatico e militare) prese da gli ateniesi nascono da una discussione aperta e ragionevole nell'opinione pubblica e nelle assemblee cittadine (§.40). Questa cultura del discorso e della discussione fa di Atene la scuola della Grecia intera e costituisce la base della sua potenza (§. 41).

36. (...) Tralascerò di ricordare le loro imprese belliche, ciò che con ciascuna di esse fu conquistato, o se con slancio abbiamo, noi o i nostri padri, respinto l'invasore, fosse barbaro o greco a noi ostile: non voglio dilungarmi con coloro che sanno ogni cosa. Passerò quindi a tessere l'elogio di costoro, dopo però di aver messo in luce con quale sistema di vita giungemmo a tanto e in virtù di quale forma di governo e con quali abitudini si ingrandì il nostro dominio; convinto come sono che in questo momento non è sconveniente parlarne e che per tutta la folla dei cittadini e dei forestieri non sarà inutile ascoltarlo1.
37. Noi abbiamo una forma di governo che non guarda con invidia le costituzioni dei vicini, e non solo non imitiamo altri, ma anzi siamo noi stessi di esempio a qualcuno. Quanto al nome, essa è chiamata democrazia, poiché è amministrata non per il bene di poche persone, bensì di una cerchia più vasta: di fronte alle leggi, però, tutti, nelle private controversie, godono di uguale trattamento; e secondo la considerazione di cui uno gode, poiché in qualche campo si distingue, non tanto per il suo partito, quanto per il suo merito, viene preferito nelle cariche pubbliche; né, d'altra parte, la povertà, se uno è in grado di fare qualcosa di utile alle città, gli è d'impedimento per l'oscura sua posizione sociale.
Come in piena libertà viviamo nella vita pubblica, così in quel vicendevole sorvegliarsi che si verifica nelle azioni di ogni giorno, noi non ci sentiamo urtati se uno si comporta a suo gradimento, né gli infliggiamo con il nostro corruccio una molestia che, se non è un castigo vero e proprio, è pur sempre qualcosa di poco gradito.
Noi che serenamente trattiamo i nostri affari privati, quando si tratta degli interessi pubblici abbiamo un'incredibile paura di scendere nell'illegalità: siamo obbedienti a quanti si succedono al governo, ossequienti alle leggi, e tra esse in modo speciale a quelle che sono a tutela di chi subisce ingiustizia e a quelle che, pur non trovandosi scritte in alcuna tavola, portano per universale consenso il disonore a chi non le rispetta2.
38. Inoltre, a sollievo delle fatiche, abbiamo procurato allo spirito nostro moltissimi svaghi, celebrando secondo il patrio costume giochi e feste che si susseguono per tutto l'anno e abitando case fornite di ogni conforto, il cui godimento quotidiano scaccia da noi la tristezza.
Affluiscono poi nella nostra città, per la sua importanza, beni d’ogni specie da tutta la terra e così capita a noi di poter godere non solo tutti i frutti e prodotti di questo paese, ma anche quelli degli altri, con uguale diletto e abbondanza come se fossero nostri3.
...
40. Noi amiamo il bello, ma con misura; amiamo la cultura dello spirito, ma senza mollezza. Usiamo la ricchezza più per l'opportunità che offre all'azione che per sciocco vanto di parola, e non il riconoscere la povertà è vergognoso in noi, ma il non adoperarsi per fuggirla.
Le medesime persone da noi si curano nello stesso tempo e dei loro interessi privati e delle questioni pubbliche: gli altri poi che si dedicano ad attività particolari sono perfetti conoscitori dei problemi politici; poiché il cittadino che di essi non si curi siamo i soli a considerarlo non già uomo pacifico, ma addirittura un inutile.
Noi stessi o prendiamo decisioni o esaminiamo con cura gli eventi: convinti che non sono le discussioni che danneggiano le azioni, ma il non attingere le necessarie cognizioni per mezzo della discussione prima di venire alla discussione di ciò che si deve fare.
Abbiamo infatti anche questa nostra dote particolare, di saper, cioè, osare quant'altri mai e nello stesso tempo fare i dovuti calcoli su ciò che intendiamo intraprendere: agli altri, invece, l'ignoranza provoca baldanza, la riflessione porta esitazione. Ma fortissimi d'animo, a buon diritto, vanno considerati coloro che, conoscendo chiaramente le difficoltà della situazione e apprezzando le delizie della vita, tuttavia, proprio per questo non si ritirano di fronte ai pericoli4.
...
41. In una parola, io dico che la città nostra, nel suo complesso, è la scuola dell'Ellade, ma mi pare che ciascun ateniese, cresciuto a questa scuola, possa rendere la sua persona più adatta alle più svariate attività, con la maggior destrezza e con decoro, a se stesso bastante5.
E che questo che io dico non sia vanto di parole per l'attuale circostanza, ma verità comprovata dai fatti, lo dimostra la potenza stessa di questa città che con tali norme di vita ci siamo procurata.

LO SVILUPPO DI UNA SO-CIETA' DEMO-CRATICA E MERCANTILE IN ATENE
IL POTERE SOVRANO APPARTIENE ALL' ASSEM-BLEA DEI CIT-TADINI
LA POLITICA DI ESPAN-SIONISMO MARINARO COLLEGA GLI INTERESSI DEI CETI RIC-CHI E DEL POPOLO
UN POPOLO DI POLITICI, DI GIUDICI E DI SOLDATI
LA CULTURA DEL DISCOR-SO E DEL DI-BATTITO E' LA GRANDE EREDITA' CI-VILE DI ATE-NE
LA CARICA DI STRATEGO AFFIDATA AGLI ARI-STOCRATICI E AI CITTA-DINI PIU' RIC-CHI
I METECI, CONTRIBUEN-TI MA NON CITTADINI
IL LAVORO MANIFATTU-RIERO E' SVOLTO AN-CHE DA SCHIAVI
LIMITATO PRESTIGIO DELLA BORGHESIA

RISENTIMENTO CONTADI-NO VERSO LA POLITICA
CAPITALISTI-CA IMPERIA-LISTICA E IL “PROGRES-SO”

UN'ARISTO-CRAZIA "PROGRESSI-STA"
I REAZIONARI FILOSPARTANI E I CON-SERVATORI DEMOCRATI-CI
VIVACITA' DELL'OPINIO-NE PUBBLICA E CULTURA TEATRALE POPOLARE
LA "LIBERTA' DEGLI ANTICHI": LA PARTECIPA-ZIONE POLITICA
SONO SCO-NOSCIUTI SIA LA VERA E PROPRIA LI-BERTA'DI CO-SCIENZA, SIA L’INQUISIZIO-NE RELIGIO-SA
EDUCAZIONE MILITARE DI STATO E VITA COMU-NITARIA A SPARTA
EDUCAZIONE LIBERA E PRIVATA AD ATENE: LE PALESTRE COME LUO-GO DI RITRO-VO MASCHI-LE
LE SCUOLE DEI SOFISTI FORMANO IL CETO POLI-TICO
ATENE, CENTRO EGEMONE DELLA CULTURA GRECA
ERODOTO, "PADRE DELLA STORIA"
ERODOTO PREFERISCE LE TESTIMO-NIANZE OCU-LARI AL MITO E AL SENTITO DIRE
IL RISPETTO PER USI E CREDENZE DEGLI ALTRI POPOLI
IL DIALOGO SULLA MI-GLIOR CO-STITUZIONE
TUCIDIDE RIFIUTA IL FAVOLOSO NELLA STORIA
PERCEZIONE DEL PRO-GRESSO E PESSIMISMO ANTROPOLO-GICO
TUCIDIDE COME FONTE DELLA CUL-TURA DEL DISCORSO
L'UOMO, PER QUANTO RA-ZIONALE, E' SPINTO VER-SO LA GUER-RA DALLE RI-VALITA' E DALLA PAU-RA RECIPRO-CA
IL TEATRO, INVENZIONE DELLA CIVIL-TA' GRECA PORTATO ALLA PER-FEZIONE DA ATENE
SIGNIFICATO "POLITICO" DEGLI SPETTACOLI TEATRALI
LA TRAGE-DIA, AUTOE-SALTAZIONE DI ATENE
LA "TEATRO-CRAZIA" DEL-LE MASSE
ESCHILO, POETA UFFI-CIALE DELLA DEMOCRAZIA ATENIESE
SOFOCLE IL PESSIMISTA ED EURIPIDE IL FILOSOFO
L'ORDINE DELLA CIT-TA', OGGET-TO DELLA TRAGEDIA

CONFLITTO TRA I VALORI EROICI ARI-STOCRATICI DEL MITO E I VALORI CIT-TADINI DEL-LA LEGALITA' E DEL DIRIT-TO

POTERE CO-ME FORZA E POTERE CO-ME AUTORI-TA'
FATO E GIU-STIZIA, IM-PULSO DE-MONICO E CARATTERE

I CONFLITTI TRAGICI SO-NO I CON-FLITTI DELLA POLIS
L'ORDINE SI RISTABILI-SCE SOLO ATTRAVER-SO LA VIO-LENZA TRA-GICA
IL SENSO DEL TRAGI-CO E' CO-STITUTIVO DELLO SPI-RITO GRECO ORIGINARIO
AMBIGUITA' DELLA LO-GICA TRA-GICA E DEL-LA LOGICA SOFISTICA
§ 1. Quadro storico della società ateniese dalle vittorie sui persiani alla sconfitta con Sparta

§ 1.1. Atene democratica alla testa della lotta contro i persiani
Nella società ateniese del V secolo si ripetono amplificate alcune delle caratteristiche della società ionica del secolo precedente: la sempre più spinta emancipazione politica e culturale del demos, l'adattamento della vecchia aristocrazia alla nuova situazione, per cui essa partecipa alla vita politica della città secondo le nuove regole e si impregna della nuova cultura dinamica e aperta, e infine l'espansione ulteriore dei commerci e della produzione manifatturiera. Ma il fatto nuovo è che Atene stessa diventa il centro egemonico degli scambi commerciali e culturali, e contemporaneamente riduce una parte consistente della Grecia sotto la sua egemonia politica e militare, imponendo a moltissime città la partecipazione alla Lega Navale da essa dominata.
Tale egemonia era stata resa possibile da due fatti diversi ma tra loro collegati: il successo delle radicali riforme democratiche al suo interno e il contributo decisivo dato dalla città alle vittorie dei greci contro i persiani invasori.
Alla fine del VI secolo, dopo la caduta (510) del tiranno Ippia, figlio di Pisistrato, fu l'aristocratico Clistene, esponente della potente famiglia degli Alcmeonidi e leader della fazione democratica, a promuovere una riforma radicale: a partire dal 507 il potere decisionale supremo spettò all'Ecclesia, cioè all'Assemblea di tutti i cittadini maschi liberi, e i membri del Consiglio dei Cinquecento (o Bulè) furono sorteggiati (non eletti) sempre tra i maschi liberi. Evidentemente il sorteggio era considerato più democratico dell'elezione, in quanto dà a tutti eguali possibilità di partecipazione; viceversa l'elezione dipende in una certa misura dal prestigio familiare e dalla ricchezza, che permettono al candidato di formarsi una clientela (nel senso latino del termine) a fini elettorali. Naturalmente le cariche più elevate del potere esecutivo, che richiedono competenza, cultura ed esperienza, restano elettive, e di fatto ad esse vengono eletti essenzialmente cittadini aristocratici o benestanti.
Quanto alla vittoria contro i persiani, fu probabilmente la comunanza di interessi commerciali e di mentalità democratica e mercantile che spinse gli ateniesi a fornire aiuti alle città ioniche in rivolta contro i persiani; e più tardi nel 490 furono gli ateniesi a sconfiggere, praticamente da soli, il corpo di spedizione inviato da Dario a Maratona. Allo stesso modo nel 481, quando il nuovo re dei re Serse inviò un enorme corpo di spedizione a invadere la Grecia, quasi da soli sconfissero la flotta persiana a Salamina, mentre Sparta aveva deciso unilateralmente di difendere il Peloponneso sull'istmo di Corinto e aveva lasciato che l'esercito di Serse saccheggiasse l'Attica e Atene. Il prestigio della democrazia ateniese raggiungeva così il suo punto più alto.
Le riforme politiche, in effetti, sono in qualche modo in relazione con la politica estera antipersiana, basata sulla costruzione di una enorme flotta e sull'espansione commerciale. Un ulteriore potenziamento della flotta, oltre a favorire gli armatori e a garantire traffici sicuri ai grandi commercianti, comportava l'impiego in guerra anche dei nullatenenti ("teti"). Questi erano arruolati come rematori e marinai, mentre non potevano permettersi la costosa armatura degli opliti, nucleo di base della fanteria, che erano infatti piccoli e medi proprietari (come sappiamo, gli eserciti greci erano composti dai cittadini stessi in armi e ciascuno si doveva armare a proprie spese).
Data la coincidenza del cittadino e del soldato, il crescente impiego in guerra del popolo si accompagnò a un aumento della sua partecipazione politica. Il peso politico dell'aristocrazia diminuì, tra l'altro, perché nel 461 furono abolite le varie funzioni dell'Areopago (organo analogo al Senato romano, formato da ex-magistrati di origine aristocratica) in politica estera e interna, ed esso fu ridotto a tribunale per i reati di sangue. Tutti gli altri reati, inclusi quelli politici, sarebbero stati giudicati dalle giurie popolari. Pericle nel 461 fece votare la legge per cui i giudici popolari (designati tramite il sorteggio) e i membri del Consiglio dei Cinquecento (anch'essi designati tramite il sorteggio) avrebbero ricevuto il rimborso della giornata di lavoro perduta nell'esercizio della carica; in tal modo i cittadini più poveri, quando erano sorteggiati, non avrebbero dovuto rinunciare alla carica per mancanza di denaro. Ciò faceva degli ateniesi un popolo di soldati, di giudici e di politici.
Bisogna infine considerare che l'esercizio delle cariche di giudici e di consiglieri consisteva essenzialmente nel seguire dei dibattiti: in tribunale il dibattito tra l'accusa e la difesa, e in assemblea e nella Bulè il dibattito tra gli oratori delle diverse fazioni. I cittadini ateniesi dunque erano degli straordinari produttori e consumatori di discorsi: il dibattito pubblico era una delle loro più tipiche esperienze. La cultura del discorso e del dibattito fu dunque il vanto di Atene di fronte ai suoi contemporanei e la sua eredità per i posteri.
APPROFONDIMENTO: DIFFERENZE TRA L'ANTICA DEMOCRAZIA ATENIESE E ALTRE FORME POSTERIORI DI DEMOCRAZIA.
Questo ampio fenomeno di democratizzazione rischia di essere frainteso dal lettore moderno, che tende a sovrapporre all'idea greca di "democrazia", come "governo del demos", le idee moderne di democrazia.
Nel nostro mondo si parla correntemente di "democrazia liberale" come eguaglianza di tutti gli uomini in quanto tali (eguali diritti civili e politici a tutti). A tale forma di governo è stata rivolta la critica di essere una "democrazia borghese": in effetti tutti hanno formalmente gli stessi diritti, ma l'ineguale distribuzione della proprietà finisce per assegnare un peso preponderante ai capitalisti e ai grandi proprietari, dato che l’eguaglianza di principio di fronte alla legge non impedisce il fatto che alcuni abbiano più mezzi per procurarsi avvocati o per promuovere le proprie idee. Questi problemi - con modalità diverse - non erano del tutto sconosciuti agli ateniesi.
Consideriamo un po’ più da vicino i rapporti tra società, economia e politica:
a) l'esercizio effettivo del potere esecutivo era in pratica sempre in mano a membri dell'aristocrazia - come l'alcmeonide Pericle, che fu rieletto ogni anno stratego dal 443 al 429 ("età di Pericle") - o in genere delle classi abbienti, perché i detentori del potere esecutivo e militare, gli strateghi, erano pur sempre eletti e non pagati;
b) la ricchezza che permetteva ad Atene di remunerare le cariche pubbliche dei suoi cittadini e di mantenerli come marinai della flotta provenivano pur sempre dai traffici commerciali - garantiti dalla flotta - e dai tributi versati dagli alleati della Lega di Delo per la difesa comune (spesi a suo arbitrio da Atene, che esercitava sulla Lega un vero e proprio dominio);
c) il numero complessivo degli stranieri ("meteci") stabilitisi per commercio o per lavoro ad Atene e al Pireo era circa la metà di quello dei cittadini veri e propri; i meteci pagavano le tasse ma non votavano e, secondo una legge del 451, i figli nati da matrimoni misti non potevano acquisire la cittadinanza; inoltre molte delle numerosissime cause che davano lavoro ai giudici ateniesi riguardano anche meteci ed alleati della Lega di Delo;
d) diversamente che, per esempio, nelle città medioevali, buona parte del lavoro delle manifatture urbane era svolto da schiavi (cfr. la scheda "I DUE TIPI PRINCIPALI DI SCHIAVITU' NEL MONDO GRECO) invece che da lavoratori salariati, e l'unico lavoro manuale decoroso per un libero era considerato tradizionalmente quello del contadino;
e) il ceto dei capitalisti commerciali, armatoriali, manifatturieri e finanziari, benché influente, non aveva il prestigio e il primato che raggiungerà in certi Comuni italiani o fiamminghi del Medio Evo, anche perché molti capitalisti erano meteci;
f) i piccoli proprietari contadini dell'Attica guadagnarono dall'impero commerciale marittimo assai meno dei bassi ceti popolari di Atene(marinai, commercianti al minuto, salariati, ecc..) e inoltre ai tempi della "Guerra del Peloponneso" contro Sparta - per la difesa e l'allargamento di tale impero - dovettero anche subire le devastazioni periodiche degli spartani, mentre Atene e il porto del Pireo erano protette dalle inespugnabili Grandi Mura, costruite dopo le guerre persiane; non meraviglia quindi che essi guardassero di solito con sospetto al mondo cittadino con i suoi nuovi modi di vita e il suo antitradizionalismo; il demos delle campagne è, dunque, in parte ostile alle innovazioni, agli atteggiamenti progressisti e all'espansione commerciale.
*Come si vede, la democrazia ateniese ha caratteristiche specifiche abbastanza diverse dalla democrazia moderna. Essa certo non va comunque idealizzata e scambiata con un regime di assoluta eguaglianza politica tra gli uomini liberi (la condizione di subordinazione di donne, meteci e schiavi è un dato ovvio). Tuttavia *si può ben dire che la partecipazione dell’uomo comune agli affari politici raggiunga un livello probabilmente difficilmente immaginabile altrove.

§ 1.2. Politica e cultura
L'occupazione più prestigiosa degli aristocratici ateniesi era senza dubbio la politica. In particolare era assai ambita la carica di stratego, che spesso agevolava l'investimento del patrimonio di famiglia in affari connessi con l'ampliamento dell'"impero". Non ci si meraviglierà dunque che l'aristocrazia partecipasse pienamente al clima culturale ateniese, antitradizionalista, demitizzante, razionalista e spregiudicato. In tale clima, come si è detto nell'Introduzione a questa Parte, si faceva strada la coscienza del significato umano autonomo dell'ordine della polis e dei progressi civili da esso compiuti. I conservatori e i tradizionalisti avevano lottato contro la nuova cultura ottenendo l'allontanamento di Anassagora, come si è visto, e avrebbero ottenuto poi anche l'esilio di Protagora e, più tardi, la condanna a morte di Socrate.
Essi non erano necessariamente antidemocratici e filoaristocratici, né si può dire che desiderassero tutti quanti un ritorno al vecchio regime oligarchico ateniese o l'instaurazione di un regime aristocratico militare di tipo spartano. Qualche corrente reazionaria di questo stampo certamente era rimasta, e si manifestò nei colpi di stato oligarchici del 411 e del 404 (il terroristico regime dei "Trenta Tiranni", appoggiato da Sparta) in seguito alla terribile disfatta nella guerra contro Sparta stessa. Tuttavia molti conservatori, ostili alla nuova cultura, erano semplicemente dei democratici contrari alla politica imperalista di Pericle e dei leaders successivi, in quanto questa politica rifletteva gli interessi del centro urbano e valorizzava il suo spregiudicato modello di vita. I contadini dell'Attica, devastata nella guerra del Peloponneso sono i protagonisti della commedia di Aristofane "Gli Acarnesi" (dell'anno 425), apertamente pacifista e quasi disfattista; lo stesso Aristofane nel 423 attaccherà Socrate, preso da lui come simbolo degli intellettuali dal linguaggio incomprensibile ai più, venditori di fumo, anticonformisti, empi e blasfemi, le cui dottrine minano l'autorità tradizionale degli dei e dei padri di famiglia.
Veniamo ora a un'ultima importante caratteristica della società democratica ateniese: la libertà di parola (parresia) e l'esistenza di un'opinione pubblica libera e vivace. I conservatori come Aristofane si trovavano nella paradossale situazione di fare uso della straordinaria libertà di parola esistente in Atene proprio nei loro continui attacchi gli intellettuali della nuova cultura e contro gli stessi leaders del partito democratici – chiamati nelle commedie con il loro nome, e derisi e insultati senza mezzi termini . Una cosa del genere era impensabile a Sparta e in altri Stati greci, ed era e connessa con l'intensa partecipazione popolare agli spettacoli teatrali in Atene (cfr. →§.2). Ma questa libertà di parola, esistente di fatto, non deve far pensare che nella cultura ateniese (o greca) sia stata teorizzata chiaramente la libertà di pensiero, di espressione e di religione come diritto essenziale del cittadino.
La cosiddetta "libertà degli antichi" (secondo l'espressione del filosofo liberale Benjamin Constant, 1767-1830) consisteva nel diritto, che era anche un dovere, di prendere parte alle decisioni politiche comunitarie, prese dall'assemblea degli uomini atti alle armi. Essa però non prevedeva uno spazio libero per l'individuo singolo e per la sua privacy, uno spazio del tutto sottratto all'ingerenza della comunità (ciò che Constant chiamò la "la libertà dei moderni", di cui è parte la cosiddetta "libertà di coscienza"). Perciò, nonostante l'ampio dibattito esistente di fatto in Atene, erano sempre possibili le accuse di empietà, o di ateismo, o di introdurre nuovi culti religiosi.
Tuttavia *bisogna precisare che, nel vivo delle lotte politiche del V secolo, queste accuse, piuttosto che espressioni di fanatismo ideologico o religioso, ci paiono pretesti per colpire i fautori della fazione avversa. e che processi di questo genere furono piuttosto rari nelle poleis greche. Rispetto ad altre civiltà successive, *si può ben dire che i greci in genere fossero piuttosto tolleranti in materia di religione; inoltre mancava loro una effettiva autorità religiosa, con potere di inquisizione o comunque capace di distinguere chiaramente tra ciò che fosse da considerarsi ortodosso e ciò che fosse da considerarsi eterodosso. Le condanne per empietà di Anassagora, Protagora e Socrate non furono comminate sulla base di una concezione precisa e codificata di ciò che è accettabile e ortodosso e di ciò che è empio, cioè sulla base di un precisa dottrina teologica, come hanno fatto invece per secoli i tribunali dell’inquisizione. Furono delle giurie popolari, nel contesto di una lotta senza esclusione di colpi tra fazioni (Anassagora e Protagora erano stretti collaboratori di Pericle, Socrate era stato in relazioni amichevoli con molti aristocratici filospartani), a decidere in nome del senso comune e della tradizione (cfr. anche supra←cap.1, §4.3, e la SCHEDA: Tolleranza ideologica e intolleranza politica nel mondo greco-romano).

§ 2. La cultura dell'Atene del V secolo: la retorica, la storiografia, la tragedia e la commedia.

§ 2.1. Il sistema scolastico e gli studi retorici e politici
Nel paragrafo precedente si è sottolineato il carattere pubblico e comunitario della "libertà degli antichi". Tuttavia il cittadino ateniese si preparava privatamente a questa vita eminentemente pubblica, mentre l'educazione dei cittadini di Sparta (e buona parte della loro esistenza) era pubblica e rigorosamente comunitaria. In effetti i figli degli Spartiati liberi (una minoranza della popolazione effettiva) erano allevati ed educati dallo Stato e, destinati a passare la vita intera sotto le armi, erano obbligati agli esercizi atletici in comune e ai pasti in comune (tuttavia tali usi nel V secolo erano in declino).
Gli ateniesi educavano invece i figli liberamente, però a proprie spese. I "ginnasi" erano luoghi pubblici in cui si svolgevano esercizi fisici e gare, e si potevano assoldare maestri di ginnastica; erano anche luoghi di ritrovo e di divertimento assai popolari per una popolazione maschile che doveva periodicamente affrontare le fatiche e le tensioni del servizio militare, che amava le gare sportive di tutti i tipi e considerava come fatti abbastanza normali l'omosessualità e l'esclusione delle donne dalla vita pubblica.
Esistevano poi le scuole vere e proprie (a pagamento).
Il livello scolastico più basso forniva la semplice alfabetizzazione (si imparava a leggere usando come libri di testo i poemi omerici), ed era frequentato da una buona parte degli uomini liberi. Le scuole superiori, anch'esse private, gestite dai cosiddetti sofisti (cfr. infra →§3) dovevano invece fornire l'educazione retorica, cioè le conoscenze grammaticali, le tecniche oratorie, le conoscenze giuridiche e politiche e anche la cultura generale indispensabili a chi, volendo intraprendere la carriera politica, doveva tenere discorsi in pubblico. Tali scuole erano naturalmente molto costose.
In una città come Atene, che viveva di discorsi, esisteva anche una singolare professione, quella di coloro che scrivevano discorsi per conto terzi. Si tratta dei logografi (letteralmente “scrittori di discorsi”; questo termine in un'altra accezione, del tutto diversa, indica gli storici-geografi come Ecateo di Mileto). Il logografo confezionava discorsi su misura a chi si presentasse in tribunale come accusato o come accusatore, dato che non esistevano gli avvocati, e il cittadino libero doveva pronunciare lui stesso il suo discorso.

§ 2.2. La storiografia e la coscienza storica.
Le scienze e le arti necessarie a tenere un discorso in pubblico, pur avendo un posto centrale, non furono certo le sole coltivate in Atene. Lo sviluppo della scienza fisica e della medicina ippocratica (di cui si è parlato nei capitoli precedenti), nonché della matematica, della geometria e dell'astronomia, è parte di un generale movimento intellettuale che si mantiene in stretta relazione con Atene, il centro riconosciuto della cultura nel V secolo. Decisivi per il formarsi di questa leadership culturale sono i cinquant'anni che vanno dalla fine delle guerre persiane (481) all'inizio della guerra del Peloponneso(431), che culminano con l'"età di Pericle" (443-429).
E' il grande statista ateniese che promuove ogni sorta di studi avanzati e di ricerche scientifiche, artistiche e tecniche. In particolare egli promuove la fastosa ricostruzione di Atene, a suo tempo distrutta dai persiani, alla quale lavorano i più grandi scultori (come Fidia), pittori (come Polignoto), architetti (come Ictino e Callicrate) e urbanisti (come Ippodamo di Mileto). Appartiene alla cerchia di Pericle anche lo storico ionico Erodoto di Alicarnasso (nato poco prima delle guerre persiane e morto dopo lo scoppio della guerra del Peloponneso), che descrive nelle sue Storie le civiltà del vicino oriente e le guerre dei greci contro i persiani, tessendo l'elogio della democrazia ateniese. Egli era considerato dagli antichi il primo maestro del genere storico.
Poiché la generazione successiva produrrà un altro storico di prima grandezza, e cioè Tucidide (460-403 circa, cfr→infra), possiamo ben dire che nella cultura greca classica del V secolo l’interesse per la storia è straordinario, a testimoniare un notevole livello di interesse per il mondo dell’uomo e per i prodotti più propri dell’uomo: la civiltà e la storia. Anche questo conferma la nostra precedente affermazione, secondo cui nell’Atene di Pericle si comincia a prendere coscienza del fatto che esiste un ordine artificiale proprio dell’uomo, un ambito autonomo dalla natura e dalla divinità.
§2.3 APPROFONDIMENTO. Erodoto “padre della storia”. Il suo relativismo etnologico.
Erodoto era stato *considerato dagli antichi il padre della storia, ma questo appellativo non deve farci pensare già all'indagine storica critica e sistematica propria dei moderni.
Certo Erodoto distingue in linea di principio tra ciò che ha visto coi suoi occhi, ciò che gli è stato raccontato da testimoni oculari e ciò che è frutto di diceria o tradizione. D'altro lato egli talora sembra allontanarsi da questo principio di obiettività. Talora, per esempio, riferisce dialoghi inverosimilmente precisi e dettagliati, come quello tra Creso e Solone (almeno cento anni prima del suo libro), o quello sulla miglior costituzione, tra dignitari persiani, ambientato nel 522: *presumibilmente questi dialoghi, inventati o al massimo ricostruiti secondo una certa verosimiglianza, servono ad Erodoto a scopi di educazione morale piuttosto che di rigorosa informazione storica. Inoltre talora il suo libro mescola secondo un ordine non molto chiaro argomenti che anche *noi chiameremmo "storici" con argomenti geografici, etnologici, sociali o anche di tipo aneddotico-edificante, indulgendo al gusto del meraviglioso e del favoloso, e perseguendo lo scopo dell'ammaestramento morale (per avere un’idea di un discorso di questo tipo, cfr. infra → Scheda LA DISCUSSIONE SULLA COSTITUZIONE NEL III° LIBRO DELLE STORIE DI EROTODO).
Di fronte agli usi, ai costumi e alle credenze dei diversi popoli, l'atteggiamento erodoteo è insieme di curiosità e di rispetto. P.es., ferma è la sua condanna del re persiano Cambise perché aveva osato deridere le cose che altri popoli ritenevano sacre. Erodoto al contrario afferma:
Se uno proponesse a tutti gli uomini di scegliere, tra tutti i costumi esistenti, i migliori, ciascuno, dopo averci ben pensato, sceglierebbe i propri: a tal punto ciascuno ritiene di gran lunga migliori i propri.... Tale è la forza del nomos [*il costume, la norma tradizionale, la convenzione sociale] 6... e a ragione, secondo me, Pindaro disse che il nomos è il sommo sovrano.

*Tentando di dare una valutazione complessiva della “filosofia" erodotea, potremmo dire che essa è caratterizzata da un atteggiamento "umanistico" di tolleranza, che si collega con la sua difesa aperta della democrazia e con la sua esaltazione del ruolo di Atene democratica nella lotta antipersiana.

SCHEDA: LA DISCUSSIONE SULLA COSTITUZIONE NEL III° LIBRO DELLE STORIE DI EROTODO: IL GOVERNO DI UNO, DEI POCHI E DEI MOLTI.

Otane, primo interlocutore, è contrario alla monarchia (che in greco significa semplicemente governo di uno solo) perché un governante unico può fare come vuole e non deve rendere conto a nessuno, e perché il potere stesso finisce per accecarlo, rendendolo gonfio di insolenza e di orgoglio, e lo rende in pari tempo diffidente nei riguardi di tutti, tanto da instaurare necessariamente un regime di sospetto e di terrore. Otane propone perciò che il potere passi alla massa dei cittadini maschi adulti, in regime di eguaglianza ("isonomia"). I magistrati saranno eletti o sorteggiati e dovranno rendere conto del loro operato al popolo.
Megabizo è anch'esso contrario al governo di uno solo e alla tirannide che ne segue, ma trova che anche il governo del popolo è colmo di hybris (violenza, sopraffazione). La massa, priva d'intelligenza e di istruzione, non sa nemmeno ciò che realmente vuole. Il governo migliore sarà perciò il governo dei pochi (questo è il significato letterale di oligarchia), perché solo gli uomini migliori, che sono una minoranza, potranno dare il consiglio migliore.
Dario, il futuro re, parla per ultimo e dimostra che l'oligarchia porta alla lotta fra fazioni nobiliari e perciò alla guerra civile, mentre la democrazia fa cadere il governo nelle mani di persone incompetenti, per cui nell'un caso e nell'altro si finirà per tornare inevitabilmente al governo di uno solo, l'unico regime capace di superare le contraddizioni e i conflitti propri degli altri due grazie all'unità del comando; quindi propone la monarchia.
COMMENTO
Erodoto non è certo un fautore del governo di uno solo, dato che, al contrario, nelle sue Storie esalta la democrazia ateniese proprio come il regime che più degli altri in Grecia ha la capacità di guidare la lotta contro la monarchia persiana. Eppure costruisce la discussione in modo da permettere a Dario di avere l'ultima parola. Questo modo di procedere può essere interpretato per un verso come un'espressione del suo relativismo culturale - ciò che è buono per i greci, la democrazia, non è necessariamente buono per i persiani e i barbari in genere, che vivranno meglio sotto una monarchia - per un altro forse come un'esercitazione retorica simile a quelle dei sofisti, consistente nel peculiare esercizio mentale di assumere una tesi qualunque e costruire una serie di argomentazioni a suo favore - oppure contro.
(Cfr.→ §. 3, sui Sofisti)

§2.4. APPROFONDIMENTO. Tucidide tra progresso tecnico e pessimismo antropologico
Tucidide (nato verso il 460, morto verso il 404-403) è l'altro grande storico greco, immediatamente successivo rispetto ad Erodoto. Aristocratico ateniese, fu stratego durante la guerra del Peloponneso, che narrò nelle sue Storie. Già il suo rifiuto di fare ricorso, nella sua opera, al fantastico e al favoloso (mythòdes) lo differenzia da Erodoto, ed è sintomatico della mentalità demitizzante e razionalista che si va affermando sempre più. Egli nella sua Archeologia (così è chiamato l'excursus sulla storia greca delle origini che apre la sua opera) presenta l'età mitica della guerra di Troia come un'età di arretratezza economica e civile rispetto ai progressi di ogni tipo compiuti in seguito e culminati nell'età in cui Tucidide viveva. Egli è poi molto scettico sul valore della testimonianza del gran padre Omero ("come ha cantato Omero, se per qualcuno è testimonio degno di fede", Le storie, I, 9).
Tuttavia la percezione dei progressi economici, civili, tecnici e, si noti bene, strategico-militari, compiuti dall'umanità non significa affatto che egli ritenga che l'intera storia umana si muova verso il meglio, e che ai miglioramenti economici, scientifici e tecnici si debba necessariamente accompagnare un aumento della felicità pubblica e privata, e un miglioramento dell'uomo in generale - questo modo di pensare è tipico invece della moderna filosofia del *progresso. Viceversa l'analisi dei singoli progressi settoriali è in Tucidide collegata con la tesi pessimistica che la guerra del Peloponneso è più grande e più importante di tutte le precedenti. Le gesta della storia umana per Tucidide sono essenzialmente ispirate dal desiderio di ricchezza, potere e prestigio o dalla necessità di difendersi: la brama di ricchezza e di gloria e la paura degli altri sono per lui le passioni che dominano l'uomo, che costituiscono la stessa natura umana. Di conseguenza i progressi delle tecniche e della cultura sono solitamente da lui visti come mezzi per queste aspirazioni.
Nonostante questo sostanziale pessimismo, egli presenta l'uomo anche come capace di discorso e di ragionamento. Anzi, sono proprio i discorsi degli statisti e degli ambasciatori che scandiscono lo sviluppo degli eventi narrati da Tucidide. Tali discorsi sono certamente più attendibili storicamente di quelli di Erodoto di cui abbiamo parlato in precedenza (cfr supra ← §.2.3): Tucidide poteva averli ascoltati personalmente, averne avuto relazioni da testimoni o averne avuto a disposizione anche il testo (non è inverosimile, per esempio, che l'orazione funebre di Pericle, discorso ufficiale propagandistico, sia stata diffusa anche per iscritto). Questo non significa che Tucidide si preoccupi sempre di darci un resoconto fedele fin nei dettagli (secondo i criteri della storiografia contemporanea). I discorsi riferiti nelle Storie hanno soprattutto la funzione di esporre le motivazioni interne e le giustificazioni propagandistiche dei diversi contendenti; attraverso di essi Tucidide mette in luce i valori a cui si ispira la politica delle diverse città-stato greche e mostra come da una determinata mentalità e da determinate istituzioni politiche e sociali scaturisca un certo rapporto con l'esterno.
Naturalmente Tucidide non condivide l'ottimismo di Pericle sull'efficacia politica della cultura della discussione (sulla quale vedi Lettura Introduttiva, ultimo capoverso). L'uomo è certo un essere razionale, capace di calcolare le conseguenze delle sue azioni e di giustificarle di fronte agli altri sulla base di principi morali, ma le società umane sono prese in una spirale di violenza, a causa della loro volontà di dominio. Tale volontà, anche dove non nasce da un atteggiamento immediatamente avido e aggressivo, deriva semplicemente dal desiderio di mantenere le posizioni di ricchezza e di prestigio già acquisite e dal bisogno di prevenire l'aggressione altrui, che la ricchezza e il prestigio inevitabilmente si attirano.
*In conclusione, gli eventi della guerra del Peloponneso mostrano, nelle sue Storie, non solo che la razionalità e il discorso non possono evitare il ricorso alla guerra, non solo che la guerra accompagnata da giustificazioni razionali non è per questo più giusta e più umana (vedi sotto la lettura sul DIBATTITO TRA GLI AMBASCIATORI ATENIESI E I GOVERNANTI DI MELO), ma che chi è più abile nella cultura del discorso, come Atene rispetto a Sparta, non per questo riesce a riportare la vittoria.

§ 2.5. Il teatro in Atene.
Nel capitolo precedente abbiamo accennato alle commedie di Epicarmo rappresentate a Siracusa: se le rappresentazioni teatrali sono certo un'invenzione collettiva dei greci, Atene però sembra aver giocato anche qui un ruolo particolarmente importante. Dal 535, nelle feste di Dioniso, lo Stato ateniese organizzò ufficialmente una gara teatrale cui potevano partecipare tre tragediografi, e dal 488-7 anche una competizione tra cinque commediografi. Nella seconda metà del V secolo a queste prime gare se ne affiancò un'altra, quella delle feste Lenee (anch'esse in onore di Dioniso): una produzione drammatica sterminata.
Lo spettacolo aveva un significato politico in più di un senso del termine. Esso era anzitutto un momento importantissimo della vita comunitaria dei cittadini, a cui non si doveva mancare, al punto che lo Stato dava ai non abbienti un sussidio per rimborsare loro la giornata perduta. Beninteso, lo spettacolo era gratuito e i diversi autori avevano ciascuno il suo "corego", cioè uno sponsor benestante che pagava le spese per ragioni di prestigio o di carriera politica.
In tale occasione, poi, la città celebrava se stessa e le sue istituzioni, ed educava i cittadini alla vita comunitaria: si tenga conto che la selezione dei testi ammessi alla gara era compiuta da appositi magistrati. Naturalmente, la città non aveva una sola voce e una sola opinione, e le differenti concezioni del mondo e della politica si riflettevano nel teatro. Fra l'altro, le tragedie più antiche che ci sono arrivate (cioè quelle di Eschilo, a partire dal 472, le più vicine alle guerre persiane) ci testimoniano un notevole fervore patriottico, mentre le tragedie e le commedie della fine del secolo riflettono lo stato di discordia e le tensioni che porteranno alle guerre civili (si confronti quanto detto su Aristofane nel §. 1).
Infine bisogna considerare che gli applausi popolari contribuivano in maniera determinante alla vittoria di una certa opera, e in questo modo il pubblico dimostrava sia i suoi gusti, sia il suo orientamento politico e ideologico. L'aristocratico e conservatore Platone definisce Atene una "teatrocrazia", in cui il giudizio estetico e morale della massa degli incompetenti prevale su quello dei "bene educati", cioè dei "migliori" (aristoi). Tale "teatrocrazia" è, secondo lui, la degenerazione estrema della democrazia (Le leggi, III, 700 c.- 701 a).

§ 2.6. Le inconciliabili scissioni del mondo umano nella tragedia ateniese
Del teatro considereremo ora solo quello tragico, e per quello comico rimandiamo alla SCHEDA su Aristofane. I tragici di cui parte dell'opera ci è stata conservata sono Eschilo (525-456), Sofocle (496-406) ed Euripide (480-406). Il primo, nobile d'origine, combattente a Salamina e a Maratona, ebbe dei legami abbastanza precisi con la parte democratica, e nei Persiani (del 472) rievocò la grande guerra persiana, esaltando il ruolo della libera città di Atene nella vittoria greca (si noti che la "coregia" di questa tragedia toccò a Pericle, allora ancora piuttosto giovane, ma già identificabile come esponente democratico). Nelle Eumenidi poi, le Erinni (le divinità che simboleggiano lo spirito di faida degli antichi clan (ghenoi) della tradizione aristocratica, sono rese benevole da Atena, dea della sapienza e della ragione, nonché protettrice di Atene, e alla catena di vendette della famiglia di Agamennone è posto fine dal tribunale ateniese dell'Areopago (cfr infra→§1.1). Alla sua morte Eschilo ottenne un solenne riconoscimento ufficiale: la città avrebbe finanziato chi avesse voluto portare in scena di nuovo le sue tragedie.
Sofocle poi, anch'egli nobile, fu direttamente impegnato in politica e fu addirittura stratego sotto il regime democratico. Le sue tragedie che ci sono pervenute non celebrano Atene, almeno direttamente, ma costituiscono piuttosto una cupa meditazione sul destino dell'uomo, dilaniato da valori differenti e inconciliabili. Euripide infine, che non fu direttamente impegnato in politica e appartenne a una generazione ben lontana da Maratona e Salamina, fu il più vicino alla filosofia vera e propria: le sue opere sono ricche di excursus e di riflessioni morali che rispecchiano certe tendenze sofistiche (cfr. → §.3, 4 e 5) sviluppatesi ai tempi della guerra del Peloponneso: critica della tradizione mitica, critica dei costumi e pregiudizi tramandati e delle convenzioni sociali, relativismo morale, scetticismo, individualismo e pessimismo sul destino umano. Fu in relazione, oltre che con diversi sofisti, con Anassagora e probabilmente con Socrate. Insieme a Socrate (e anche più di lui) fu uno dei bersagli preferiti del comico conservatore Aristofane.
Come si può vedere meglio nell'Approfondimento successivo, uno degli oggetti fondamentali della rappresentazione tragica è proprio l'ordine della città e le sue leggi. Anche per il "patriottico" Eschilo tale ordine non è affatto scontato e privo di problemi: nei Sette contro Tebe (467) Eteocle, re di Tebe, in nome del dovere verso la patria, affronta in duello suo fratello Polinice. E' più importante l'ordine della polis o la legge del sangue, su cui poggiano i rapporti di solidarietà della famiglia e dei clan tradizionali? La tragedia non può dare una risposta ed Eteocle e Polinice muoiono entrambi.
La tragedia del V secolo in effetti rappresenta in tutta la loro crudezza i conflitti psicologico-sociali profondi che incrinano la comunità politica ateniese contemporanea. Si tratta dei conflitti tra i valori aristocratici provenienti dai miti degli eroi (dai quali pretendevano di discendere i clan nobiliari, e che erano anche considerati i fondatori o gli antichi sovrani delle città e delle stirpi greche) e i nuovi valori cittadini, affermatisi nelle discussioni giuridiche dei tribunali e delle assemblee: si veda nell'Orestea di Eschilo, del 458, lo scontro tra le Erinni, dee della faida di clan, e Atena, la dea della ragione, che fa sì che il matricida Oreste sia sottratto alle Erinni stesse, e cioè alla vendetta familiare, e giudicato dal tribunale ateniese dell'Areopago.
Si tratta poi dei conflitti tra le regole consuetudinarie della morale e della religione privata e familiare, fondata su una tradizione orale antichissima, da un lato, e, dall’altro, le norme della religione pubblica statale e, soprattutto, della ragion di stato, che poteva creare d’arbitrio nuove leggi (si veda l'Antigone di Sofocle, del 442 circa, in cui Antigone viola il decreto del re Creonte e dà sepoltura al fratello Polinice, che doveva restare insepolto in quanto traditore).
Importante è anche il conflitto tra potere come forza e potere come autorità e persuasione. Così pure quello tra il fato incomprensibile che trascina gli dei stessi e la giustizia divina. Si inoltre delineando una trasformazione della nozione di carattere. Esso talora appare nella tragedia come oscura predestinazione a certe azioni sotto l'impulso irresistibile di un misterioso e incomprensibile spirito sovrumano, il "demone" (in greco "daimon")7 e tal altra come personalità consapevole dei propri fini e dei propri doveri, e capace di compiere scelte responsabili.
L'ordine della città può mantenersi proprio perché è un ordine dinamico: esso riesce in qualche modo a contenere in sé queste spinte contrastanti e anzi spesso ad utilizzarne le vivaci energie: l'orgoglio di clan dei nobili trova spesso la sua soddisfazione nella carriera politica a servizio del regime democratico, la religione ancestrale e "femminile" ha la sua funzione consolatoria nell'ambito della comunità familiare o delle piccole confraternite, mentre i cittadini liberi formano nell'ambito della comunità maschile la loro coscienza patriottica nel segno della religione pubblica e ufficiale, e così via.
*Cerchiamo ora di delineare un’interpretazione sintetica della funzione della tragedia: essa non deve essere considerata né come ideologia banalmente propagandistica in difesa dell'ordine della polis, né (alla moderna) come fuga dalla realtà quotidiana nel "puro cielo" dell'arte, come ideale elevazione dell'autore e del pubblico al di sopra dei conflitti nella dimensione divina del rapimento estetico. Invece, *si può sostenere che normalmente i conflitti nella tragedia, anziché essere risolti e pacificati, sono fatti esplodere fino in fondo, per cui i due opposti arrivano alla loro distruzione senza però rinnegare la loro propria ragion d'essere, senza giungere a un compromesso. Tra l'altro il coro, che si pensa esprima il punto di vista del tragediografo, normalmente non prende posizione per una delle alternative; e di solito neppure il mondo soprannaturale sembra essere dominato da una divinità suprema provvidenziale e invincibile, che imponga la soluzione giusta. Non c'è dunque una forza capace di impedire il cozzare dei contrari e lo svolgersi della tragedia. La "conciliazione", o almeno il ristabilimento dell'ordine divino e umano, è possibile in essa solo alla fine, solo dopo l'esplosione del conflitto in tutta la sua violenza sanguinaria.
L'*interpretazione proposta è applicabile anche a Euripide, le cui tragedie a noi note sono quasi tutte dei tempi della guerra del Peloponneso. Bisogna però precisare che in lui si va perdendo la dimensione di un comune destino cittadino e di una superiore giustizia, e i conflitti di cui tratta la tragedia sono soprattutto conflitti tra caratteri, tra personalità diverse, o conflitti di passioni diverse all'interno della stessa personalità. Agatone, tragico di alcuni decenni più giovane di Euripide, morto presumibilmente alla fine del secolo, svilupperà la tendenza di quest'ultimo a evidenziare i caratteri rappresentando talora addirittura personaggi di sua invenzione (come avverrà poi nella "commedia nuova" borghese del IV secolo) lasciando da parte i solenni eroi mitici della tradizione.
APPROFONDIMENTO: Il senso del tragico nella cultura greca del V secolo e nella sofistica (approfondimento da rileggere dopo i paragrafi sui sofisti)
Il senso del tragico, la coraggiosa accettazione della vita in tutta la sua durezza e la sua violenza, con tutti i suoi conflitti insolubili, viene spesso presentato, riprendendo l'*interpretazione del filosofo Friedrich Nietzsche (1844-1900), come costitutivo dello spirito greco originario.
Esso in effetti può anche accompagnarsi all'esaltazione delle vittorie sui persiani e della democrazia ateniese, alla percezione dei progressi compiuti nelle scienze e nelle arti, così come alla rivendicazione dell'autonomia dell'ordine terreno che gli uomini hanno realizzato, con orgoglio prometeico, nelle loro poleis. Il senso del tragico lo troviamo per esempio nel dialogo immaginato da Erodoto tra Solone e Creso, in cui Solone esprime un assoluto pessimismo sulla possibilità per l'uomo di condurre una vita felice; nel tema stesso delle Storie di Tucidide, la più grande guerra mai combattuta; nei frammenti dei sofisti Antifonte e Critia (cfr. del primo frammenti 50,51, 52 e 53a, e del secondo 49) sull'insensatezza e l'infelicità della vita; e non meno tragica ci pare la tesi paradossale del sofista e retore Gorgia: "nulla esiste, ma se qualcosa esistesse sarebbe inconoscibile, e se fosse conoscibile sarebbe incomunicabile" (cfr. su Gorgia → §.4.2).
L'orgogliosa rivendicazione delle invenzioni dell'ordine umano della polis, propria dell'ambiente pericleo e di buona parte di quello sofistico, può convivere dunque con la constatazione dell'infelicità essenziale dell'uomo, giocattolo nelle mani del caso (o dell'"invidia degli dei" come dice Erodoto). In effetti, secondo *l'interpretazione sopra proposta, la logica della tragedia è essenzialmente ambigua: ci si rifiuta cioè di scegliere tra le alternative contraddittorie, tra le forze opposte in lotta. "L'uomo tragico appare da questo punto di vista solidale con un'altra logica che non stabilisce un taglio così netto tra vero e falso: logica di retori, logica sofistica che, all'epoca in cui la tragedia fiorisce fa ancora posto all'ambiguità" (Vernant, Mito e pensiero nell'antica Grecia, Einaudi, 1983 *[verificare data] p.8, nota 1).
La filosofia sofistica, dunque, che esporremo nel prossimo paragrafo, non pretende di conseguire la verità assoluta e senza contraddizioni. I sofisti, che si interessano prevalentemente dell'ordine della polis e del mondo dell'uomo, ne accettano l'ambiguità, il carattere aperto e dinamico e talora ne riconoscono il carattere tragico (come negli esempi appena visti), cosa che riempirà forse di imbarazzo il nostro lettore. In effetti ciò suscitò anche allora una reazione nella cultura conservatrice (abbiamo parlato degli attacchi contro la cultura sofistica del comico Aristofane) e anche nelle generazioni immediatamente successive. Esse rigettarono tale relativismo, che finiva per mettere in questione l'idea stessa dell'ordine, e per lo più preferirono le filosofie dell'ordine divino eterno, assoluto e non contraddittorio proposte da Platone e da Aristotele.

LETTURA: Il dibattito tra gli ambasciatori ateniesi e i governanti di Melo (dal libro V delle Storie di Tucidide)
Riassumeremo in parte il lungo racconto di Tucidide. Nel corso del sedicesimo anno della guerra del Peloponneso, gli Ateniesi tentano di ridurre all'obbedienza anche l'isola di Melo (nel mare Egeo). "I Meli, che sono coloni spartani, non volevano assoggettarsi, come facevano gli abitanti delle altre isole, al predominio di Atene; ma, dapprima, se ne stavano tranquilli, senza schierarsi né con gli uni né con gli altri; poi, siccome gli Ateniesi ve li costringevano tormentando il loro territorio, erano venuti a guerra aperta". Prima di decidersi a invadere Melo, gli Ateniesi, per intavolare trattative, mandano alcuni ambasciatori, che sono ricevuti da un consiglio ristretto e non ammessi a parlare all'assemblea del popolo (gli ambasciatori insinuano subito che i governanti temano che il popolo si lasci ingannare una volta che abbia sentito le nostre argomentazioni serrate, persuasive e che non ammettono replica).
Di fronte alla proposta di trattative
[§.86] i consiglieri dei Meli risposero così: “(...) la guerra è ormai alle porte; non è solo una minaccia e questo, pare, non si accorda con quanto voi proponete[cioè le trattative]. Noi vediamo infatti che siete venuti in veste di giudici di ciò che si dirà e che, alla conclusione, questo colloquio porterà a noi la guerra, se, com'è naturale, forti del nostro diritto, non cederemo; se invece accetteremo, avremo la schiavitù'(...)
89. Ateniesi: 'Da parte nostra non faremo ricorso a frasi sonanti; (...) non diremo (...) che è giusta la nostra posizione di predominio perché abbiamo debellato i Persiani(...) Però riteniamo che nemmeno voi dobbiate illudervi di convincerci col dire che non vi siete schierati al nostro fianco perché eravate coloni di Sparta e che, infine, non ci avete fatto torto alcuno(...) Voi sapete tanto bene quanto noi che nei ragionamenti umani si tiene conto della giustizia quando la necessità incombe con pari forze su ambo le parti; in caso diverso, i più forti esercitano il loro potere e i più deboli vi si adattano'.
91. ... Siamo ora qui, e ve lo dimostreremo, per consolidare il nostro impero e avanzeremo proposte atte a salvare la vostra città, poiché noi vogliamo estendere il nostro dominio su di voi senza correre rischi e nello stesso tempo salvarvi dalla rovina [si tratta, beninteso, della rovina che l'esercito ateniese stesso poteva procurare alla città], per l'interesse di entrambe le parti'.8
92. Meli: 'E come potremmo avere lo stesso interesse noi a divenire schiavi e voi ad essere padroni?'
93. Ateniesi: 'Poiché voi avrete interesse a fare atto di sottomissione prima di subire i più gravi malanni e noi avremmo il nostro guadagno a non distruggervi completamente'.
94. Meli: 'Sicché non accettereste che noi fossimo, in buona pace, amici anziché nemici, conservando intatta la nostra neutralità?'
95. Ateniesi: No, perché ci danneggia di più la vostra amicizia che non l'ostilità aperta: quella, infatti, agli occhi dei nostri sudditi, sarebbe prova manifesta di debolezza, mentre il vostro odio sarebbe testimonianza della nostra potenza'.
Infatti, proseguono gli ambasciatori, i popoli nostri sudditi [97] "'ritengono che alcuni [degli Stati rimasti indipendenti] siano liberi perché sono forti e noi non li attacchiamo perché abbiamo paura(...)'
Quando i Meli dichiarano di non voler accettare il dominio ateniese perché sarebbe per loro, che sono ancora liberi, una gran viltà se non tentassero [100] "ogni via per evitare la schiavitù", gli ambasciatori obbiettano: "questa non è una gara di valore tra voi e noi, a condizione di parità, per evitare il disonore; ma si tratta piuttosto della vostra salvezza, perché non abbiate ad affrontare avversari che di voi sono molto più potenti".
Un po' oltre i Meli affermano ancora: 104. (...)abbiamo ferma fiducia che, per quanto riguarda la fortuna che procede dagli dei, non dovremmo avere la peggio, perché, fedeli alla legge divina, insorgiamo in armi contro l'ingiusto sopruso(...)
105. Ateniesi: (...)'nulla noi pretendiamo, nulla facciamo che non s'accordi con quello che degli dei pensano gli uomini e che gli uomini stessi pretendono per sé. Gli dei infatti, secondo il concetto che ne abbiamo, e gli uomini, come chiaramente si vede, tendono sempre, per necessità di natura, a dominare ovunque prevalgano per forze. Questa legge non l'abbiamo istituita noi né siamo i primi ad applicarla; (...) ce ne serviamo, convinti che anche voi, come gli altri, se aveste la nostra potenza, fareste altrettanto’ (...)
Inoltre, poiché i Meli avevano accennato alla speranza di ricevere aiuto dagli Spartani, "per il vincolo dell'origine comune e il sentimento dell'onore," gli ambasciatori mostrano che anche gli Spartani agiscono secondo le regole della politica di potenza e, essendo in quel momento troppo rischioso per loro l'intervento militare, non intendono certo intervenire a favore dei loro coloni. I governanti di Melo decidono egualmente di non sottomettersi e gli ambasciatori lasciano la città. Comincia un lungo assedio, che si conclude con la resa senza condizioni degli abitanti dell'isola agli Ateniesi.
116. (... )Questi passarono per le armi tutti gli adulti caduti nelle loro mani e resero schiavi i fanciulli e le donne; quindi occuparono essi stessi l'isola e più tardi vi mandarono cinquecento coloni.
I SOFISTI IN-SEGNANO A PAGAMENTO TUTTE LE SCIENZE
ROTTURA DEL MONO-POLIO ARI-STOCRATICO DELLA VIRTU' POLITICA
IL SOFISTA COME SAPIENTE DI PROFESSIO-NE
ANTITRADI-ZIONALISMO E PRIMATO DELL'ORDINE
DELL'UOMO NELLA FI-LOSOFIA SOFISTICA
DOTTRINE TIPICHE E PROBLEMI COMUNI DEL PENSIERO SOFISTICO
LE CITTA' DE-MOCRATICHE - AMBIENTE FAVOREVO-LE ALLA CUL-TURA SOFI-STICA
CONOSCIA-MO I SOFISTI ATTRAVER-SO FONTI AD ESSI AVVER-SE
I SOFISTI PRECURSORI DELL'ILLUMI-NISMO?
TRAGICITA' E PROGRESSO NON SI E-SCLUDONO DEL TUTTO
L'INSEGNABI-LITA' DELLA VIRTU'
IL PRIMATO DELLA RAGIONE
"RENDERE FORTE IL DISCORSO DEBOLE"
I DISCORSI PRO E CONTRO UNA CERTA TESI

IL PARALLE-LISMO TRA LA MEDICI-NA E LA SOFISTICA: LA MEDICINA CURA GLI IN-DIVIDUI, LA SOFISTICA LE CITTA’
LE ORAZIONI PANELLENI-CHE: UN INVI-TO ALLA PA-CE
IL DISCORSO PUBBLICO E' MEZZO DI IN-FORMAZIONE E DI COMU-NICAZIONE E, INSIEME, SPETTACOLO
INTRATTENERE IL PUBBLI-CO CON LA SOLA PARO-LA E' UN'AR-TE DIFFICILE, CHE PERO' PUO' ESSERE APPRESA
ORAZIONI DELIBERATI-VE, GIUDIZIA-RIE E "D'AP-PARATO"
I DISCORSI PANELLENICI- LA RICERCA DELL'INTE-RESSE CO-MUNE DI TUTTI I GRE-CI
CARATTERE POLITICO ED ESTETICO, MA NON UTI-LITARISTICO, DELL'EDUCA-ZIONE GRE-CA
L'IDEALE A-RISTOCRATI-CO DEL KA-LOS KAI AGA-THOS PUO' ESSERE RAGGIUNTO ATTRAVER-SO L’EDUCA-
ZIONE SOFI-STICA
NELLA PRA-XIS PUBBLI-CA, E NON NELLA TECH-NE O NELL’E-CONOMIA, L’INDIVIDUO AFFERMA LA SUA PERSO-NALITA’
LA CULTURA COME GIOCO E COME COMPETIZIO-NE TRA GLI INDIVIDUI
L'ERISTICA, ARTE DELLA CONTESA CON L'ARMA DEL DISCOR-SO
LA REAZIONE DI SOCRATE E DI PLATO-NE: FINE DEL DISCORSO NON E’ LA VITTORIA SULL’AVVER-SARIO, MA LA VERITA’
LA SENSA-ZIONE E' FONTE DI OGNI CONO-SCENZA E TUTTE LE OPINIONI SO-NO VERE
IL SOFISTA E' IL MEDICO DELLE CITTA'
L'UOMO E' MI-SURA DI TUTTE LE COSE
PER PROTA-GORA TUTTI GLI UOMINI POSSIEDONO IL SENSO DELLA GIU-STIZIA,
MENTRE PER PLATONE LA MISURA DI TUTTE LE COSE E' DIO
SUGLI DEI NON E' DATO DI SAPERE NULLA DI CERTO
IL DISCORSO PRODUCE L'ORDINE DELL'ANIMA
NULLA ESISTE
LA PAROLA E' UN GRAN DO-MINATORE
L'ARTE DEL PERSUADE-RE E' LA MI-GLIORE DI TUTTE, NON IMPLICANDO L'USO DELLA FORZA
PRODICO CONSIDERA GLI DEI PRO-IEZIONE FAN-TASTICA DI FORZE UTILI AGLI UOMINI
IPPIA: SAPE-RE TUTTO E SAPER FARE DI TUTTO
VALUTAZIO-NE POSITIVA DELLA TEC-
NICA
IL PROGRES-SO DELLE SCIENZE E DELLE ARTI: L'UTILITARI-SMO BOR-GHESE DEI SOFISTI
LA RELIGIO-NE NASCE DALLA PAU-RA DELLE FORZE NATU-RALI
CRITIA: LA RELIGIONE PERMETTE DI MANTENERE L'ORDINE SOCIALE
IL CONTRA-STO TRA PHYSIS (NA-TURA) E NO-MOS (LEGGE IN QUANTO CONVENZIO-NE)
ANTIFONTE: SUPERIORI-TA' DELLA LEGGE DI NA-TURA SULLE LEGGI CON-VENZIONALI DELLO STATO
CALLICLE: I RAPPORTI U-MANI SONO RETTI DALLA LEGGE DEL PIU' FORTE
LA GIUSTIZIA NON ESISTE PER NATURA, MA E' FRUT-TO DI UN ARTIFICIO LEGALE, DI UN CON- TRATTO
IL PRIMATO DELLE LEGGI E DELLE CONVENZIO-NI NEL MON-DO SOCIALE ARTIFICIALE DELL'UOMO
ANONIMO DI GIAMBLICO: LA CONVI-VENZA SO-CIALE SENZA LEGGI CON-VENZIONALI E' IMPOS-SIBILE
IL “GOVERNO DELLE LEG-GI” (QUELLO IN CUI SI GOVERNA SECONDO LA LEGGE) E’ PREFERIBILE AL “GOVER-NO DEGLI UOMINI” (I GOVERNANTI SEGUONO IL LORO ARBI-TRIO)
SOCRATE DISCUTE DI FILOSOFIA CON TUTTI, DOVUNQUE E GRATIS
7
NON SCRISSE NULLA

INCURANTE DELLE CON-VENZIONI
SOCRATE CHIEDEVA "CHE COS'E' QUESTO?" (LA DEFINI-ZIONE)
LA DEFINI-ZIONE CO-GLIE CIO' CHE UNA SERIE DI COSE HAN-NO IN CO-MUNE (L'U-NIVERSALE)
SOCRATE DEMOLISCE TUTTE LE DEFINIZIONI E CRITICA LE CREDEN-ZE PRE-CONCETTE
PER SOCRA-TE E PROTA-GORA LA VIR-TU' E' SAPE-RE
IL MALE LO SI COMPIE SO-LO SENZA SAPERLO
MEGLIO PA-TIRE UN'IN-GIUSTIZIA CHE COM-PIERLA
LA RICERCA SENZA FINE DELLA VERITA'
L'ORACOLO DICHIARA SOCRATE IL PIU' SA-PIENTE DE-GLI UOMINI
LA SUA MIS-SIONE E' PUNZECCHIARE I CON-CITTADINI CON LE SUA IRONIA
LA VOCE INTERIORE
VIRTU' (CIO-E' SCIENZA) E' CONO-SCERE IL BENE E IL MALE
IL CONCET-TO E’ L’ES-SENZA NE-CESSARIA DELLE CO-SE,CIO’ CHE LE FA ES-SERE QUEL CHE SONO
L’UNIVERSALE E’ UN’ES-SENZA CO-MUNE A DI-VERSE CO-SE PARTI-COLARI

§. 3. Caratteristiche generali del movimento sofistico

§. 3.1. I sofisti, professionisti dell'insegnamento e della ricerca scientifica e liberi pensatori
A partire da Platone e Aristotele, i greci chiamarono "sofisti" quei sapienti di professione che nel V e nel IV secolo si spostavano di città in città per tenere, a pagamento, lezioni e conferenze su tutte le scienze allora conosciute. Il loro periodo d'oro è all'incirca nell'arco di tempo tra il 460 e 380, e le scienze da loro insegnate erano la matematica, la fisica, l'astronomia, ecc. (già sviluppate dalla tradizione scientifica che abbiamo studiato nei capitoli precedenti), ma soprattutto la retorica,l a grammatica, la teoria del linguaggio, il diritto, la politica e la morale. Il particolare interesse di questi intellettuali e del loro pubblico per le scienze dell'uomo era certo connesso con la libera discussione politica nelle città democratiche e con il desiderio di molti cittadini abbienti di procurarsi una preparazione culturale che permettesse loro una carriera politica di successo; quest'ultima naturalmente dipendeva dalla capacità di persuadere gli ascoltatori nelle assemblee e nei tribunali e di mostrarsi competenti nelle questioni di pubblico interesse.
Socrate, Platone e gli ambienti oligarchici conservatori considerarono con disprezzo questa vendita del sapere. Socrate era scandalizzato dal fatto che il sapere fosse oggetto di commercio soprattutto perché esso per lui era oggetto di un amore disinteressato. Ma ciò che scandalizzava i conservatori non era tanto la vendita in sé, bensì il fatto che i sofisti procuravano una formazione politica a chiunque fosse in grado di pagarli, infrangendo definitivamente la pretesa degli aristocratici (i "kalokagathòi", cioè "i belli e buoni") di monopolizzare la areté (o virtù) politica. La "virtù" di parlare in pubblico e di dirigere lo Stato non è più dunque l'eredità "naturale" delle grandi famiglie nobili o il frutto di un'educazione esclusiva e di una tradizione familiare, ma è accessibile anche a nuovi ceti di arricchiti.
APPROFONDIMENTO. Il termine "sofista"
Nell'uso corrente "sofista" (a cui sono connessi termini come "sofisma", "sofistico", "sofisticare") ha il significato spregiativo di "inventore di argomenti cavillosi" ("sofismi" appunto).
Questo significato trae origine dagli attacchi di Platone contro i sofisti. Tuttavia recenti studi (Kerferd: vedi Bibliografia*) hanno ribadito che nel V secolo questo termine non aveva un senso diverso da quello di "sophos" (sapiente) e veniva ancora usato indistintamente per i poeti del mito antico, per i sette sapienti e per i filosofi presocratici. Certo, personaggi come Protagora e Ippia (vedi oltre) dichiarandosi "sofisti" non mancavano di sottolineare sia i progressi del loro sapere rispetto a quello delle generazioni precedenti, sia il carattere professionale di tale sapere (il suffisso “ista” in greco indica proprio chi esercita un’arte o una professione), sia infine gli alti guadagni che ne traevano.
Come si è detto, è verosimile che la condanna della vendita del sapere fosse motivata dalla difesa del ruolo dei nobili nella vita politica. Ciò è confermato dal fatto che i poeti allora già normalmente traevano un guadagno dalla loro arte, e in particolare i tragici e i comici. Come si è visto nel §. 2.6 a proposito di Eschilo, non era affatto vergognoso per i nobili scrivere opere teatrali, mentre - a quanto riferisce Platone - era vergognoso per loro esercitare la professione di sofista.
La sofistica era dunque una professione e non una teoria filosofica particolare. Tuttavia gli individui che la esercitavano, pur facendosi concorrenza, avevano una mentalità affine e costituivano un ambiente culturale unitario. L'affinità nasceva dalla comune esaltazione dei progressi compiuti, rispetto alla tradizione, dal nuovo sapere retorico e politico, dalla convinzione che qualunque idea tradizionale potesse essere messa in discussione, dalla fiducia nell'efficacia persuasiva della parola e del ragionamento, e dal disinteresse per i problemi più astratti affrontati da una parte almeno della filosofia precedente. Quest'ultima infatti speculava tra l'altro sull'Essere, sulla Natura delle cose e sulla Divinità, problemi che secondo i sofisti erano insolubili, se non addirittura insensati. Per la maggior parte dei sofisti, infatti, è inutile e vano tentare di conoscere l'ordine dato della Natura, l'ordine divino dell'Essere: il loro oggetto tipico di studio è piuttosto l'ordine creato dall'uomo nella polis, nella convivenza sociale organizzata: l'ordine del discorso, l'ordine della legge, l'armonia dell'opera d'arte.
Loro frequente luogo di incontro era la ricchissima e democratica Atene periclea e postpericlea, che ne costituiva il naturale centro d'attrazione. Da queste affinità e dai reciproci contatti nascevano dunque alcune dottrine tipiche e predominanti, che però non erano necessariamente comuni alla totalità dei sofisti (→ §.3.2), così come un certo numero di problemi comuni a cui però (→ §. 5) vennero date soluzioni diverse e perfino opposte. Non si può dunque dire che essi costituissero una "scuola filosofica" unitaria.
Infine essi non costituivano neppure una corrente politica. In effetti essi potevano esistere grazie al regime relativamente tollerante di Atene e di altre città greche, e molti sofisti erano verosimilmente favorevoli ai regimi democratici. Tuttavia sembra che alcuni di essi (soprattutto nella seconda generazione sofista, ai tempi della catastrofe di Atene) professassero un individualismo cosmopolita che li faceva sentire, in quanto "cittadini del mondo", estranei anche a tali regimi. D'altra parte anche certi disincantati uomini politici della fazione aristocratica conservatrice avevano assimilato la cultura sofistica, come quel Critia, fratello della madre di Platone, che capeggiò la violenta restaurazione oligarchica dei Trenta nel 404 in Atene. A quanto sembra, questo reazionario disincantato non credeva più nei valori della tradizione e del mito, ma aveva una visione cruda e realistica dell'uomo, del potere e della religione, che per lui serve a giustificare il potere (su Critia, vedi la nostra interpretazione →§. 5).

Quali sono dunque i tratti più tipici dei sofisti? Come si è intravisto, l'esaltazione del "nuovo" contro i valori della tradizione e del mito, il gusto per la dissacrazione e la distruzione delle certezze, la fiducia nella potenza persuasiva dell'arte della parola, considerata capace di trasformare - come essi dicevano - il discorso debole in discorso forte, ed infine un sostanziale scetticismo sulle "grandi verità" della filosofia precedente. Tuttavia la cultura immediatamente successiva, ad essi ostile, presumibilmente ha calcato eccessivamente la mano sugli aspetti distruttivi della mentalità sofistica.
La questione è piuttosto complessa dal punto di vista storico, poiché tale cultura da un lato è la nostra fonte principale sui sofisti (dei quali abbiamo solo frammenti), e dall'altro non condivideva i valori della democrazia periclea e ha presentato gli ambienti intellettuali sofistici come moralmente corresponsabili della crisi di Atene. Ciò è stato fatto in particolare da Platone, come vedremo. Tutto questo mette la *critica moderna in una situazione di particolare difficoltà, poiché è costretta a farsi un'idea di questi autori quasi esclusivamente attraverso i loro avversari dichiarati.

*APPROFONDIMENTO: LA RIABILITAZIONE CONTEMPORANEA DEI SOFISTI
Reagendo alla condanna quasi unanime degli antichi, molti *moderni sono stati tentati dall'idea di rovesciare il giudizio negativo di Platone e di Aristotele, attribuendo ai sofisti una serie di concezioni borghesi, liberali e democratiche proprie della nostra epoca(almeno dal Settecento in poi) e presentando quindi il movimento sofistico come un vero e proprio movimento illuminista. Alcuni filosofi contemporanei (tra cui il grande Karl Popper) hanno visto qui l'origine della moderna fede nel *progresso, nell'eguaglianza di tutti gli appartenenti alla specie umana, e nella perfettibilità del sapere e delle istituzioni sociali e politiche.
Come vedremo nella Scheda IL CONCETTO DI PROGRESSO NEL MONDO ANTICO, questo concetto, secondo gli studiosi più avvertiti della cultura greca, è sostanzialmente assente nei greci del periodo classico. Le interpretazioni come quella di Popper peccano dunque di anacronismo. Anche il liberalismo, l’eguaglianza e il riformismo politico, per quanto possano essere stati adombrati o anche anticipati da certi pensatori greci, sono, nella loro accezione più stretta, piuttosto estranei alla cultura e alla società greca.
Evitando l’impiego di termini moderni (come progresso, liberalismo, ecc.), *si potrebbe sostenere la tesi che i sofisti avrebbero avuto per primi la consapevolezza del fatto che l'umanità costruisce il suo mondo, i suoi valori sociali, le sue idee e il suo linguaggio in modo autonomo nel corso della sua storia, senza seguire modelli, *trascendenti o naturali. Questa *interpretazione non manca di argomenti a proprio favore, ma ci pare che anch’essa non possa essere accettata senza qualche limitazione e cautela.
Vediamo una prima perplessità. Alcuni importanti autori greci successivi, come Platone ed Aristotele, ritenevano che l'ordine umano debba necessariamente dipendere da modelli trascendenti o da modelli naturali, e respingevano fermamente l'idea di un ordine autonomo del mondo della polis, cioè del mondo dell'uomo (la quale è invece una delle idee-forza della modernità). Di conseguenza è verosimile l'*ipotesi che essi abbiano evitato di tramandarci proprio i concetti più moderni dei sofisti. Tuttavia, se si spinge troppo in là nella ricostruzione di questi concetti, considerando lo stato deplorevole della documentazione in nostro possesso, è forte il rischio, per il lettore contemporaneo, di attribuire ai sofisti idee a lui proprie.
Il secondo difetto di questa interpretazione della sofistica è quello di trascurare quel senso del tragico che caratterizza la sua epoca, e di cui si è parlato nel §. precedente (sull'ambiguità tragica): la visione tipicamente moderna del progresso solitamente attribuisce in modo ottimistico e trionfalistico all'uomo decisive chances di successo nella sua opera di costruzione dell'ordine terreno.
Beninteso, l'interpretazione "illuministica" e l'interpretazione "tragica" possono anche essere viste come complementari, se limitiamo le pretese dell'una e dell'altra. La credenza del progresso nelle arti e nelle scienze non esclude una concezione tragica per quanto riguarda la possibilità per l'individuo di conseguire la felicità e per la società di conseguire la pace e la concordia; la constatazione di uno sviluppo delle forze produttive del genere umano non contrasta con la credenza, tipica del mondo antico, secondo cui tutte le cose umane, e quindi anche gli Stati, sono soggetti al ciclo della nascita, dello sviluppo, della decadenza e della morte. Egualmente la fiducia nella forza di persuasione della parola e nei progressi della retorica non esclude una concezione pessimista della possibilità di conseguire la verità in generale. Infine l’idea che la società, il linguaggio, l’arte e in genere la cultura siano una costruzione artificiale e autonoma dell’uomo non esclude una concezione pessimistica dell’uomo stesso e del suo destino.
Prese queste cautele preliminari, sarà bene affrontare i dati particolari che abbiamo sul movimento sofistico e sui singoli sofisti, dati che fatalmente lasceranno insoluti molti degli interrogativi del nostro lettore.

§. 3.2. Dottrine ricorrenti nel movimento sofistico
Non esiste, come si è già detto, una filosofia unitaria dei sofisti. E' possibile però rintracciare alcune dottrine che la tradizione antica ci ha presentato come tipiche del movimento sofistico e che sono presenti, sia pure con qualche variazione, nei frammenti di una buona parte di essi. Le esponiamo qui di seguito, poi cercheremo di caratterizzare i singoli autori più importanti (§. 4) e infine parleremo di alcuni problemi tipici del movimento sofistico nel suo insieme cui i singoli hanno dato risposte diverse o anche contrapposte (§. 5).
a. La virtù (aretè) è insegnabile, e i sofisti sono in grado di insegnarla (a pagamento). Di questa dottrina sofistica ci dà più volte testimonianza Platone, parlando dei sofisti in generale. *A noi pare evidente che tale dottrina sia in netta opposizione con le credenze tradizionali secondo cui la virtù sarebbe una caratteristica naturale dell'aristocratico kalokagathòs (bello e buono), o secondo cui, come diceva nel VI secolo il poeta Teognide, i nobili costumi si apprendono solo dalla frequentazione dei nobili. La virtù di cui si parla, beninteso, è anzitutto la capacità di primeggiare sugli altri nelle discussioni politiche (piuttosto che la virtù guerriera del coraggio o la saggezza nella condotta individuale). *Noi possiamo desumerne che, se la virtù è insegnabile, gli uomini sono almeno potenzialmente eguali e egualmente perfettibili. Ciò è confermato dalle dottrine di Protagora, il più rappresentativo dei sofisti, che esporremo nel § seguente.
b. Colui che possiede la sapienza, agisce bene (cioè in modo utile a lui stesso e ai suoi amici), e nessuno fa il male intenzionalmente. *In altri termini, la retta conoscenza è condizione sufficiente per l’azione razionale, e , se non si agisce razionalmente, è perché non si possiede realmente una retta conoscenza delle cose da fare.
Nel dialogo Protagora, Platone attribuisce questa dottrina proprio a questo sofista, che, come si è detto, è particolarmente rappresentativo. Platone riferisce inoltre che anche Socrate la condivideva. *Se ne può desumere che, per la cultura sofistica, il sapere e la ragione sono le virtù più importanti dell'uomo.
c. I sofisti ritenevano immensa la potenza dell'artificio oratorio e credevano nel primato della retorica (dell'arte della parola) sul resto del sapere. Essi professavano l'”arte della persuasione”, e l'”arte di trasformare il discorso debole in discorso forte”.
Quest’ultimo nucleo di dottrine ci è attestato da molteplici fonti (Platone, Aristotele, Senofonte, Aristofane, la cosiddetta "seconda sofistica" del II° sec. d.c., ecc.). Quasi sempre le fonti ad essi contemporanee accusavano i sofisti di non curarsi affatto della verità e di usare la retorica come inganno a livello logico e come mezzo per manipolare le credenze del pubblico sfruttando i sentimenti. Ma, al contrario, *si potrebbe anche intendere l'insegnamento sofistico come formazione della capacità critica di vedere i punti deboli del discorso forte e i punti forti del discorso debole e di non adagiarsi mai in una verità definitiva ed assoluta. *Si può forse dire che nella cultura sofistica convivevano ambiguamente entrambi gli atteggiamenti.
APPROFONDIMENTO. Il potere della parola: il sofista è un sovvertitore dell'ordine tradizionale o il medico delle città?
L'alta stima del potere della parola nel mondo sofistico e nell'intera cultura del V secolo la si può anche desumere dal fatto che era assai frequente un tipo di esercitazione oratoria consistente nella contrapposizione sistematica di argomentazioni pro e contro una certa tesi. E’ significativo il titolo di uno scritto di Protagora, le Antilogie (cioè, i Discorsi contrari), e sappiamo di opere analoghe di altri autori. Inoltre possediamo il testo di una orazione anonima, intitolata Discorsi doppi, che ci permette di vedere sistematicamente in azione questo procedimento: su numerosi temi essa argomenta, con ragionamenti apparentemente plausibili, una tesi e il suo contrario.
Come replicavano i sofisti alle accuse dei conservatori di minare, con esercitazioni di questo tipo, ogni certezza religiosa e morale o di insegnare in pratica ai loro allievi a sfuggire con raggiri ai propri doveri verso la famiglia o verso lo Stato - accuse che troviamo per esempio nella commedia Le Nuvole di Aristofane? Gli intellettuali e i sofisti nella commedia sono presentati come venditori di fumo, avvocati di cause disoneste, rovinafamiglie che minano l’autorità paterna, atei e sporcaccioni. Ma il clou è la grottesca contesa tra il Discorso Giusto e il Discorso Ingiusto, con il finale trionfo di quest’ultimo, ambientata da Aristofane nella presunta scuola di Socrate.
Protagora, da parte sua, sosteneva che tutte le opinioni sono vere, ma che il sofista può persuadere i cittadini ad adottare opinioni utili alla città, paragonando la funzione del sofista nei confronti dello Stato a quella del medico nei confronti del malato (ciò è attestato da Platone nel Teeteto). Insomma, le sensazioni sono sempre vere, ma il medico ci può aiutare ad avere sensazioni piacevoli anziché sensazioni spiacevoli; egualmente anche tutte le opinioni sono vere, ma il sofista, medico della città, ci può aiutare ad avere opinioni utili a noi e agli altri.
Abbiamo già affermato che l'arte medica, la professione che è al servizio dei privati in quanto uomini liberi, si dà precocemente le regole di una scienza sperimentale verificabile e controllabile (cfr. Ipocrate e scuola ippocratica di Cos); è significativo che proprio ad essa si ispiri Protagora quando presenta l'arte sofistica come una professione al servizio della salute pubblica delle città.
Da questa concezione della sofistica, che trasforma le opinione dannose e patologiche dei cittadini in opinioni sane e utili per la città, *noi potremmo concludere che per i sofisti la conoscenza del vero non aveva valore in sé, ma che per loro il vero coincide con l'utile, e il fine del loro sapere era prima di tutto pratico: migliorare la società, per Protagora; rendere i propri clienti in grado di primeggiare sugli altri, per moltissimi altri sofisti.
Per capire in concreto questa concezione, bisogna tener presente naturalmente l'attività dello stesso Protagora, chiamato da Pericle a redigere le leggi della colonia panellenica di Turii, svolgendo, se così si può dire, un lavoro di medicina preventiva delle città. Bisogna altresì tener presenti i discorsi pronunciati in pubblico da alcuni sofisti alle grandi feste panelleniche. Come vedremo meglio nel §.3.3.Approfondimento (su La letteratura sofistica e i generi dei discorsi pubblici nel V e nel IV secolo), i sofisti avevano anche una produzione letteraria destinata a tutti i greci nel loro insieme: in tali orazioni, pronunciate o vendute manoscritte in occasione delle grandi feste panelleniche (olimpiadi, feste pitiche di Delfi, ecc.), essi si rivolgevano esplicitamente a tutto il pubblico capace di comprendere il greco, al di là dei limiti delle città-stato e delle leghe e fazioni contrapposte. Si trattava di esortazioni alla pace e alla concordia che facevano parte in sostanza del programma celebrativo delle feste: potremmo dire che esse accreditavano chi le pronunciava come "medico delle città".
Si potrebbe facilmente obiettare che, se i pazienti non guarivano o addirittura morivano tra atroci dolori (si pensi alla guerra del Peloponneso), si trattava certamente non di medici, ma di ciarlatani. Secondo Aristofane, Platone e molti altri, la cura sofistica è addirittura all’origine della malattia stessa. Non siamo certo in grado di fornire qui l’esatta diagnosi del grave morbo che colpì la civiltà greca duemila cinquecento anni fa. *Forse i sofisti sopravvalutavano il potere della cultura e dell’arte della parola quando pensavano che potessero guarire le città, e forse li sopravvalutava anche Platone quando pensava che potesse farle morire. *A noi sembra importante soltanto cercare di cogliere la lezione di umanità che essi ci hanno lasciato.

§.3.3. Approfondimento. La letteratura sofistica e i generi dei discorsi pubblici nel V e nel IV secolo
Abbiamo visto nei paragrafi precedenti che l'arte del discorso pubblico svolgeva una funzione essenziale nella vita sociale delle città greche e in particolare di Atene. Del resto, se si considera che mancavano i giornali e gli altri mezzi di informazione e di intrattenimento a cui noi siamo abituati (a parte il teatro), ben si comprende che l'ascoltare un discorso fosse un momento di particolare interesse spettacolare e di particolare tensione emotiva per il pubblico. Inoltre mancavano mezzi di amplificazione sonora della potenza di quelli odierni - anche se non bisogna sottovalutare l'acustica sofisticata e suggestiva dei teatri, che talora aveva notevoli effetti spettacolari.
Dunque l'oratore doveva sviluppare molte differenti capacità. Aveva infatti bisogno di una notevole capacità di dizione, di una notevole capacità di attrarre su di sé (con la gesticolazione, l'intonazione e le immagini toccanti del suo discorso) l'attenzione degli spettatori (che, rumoreggiando, avrebbero potuto facilmente disturbarlo), di una notevole memoria nel ricordarsi il testo (leggere parola per parola un testo scritto impedisce la gesticolazione e fa un'impressione negativa sul pubblico; naturalmente è sempre possibile che l’oratore avesse vicino una specie di suggeritore), e infine anche di una notevole capacità di improvvisazione (per adattarsi agli umori del pubblico). Tutto questo richiedeva l'apprendimento di svariate tecniche e un lungo esercizio nelle scuole dei retori e sofisti, dove gli allievi potevano imitare il modello ad essi fornito dalla recitazione del maestro.
Vediamo ora le diverse occasioni in cui i discorsi venivano pronunciati e i generi del discorso. Veniva chiamato discorso deliberativo quello pronunciato di fronte ad un'assemblea o ad un consiglio per convincere gli ascoltatori a prendere una determinata decisione. Questo genere di discorso è evidentemente di importanza capitale nella carriera del politico e del diplomatico, che è essenzialmente un rhetor (un oratore), come risulta anche dai discorsi inseriti nelle Storie di Tucidide. Beninteso, oltre alle occasioni in cui si dovevano prendere decisioni, c'erano diverse altre circostanze ufficiali in cui un politico doveva essere in grado di pronunciare un discorso di alto livello - si pensi all'orazione funebre (epitaffio), pronunciata da Pericle per i morti del primo anno della guerra del Peloponneso.
Ma l'oratoria non serviva solo alla politica: importante è anche il discorso giudiziario, che deve indurre i giurati a deliberare un certo verdetto, e che argomenta pro o contro una certa tesi. Ad Atene essi dovevano essere recitati direttamente dalle parti in causa (l'imputato si difendeva di persona e l'accusatore non era un pubblico ministero, ma un cittadino qualunque, che intendeva chiedere un risarcimento per un danno o far punire un crimine); per questo, piuttosto che la professione di avvocato, si sviluppò la professione del logografo, che, esperto tanto nel diritto che nell'arte della persuasione, scriveva e vendeva discorsi giudiziari e assisteva l'accusatore o l'imputato. Grandi logografi furono Lisia e Isocrate, entrambi allievi di Gorgia (considerato il padre della retorica) e entrambi attivi in Atene nella prima metà del secolo quarto.
Un genere abbastanza diverso era invece il discorso d'apparato, una specie di dimostrazione o esibizione (epìdeixis) di sapienza da parte di un maestro di retorica o di un sofista. In tale discorso esso faceva sfoggio di cultura, di intelligenza e di abilità di persuasione, per procurarsi discepoli. Anche questo discorso si prestava ad essere venduto manoscritto, sia per il suo interesse formativo e informativo, sia per il suo valore estetico.
Un particolare discorso d'apparato è il discorso panellenico, che è forse l'esempio più chiaro della sofistica e della retorica come "medicina delle città" (secondo la concezione di Protagora). Sappiamo per esempio che Gorgia scrisse, in occasione delle olimpiadi del 392, un Discorso olimpico; e inoltre ci è stato tramandato per intero il Panegirico di Isocrate, anch'esso scritto in occasione delle feste ginniche panelleniche: si noti che in tale occasione si dovevano sospendere le guerre tra le città e veniva istituita una tregua sacra. Tali feste erano anche occasione per i sofisti per farsi pubblicità e per vendere il loro sapere ad un pubblico proveniente da tutto il mondo di lingua greca: per esempio, il sofista Ippia (secondo il racconto di Platone) si recava ad Olimpia proprio per esibire le sue capacità intellettuali e le sue conoscenze scientifiche e tecniche. Il tipico contenuto di questi discorsi era naturalmente l'esortazione alla pace, alla concordia e all'unità dei greci contro i barbari in nome dei valori comuni.
Non bisogna pensare però che la sofistica e l'arte del discorso fossero collegate solo ai problemi giudiziari e politici, cittadini o panellenici che fossero. La curiosità intellettuale, l'amore per la cultura e per la bellezza, il gusto per la competizione e per l'esibizione sono qualcosa che traspare da tutta la vita sociale, artistica, culturale e (aspetto non secondario) sportiva dei greci. L'insegnamento sofistico è anche fine a se stesso, o meglio, è finalizzato alla formazione dell'individuo nel suo complesso, come uomo pienamente sviluppato in tutti i suoi aspetti e le sue facoltà. Del resto una tale formazione culturale, come anche un gradevole aspetto fisico, erano anche apprezzati dal pubblico che ascoltava le orazioni giudiziarie o politiche e non mancavano di aumentarne l'efficacia.
Kalòs kai agathòs (bello e buono) è la formula che esprime l'ideale umano dei greci: in origine indicava gli aristocratici raffinati ed educati (così come una volta gli aristocratici europei si autodefinivano gentiluomini), ma anche gli altri ceti, attraverso l'insegnamento sofistico, la cultura e la ginnastica, ambivano a questo traguardo.
Per questo, come si è detto, i sofisti insegnavano al pubblico dei nuovi ricchi tutte le diverse scienze sviluppatesi nel periodo precedente. Per questo, si badi bene, molto più che per finalità pratiche di tipo tecnico ed economico: a questo pubblico di solito non sta a cuore l'utilità pratica della conoscenza e la sua applicazione tecnica. Questi sono problemi che riguardano solo pochi specialisti. Piuttosto esso considera tanto la politica, quanto la cultura, la ginnastica e lo sport come attività (praxeis) proprie del tempo libero (scholé) del cittadino libero e benestante, in cui esso esprime di fronte agli altri la sua personalità, in cui esso occupa lo spazio che gli compete nei confronti degli altri, in cui esso recita la sua parte nel teatro della vita sociale.
La praxis, secondo l'illuminante analisi della vita sociale greca svolta da Hannah Arendt in Vita activa (Bompiani, 1989), comprende tutte le attività che non hanno come scopo la sussistenza o il guadagno, cioè le attività in cui l'individuo afferma la sua personalità di fronte agli altri e in cui partecipa all'attività comune: si tratta della politica, della guerra, dell'educazione dei giovani, del teatro, della cultura (che in buona parte consiste in audizione di discorsi e in discussioni). La praxis e non la techne (arte, professione, tecnica) è ciò che fa dell'uomo un vero uomo libero, kalòs kai agathòs e dotato di virtù, in competizione agonistica con i suoi pari.
In questo contesto si capisce come la scienza e la cultura avessero spesso il senso di un gioco e, appunto, di una competizione: l'eristica era appunto l'arte della contesa attraverso il discorso, l'arte di confutare la tesi dell'avversario qualunque essa fosse. La lotta dialettica probabilmente aveva un fascino sui greci non inferiore a quella dell'agone sportivo.
L'origine dell'eristica è da rintracciasi forse nella dialettica di Zenone: egli confuta gli avversari attraverso il paradosso, la riduzione all'assurdo delle loro tesi. Eguale è il procedimento dei maestri eristici: essi costringono l'avversario a trarre dalle proprie tesi delle conseguenze assurde, in modo da confutarlo. Per avere successo in questo procedimento, essi però abitualmente giocano sull'ambiguità dei termini che esprimono la tesi da confutare, o inducono l'interlocutore a trarre deduzioni scorrette dalle sue premesse, ed è proprio per questo che la sofistica è stata poi considerata l'arte dei cavilli e dei trucchi verbali o logici.
L'eristica, ed insieme ad essa la stessa arte sofistica, per questi eccessi risultò ben presto screditata agli occhi dei bempensanti, come si vede dalle Nuvole di Aristofane. Perfino Socrate e Platone furono accusati di essere eristi. Essi in realtà facevano uso (come gli eristi) del discorso breve, cioè di un dialogo costituito da una serie di domande e di risposte, per cui un interlocutore A mostra ad un interlocutore B le conseguenze della stessa tesi iniziale di B e gli chiede il suo assenso (del tipo: "tu pensi che la giustizia consista nel denunciare alle autorità chi commette un reato - Sì - Quindi è giustizia denunciare anche i propri genitori, se commettono un reato? -Sì", ecc.); proseguendo in questo procedimento A costringerà B ad ammettere che la sua tesi iniziale ha conseguenze assurde e a confutarsi così da sé. Ma Socrate e Platone consideravano i loro procedimenti conformi alle regole della logica e, a loro dire, rinunciavano ai trucchi logici e a travestire il "discorso debole" da "discorso forte". Perciò, nella loro concezione, il fine non era la vittoria sull'avversario, ma il conseguimento della verità (cfr. infra).

§. 4. I principali sofisti.

§ . 4.1. Protagora di Abdera: "l'uomo è misura di tutte le cose".
Protagora di Abdera fu un personaggio assai vicino a Pericle, che, a quanto pare, gli fece scrivere le leggi della colonia panellenica di Turii. Tale colonia, come si è accennato, fu fondata per iniziativa di Pericle stesso nel 444, e, dato che alla sua fondazione parteciparono anche altri intellettuali innovatori (come lo storico Erodoto e l'architetto Ippodamo di Mileto), *si deve pensare che questo evento abbia assunto una particolare importanza per la cultura democratica di cui Atene era il centro animatore, e che Protagora fosse anche ufficialmente uno dei principali animatori di essa.. Nel 411 dovette fuggire da Atene sotto l'accusa di empietà, come già Anassagora. Di lui conosciamo i titoli di numerose opere, tra cui ricordiamo La Verità (o Discorsi demolitori), Le antilogie, Sugli dei, Sul governo, Sulle virtù, Della condizione originaria dell'uomo (in cui si narrava l'origine della civiltà). Per il resto, è noto solo attraverso frammenti e attraverso l'esposizione delle sue dottrine fatte da Platone, Aristotele e qualche altro.
Secondo il Teeteto di Platone, egli seguiva la dottrina degli eraclitei, e sosteneva perciò che tutto si muta e che la sensazione è la fonte di ogni conoscenza. Per lui ogni opinione è vera, poiché tutte le sensazioni sono vere per chi le prova. Se tutte le sensazioni sono egualmente vere, non sono però egualmente buone e utili; come si è detto, toccherà al sofista, medico del corpo sociale, di persuadere i cittadini a modificare le opinioni dannose in opinioni socialmente utili.
Questo resoconto di Platone è confermato dal più celebre frammento di Protagora pervenutoci: "di tutte le cose è misura l'uomo. Di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono". Questa affermazione coincide con quella già ricordata, secondo cui tutte le opinioni sono vere.
Va più o meno nella stessa direzione anche quest'altra dottrina (riportata da Platone nel dialogo Protagora): le attitudini alle varie tecniche sono variamente distribuite tra gli individui, mentre tutti quanti possiedono il senso della giustizia e dell'onore, che sono i requisiti della società stessa. *Dunque con l'affermazione secondo cui l'uomo è misura delle cose è connessa l'idea che tutti quanti gli individui possano essere arbitri non solo del vero e del falso, ma anche del giusto e dell'ingiusto. Questa affermazione, così risolutamente contraria alle varie autorità (del mito, della tradizione, dei nobili, dei sacerdoti e degli indovini, ecc.) sembra anche collimare perfettamente con la concezione periclea della democrazia, in cui a decidere è l'opinione della maggioranza. Essa collima anche con la circostanza pratica che la maggioranza poi era "persuasa" a opinioni "utili" da quei "medici dello stato" che erano i politici ateniesi, formati alla scuola dei sofisti. Platone nelle Leggi, dove condannerà fermamente la democrazia e la "teatrocrazia" di Atene (cfr. §.2.3. Il teatro in Atene), contrapporrà altrettanto fermamente al detto di Protagora la sentenza secondo cui invece "Dio è misura di tutte le cose".
E' significativa infine l'opinione di Protagora sugli dei: di essi non si può dire né che sono né che non sono", data "l'oscurità dell'argomento". *Come si vede, il sapere sofistico abbandona le pretese del pensiero precedente, che aveva mostrato in molti casi l’ambizione di svelare la natura della divinità o il senso del mondo (Senofane ed Eraclito non avevano esitato a parlare di un dio reggitore della natura, Parmenide si era dichiarato ispirato da una dea, i pitagorici ed Empedocle avevano tentato di svelare il senso del mondo).

4.2. Gorgia di Lentini: la parola come artificio.
Gorgia, vissuto circa dal 490 al 390, nato nella piccola città di Leontini (oggi Lentini) in Sicilia, di cui fu ambasciatore ad Atene, come retore e insegnante di retorica girò per tutta la Grecia. Fu, tra l'altro, maestro dei celebri retori ateniesi Lisia ed Isocrate.
Secondo Gorgia, "la potenza del discorso sta nei riguardi dell'ordine dell'anima nello stesso rapporto della potenza dei farmaci nei riguardi dell'ordine del corpo".
*Potremmo desumerne che il discorso - una creazione artificiale dell'uomo, nella quale i sofisti erano maestri - produce l'ordine nell'anima e stabilisce in essa un equilibrio. Certamente non c'è, tra i frammenti di Gorgia rimastici, una diretta rivendicazione dell'autonomia dell'ordine artificiale umano rispetto all'ordine naturale e all'ordine divino (di cui parlano le filosofie precedenti), ma *ci pare chiaro che il testo citato vada in questa direzione: come attraverso l’artificio dei farmaci il medico riesce a dominare il corpo, assegnandogli l’ordine da lui voluto, così attraverso l’artificio del discorso il retore assegna all’anima l’ordine da lui voluto.
Egli ha cercato di mostrare la straordinaria potenza del discorso scrivendo "scherzi retorici" come l'Encomio di Elena e L'apologia di Palamede . Queste due breve orazioni, il cui testo ci è pervenuto, sono entrambe finzioni letterarie: non sono cioè destinate a essere dette in pubblico per perorare la causa di persone reali, ma sono discorsi di elogio di personaggi del mito.
Molto audace e paradossale è l’idea di fare l’encomio proprio di Elena, la donna che abbandonando il legittimo consorte Menelao, fu la causa della mitica guerra di Troia. Elena secondo Gorgia non ha alcuna colpa, se persuasa dalle parola di Paride, perché la persuasione del discorso ha la capacità di persuadere l’anima, con la stessa necessità con cui la forza costringe il corpo. Quanto a Palamede, accusato da Ulisse di tradimento di fronte ai guerrieri greci, per dimostrare di avere avuto un vita encomiabile e di essere un grande benefattore dei greci, di tutti gli uomini, e anche dei posteri elenca le sue invenzioni, che hanno saputo “rendere la vita umana facile da difficile che era, e civile da incolta”. Si tratta niente meno che delle “regole dell’arte della guerra”, delle “leggi scritte, custodi della giustizia”, dell’”alfabeto, strumento della memoria, delle “misure” e dei “pesi, comodi mezzi di scambio nei rapporti commerciali”, del “numero, custode dei beni” (*si noti che
*Secondo alcuni è uno scherzo o una parodia anche la sua opera non pervenutaci Del Non Essere. In essa Gorgia riduceva all'assurdo le tesi di Parmenide sull'Essere, cercando di dimostrare che "Nulla è; se qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile; se fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile". Dato che Parmenide sostiene che solo il vero Essere è veramente conoscibile e coincide non con i dati sensibili, ma con il nostro Pensiero, il sofisma di Gorgia, argomentato con sottigliezza, ne costituisce il paradossale rovesciamento: egli dunque usa contro il maestro dell'eleatismo quei procedimenti dialettici che Zenone usava a suo favore (Aristotele ci ha esposto le argomentazioni di Gorgia nel fr. 3.a dei Presocratici).
*Secondo molti interpreti, non si tratterebbe di una parodia, ma di un'effettiva dichiarazione di scetticismo: in tal caso proprio l'impossibilità di conoscere l'Essere farebbe risaltare l'importanza del discorso e del linguaggio come strumenti di persuasione del tutto autonomi dalla conoscenza della realtà oggettiva. Dice infatti Gorgia nell'Encomio di Elena che "la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere." Dunque, "gli ispirati incantesimi di parole sono apportatori di gioia, liberatori di pena. Aggiungendosi infatti alla disposizione dell'anima la potenza dell'incanto, questa la blandisce e persuade e trascina col suo fascino. Di fascinazione e magia si sono create due arti, consistenti in errori dell'anima e in inganni della mente".
Le arti retoriche, dunque, per Gorgia hanno la stessa forza della fascinazione magica. Esse ci permettono di persuadere gli altri e direalizzare i nostri biettivi senza far uso della violenza e della costrizione.

APPROFONDIMENTO. La finzione letteraria come autoinganno consapevole in Gorgia.
Il lettore non deve lasciarsi troppo influenzare dalle parole "errori dell'anima e inganni della mente", e neppure dal fatto che, nell'Encomio di Elena, l'"arte magica" della parola è vista nei suoi usi malvagi (la seduzione di Elena da parte di Paride). Ci risulta invece che Gorgia stesso praticasse l'"arte di persuadere gli uomini ad adottare opinioni utili", di cui parla Protagora: infatti, tra l'altro, fu ambasciatore di Leontini ad Atene, riuscendo ad ottenere l'alleanza degli Ateniesi per la sua città, e fu autore di un Discorso olimpico, che invitava i greci alla pace e alla concordia. Dell'utilità sociale della retorica per Gorgia ci testimonia anche Platone nel dialogo Filebo: "O Socrate, udii spesso Gorgia ripetere come l'arte del persuadere molto differisca da tutte le arti, perché essa rende soggetti a se stessa tutti gli esseri di loro spontanea volontà e non già con la forza, e come sia di gran lunga la migliore di tutte le arti" (Filebo, 58 - a b).
*Si può infine suggerire l'ipotesi che l'inganno e l'artificio, per uno scettico come Gorgia, sono un male solo qualora conducano ad azioni dannose, ma non sono un male in sé e per sé, non esistendo alcuna verità da conoscere obiettivamente. Infatti Gorgia nell'Encomio di Elena elogia anche le finzioni meravigliose prodotte dalla poesia, che fa anch'essa parte dell'arte della parola, e altrove esalta l'arte della tragedia. Lo si può vedere da questo passo di Plutarco (letterato del I°-II° sec.d.C.): "Fiorì allora la tragedia e fu celebrata dai contemporanei come audizione e spettacolo mirabile, poiché creava con le sue finzioni e passioni 'un inganno - dice Gorgia - pel quale chi inganna agisce meglio di chi non inganna, e chi è ingannato è più saggio di chi non è ingannato'" (Frammenti dei presocratici, Gorgia, 2S). Si tratta evidentemente dell'autoinganno consapevole per cui lo spettatore si immedesima nella creazione tragica. *Si può dunque affermare che l'ordine artificiale creato dal poeta tragico appare qui del tutto autonomo rispetto a qualsiasi ordine reale delle cose, della natura e dell'essere.

§.4.3.APPROFONDIMENTO. Altri sofisti: Prodico e Ippia
1. Prodico, nato a Ceo verso il 470-460, scrisse un libro Sulla natura e studiò anche il linguaggio, occupandosi delle etimologie dei nomi, nonché dei sinonimi e delle loro differenze, nel tentativo di stabilire un uso univoco e rigoroso dei singoli termini. Questo sofista insegnò per molti anni ad Atene, esercitando una importante influenza. E' probabile che Socrate, che ascoltò le sue lezioni, ne traesse l'esigenza di definire in modo univoco i termini e di cogliere il concetto che essi significano. I sofisti sono certo famosi perché usavano giocare sull’ambiguità delle parole per aver ragione degli avversari nelle loro dispute, ma è anche vero che proprio nel loro ambiente nasce l’esigenza di studiare il linguaggio per farne un uso rigoroso.
Prodico tra l'altro sosteneva che gli uomini hanno divinizzato sia le forze naturali ad essi utili, sia gli inventori di cose utili. Per questo lo scettico Sesto Empirico (sec. II-III) lo enumererà, a torto o a ragione, tra gli atei (sulla concezione che Prodico aveva della religione, cfr. §. 5).
2. Un esponente veramente tipico della mentalità sofistica sembra poi Ippia di Elide (nato nel 443 circa e morto nella prima metà del quarto secolo). A sentire Platone, egli si vantava di essere dotto in tutte le scienze sia naturali, sia matematico-geometriche, sia retorico-politiche, e di aver ricavato grandi guadagni dalla vendita del suo sapere. Egli avrebbe avuto una straordinaria erudizione storica e sarebbe stato l'inventore di una tecnica per imparare a memoria testi lunghissimi (tecnica utilissima per chi doveva recitare discorsi in pubblico). Ippia si vantava di questa sua polymathia (=sapere molteplice), come pure della sua polypragmosyne (=abilità pratica molteplice) e, secondo Platone, sostenne una volta di aver egli stesso fabbricato tutti i vestiti che indossava e tutti gli strumenti e gli ornamenti che si portava dietro. Se guardiamo al di là del suo carattere di spaccone (su cui Platone insiste polemicamente), è chiaro che per lui le arti manuali, le conoscenze tecniche, così come i vantaggi e i guadagni da esse ricavati, non sono causa di imbarazzo o di vergogna, come per gli aristocratici greci, che disprezzavano il lavoro manuale e il commercio, ma piuttosto motivo d'orgoglio.
Ci risulta anche che una volta chiamasse i sapienti con lui riuniti per una discussione "concittadini per natura e non per legge" (così riferisce Platone nel Protagora). Se ne può trarre l'ipotesi che la concezione dei sapienti come cosmopoliti, cioè cittadini del mondo, accomunati dalla conoscenza della natura e dal metodo della discussione razionale, sia nata proprio in ambiente sofistico.
Ancora più chiara si delinea in Ippia l'idea che il sapere e le arti del suo tempo avessero in ogni campo sopravanzato quelle degli antichi. Platone gli attribuisce questa opinione nel dialogo Ippia Maggiore, in cui lo dipinge avido di denaro e pieno di orgoglio per i suoi guadagni. Ironicamente Platone - che spesso lodava i severi costumi aristocratici del "buon tempo antico" - osserva che i sapienti di una volta erano così ignoranti e arretrati da non conoscere il valore del denaro, per cui insegnavano senza compenso ciò che sapevano... *E' interessante notare che Platone associa l'utilitarismo dei sofisti e la loro valutazione positiva del progresso tecnico al loro individualismo e alla loro sete di guadagno. Essi si presentano dunque come gli esponenti della cultura innovativa dei nuovi ricchi borghesi, portatrice di valori che sovvertono gli equilibri sociali tradizionali, destinata ad incontrare l'avversione della cultura aristocratica e degli ambienti conservatori.

§. 5. Approfondimento: i dibattiti dei sofisti analizzati attraverso i frammenti: 1, sull'origine della religione, 2, su natura e legge e 3, sulla preferibilità della convivenza regolata dalle leggi alla convivenza senza leggi

Come si è visto nei paragrafi precedenti, abbiamo pochi elementi per ricostruire in modo soddisfacente il pensiero dei singoli autori. Tuttavia la cultura sofistica ha incontestabilmente lasciato una traccia rilevante quanto all'origine di alcuni grandi problemi del pensiero occidentale anche là dove le voci dei singoli autori sono poco distinguibili, o in contrasto tra loro. Prenderemo adesso in esame tre problemi di questo tipo: 1)quello dell'origine della religione, 2)quello del contrasto morale tra physis (natura) e nomos (legge o convenzione sociale), 3)quello della preferibilità del governo legalitario o del governo arbitrario (in cui i governanti non sono vincolati dalle leggi). *In mancanza di testi originali completi la tematica dell'intero paragrafo è ovviamente una ricostruzione.
1. Il primo dei tre problemi citati era già stato sollevato molto tempo prima da Senofane, che, come si è visto, asseriva che gli uomini tendono ad inventare gli dei a propria immagine; tuttavia questa affermazione suonava sì come una critica alla religione mitica tradizionale, ma in vista di una nuova teologia filosofica, monoteista e non più antropomorfica.
Consideriamo ora l'approccio sofistico al problema. Prodico (cfr. §. 4) afferma che "il sole, la luna, i fiumi, le fonti e in genere tutte le cose che giovano alla nostra vita gli antichi le ritennero divinità per l'utilità che ne deriva" Frammenti dei presocratici, Prodico,5 B9). Egualmente egli riteneva che fossero stati divinizzati gli scopritori di ritrovati utili.
Critia, nel frammento del dramma Sisifo (attribuito anche ad Euripide) si esprime in questo modo (F.d.p., Critia, 25 B): Tempo ci fu, quando disordinata era la vita degli uomini, e ferina, e strumento di violenza, quando premio alcuno non c'era pei buoni, né alcun castigo ai malvagi. In seguito, parmi che gli uomini leggi punitive sancissero, sì che fosse Giustizia assoluta signora e avesse ad ancella la Forza; ed era punito chiunque peccasse. Ma poi, giacché le leggi distoglievan bensì gli uomini dal compiere aperte violenze, ma di nascosto le compivano, allora, suppongo, un qualche uomo ingegnoso e saggio di mente inventò per gli uomini il timor , sì che uno spauracchio ci fosse ai malvagi anche per ciò che di nascosto facessero o dicessero o pensassero ... E se anche tu mediti qualche male in silenzio, ciò non sfuggirà agli dei; ché troppa è la loro perspicacia. Facendo di questi discorsi, divulgava il più gradito degli insegnamenti, avvolgendo la verità in un finto racconto.
In questo frammento, come si vede, la religione è considerata necessaria alla convivenza umana; *possiamo però osservare che nel testo del reazionario Critia l'umanità risulta divisa fra la ristretta élite dei sapienti, che inventano questa utile finzione, e la gran massa di quelli che ci credono ingenuamente. Inoltre tutti e due i frammenti, quello di Prodico e quello di Critia, prendono in esame solo l'origine sociale della religione, ma non considerano nemmeno la questione se la divinità effettivamente esista e che cosa sia.
Questo punto, per quanto ne sappiamo, non venne neppure affrontato dal pensiero sofistico; in effetti il grande maestro Protagora diceva: "riguardo agli dei non posso affermare né se sono né di che natura sono; perché molte sono le cose che me l'impediscono" (F. d. P., Protagora, 12 A); egli intendeva verosimilmente limitare la validità del nostro sapere al mondo visibile, al mondo dell'esperienza, e la sua posizione corrisponde a ciò che oggi chiameremmo *agnosticismo religioso. Ma il filosofo scettico Sesto Empirico (180-220 d.C.) ci parla anche di vero e proprio ateismo riferendosi a Prodico e Critia: evidentemente per lui chi sosteneva l'origine convenzionale-artificiale della religione aveva abbandonato la credenza nell'esistenza della divinità (cfr. F. d. P., Critia, 25 B). Ad ogni modo la presenza di atei nella cultura greca sofistica è confermata da Platone, che li vorrebbe messi fuori legge e, se irrecuperabili, puniti con la morte (cfr. Il politico, 309 a, e Le leggi, 908, b-e).
2. Veniamo ora alla contrapposizione tra physis e nomos. Questo problema è tipico dell'età sofistica, che è consapevole - più di qualunque età precedente - del carattere storico, artificiale e convenzionale della società e della cultura, e delle differenze tra le diverse costituzioni statuali, i diversi popoli e le diverse mentalità, nonché tra le diverse fasi storiche dello sviluppo della società greca (cfr. in particolare quanto detto su Erodoto e Tucidide supra ←nel §. 2). Il problema potrebbe essere posto in questi termini: dato che "la maggior parte di quanto è giusto secondo legge si trova in contrasto con la natura" (F.d.P., Antifonte, 44 A), dobbiamo agire secondo quanto ci prescrive la natura o secondo quanto ci prescrive la legge (o meglio: le molteplici e mutevoli leggi o convenzioni)?
Ecco la risposta di Antifonte (loc. cit.): ... giustizia consiste nel non trasgredire alcuna delle leggi dello Stato di cui uno sia cittadino; e perciò l'individuo applicherà nel modo a lui più vantaggioso la giustizia, se farà gran conto delle leggi, di fronte a testimoni; ma in assenza di testimoni, seguirà piuttosto le norme di natura; perché le norme di legge sono accessorie, quelle di natura essenziali; quelle di legge sono concordate, non native: quelle di natura, sono native, non concordate. Perciò, se uno trasgredisce le norme di legge, finché sfugge agli autori di esse, va esente da biasimo e da pena; se non sfugge, no. Ma se invece violenta oltre il possibile le norme poste in noi da natura, se anche nessuno se ne accorga, non minore è il male, né è maggiore se anche tutti lo sappiano; perché si offende non l'opinione, ma la verità.
Questo rifiuto delle convenzioni sociali a favore dell'agire conforme alla natura può parere quasi una anticipazione di certe concezioni anarchiche o ecologistiche moderne, tanto più che l'autore in un altro frammento insiste sull'eguaglianza naturale tra gli uomini9. Un rifiuto molto severo della vita civile in nome del ritorno alla natura caratterizzerà ben presto il movimento dei Cinici (legato all'insegnamento di Socrate), che vedranno le convenzioni sociali come fonti di ingiustizia, inganno e infelicità, e predicheranno l'ideale della rinuncia a tutte le illusioni che ne derivano - alle ambizioni politiche, al desiderio di fama e di gloria, alla brama di ricchezza, alle pretese di sapienza (cfr. infra). Ma il principio "agisci secondo natura" può avere una interpretazione anche molto diversa: Callicle, personaggio del Gorgia (un dialogo di Platone) ritiene che non solo le leggi, ma tutte le regole morali siano un'invenzione, un artificio, di quanti sono per natura più deboli, meno intelligenti e meno coraggiosi, per impedire alle nature superiori di dominarli in base alla legge del più forte, che è la vera legge di natura. Secondo il racconto di Platone, Callicle è un avventuriero senza scrupoli e un politico senza alcun senso morale, che disprezza le masse a cui rivolge i suoi discorsi adulatori: per lui, come per il retore Polo, discepolo di Gorgia, il discorso serve essenzialmente a sedurre e dominare psicologicamente gli ascoltatori. E' alle personalità più forti - cioè alle personalità dominatrici - alle personalità più intelligenti ed energiche che spetta per natura il potere.
La questione della contrapposizione physis-nomos è molto intricata. Si consideri anche la posizione di Trasimaco (un altro esponente della sofistica più tarda). Costui ritiene che "giusto è ciò che giova al più forte", nel senso che è il più forte che comanda e che stabilisce le leggi secondo il suo utile. Si noti che per lui "il più forte" non è necessariamente una persona precisa, ma è la persona o il gruppo (eventualmente può trattarsi anche della massa del popolo) che detiene il potere di comandare e di legiferare. *Si può trarne la conclusione che Trasimaco pensasse che il giusto per natura non esista neppure, oppure sia inconoscibile o incomunicabile, ma esista solo per convenzione: l'unica giustizia di cui possiamo parlare è la legalità, la conformità alle leggi scritte (cfr SCHEDA "Trasimaco e la convenzionalità della giustizia"). Come si vede, partendo da quello che sembra un dato naturale della vita sociale, cioè dall'ineguaglianza della forza e del potere nella società, si può arrivare a conseguenze molto diverse da quelle esaminate all'inizio, cioè alla tesi secondo cui la giustizia esiste solo per convenzione (per un artificio) e non per natura. *Si osservi che, se Gorgia sosteneva che l'essere non è, e non è neppure pensabile, né comunicabile, non è inverosimile che nel mondo sofistico si considerasse impossibile conoscere la natura delle cose, e quindi anche la natura del giusto e dell'ingiusto.
Del resto anche Aristotele ci parla di un altro sofista, Licofrone, che considerava le leggi civili semplicemente come frutto di una specie di accordo o di contratto tra gli uomini (SUL CONTRATTO TRA Socrate e le leggi di Atene cfr infra → §.9.1)
Nonostante la scarsità della documentazione rimastaci, forse si può dire che tra i sofisti prevalga il punto di vista di quanti preferiscono il vivere secondo la legge o convenzione a quelli che, come più tardi i Cinici, preferiscono la vita secondo natura. In effetti in ambiente sofistico è diffusa la tesi secondo cui la convivenza sociale regolata da leggi è superiore alla convivenza senza leggi e alla vita solitaria. Si legga questo passo di uno scritto anonimo del V-IV secolo, il cosiddetto Anonimo di Giamblico (F.d.P., volume II, p. 1041).
Perché se tale è la natura degli uomini, che non possono vivere isolatamente, e si riuniron tra loro cedendo a un bisogno istintivo, e si sono ingegnati a trovare i mezzi per vivere e tutti gli artifici per render la vita più comoda, e d'altro lato è escluso che possano convivere insieme senza leggi che regolino i loro rapporti (perché questo sarebbe per loro un danno maggiore che non sia la vita isolata), per tutti questi motivi inoppugnabili la legge e la giustizia debbono regnare tra gli uomini, né in alcun modo vanno rimosse da loro; ché sono ad essi legate saldamente per loro natura.
L'anonimo rovescia in sostanza il ragionamento dei fautori della natura: l'uomo, se agisce secondo la sua natura, che è essenzialmente socievole, accetterà che il suo comportamento sia regolato da leggi (e di conseguenza, *aggiungiamo noi, dovrà smettere di seguire i suoi impulsi naturali, spontanei e arbitrari). Il testo prosegue confutando in pratica la legge del più forte di Callicle (loc. cit.):
Che se ci fosse uno che dalla nascita avesse sortito tal natura, da esser nel corpo e nell'anima intangibile da malattie, da passioni, un essere eccezionale e adamantino, si potrebbe credere che a lui bastasse la sua superiorità per volgerla alla sopraffazione (perché si pensa che un simile individuo, se anche disobbedisce alle leggi, resti impunito); ma c'inganniamo. Perché se anche egli fosse tale, quale non può darsi che sia, non potrebbe salvarsi se non a patto di salvaguardare le leggi e la giustizia, e di rafforzarle, e di mettere la sua energia a disposizione di esse e di quanto concorre a mantenerle; in caso contrario, non resterebbe incolume. Perché basta che tutti quanti gli uomini si costituiscano nemici di un simile individuo, forti del loro buon diritto, e la moltitudine o con l'insidia o con la violenza prevarrà e riporterà vittoria sopra un tal uomo. Così appare chiaro che anche la forza, in quanto forza, non si salva se non con la legge e con la giustizia.
3. In questo scritto anonimo compare dunque in modo abbastanza chiaro un altro tipico tema sofistico: la preferibilità della convivenza sociale regolata dalle leggi alla convivenza senza leggi, che è sottomissione ad un potere arbitrario. La tirannide qui consiste nella mancanza di leggi, non nella malvagità personale di chi comanda; anzi, poiché non è possibile che gli uomini vivano senza leggi, il governo di uno solo sarà efficace e duraturo solo se le restaurerà (cfr. op. cit., pag. 1043).L'importanza della riflessione sofistica sulla legalità è testimoniata ampiamente anche dai dialoghi di Platone (si vedano le SCHEDE Le sei forme di governo, legali e illegali, e Trasimaco e la convenzionalità della giustizia): risale alla cultura sofistica il principio classico secondo cui l'impersonale "governo delle leggi" (in cui le leggi sono il principio supremo a cui tutti debbono obbedire) è preferibile al "governo degli uomini", cioè al governo in cui l'obbedienza è dovuta agli uomini in quanto tali, a certe specifiche persone. La concezione odierna dello Stato di diritto prevede appunto che l'azione di governo sia sottratta al volere arbitrario dei governanti (per quanto buoni e virtuosi possano essere) e sottoposta alla legge, che fissa le modalità e i limiti dell'azione di governo, in modo impersonale e uguale per tutti.
Viceversa il problema della politica, per esempio nel dialogo di Erodoto sulla miglior costituzione (citato →nel §.2) e nella filosofia di Platone, era inizialmente quello di quali e quanti uomini debbano governare: un monarca, un ristretto gruppo di aristocratici, la massa del demos? In effetti Platone risolverà il problema proponendo, nella Repubblica, che i filosofi governino. Ma nella cultura sofistica (secondo la testimonianza dello stesso Platone nel Politico) c'era chi si rendeva già conto che per stabilire quale sia il governo migliore è poco significativo chiedersi chi (o quanti) debbano essere i governanti, ma occorre chiedersi prima di tutto come essi debbano governare: il miglior governante è quello che agisce in modo conforme alla legge, seguendo dunque il criterio impersonale della legge e rinunciando ai propri criteri personali arbitrari. Questa idea sarebbe stata chiarita e sviluppata, nel mondo moderno, fino a diventare uno dei principi fondamentali dell'idea di Stato di Diritto e della filosofia politica liberale.
Quanto abbiamo detto in questo punto 3 e nel precedente punto 1 serve a rafforzare l'*interpretazione generale della sofistica che abbiamo già presentato: in questa corrente di pensiero c'è una forte coscienza del carattere artificiale della società e della cultura umane e della loro autonomia - in contrasto con quasi tutte le altre correnti del pensiero greco, che considerano l'ordine storico-sociale come dipendente dall'ordine ontologico, divino o naturale.

§ .6. La formazione di Socrate in ambiente sofistico.

1.Lettura introduttiva: La missione di Socrate a favore della polis non consiste nel fare politica (Platone, Apologia di Socrate, 30 e - 33E).
L'Apologia è la versione dataci da Platone del discorso di difesa pronunciato da Socrate davanti ai giudici popolari nel processo in cui era accusato di aver corrotto la gioventù, rinnegato gli dei della polis e introdotto nuove divinità. Socrate si dichiara innocente e, al contrario, afferma di avere svolto una missione divina a favore della polis: mostrare l'ignoranza di chi si pretende saggio e i vizi di chi si pretende virtuoso, contribuendo così a migliorare i cittadini. Questa missione critica, autenticamente politica (concernente la polis, la comunità statale), è però incompatibile -secondo lui- col far politica nel senso comune del termine; anzi, per un uomo veramente giusto è quasi impossibile passarla liscia sia sotto il regime democratico che sotto il regime tirannico. Come si vede, la concezione socratica della convivenza umana è caratterizzata da una grande tensione tragica.
Se voi ucciderete me, non sarà facile troviate un altro al pari di me il quale - non vi sembri risibile il paragone - realmente sia posto dal dio ai fianchi della città come ai fianchi di un cavallo grande e di buona razza, ma per la sua grandezza un poco tardo e bisognoso di essere stimolato, un tafàno. Così appunto mi pare che il dio abbia posto me ai fianchi della città: né mai io cesso di stimolarvi, di persuadervi, di rampognarvi uno per uno, standovi addosso tutto il giorno, dovunque (...)
E che sia proprio io la persona siffatta che il dio abbia scelta per dare in dono alla città, potrete riconoscere anche da questo: che non pare umano io abbia trascurato tutti gli affari miei e sopporti da tanti anni che siano trascurate le cose di casa mia, e sempre invece io badi alle vostre, standovi appresso, un per uno, come farebbe un padre o un fratello maggiore, per persuadervi a seguire la virtù .
E tutto questo, sottolinea Socrate, senza ricevere alcun compenso. Poi prosegue così:
Forse potrà parere strano che io vada dattorno e mi dia tanto da fare per dare consigli a questo e a quello in privato, e se poi si tratta di dare consigli in pubblico alla città e di salire su la tribuna per parlare al popolo, allora mi manchi il coraggio. E la ragione di questo me l’avete sentita dire più volte e in più luoghi, che c’è dentro di me non so che spirito divino e demoniaco [su “demoniaco”cfr. nota 7](...). Ed è come una voce che io ho in me fino da fanciullo; la quale, ogni volta che mi si fa sentire, sempre mi dissuade da cosa che io sia per fare, e non mai ad alcuna mi persuade. E’ questa che mi vieta di occuparmi di cose dello stato; e mi pare faccia ottimamente a vietarmelo. Voi lo sapete bene, o Ateniesi: che se da un pezzo io mi fossi messo a occuparmi degli affari dello stato, da un pezzo anche sarei morto e non avrei fatto cosa utile nessuna né a voi né a me. E voi non sdegnatevi se parlo così: è la verità. Non c’è uomo che possa salvarsi quando si opponga sinceramente non dico a voi ma a una qualunque altra moltitudine, e cerchi di impedire che nella città si commettano ingiustizie e si trasgredisca alle leggi; e anzi e necessario che chi davvero combatte in difesa del giusto, se voglia campare da morte anche per breve tempo, viva da privato e non eserciti pubblici uffici.
2. Lettura introduttiva: [[in alternativa con la 1, o in aggiunta]]: La "sapienza umana" o "sapere di non sapere" (Platone, Apologia di Socrate, 20 E - 23 C). Qui Platone ricostruisce liberamente il discorso che Socrate, imputato di empietà e di corruzione dei giovani, rinunciò davanti a giudici per illustrare il senso della sua pubblica attività di filosofo.
[[Anche questo testo va opportunamente tagliato. Oggetto: Socrate riferisce che Cherefonte gli ha detto che l’oracolo di Delfi lo considera il più sapiente di tutti e va ad interrogare varie categorie di sedicenti sapienti per trovare qualcuno più sapiente di lui, scoprendo di sapere, in più di loro, almeno di non sapere.]]

§ 6.1. Socrate, un "sofista" che non chiede ricompense
Socrate nacque in Atene nel 470 o nel 469, e qui visse sempre, lasciando solo di rado la città, per compiere il suo dovere di cittadino partecipando ad alcune campagne di guerra come oplita. Dall'appartenenza a questo corpo si può desumere che avesse un reddito medio, forse medio basso, ma non infimo. Trascurò però il patrimonio familiare, e visse molto modestamente, perché dedicò tutta la sua vita alla discussione filosofica, esercitata non professionalmente, ma come passione e come missione, nelle case degli amici, nei "ginnasi" - che erano luoghi di pubblico incontro (cfr. supra←§. 1), nelle vie e nelle piazze di Atene. Personaggio conosciutissimo, fu oggetto degli attacchi di Aristofane contro gli intellettuali (cfr. ←§. 2 e Scheda).
Da giovane studiò scienze naturali da Archelao, discepolo di Anassagora e, se dobbiamo prendere sul serio un’allusione ironica di Platone, seguì uno dei corsi di Prodico sull’uso corretto dei termini, ma non quello da cinquanta dracme, bensì solo quello da una dracma. Frequentò poi sofisti, uomini politici, poeti e intellettuali di ogni tipo, e amava discutere di filosofia con chiunque. Tra ai suoi interlocutori, o amici, ci furono Alcibiade e Critia. Il primo, ambizioso leader democratico, fu incriminato per empietà, accusato di aver partecipato alla mutilazione delle sacre statue di Hermes, e in seguito tradì Atene per Sparta. Il secondo era l'intellettuale sofistico - e poi tiranno artistocratico - di cui abbiamo parlato nel §.4. Queste conoscenze compromettenti verosimilmente furono all'origine dell'accusa di empietà e corruzione dei giovani e poi della condanna a morte di Socrate, avvenuta nel 399, in un momento cioè di grande tensione, poco dopo la restaurazione del regime democratico.
Per gli accusatori, come per Aristofane, Socrate non era diverso dai sofisti. Egli tuttavia, differentemente da loro, non ci ha lasciato nulla di scritto, probabilmente perché pensava (come riferisce Platone nel Fedro, 276 A) che il discorso scritto sia una specie di figlio bastardo di chi lo scrive, incapace di chiarire il discorso del padre senza il suo intervento diretto, e sempre sottoposto a fraintendimenti. Quanto ai discorsi veri e propri di Socrate, essi non erano lezioni o orazioni, ma discussioni, dialoghi, per i quali non si faceva pagare. *Come si vede, mentre lo scopo degli scritti e delle orazioni dei sofisti era persuadere ad ogni costo il pubblico per potere avere un successo "commerciale", quello di Socrate era piuttosto comunicare, fare una ricerca comune, giungere insieme a una conclusione. (Cfr. SCHEDA "DIALOGO SOCRATICO E BRACHILOGIA").
E straordinariamente comunicativo era lui stesso, come ci riferiscono concordemente tutte le testimonianze storiche. Comunicativo e affascinante, ma al tempo stesso enigmatico e "diverso da tutti gli altri" (come è detto nell'Apologia). Il suo fascino non era solamente intellettuale, ma emanava dal suo sguardo inquietante, dalla sua aria apparentemente svagata e dal suo stile di vita incurante delle convenzioni e delle meschinità. Ritorneremo sulla storia personale di Socrate anche nei paragrafi successivi. Nonostante l'eccezionalità di tale personalità e nonostante il suo diverso atteggiamento verso la ricerca, si può dire che molti suoi temi e concezioni di fondo sono ancora quelli del movimento sofistico.
Socrate aveva l'abitudine di chiedere "che cos'è" (tì esti?), "che significa?", di ogni termine importante usato dai suoi interlocutori, invitandoli così a darne una definizione. Ciò sembra senz'altro in relazione con l'esigenza di Prodico di un linguaggio il più possibile preciso ed univoco. Nei suoi dialoghi per prima cosa costringeva l'interlocutore a dare una definizione vera e propria di un certo termine morale (come la saggezza, la virtù, l'amicizia, il bello, il bene, la giustizia, ecc.), rifiutando i semplici elenchi di casi particolari o gli esempi. Pretendeva cioè che si individuasse ciò che hanno in comune tutte le cose o le azioni che cadono sotto il concetto definito (per esempio: che cosa è in generale il bello, che accomuna tutte le cose belle). Egli chiedeva cioè di elevarsi dalla materia particolare (l’esempio) alla forma universale (il concetto, cfr. infra→§.8). Non si può considerare come definizione di bellezza un elenco di cose belle, o come definizione di santità un semplice esempio di azione santa - come pensava Eutifrone, interlocutore di Socrate nel dialogo omonimo di Platone - ma si deve indicare ciò che sempre e in ogni caso è bellezza, santità, ecc.
Ottenuta dall'interlocutore tale definizione solitamente Socrate la demoliva, mostrando che da essa nascevano conseguenze assurde. Questo procedimento distruttivo ha qualche analogia con la dialettica di Zenone o con i "discorsi doppi" con cui i sofisti, esaminando una tesi, ne consideravano gli argomenti a favore e quelli contro (cfr. supra ← §. 3.2., Approfondimento), mettendoli sullo stesso piano, e provocando un senso di sgomento in chi si aspettava dalla filosofia verità assolute. Mentre però nei sofisti la distruzione delle verità comunemente accettate serve ad esaltare il potere dell'arte della parola, cioè la merce che essi devono vendere, la demolizione delle idee preconcette promossa da Socrate ha un significato di purificazione mentale e morale, è la premessa di una superiore presa di coscienza (su cui torneremo nel §. 7).

SCHEDA: "DIALOGO SOCRATICO E BRACHILOGIA" [[può essere inserita qui]]

§ 6.2. APPROFONDIMENTO. Le concezioni comuni a Socrate e ai sofisti.
Per prima cosa, l'idea che la virtù sia insegnabile accomuna Socrate ai sofisti. Benché egli abbia più di un legame con il partito aristocratico e rimanga per molti versi fedele alla tradizione religiosa, questa idea lo contrappone alla vecchia concezione aristocratica della virtù innata. Inoltre, per lui come per Protagora, la virtù e il sapere sono la stessa cosa (come risulta nel dialogo Protagora di Platone), in contrapposizione con le idee tradizionali aristocratiche della virtù come coraggio e capacità di comando, qualità "innate" della nobiltà.
La conseguenza di queste idee sarà che il male lo si compie solo per ignoranza. Anche questa conseguenza è accettata dai sofisti, anche perché per loro la virtù è la capacità di conseguire ciò che è utile. E' una capacità tecnica, un "saper fare" - oggi si dice un "know how" - che può anche essere venduto, ricavandone di nuovo un utile. Socrate sostiene invece che “è meglio patire un'ingiustizia che compierla” (cfr. il dialogo Gorgia di Platone, 469 B-C): ci pare evidente, perciò, che per lui la virtù e il bene non si riducano all'utile puramente individuale.

Interrompiamo l'esposizione per far notare allo studente come Socrate sia all'origine di una concezione etica nota nella filosofia occidentale come INTELLETTUALISMO ETICO, secondo la quale chi conosce realmente il bene, agisce bene, ed è impossibile compiere il male volontariamente. Su tale concezione torneremo a diverse riprese in questo e nei volumi successivi.

A differenza dei sofisti, la ricerca del vero sapere e della vera virtù è svolta da Socrate in modo disinteressato, attraverso il dialogo con chiunque voglia discutere con lui. Lo scopo di tale dialogo *non pare essere l'elaborazione di una teoria precisa - dato che i dialoghi socratici sono spesso inconcludenti - né l'acquisizione di conoscenze tecniche utili, come è il caso invece per la retorica sofistica. Come vedremo, lo scopo è piuttosto la comprensione di se stessi e dei propri limiti. Con ciò non si acquisisce in modo definitivo una virtù precisa, ma si entra in un cammino di indefinito perfezionamento.
Infine, se Socrate non ha un "know how" da vendere come i sofisti, non si considera neppure maestro di verità nascoste come Pitagora e i pitagorici. Nell'Apologia di Platone nega di avere discepoli, e si paragona a un tafano che punzecchia con le sue critiche la città di Atene. Nel Teeteto di Platone si dichiara infecondo di teorie, ma capace di farle generare agli altri, come una vecchia levatrice.
Le idee, che abbiamo evocato, di una ricerca aperta, di un perfezionamento indefinito e di una critica della pretesa di fissare la verità in modo dogmatico spiegano l'impossibilità per Socrate di definire il messaggio filosofico per iscritto. E' evidente che tutto questo pone a noi moderni particolari difficoltà di *interpretazione, che sono trattate nella Scheda LA QUESTIONE SOCRATICA.[[Potrebbe essere collocata qui nel testo, o lasciata a fine capitolo]] Un a sintesi di questa scheda si trova alla fine del §.6 del Testo Breve.

§7. La differenziazione di Socrate dai sofisti: la sua "missione divina" di mostrare agli uomini i limiti del loro sapere e della loro virtù.

Nell'Apologia viene narrato che un certo Cherefonte domandò all'oracolo di Delfi se esistesse al mondo qualcuno più sapiente del suo amico Socrate. L'oracolo rispose di no. Socrate allora sottopose ad esame tutti quelli che riteneva molto più sapienti di lui: uomini politici, poeti, specialisti nelle varie arti e tecniche. Tutti costoro risultano competenti nella loro specialità, ma pieni di presunzione e di pretese infondate in tutto il resto, per cui egli deve concludere di essere, rispetto a loro, davvero il più sapiente, sapendo almeno di non sapere. Sapienti dunque non sono gli uomini, conclude Socrate, ma unicamente sapiente è il dio.
Da allora egli intraprende una lotta contro la falsa sapienza e la falsa virtù. Questa è per lui la sua "missione divina" a favore della città di Atene, i cui cittadini egli punzecchia con le sue critiche come un tafano. Socrate inoltre si dice guidato dalla voce interiore di un demone (cfr.→ nota 7 del cap. 5, §. 2) che lo trattiene quando può succedergli qualcosa di male, e che *in ultima analisi gli proibisce anche di fare qualcosa di ingiusto. *Abbiamo già detto che per lui il vero male è commettere ingiustizia, ed è solo da questo che lo trattiene la voce interiore. La posizione di Socrate appare dunque quella di un riformatore morale, che invita i concittadini ad “aver cura della propria anima” (come riferiscono tutte le fonti). Proclamava di non essere maestro di nessuno e di non aver dottrine proprie; con la sua tipica ironia, diceva che, come La sua vecchia madre levatrice conosceva l'arte di far partorire i corpi, così lui, non essendo fecondo di idee, conosceva però l'arte di far partorire le anime (o arte maieutica; cfr. il Teeteto di Platone).
Tuttavia nei dialoghi giovanili di Platone (che sono la fonte migliore del pensiero di Socrate, cfr. SCHEDA “La questione socratica”) traspare anche un messaggio positivo: cioè alcune positive convinzioni di fondo di Socrate, di solito non dimostrate ma solo suggerite. Vediamo dunque in che modo esse lo differenziano dai sofisti.
In primo luogo, per lui la virtù è unica e indivisibile e coincide con la scienza, e precisamente con la conoscenza di se stessi e con la conoscenza del bene e del male (cfr. i dialoghi Protagora, Carmide e Lachete). Inoltre per lui, come sappiamo, è preferibile subire un'ingiustizia piuttosto che commetterla; pensava anche che chi ha la virtù non può subire alcun vero male, poiché la morte stessa non è un male: infatti o è un non essere più nulla e non provare più nessun sentimento, o è il passare a un'altra vita in cui faremo ancora uso della ragione, dialogando con altre anime (Apologia)..
Possiamo ora proporre *un'interpretazione complessiva del messaggio positivo di Socrate, anche sulla base di ciò che la sua vita e la sua morte ci testimoniano: se la ricerca della verità morale attraverso il dialogo non ha mai fine, è perché l'uomo è in perenne tensione verso qualcosa di perfetto che sente dentro; anche se la voce interna - la coscienza morale - non ci da un sapere ben definito e un sistema di norme rigido, ci dice però chi siamo e quali sono gli essenziali doveri verso noi stessi e verso gli altri.

§ 8. Approfondimento. Il Socrate di Aristotele: l’universale e il concetto

Aristotele, nei resoconti sulla filosofia precedente contenuti nella sua Metafisica, ci ha presentato Socrate (che abbiamo visto fin qui essenzialmente come filosofo morale) come lo scopritore dell’universale e del concetto.
Per Aristotele, come per tutta la filosofia classica greca, “il concetto è l’essenza delle cose e precisamente la loro essenza necessaria, ciò per cui non possono essere diversamente da come sono.(...) Il concetto è assunto come ciò che si sottrae alla diversità o al mutamento dei punti di vista o delle opinioni, perché si riferisce a quei tratti che, essendo costitutivi dell’oggetto stesso, non vengono alterati da un mutamento di prospettiva.(...) “ L’essenza dell’animale, per esempio, consiste nella sensibilità, nella capacità di muoversi da sé e nella capacità di nutrirsi e riprodursi, e compiere queste operazioni è necessario e sufficiente per essere animali - indipendentemente dalle opinioni dei filosofi.
L’universale, poi, è una caratteristica che una serie di esseri particolari di qualunque tipo hanno in comune, e che costituisce l’essenza necessaria di tutti quegli esseri, distinguendoli, sotto quell’aspetto da tutti gli altri. L’universale “animale”, per esempio, è comune ad esseri particolari come il pitone, lo scarafaggio e l’elefante, ed una caratteristica della loro essenza necessaria, del loro concetto, che li differenzia dalle piante o dalle pietre.
In questo contesto “Aristotele attribuisce a Socrate il merito di aver scoperto ‘il ragionamento induttivo e la definizione dell’universale, due cose che entrambe riguardano il principio della scienza’ (Metafisica, XIII, 4, 1078 b)” Quindi Socrate ebbe, secondo Aristotele un ruolo chiave nello sviluppo della logica, che studia appunto i principi che regolano le procedure di qualunque discorso scientifico rigoroso. “Lo stesso merito viene a Socrate attribuito da Senofonte: Socrate ha mostrato come il ragionamento induttivo porti alla definizione del concetto”.10
COL RAGIO-NAMENTO INDUTTIVO TRAIAMO DAI CASI PARTICOLARI L’ESSEN-ZA UNIVER-SALE
FEDELE AD ATENE ED ALLE SUE LEGGI MA CONTRARIO ALLA MO-RALE DO-MINANTE
IMPOSSIBI-LITA’ PER IL GIUSTO DI OCCUPAR-SI DI POLI-TICA
"PRENDERSI CURA DELL'A-NIMA"
SAPERE DI NON SAPE-RE E AMO-RE PER IL SAPERE
MISSIONE DIVINA DEL VERO POLITICO
LE SCUOLE SOCRATICHE “MINORI”NON GODETTERO DI GRANDE CONSIDERA-ZIONE DA PARTE DEL-LA CULTURA ANTICA
I MEGARICI A CACCIA DI PARADOSSI LOGICI
I CINICI RI-FIUTANO I PREGIUDIZI SOCIALI PER “VIVERE SE-CONDO NA-TURA”
AUTARCHIA E COSMOPO-LITISMO DEL SAGGIO CINICO
PER I CIRE-NAICI IL SAG-GIO IMPARA A CONSE-GUIRE IL PIA-CERE IN O-GNI ATTIMO
Che cos’è dunque il ragionamento induttivo? L’induzione, secondo Aristotele, è il procedimento che porta dai particolari all’universale. Per esempio, esaminando diversi animali uno per uno, scopriremo che tutti gli esseri che hanno sensibilità e che si muovono da sé, sono anche capaci di riprodursi. Dall’esame della serie dei casi particolari esaminati, arriveremo alla conclusione che tutti gli animali, a livello universale, sono sensibili e sono insieme capaci di movimento e riproduzione. Sensibilità, automovimento e riproduzione fanno dunque parte dell’essenza necessaria e universale degli animali, costituiscono il concetto di animale.
*Resta da chiedersi come si inserisca la riflessione sul concetto, sull’universale e sul ragionamento induttivo da parte di Socrate nel complesso della sua problematica filosofica. Aristotele, che pure ci informa del fatto che Socrate si occupò essenzialmente di concetti morali, non si pone neppure il problema. *Non sembra verosimile che il “tafano” di Atene fosse particolarmente interessato (come era viceversa Aristotele) ad individuare i “principi della scienza” (i principi che regolano le procedure di qualunque discorso scientifico rigoroso), o all’impiego del metodo induttivo per indagare l’ordine del cosmo.
L’universale e il concetto *probabilmente sono stati studiati da Socrate nel contesto della sua indagine sull’essenza del buono, del bello, della virtù, ecc. Meno chiaro l’uso che Socrate avrebbe fatto del ragionamento induttivo. Di solito, infatti, la definizione dei concetti morali è data dagli interlocutori di Socrate sulla base di un’idea corrente, di un preconcetto, oppure di un’intuizione, oppure infine per esclusione dei concetti precedenti, demoliti da Socrate, e per successive approssimazioni, ma non propriamente attraverso un procedimento induttivo - tipico semmai del metodo dei fisici e di Aristotele.
Quanto a Socrate, quelle volte che suggerisce egli stesso una definizione, spesso si appella ad un’intuizione o ad una sorta di ispirazione divina, non certo a prove empiriche. Nel paragrafo che segue parleremo proprio del “divino sapere” di Socrate.

§ 9. Processo e morte di Socrate. Da Socrate a Platone.

§ 9.1. L'ambivalenza di Socrate.
A quanto ci riferisce l'Apologia, fu Socrate stesso che scelse di lasciarsi condannare a morte nel processo intentatogli, assumendo una posizione intransigente di rivendicazione della dignità e dell'importanza della sua missione, e irritando così i giudici popolari; in seguito - sempre per non tradire la sua missione - rifiutò l'umiliazione della fuga e dell'esilio, propostagli dai suoi amici. Questo martirio di un filosofo avviene nel pieno della prolungata crisi dell'Atene democratica (404: definitiva sconfitta nella guerra del Peloponneso; 404-403: regime aristocratico dei Trenta Tiranni; 402: restaurazione democratica; 399: processo e morte di Socrate). Le tensioni tra le diversi classi sociali, i diversi partiti e le diverse culture, che - come si è visto - nell'età di Pericle venivano in qualche modo armonizzate, sono ora diventate distruttive. Sull'orlo del tracollo, la città non tollera più neppure la pacifica (ma pungente) critica del filosofo.
Socrate, abbiamo detto sopra, dopo l'iniziale formazione sofistica si era venuto sempre più differenziando dalla cultura prevalente. Tuttavia la sua posizione resta fortemente ambivalente e caratterizzata da una forte tensione interna. Da un lato egli proclama il suo amore e la sua fedeltà costanti per Atene e per le sue leggi (nell'Apologia, 32 B-C e nel Critone -altro dialogo platonico- 52 B-C; cfr→ Scheda “Il contratto tra le leggi e Socrate”); dall'altro respinge la cultura sofistica e i valori dominanti, quali l'ammirazione per la retorica, per il sapere specialistico, per i grandi guadagni conseguiti grazie all'abilità e alla sapienza, per il successo di pubblico , ecc. (cfr. p.es. Protagora, 312 B e sgg., e Ippia maggiore, 282 C-D; cfr. anche §.6 e SCHEDA su "Dialogo socratico e brachilogia").
E ancora: da un lato egli proclama il valore civile e politico (il valore per la polis) della sua missione di "tafano", dall'altro afferma il fallimento della politica e della polis stessa, quando dice che chi agisce secondo assoluta giustizia nell'esercizio di funzioni pubbliche ad Atene non vive a lungo. *Si noti che Socrate motiva nell'Apologia la sua sfiducia nell'azione politica con esempi che riguardano non solo il regime democratico, ma anche quello aristocratico dei Trenta Tiranni: in sostanza, la sua critica si indirizza contro Atene in generale, o addirittura contro la polis greca di tutta un’epoca.
Infine Socrate rimprovera gli ateniesi di "non prendersi cura della loro anima" (Apologia, 29 e 30 B, ma si tratta di un tema tipico di Socrate -cfr § 7). Da un lato questo potrebbe essere semplicemente un invito a riflettere sulla coerenza interna delle proprie azioni, a conseguire il rispetto di se stessi e ad adottare la morale eroica secondo cui il vero male è solo commettere ingiustizia. Oppure potrebbe essere un richiamo a preoccuparsi del destino *trascendente dell'anima. L'ambiguità resta perché nell'Apologia Socrate considera impossibile sapere se la morte è semplicemente un annullamento dell'anima, una mancanza di coscienza, o un'altra vita, in cui regna una giustizia superiore.
L'Apologia *sembra dunque animata da quella tensione tra gli opposti e da quella ambivalenza che abbiamo trovato nel mondo della tragedia. E anche qui, poiché Socrate non può e non vuole rinunciare al suo ruolo, l'unica via d'uscita è la morte. Differentemente che nella tragedia, però, la tensione tra gli opposti e la morte sono affrontate qui con perfetto autocontrollo e serenità.

IN QUESTA POSIZIONE PUO ESSERE INSERITA LA SCHEDA "IL CONTRATTO TRA LE LEGGI E SOCRATE".

§ 9.2. L' Eros. Da Socrate a Platone.
I paradossi e le contraddizioni che appaiono nell'Apologia sono tutti collegabili a un paradosso di fondo, quello del sapere di non sapere, e della infinità della nostra ricerca. Nel dialogo Il simposio, Platone fa dire a Socrate che la filosofia (alla lettera "l'amore per il sapere") è eros, tensione amorosa verso la bellezza ideale e verso la verità, che sono divine e irraggiungibili per l'uomo. Esso dunque è in perenne tensione tra ciò che in lui è animale e sensibile e ciò che invece è ideale e divino (sul Simposio e il tema dell'eros in Platone cfr. cap.6, §. 4).
L'eros e la tensione verso il divino rimarranno un motivo ricorrente della filosofia di Platone. Il giovane filosofo però a un certo punto va oltre l'ambiguità del suo vecchio amico. Questi, in nome della perenne tensione erotica, rifiutava di mettere per iscritto i suoi dialoghi, di abbracciare una dottrina precisa e di assumere una precisa posizione politica, mentre Platone nelle opere della maturità elabora sue teorie originali, abbandonando quello stato di indeterminatezza e quella tendenza a demolire le definizioni altrui senza mai darne di proprie, che avevano caratterizzato Socrate e lui stesso nelle sue opere giovanili (cfr. l'*interpretazione proposta nella SCHEDA "Il dialogo socratico e la brachilogia"). Cerchiamo ora di individuare i momenti che segnano questo passaggio.
Platone è *verosimilmente ancora socratico quando nei suoi dialoghi fa dire al suo maestro che non si deve considerare vera o giusta un'opinione solo perché appartiene alla maggioranza (“ai molti”), ma che va accettata semmai se è razionalmente dimostrata, o se proviene dai “pochi esperti” (Lachete,184 E - 185 A) o dai “pochi saggi” (Critone, 45 E - 47 A; cfr. anche Protagora, 338 B-C). Infatti anche Senofonte ci riferisce della disistima di Socrate per le opinioni dei molti e per il sistema democratico dell'estrazione a sorte (in Atene i consiglieri della Boulè e i giurati erano estratti a sorte) per le decisioni politiche prese dalla massa incompetente (libro 1, cap. II, libro 3, cap.IX).
Ma nei dialoghi della maturità Platone va oltre, e presenta Socrate come il solo vero politico, che non si limita a compiacere le masse, come i grandi leaders Milziade, Cimone e Pericle, ma è anche capace di condannare l'ingiustizia, e di parlare di proibizioni e di castighi (cfr. p. es. Gorgia 504 D - 505 C, 516 C-D, 522 D). La conoscenza della giustizia qui non deriva semplicemente da un sapere scolastico, intellettuale. Essa richiede anche una purificazione dalla superbia umana - e questa era stata sempre la "missione" critica di Socrate - e dai piaceri del corpo - questo era invece un tema originariamente pitagorico cui Platone ora da sempre più peso. Il defunto Socrate è ora riproposto e reinterpretato come vero politico perché ha raggiunto la purificazione perfetta del suo sapere e della sua anima, mostrando così di essere stato inviato della divinità per una rigenerazione totale della polis.
Dunque, nella concezione platonica della maturità (come vedremo nel cap. 6) i filosofi, veri sapienti e veri politici, hanno l'anima pura e sono esseri eccezionali e divini. In tale concezione si può *intravedere qualcosa di messianico. E l'attesa di una rigenerazione politica e spirituale *può far pensare all'attesa del regno della salvezza (cfr. SCHEDA" Le funzioni del mito" e "La politica della maturità", cap. 6 §. 7,2).
Socrate dunque, prima considerato semplicemente un uomo inquietante ed eccezionale, un ironico demolitore di certezze per missione divina - non un maestro, ma un pungente tafano, non un vero sapiente, ma solo un amatore del sapere - è diventato nel Gorgia (come pure nel I libro della Repubblica), un autentico maestro, un sapiente, un santo purificato dai piaceri del corpo, un interprete della giustizia divina. Il prototipo del re-filosofo che deve regnare nella città ideale platonica, della quale parleremo nel prossimo capitolo.

§ 10. APPROFONDIMENTO. I paradossi dei megarici. Le scuole socratiche minori. I cinici ed i cirenaici: il socratismo come esperienza vissuta.

Sono chiamate scuole socratiche minori alcune correnti di pensiero derivanti da discepoli diretti di Socrate, le quali, differentemente dalla scuola platonica, hanno incontrato un minor favore ed interesse nella cultura antica, per cui sono conosciute solo in modo molto frammentario. Probabilmente molto dello stile di vita e di pensiero di Socrate è rimasto in queste scuole, i cui esponenti avevano comunque scritto, tra le altre opere, proprio dei dialoghi socratici. Abbiamo di loro solo modesti frammenti, mentre ci sono pervenuti in grandi quantità gli scritti dei socratici di tendenza aristocratica, cioè Platone e Senofonte.
La scuola di Mègara fu fondata da Euclide di Mègara (che fu tra i discepoli presenti alla morte di Socrate). Essa sviluppa idee socratiche ed eleatiche: secondo il suo insegnamento, lil Bene, che tanto stava a cuore a Socrate, è l’Essere, che è anche Uno, ed è, conformemente all’insegnamento parmenideo, una realtà soprasensibile. Ma la verità non è solo inattingibile coi sensi, come per gli eleatici; addirittura, anche la predicazione stessa è logicamente impossibile. A questo proposito, il megarico Stilpone (fine del IV secolo) sosteneva che è impossibile attribuire un predicato al soggetto e dire, per esempio, “il cavallo corre”. Infatti l’essere del cavallo e l’essere-in-corsa sono diversi e non possono essere identificati. Per loro, dunque, la conoscenza umana (se mai esiste) è essenzialmente paradossale. Celebre il paradosso megarico del mentitore: se dico “io mento”, mento o dico il vero?
Come la logica megarica contestava la predicazione, rendendo impossibile la comunicazione, così la morale megarica rifiutava il mondo e la società, proclamando l’assoluta autosufficienza del saggio. Come l’Essere-Bene, anche la Virtù che aspira ad esso è assolutamente unitaria e indivisibile, non distinguibile dal Sapere, e non ha nulla a che vedere con le capacità tecniche utilitarie dell’uomo comune.
I cinici e i cirenaici sembrano ispirarsi soprattutto al Socrate maestro di vita, contestatore dei preconcetti tradizionali e della convenzioni sociali, contrario alla teoria scritta sistematica.
Il movimento cinico si sviluppò ad Atene ed altrove per un paio di secoli ed ebbe anche una ripresa in età romana. Antistene, discepolo diretto di Socrate, è il loro caposcuola, ma il più popolare tra loro è piuttosto Diogene (nato a Sinope e vissuto tra il 410 e il 323). Come Socrate, i cinici disprezzano la ricchezza, il potere e ogni forma di conformismo e d’ipocrisia (l’eleganza, le mode, le belle maniere, i pregiudizi sociali). Per vivere secondo natura rinunciano ad ogni comodità (come Diogene che viveva nella proverbiale botte) e ignorano qualunque norma sociale.
Per realizzare concretamente il loro ideale, l’autosufficienza (autarchia) del saggio, riducono radicalmente i loro bisogni, limitandoli a quelli naturali primari. Per loro dunque, la filosofia è una scelta di vita piuttosto che una teoria.
I cinici contestavano da “cittadini del mondo” le convenzioni sociali e vivevano “secondo natura”, poveramente e semplicemente. Rifiutavano ogni tipo di sapere scientifico organizzato, ritenendo che il saggio, raggiunta la conoscenza intuitiva del bene, non abbia bisogno di nulla, se non di “vivere in società con se stesso”, libero dalle passioni del corpo e dai desideri artificiali indotti dalla società.

Anche la scuola cirenaica, fondata da Aristippo di Cirene, disprezzava il sapere sistematico: la saggezza per i cirenaici consiste nella capacità di conseguire il piacere sensibile, seguendo la natura, evitando di cadere nell’inganno delle convenzioni e dei pregiudizi e altresì di cadere vittima del timore degli dei e della morte.
Socrate, come sappiamo, raccomandava di “aver cura dell’anima”, per cui *potremmo dire che per lui la felicità era essenzialmente armonia dell’anima con se stessa, armonia che nasce dall’accordo con i buoni e con i sapienti e dal rispetto per la giustizia. La felicità è invece per Aristippo il piacere, così come si manifesta nella singola sensazione, cioè il piacere provato attualmente dal soggetto. *Si noti tuttavia che anche questa dottrina morale non si discosta molto dalla morale greca della moderazione e dell’autocontrollo, che abbiamo incontrato già nel primo capitolo con i sette sapienti (→ cap. 1, §.6). Infatti anche Aristippo ritiene che per ottenere il piacere si debba imparare a “possederlo”, a controllarlo, non a esserne contenuto. “Posseggo, non sono posseduto”, diceva Aristippo, che insegnava a non rimpiangere il passato, a non tormentarsi nell’attesa del futuro, a non desiderare un piacere maggiore di quello che l’attimo presente può offrire e, in genere, a non lasciarsi dominare dai desideri eccessivi.

CONCLUSIONE
La morte di Socrate e la crisi politico-culturale di Atene

Come si è visto in questo capitolo, le scuole di derivazione socratica si sono andate sviluppando in diverse direzioni: quella cinica ha rappresentato una specie di contestazione morale all'ordine della polis ed alla società umana in genere, quella cirenaica un ripiegamento individualistico sul piacere, mentre quella megarica ha dato di Socrate un'interpretazione eleatica: l'unità della virtù e l'unità del bene coincidono per questa scuola con l'unità dell'Essere.
Anche Platone svilupperà per molti versi un'interpretazione eleatica: per lui le idee morali, la cui definizione principalmente stava a cuore a Socrate, appartengono ad un mondo superiore al nostro mondo sensibile, quello dell'Essere Intelligibile, costituito da pure Idee; egli inoltre insisterà sulla connessione tra speculazione filosofica ed ispirazione divina, e criticherà duramente i principi dell'ordine autonomo della polis democratica, abbozzati in alcune dottrine dei sofisti. Per lui, l"opinione dei più" (noi diremmo: il principio di maggioranza) non ha nulla a che fare con l'idea di giustizia in sé, e non l'uomo, ma la divinità, è la misura di tutte le cose. Nel pensiero del V secolo, e soprattutto nella cultura dell'Atene di Pericle, da Anassagora a Socrate, il filosofo appare come un indagatore autonomo della verità; esso diventerà invece, soprattutto per il Platone più tardo, il legislatore divinamente ispirato della città, l'interprete privilegiato dell'ordine divino (cfr .supra, ←§.9).
Il momento in cui si generano questi due diversi sviluppi - la filosofia come rifiuto della politica (o estraneità rispetto ad essa) e la filosofia come autorità superiore all'ordine della polis - sembra essere quello del processo e della morte di Socrate: un episodio significativo del declino dell'ordine democratico della città di Atene, in un periodo di guerre civili e di tensioni di ogni tipo; un sintomo della sua progressiva incapacità di integrare ed assimilare culture diverse e conflitti e contestazioni di diverse specie, come aveva fatto nell'età di Pericle. A partire dal IV secolo verrà così svalutata progressivamente e poi abbandonata l'idea dell'autonomia dell'ordine della città, ed in generale dell'ordine artificiale prodotto dall'uomo rispetto all'ordine naturale o divino delle cose.

SCHEDE FINALI DEL CAP. 5 (molte di queste schede possono essere lette in margine ad argomenti del successivo capitolo su Platone)
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SCHEDA STORICA: I DUE TIPI PRINCIPALI DI SCHIAVITU' NEL MONDO GRECO (collegata al cap. 5, §.1 e 2, al cap. 6, §. 6, e al cap. 7, Introduzione)
Nella convinzione che la filosofia sia di per sé una tipica attività dell’uomo libero, ci è sembrato indispensabile informare il lettore sulla condizione in cui vivevano gli schiavi in Grecia, dato che il loro lavoro era condizione essenziale del tempo libero dei filosofi e del loro pubblico.
Riportiamo qui la descrizione dei due principali tipi di schiavitù diffusi nel mondo greco data dallo storico Yvon Garlan:
(...)I due tipi fondamentali di schiavitù del mondo greco(...) vengono denominati servitù comunitaria e schiavitù mobile.
Il primo tipo raggruppa un certo numero di popolazioni indigene, di origine greca o no, sulle quali era stato imposto collettivamente un tipo di schiavitù qualificata da parte di comunità greche limitrofe. Queste popolazioni erano obbligate a coltivare appezzamenti di terreno di proprietà dei loro padroni, ai quali dovevano consegnare grandi quantità dei loro prodotti. Sebbene esse fossero così agli "arresti domiciliari" e potessero essere trattate con durezza, godevano tuttavia di certe garanzie, essenzialmente del diritto di disporre del resto dei prodotti, di vivere con la loro famiglia e in villaggi e di non essere vendute all'estero.
Gli esempi più conosciuti sono gli iloti di Sparta, i Penesti della Tessaglia e i Mariandini di Eraclea Pontica (sulla costa settentrionale dell'odierna Turchia, non lontano dal Bosforo). La scorta di questi schiavi poteva essere mantenuta solo per mezzo della riproduzione naturale, una volta che la schiavizzazione originale era stata messa in effetto, apparentemente con la forza.
(...) La guerra sembra aver dato ai greci sia la giustificazione che la spiegazione di questo tipo di schiavitù, che ricordava la sottomissione a volte imposta a questa o quella città vinta (...)
Del tutto diversa era la schiavitù mobile di tipo ateniese (più o meno diffusa in tutto il mondo greco). Colpiva, come individui, persone sradicate dalla loro comunità naturale, che venivano trattate come oggetti di proprietà, prive di qualsiasi diritto e perfino di qualsiasi protezione tranne quella che i padroni davano loro nel proprio interesse(...) Numerosi testi (...) li caratterizzano come "barbari comprati"(...) Nessuno storico moderno metterebbe in discussione il fatto che la grande maggioranza degli schiavi non era di origine greca. Ciò trapela anche da uno studio sui nomi degli schiavi(...)
(...)La schiavitù [del secondo tipo] si sviluppò particolarmente nel mondo greco a partire dal momento in cui, verso il VI secolo, aumentarono gli scambi commerciali su lunga distanza(...)
La crescita del commercio con l'estero non è probabilmente di per se stessa la sola spiegazione, specialmente se si dava il caso che l'importazione della mano d'opera straniera, soggetta al massimo grado di sfruttamento, era resa possibile e desiderabile dall'emancipazione politica e socioeconomica, in molte città greche come Atene, di certe categorie di cittadini di seconda classe che avevano prima vissuto in uno stato di maggiore o minore dipendenza. Fosse causa o conseguenza di questo movimento di emancipazione, lo sviluppo del commercio di schiavi con il mondo barbaro ne fu, ad ogni modo, lo strumento indispensabile(...) Nel periodo classico la schiavitù sembra essere fiorita particolarmente nelle città più aperte agli scambi commerciali(...)
Sembra perciò, come fu ipotizzato da Marx, che la schiavitù e il capitale del commercio in Grecia andassero di pari passo e che la riproduzione della prima necessitasse essenzialmente di un aumento del secondo.
(da La schiavitù nel mondo antico, a c. di M. Finley, Laterza 1990, pp. 9-11 e 21-22).
In breve, *se ne può trarre la conclusione che il primo tipo di schiavitù - il quale ricorda un po' la schiavitù di villaggio dell'antico Oriente e in parte anche la servitù della gleba del nostro medioevo - sia caratteristico delle poleis guerriere, in particolare di Sparta e dei suoi alleati della lega del Peloponneso, cioè di un modello di società relativamente tradizionalistico, statico e aristocratico. Il secondo tipo, che ricorda abbastanza la schiavitù capitalistica della tratta dei neri nelle colonie europee e negli Stati Uniti del sud, è proprio invece delle poleis commerciali, marinare e manifatturiere, come Atene e i suoi alleati, in cui la borghesia commerciale, armatoriale e manifatturiera ha un peso politico-sociale notevole. Tuttavia, a differenza degli schiavi moderni, che svolgevano soprattutto mansioni elementari e faticose nelle piantagioni, ad Atene e in altre città analoghe, gli schiavi "capitalistici" antichi erano impiegati anche nelle manifatture.
L'impiego di questa manodopera forzata e quindi poco motivata contribuisce forse a spiegare lo scarso sviluppo tecnico della produzione manifatturiera greca; in ogni caso la plebe degli ateniesi liberi si dedicava, come si è visto, alle attività politiche e militari (e teatrali) in misura ben superiore a quella del proletariato industriale moderno, ricevendo dallo stato ateniese un piccolo rimborso che proveniva sia dai tributi pagati dalle città alleate, sia dalle imposte pagate dai ceti abbienti - che sfruttavano gli schiavi. In qualche modo la libertà dal lavoro dei cittadini ateniesi era "pagata" col lavoro degli schiavi. Più in generale, come dice Garlan, l’emancipazione degli strati sociali più poveri dei greci è resa possibile dall’impiego di schiavi di origine barbarica (cfr. → cap 5, § 1).
Per l'atteggiamento di Platone rispetto al lavoro servile cfr. → cap. 6, § 6. Platone non parla di schiavitù per quanto riguarda lo Stato Perfetto; tuttavia in esso i cittadini della classe inferiore dei lavoratori sono tenuti all’obbedienza assoluta ai governanti, con i quali non possono sposarsi (salvo il caso eccezionale in cui i governanti scoprano tra i lavoratori qualcuno degno delle classi superiori). *A nostro parere, si tratta in sostanza di una forma paternalistica e illuminata di schiavitù ilotica spartana. Karl Popper (→Scheda. Platone totalitario e razzista) la considera addirittura totalitaria e razzista. Alcuni autori, come Nicola Abbagnano, non parlano nemmeno di schiavitù nel contesto della Repubblica di Platone. Tuttavia sia la totale assenza di diritti della classe dei lavoratori, sia i diversi parallellismi tra il modello politico platonico e quello spartano (sottolineati anche da Popper) permettono di parlare di una forma di schiavitù non “commerciale”.
Per l’atteggiamento di Aristotele, cfr. → cap. 7, Introduzione.
Schede sui sofisti
Scheda 1. TRASIMACO E LA CONVENZIONALITÀ DELLA GIUSTIZIA
(sch. collegata al cap, 5, §.5)
Trasimaco è un rappresentante della seconda generazione sofistica di cui abbiamo solo qualche frammento di orazione. Egli tuttavia è il personaggio chiave del 1° libro della Repubblica. Qui sono esposte ampiamente le sue idee, anche se in forma di parafrasi, e con lo scopo essenziale di confutarle. Nella Repubblica si cerca appunto la definizione della giustizia, e Trasimaco in essa sostiene che "la giustizia non è altro che l'utile del più forte".
Questa definizione potrebbe essere interpretata nel senso della tesi di Callicle, secondo cui la legge di natura è la legge del più forte, ed è giusto per natura che il più forte comandi (Callicle si colloca, come si è visto nel §. 5 del cap. 5, tra quelli che danno il primato alla natura rispetto alla legge o convenzione). Senonché Trasimaco dice anche: "Ciascun governo legifera per il proprio utile, la democrazia con leggi democratiche, la tirannide con leggi tiranniche, e gli altri governi allo stesso modo. E una volta che hanno fatto le leggi, eccoli proclamare che il giusto per i sudditi si identifica con ciò che è invece il loro proprio utile; e chi se ne allontana lo puniscono come trasgressore sia della legge sia della giustizia. In ciò dunque consiste, mio ottimo amico, quello che, identico, in tutti gli Stati, definisco giusto: l'utile del potere costituito". E più sotto viene detto: "Trasimaco ha posto il principio che è giusto eseguire i comandi di chi è al governo".
Si può dunque *ipotizzare che Trasimaco intendesse dire che "il giusto in sé" o "il giusto per natura" non esiste, ma che il giusto esiste solo per convenzione, che, in altri termini, noi dobbiamo intendere con il termine "giusto" semplicemente ciò che è stabilito dalla legge. Tutto ciò *conseguirebbe dalle concezioni di Protagora secondo cui di ogni cosa è misura l'uomo e il senso della giustizia è distribuito in egual misura a tutti. Se così è, non esistono criteri assoluti, fondati sulla natura o fondati sull'ordine divino, per stabilire ciò che è giusto e ciò è ingiusto. Ciò significa che, per convenzione, si intenderà con "giustizia" semplicemente la conformità alle leggi dello stato, stabilite dagli uomini (democraticamente in democrazia, tirannicamente in una tirannide, ecc.). Se (come pensano Protagora e Gorgia) l'uomo non può conoscere l'ordine eterno della natura o l'essenza imperscrutabile della divinità, conosce per lo meno ciò che egli stesso ha fatto (le leggi e le convenzioni), e il concetto di giustizia ha senso solo entro quest'ambito, e non entro l'ambito inafferrabile della totalità dell'Essere.
E' bene avvertire il lettore, tuttavia, che *l'interpretazione proposta, per quanto verosimile, è il frutto della proiezione sulla cultura sofistica di una concezione pienamente sviluppata solo nell’età moderna moderna, quella appunto secondo cui i criteri di senso delle creazioni artificiali dell'umanità elaborate nel corso della storia (le istituzioni politiche, il diritto, il linguaggio, ecc..) non vanno cercati fuori di esse, in qualche Assoluto posto fuori dalla storia, ma dentro di esse. Ma la documentazione in nostro possesso è piuttosto modesta.
All’opposto di Trasimaco, la filosofia platonica aveva come fine proprio la ricerca di criteri assoluti, per cui la giustizia nello stato risulta comprensibile solo sulla base della giustizia come facoltà profonda dell'anima eterna dell'uomo. Poiché l’anima umana a sua volta contempla l’ordine del cosmo e dell’essere, la nostra giustizia sarà dunque parte dell'armonia eterna dell'essere sensibile del cosmo e dell'essere soprasensibile delle Idee iperuranie. Fu questa la concezione culturalmente vincente, che gli antichi hanno voluto tramandarci, non quella di Trasimaco.
Per capire quanto sia fazioso il resoconto di Platone, basti pensare che questi attribuisce a Trasimaco un’improbabile difesa dell'ingiustizia contro la giustizia. L'intero contesto della Repubblica è dunque caratterizzato da una polemica violentissima contro i sofisti, che fa dubitare dell'obiettività della sua testimonianza.

Scheda 2. ANTIFONTE, ANTENATO DEGLI PSICANALISTI ? (sch.collegata al cap,5,§.5)
Di Antifonte sofista, come si è visto, le notizie sono così poche e imprecise che non sappiamo nemmeno se sia o no la stessa persona di Antifonte di Ramnunte (villaggio vicino ad Atene), retore vissuto nello stesso periodo. Plutarco, moralista ed erudito del II secolo d.C., ci informa comunque di qualcosa di interessante a proposito di "Antifonte di Ramnunte":
Mentre si dedicava alla poesia, compose anche un'Arte del non soffrire, cioè una cura come quelle che i medici prescrivono agli ammalati; messo su un ambulatorio a Corinto vicino alla piazza, rese pubblico che egli riusciva con le parole a curare gli afflitti, e, sentite le cause del male, consolava i sofferenti.
Plutarco conclude però dicendo che, non considerando quest'arte degna di lui, passò alla retorica. In tutti i casi, questa strana professione di Antifonte ci è confermata da un altro erudito del II secolo, Filostrato, che ci dice:
(...) abilissimo nell'arte del persuadere, e soprannominato Nestore perché riusciva a convincere a tutto quanto egli dicesse, dava pubblicamente delle lezioni sull'arte di sopprimere il dolore, sostenendo che nessuno poteva nominare un dolore così terribile, che egli non riuscisse ad eliminarlo dalla sua coscienza (entrambe le cit. sono in F. d.P., vol. II, p.985).
Tutto ciò è certo in relazione con la fiducia sofistica nel potere della parola, che abbiamo visto particolarmente in Gorgia. Ma Antifonte si occupava anche di interpretazione dei sogni. Secondo E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale, Firenze, 1959, p.149 sg., Antifonte riteneva che i sogni sono simboli che non possono essere intesi letteralmente, ma che debbono essere interpretati, e spesso in realtà possono significare l'opposto di quello che sembrano dire.
Inoltre egli riteneva che le malattie del corpo siano in qualche modo da ricondurre ad affezioni della mente:
In tutti gli uomini è la mente che dirige il corpo, e verso la salute, e verso la malattia, e verso tutti gli altri aspetti della vita.
Egli può dunque essere considerato un precursore della psicanalisi di Freud, che cerca di curare i disturbi psichici attraverso una terapia fondata sul dialogo analista-paziente e attraverso l'analisi dei sogni e dell'inconscio? Naturalmente una risposta semplicemente positiva peccherebbe di ingenuità e di anacronismo. Quanto alla nozione di inconscio (che non può certo essere qui riassunta in due parole) è certo tutta moderna e freudiana. Queste idee dell’antico sofista, per quanto interessanti, non possono essere considerate una vera anticipazione delle teorie moderne, ma sono semplicemente una testimonianza della straordinaria inventiva del pensiero greco del IV secolo.
Per storicizzare meglio Antifonte (e la cultura sofistica) vale la pena di riportarne ancora due frammenti, che ci ripropongono il tragico pessimismo greco di cui abbiamo già parlato nel §.2 del cap.5.
Mirabilmente si presta ad accusa ogni forma di vita, mio caro, poiché nessuna ha nulla di elevato, o di grande, o di venerando: ma tutto vi è meschino, debole, transitorio, e mescolato a grandi dolori.
Ci son di quelli che non vivono la vita presente, ma si preparano con molto zelo come se dovessero vivere non il presente, ma una qualche altra vita, e intanto il tempo si perde e fugge via (F. d. P., vol. II, pp. 987, 1001 e 1002).

Scheda 3. IL "GOVERNO DELLE LEGGI" IN PLATONE E NELLA CULTURA SOFISTICA. Scheda di collegamento tra i due capitoli (→in appendice al cap.6)

Schede su Socrate
Scheda 1. IL "CONTRATTO" TRA LE LEGGI E SOCRATE (sch. collegata al cap. 5,§.9)
Nel dialogo Critone Platone ci mostra Socrate in carcere che spiega a un fedele amico (Critone appunto) perché egli non voglia fuggire e sottrarsi all'esecuzione capitale. Non le leggi di Atene, ma gli uomini sono responsabili della sua ingiusta condanna, ed egli non vuole fuggire per non dare un esempio di disobbedienza alle leggi, che sono la condizione di ogni civile convivenza. Disobbedire al loro comando significa violare un libero contratto tra lui e le leggi stesse, che in pratica lo hanno fatto nascere e allevato in quanto cittadino. Una volta divenuto adulto e conoscendo sufficientemente le leggi, semplicemente col passare la sua vita ad Atene egli ha mostrato di aver liberamente accettato il contratto. Inoltre contro di esse avrebbe potuto usare in precedenza la persuasione e non il sotterfugio (Socrate allude al fatto che egli aveva avuto l'opportunità di discolparsi nel processo, e forse anche al fatto che, come cittadino ateniese che, nella Boulé, partecipava al potere legislativo, aveva avuto la possibilità di modificare le leggi secondo le procedure legali).
*Analizziamo e interpretiamo queste affermazioni. In esse si ammette che 1)le leggi in generale e il rispetto della legalità sono necessari per la convivenza umana; 2)il cittadino è fatto nascere, allevato e, insomma, reso quello che è dalle leggi; è quindi un essere artificiale, un prodotto della società; 3)nell'Atene democratica questa "produzione" del cittadino gli lascia altresì la libertà di dare il suo consenso o no alle leggi, o di persuaderle - con il dialogo! - ad essere diverse; 4)tra il cittadino e le leggi (e cioè tra il cittadino e lo Stato stesso) c'è un patto, un contratto vincolante in senso generale, le cui conseguenze vanno accettate non solo quando sono utili al singolo, ma anche quando non lo sono; 5)la legalità è un valore in sé e bisogna obbedire alle leggi anche quando nel caso specifico gli uomini (cioè i governanti o i giudici) che devono applicarle sono ingiusti.
Come si vede, si tratta di una concezione molto differente da quella della superiorità del diritto di natura sulle leggi convenzionali, sostenuta da Antifonte e da altri sofisti (cfr. cap.5, §.5). Abbastanza simile invece a quella dell’artificialità della giustizia e a quella del "governo degli uomini e governo delle leggi" (cfr. Scheda relativa). Ma soprattutto essa anticipa (embrionalmente) tesi moderne: si pensi al Contratto sociale di Jean Jacques Rousseau (1712-1778), uno dei padri della Rivoluzione Francese.
Non sappiamo fino a che punto il Critone riflette le idee di Socrate e fino a che punto sia invece un'elaborazione successiva di Platone. In ogni caso Platone abbandonerà queste tesi nelle opere successive e, contro l'idea del contratto, difenderà l'idea di uno Stato fondato dall'autorità divinamente ispirata del re-filosofo (cfr. cap.6, §.6).

SCHEDA 2. DIALOGO SOCRATICO E BRACHILOGIA [sch. collegata con cap.5, §.6, e con il cap. 6]
I discorsi dei sofisti erano, in quanto lezioni e orazioni rivolte da un maestro a un pubblico, dei monologhi, mentre quelli di Socrate, in quanto discussioni in cui gli interlocutori accettavano di mettersi in questione, erano dialoghi. Il "dialogo socratico" divenne ben presto un genere letterario, impiegato fin dall'inizio del quarto secolo dai seguaci di Socrate, genere che poi - essenzialmente per la suggestione straordinaria esercitata dalle opere di Platone - fu per secoli una delle forme espressive tipiche della filosofia. Del IV secolo ci sono pervenuti solo i numerosissimi e geniali dialoghi di Platone e i modesti Detti memorabili di Socrate di Senofonte.
Il lettore immaginerà forse queste opere come una specie di resoconto di una "tavola rotonda" nella quale diverse persone discutono liberamente su un problema dato. In effetti alcuni dialoghi di Platone hanno una struttura più o meno di questo tipo, come il bellissimo Simposio (che riferisce una discussione che si svolge durante una serata passata a bere insieme, secondo il costume greco), il Protagora, il Gorgia e l'Eutidemo. Tuttavia bisogna sottolineare che il procedimento tipico di Socrate - secondo le versioni di Platone e di Senofonte - era il dialogo a due detto brachilogia (discorso breve). Si tratta di una serie di domande brevi rivolte da chi conduce il dialogo al suo interlocutore, per verificare insieme la fondatezza di una opinione espressa di solito da quest'ultimo. Quello che conduce l'indagine mette l'altro di fronte alle conseguenze di quanto afferma, chiedendogli più o meno: se è come tu dici, allora non dovrai accettare anche quest'altra affermazione? oppure: se è come tu dici, quali di queste possibili conseguenze ritieni necessarie? Di risposta in risposta, la brachilogia di solito si conclude quando si giunge a una conclusione assurda, impossibile, che non può essere accettata dall'interlocutore (reductio ad absurdum). Il procedimento socratico dunque si presenta come una trasposizione dialogica dei paradossi di Zenone e delle confutazioni che i sofisti facevano delle tesi avverse.
Lo scopo di Socrate era, come si vede nel §. 6 e soprattutto 7 del cap. 5, la demolizione delle false certezze dei suoi interlocutori su importanti concetti morali, e avveniva attraverso il dialogo evidentemente per far partecipare l'interlocutore stesso a tale opera di demolizione. Seguono più o meno questo schema definizione-demolizione l'Eutifrone, il Lachete, il Carmide, il Liside, il 1° libro della Repubblica e diversi altri dialoghi del periodo giovanile di Platone. Tuttavia la brachilogia viene usata spessissimo da questo filosofo, anche all'interno di dibattiti con molti interlocutori e con tesi incrociate, come nel Protagora e nell’Eutidemo. Capita così che i personaggi si scambino i ruoli di confutatore e di confutato, impiegando a turno il procedimento brachilogico.
Tuttavia nelle opere mature di Platone, in cui egli espone le sue dottrine sulla vita ultraterrena delle anime e sul mondo trascendente delle idee, la brachilogia perde progressivamente significato e incisività, le domande diventano domande retoriche e le risposte dell'interlocutore esprimono quasi sempre solo consenso e ammirazione. Si tratta qui di non più di ridurre all'assurdo la tesi dell'interlocutore, ma di sviluppare sistematicamente la tesi enunciata dal protagonista, cioè da Socrate.
Secondo quasi tutti gli interpreti questo pensiero (ormai sviluppato in modo sistematico) non è quello che storicamente fu di Socrate, ma è quello dello scrivente, cioè di Platone. Nelle opere più tarde la forma dialogica si mantiene ancora, ma si svuota quasi del tutto di senso. Il caso limite è costituito dal Timeo e da Le leggi, che sono in realtà dei veri e propri trattati, in cui l'esposizione prosastica monologica ha quasi del tutto sostituito il dialogo. E' significativo che in queste due opere Socrate non sia più nemmeno presente.

Scheda 3. LA QUESTIONE SOCRATICA (collegata al cap. 5, §. 6, e al cap. 6)
Non avendo scritto nulla di suo pugno, Socrate ci pone problemi filologici e storici ancora più gravi dei filosofi precedenti. La sua personalità si prestava in effetti a una rapida mitizzazione: divenuto già da vivo il simbolo stesso della filosofia (nel senso letterale di "amore per la sapienza"), la condanna a morte per empietà e corruzione dei giovani ne fece il primo grande martire della filosofia stessa. Poiché il tribunale che lo condannò era - come si è visto – democratico, il suo discepolo filoaristocratico Platone ebbe buon gioco a presentare questa condanna come l'atto estremo della corruzione e dell'ingiustizia del regime democratico, come un risultato della confusione portata dalla cultura sofistica. Uccidere Socrate voleva dire respingere la missione divina di purificazione spirituale di cui questi era incaricato.
L'opera di Platone (427-347) si svolse quasi tutta nel segno del culto del "maestro". Questo fatto è piuttosto paradossale se si pensa che il maestro non si considerava tale e diffidava inoltre del discorso scritto. Questo culto di Socrate si manifestava prima di tutto nel farne il protagonista di tutti (o quasi) i dialoghi che il discepolo veniva scrivendo. I filologi dell'Ottocento cominciarono a sospettare che Platone avesse attribuito al suo autorevole ispiratore anche buona parte sue proprie dottrine, in particolare *metafisiche, elaborate dopo la morte di esso. Col tempo questi sospetti si sono consolidati e si sono sedimentati in una interpretazione saldamente argomentata e quasi universalmente condivisa, secondo la quale nelle opere giovanili di Platone troviamo ancora in qualche modo il Socrate “autentico”, mentre in quelle mature troviamo il Socrate “di Platone”.
All'origine di questa scoperta sta il fatto che tutte le altre fonti dirette o fortemente attendibili davano un'immagine di Socrate piuttosto diversa da quella delle opere platoniche della maturità (cfr. Scheda su "Dialogo socratico e brachilogia").
Dunque, sulla base delle fonti diverse da Platone, si è giunti alla conclusione che solo una parte dei numerosissimi dialoghi platonici in cui Socrate è protagonista espongono effettivamente le dottrine di quest’ultimo. I dialoghi che ci hanno conservato il messaggio originario sono probabilmente quelli di argomento essenzialmente morale (che non espongono dottrine metafisiche), i quali di solito finiscono con una conclusione negativa, cioè con la confutazione di un preconcetto dell’interlocutore di Socrate. Viceversa Platone sviluppa in molte opere posteriori le sue proprie concezioni positive, non solo morali e politiche, ma anche metafisiche e fisiche, e continua ad attribuirle a Socrate.
Elenchiamo ora queste fonti alternative, spesso inferiori per qualità e per informazione, ma necessarie per la nostra ricostruzione storica.
Senofonte (430-355), partigiano degli aristocratici che ai tempi del processo di Socrate era in esilio, accusato di tradimento, ci dice che Socrate non considerava possibile conoscere veramente la divinità né la natura profonda del cosmo e dell'Essere, e che perciò egli si interessava esclusivamente di questioni morali e politiche (Detti memorabili di Socrate, Libro I, cap. 1).
Senofonte si occupava di questioni militari ed agricole e fu anche storico, ma quando parla di filosofia è assai superficiale e poco attendibile. Tuttavia almeno l'indicazione degli interessi di Socrate non ha motivo di essere erronea.
Essa è poi confermata da Aristotele (384-322), che, pur non essendo un testimone diretto, è in genere uno storico della filosofia molto ben documentato. Egli afferma da un lato che i contributi filosofici di Socrate riguardavano principalmente la logica e la morale, dall'altro sostiene che la dottrina delle Idee è il grande contributo filosofico di Platone. Si tratta della concezione per cui le Idee, o concetti universali, che illuminano la nostra mente, sono il vero Essere, più reale delle apparenze sensibili di questo mondo: questa è evidentemente una dottrina metafisica, non logica o morale.
Sulla base di queste indicazioni di Senofonte e di Aristotele, si pensa che tra le opere di Platone quelle che di più siano utili per ricostruire la filosofia di Socrate siano appunto le opere giovanili, escludendo quindi quelle in cui si comincia a parlare della dottrina delle Idee. E’ stato possibile elaborare questa ipotesi anche perché i filologi sono riusciti a porre in approssimativo ordine cronologico le opere di Platone. Si è potuto così constatare che nei dialoghi giovanili, dove il personaggio di Socrate domina in modo assoluto, non compare ancora la dottrina delle idee (cfr. cap. 6, §. 3), probabilmente elaborata da Platone in età matura.
Un contributo specialistico alla conoscenza di Socrate è fornito da Aristotele su alcune precise questioni di logica (Socrate è presentato come lo scopritore dell’universale; cfr. cap.5, §.8).
C'è poi Aristofane, che è una fonte ostile e intenzionalmente non obiettiva (cfr. SCHEDA "Aristofane"). Poiché egli nella commedia Le nuvole (423), identifica Socrate con i sofisti, ciò ci permette di affermare che tale identificazione era plausibile per il grande pubblico ateniese. Del resto Platone, che in molti passi nega enfaticamente che Socrate abbia mai potuto veramente confondersi con i sofisti, nei suoi dialoghi giovanili gli attribuisce spesso idee di origine sofistica. Forse la differenza tra Socrate e i sofisti si è sviluppata nell'arco di molti anni per diventare solo in un secondo momento opposizione frontale.
Un'ultima fonte su Socrate sono - in qualche modo - le poche dottrine rimasteci delle scuole socratiche minori, cioè di scuole di pensiero che si sono considerate la continuazione del pensiero socratico. Se i megarici erano particolarmente interessati ai problemi logici e la loro derivazione da Socrate ci può confermare il suo interesse per lo studio del concetto, i cinici e i cirenaici sembrano ispirarsi soprattutto al Socrate maestro di vita, contestatore dei preconcetti tradizionali e delle convenzioni sociali, contrario alla teoria scritta sistematica. Probabilmente qualcosa dello stile di vita e di pensiero di Socrate è rimasto in queste due scuole, i cui esponenti avevano comunque scritto, tra le altre opere, proprio dei dialoghi socratici. Abbiamo di loro solo modesti frammenti, mentre ci sono pervenuti in grandi quantità gli scritti dei socratici di tendenza aristocratica, cioè Platone e Senofonte.
Si provi a prendere in esame in particolare il pensiero e lo stile di vita anticonformista e straccione dei cinici (è proverbiale il fatto che Diogene vivesse in una botte; comunque, cfr → cap. 5, §.10) e a confrontarlo con quelli di Platone e della sua Accademia, una scuola frequentata da giovani di idee aristocratiche (e presumibilmente di estrazione aristocratica), con un severo curriculum di studi e con rigide norme di vita. Per i cinici la filosofia è una scelta di vita piuttosto che una teoria, mentre per Platone essa, pur essendo un impegno morale e religioso, è però anche senz’altro teoria e conoscenza profonda e certa dell’ordine del cosmo e dell’essere intero. Considerando che entrambe le correnti si rifanno apertamente a Socrate, è sorprendente quali diverse immagini del comune ispiratore si possano ricavare da esse: da una parte quella di un maestro di vita che fa una scelta di povertà e si autoesclude dal potere e dalle artificiose convenzioni della società, dall’altra quella di un sapiente spiritualmente purificato, che conosce l’ordine divino del mondo, capace di restaurare il giusto ordine politico e l’autorità voluta degli dei ad Atene.
Data l’incertezza della nostra documentazione, *ci sembra arbitrario fare di Platone l’erede legittimo di Socrate e considerare i cinici eredi meno legittimi. Verosimilmente, la personalità di Socrate fu così ricca da stimolare idee e stili di vita diversi e anche opposti.
Cfr. Bibliografia: Interpretazioni di Socrate.

Scheda 4. L'ETICA DEL DIALOGO E DELLA RAGIONE (sch. collegata al cap. 5, § 6)
Nella SCHEDA su Dialogo socratico e brachilogia viene mostrato che la brachilogia (il “discorso breve” a domande e risposte) non è solo procedimento teorico per confutare o dimostrare. La brachilogia e il dialogo in genere sono anche, per Socrate, una pratica di vita, un momento di comunicazione e di scambio tra persone: entrambi gli interlocutori devono dare il loro consenso ad ogni singolo passaggio. Il procedimento è razionale e presuppone un'eguale razionalità (e quindi un'eguale dignità) degli interlocutori: si tratta di dare il proprio consenso ad argomentazioni necessarie, non di lasciarsi persuadere da un "discorso lungo" di tipo sofistico - cioè da una elaborata orazione, che per convincere il pubblico fa uso non solo di argomenti razionali ma anche di sollecitazioni emotive, e che non permette all'uditore di verificare i singoli passaggi logici. Né troviamo nel “discorso breve” un richiamo all'autorità o alla fede nei miti, vecchi o nuovi (come quelli che più tardi Platone stesso inventerà per i suoi lettori)
Il "discorso lungo" si fondava su di una divisione permanente di ruoli tra l’esperto e il pubblico. L'esperto, cioè l'oratore sofistico, o l'oratore politico da lui formato, possiede il sapere e l'abilità retorica, e detiene in pratica il monopolio della capacità di proporre qualcosa al pubblico. Il pubblico non ha possibilità di iniziativa: può solo assentire o dissentire - e cioè andare ad ascoltare un altro maestro sofista o votare per un altro uomo politico. Inoltre anche i miti inventati o riesposti da Platone presuppongono una divisione dei ruoli. Da una parte c'è un'autorità filosofico-religiosa (Platone stesso, un antico poeta, un sacerdote orientale, Socrate in quanto considerato divinamente ispirato, ecc.), che può raccontare il mito perché è dotata di una natura superiore ed è in qualche modo in rapporto con la divinità, dall'altra ci sono i discepoli, i giovani, gli ignoranti, i membri delle classi inferiori, insomma quanti per la loro stessa condizione hanno bisogno di essere educati ed ammaestrati (si pensi al “mito fenicio”, cap.6, §6.2)
Nel dialogo invece i ruoli sono interscambiabili: il confutato può diventare confutatore e viceversa. L'accentuazione socratica dei limiti e della fallibilità del sapere di tutti gli uomini (Apologia, 23 A-C) *ci mostra in maniera indiretta che ciascuno deve considerare la possibilità che siano gli altri ad aver ragione e che egli stesso potrebbe dover assumere la loro opinione. La pretesa di Socrate di avere una missione divina (cfr. cap. 5 §. 7) è solo la rivendicazione di una superiore coscienza critica e autocritica e non ci pare implicare necessariamente una assoluta superiorità di ruolo o un'autorità vera e propria (almeno nell'Apologia e nelle altre opere giovanili di Platone, che, secondo moltissimi interpreti, esprimono più fedelmente lo spirito socratico).
E' proprio da Socrate dunque che inizia nel modo più chiaro la storia della filosofia intesa come riflessione razionale critica ed autonoma (cfr. l'Introduzione "Allo studente"). A lui in qualche modo si ricollegano il Discorso sul metodo di Cartesio (1596-1650) e la Critica della ragion pura di Immanuel Kant (1724-1804), e tutti gli altri grandi classici della modernità, che hanno privilegiato l'individuo come soggetto di una libera attività razionale, condotta senza la guida di autorità precostituite.
Due filosofi contemporanei, Karl O. Apel e Jürgen Habermas, di recente hanno studiato il metodo del dialogo razionale fondato sul consenso e le conseguenze pratiche e morali della sua accettazione. Il fatto stesso di accettare tale metodo comunitario e razionale di ricerca teorica implica, secondo loro, l'obbligo morale più vasto di accettare anche regole di condotta pratica fondate sul consenso, sul rispetto della altrui persona e sulla partecipazione eguale alle decisioni di interesse comune.
Tale conseguenza morale non fu certo esplicitata in questa forma da Socrate, e ci sono anche aspetti del suo pensiero che non vanno affatto in direzione dell'idea di eguaglianza tra gli uomini (cfr. cap. 5, §. 9). Ad ogni modo quanto sappiamo delle sua pratica del dialogo con i concittadini ateniesi ci permette di presentarlo con verosimiglianza almeno come un antenato dell'etica del dialogo.
Del resto i dialoghi socratici (quelli tramandatici dal giovane Platone) non arrivano ad una conclusione definitiva sui temi morali che affrontano (del resto sappiamo che, per Socrate, la tensione erotica verso il sapere assoluto non basterà mai a conseguirlo). Non diversamente Apel e Habemas non propongono affatto un sistema chiuso di regole morali: dalle regole generali del consenso e del rispetto per gli altri come esseri dotati di ragione e capaci di argomentare non si possono trarre immediatamente norme pratiche definitive per la nostra vita sociale.La moderna dialettica dell’opinione pubblica, la serie indefinita di discussioni che nascono dal pubblico confronto delle idee attraverso i libri, i periodici, i giornali e tutti gli altri media, non ha una conclusione, non permette di arrivare ad una sintesi finale, ma è suscettibile di rimettere sempre di nuovo in discussione qualsiasi problema e qualsiasi soluzione.

SCHEDA. Socrate secondo Senofonte: finalismo e provvidenza nella nuova religiosità del mondo greco.
Nei Detti memorabili di Socrate di Senofonte si trovano molte idee banali e molte tirate conservatrici che probabilmente appartengono solo all'autore. Tuttavia non è inverosimile attribuire alcune delle concezioni esposte anche a Socrate, e in particolare: 1)l'idea della provvidenza divina operante nel mondo (Libro 1, cap.IV; Libro 4, cap. 3); 2)l'idea che la divinità è onnisciente, onnipotente e giusta, e che chi trasgredisce le leggi divine in qualche modo viene punito (Libro 1, cap.IV e Libro 4, cap.IV);3)l'idea che il bello e il bene coincidono con l'utile, cioè con quanto si adegua e si armonizza allo scopo di ciascuna cosa (Libro 3, cap.VIII; Senofonte non lo fa, ma si potrebbe aggiungere che qualcosa è "belloebuono" quando si armonizza e si adegua all'ordine provvidenziale - fatto di tanti scopi particolari collegati).
Queste concezioni sono riconducibili a una religiosità relativamente nuova, che si era manifestata già per molti versi in Senofane ed Eraclito, e poi molto chiaramente nei pitagorici, e che si andava affermando sulla religiosità omerica più tradizionale, senza negarla, ma piuttosto assimilandola. Tale religiosità non negava i tradizionali dei dell'Olimpo, ma attribuiva alla divinità nel suo complesso una sapienza, una potenza provvidenziale e un senso della giustizia che erano ignoti alla tradizione. La versione che ne dà Senofonte è particolarmente piatta e banale. Vedremo che Platone ne darà invece una versione elevatissima dal punto di vista poetico e filosofico. Non è inverosimile dunque che anche Socrate credesse alla Provvidenza e all'ordinamento della Natura secondo fini prefissati e collegati (cfr. *finalismo), anche se probabilmente esprimeva queste sue credenze nella forma dubitativa e asistematica che gli era propria.
BIBLIOGRAFIA: per un'esposizione e interpretazione del pensiero di Socrate che tiene conto adeguatamente anche del contributo di Senofonte, cfr. William K.C. Guthrie, Socrate, Il Mulino,1986 - che dedica tra l'altro ampio spazio alla vita e alla personalità del filosofo.

TESTO BREVE

PARTE 2^
L’ORDINE DELLA CITTÀ’ E L’ORDINE DELL’ANIMA: L’APOGEO E LA CRISI DELLA CULTURA GRECA DELLA POLIS AD ATENE

Cap. 5. I SOFISTI E SOCRATE IN ATENE DALL’ETA’ DI PERICLE ALLA GUERRA CIVILE: L’ORDINE DELLA CITTÀ’

§. 1. Quadro storico della società ateniese dalle vittorie sui persiani alla sconfitta ad opera di Sparta

Nell’Atene di Pericle si sono venute concentrando in modo tipico alcune caratteristiche economiche, politiche, sociali e culturali già presenti altrove:
a) L’eguaglianza dei cittadini (eccettuati donne, schiavi e meteci) di fronte alla legge, propria delle città democratiche.
b) L’eleggibilità di tutti alle cariche pubbliche e addirittura la designazione a sorte per alcune di esse.
c) Il pubblico dibattito in assemblea o in tribunale, che stimola la professione del retore e dello scrittore di discorsi.
d) Uno straordinario sviluppo artigiano, manifatturiero e commerciale che produce una élite di cittadini non nobili ma ricchi, colti e aperti alle novità.
e) La trasformazione culturale - in senso aperto e innovatore - di buona parte dell’élite aristocratica, che continua a primeggiare nella vita politica ed intellettuale.
f) L’istituzione di ginnasi e di scuole superiori a pagamento, ma aperti a tutti.
Originariamente ateniese invece, ma presto imitata, è:
g) la sovvenzione pubblica agli spettacoli teatrali (che sono anche competizioni, con premi, tra i diversi drammaturghi) aperti a tutti i cittadini e svolgentesi nel quadro di una pubblica festa.
E’ infine di capitale importanza la figura dell’aristocratico Pericle che, nel periodo 460 - 429, egemonizza la vita politica di Atene come capo del partito democratico: aperto alle idee nuove del razionalismo naturalistico e politico, protettore delle nuove arti, promotore del rinnovamento architettonico e urbanistico di Atene, attivo fautore dell’egemonia Ateniese sul mondo greco e degli interessi commerciali delle classi ricche. Egli accoglie, stimola e protegge dagli attacchi della cultura conservatrice personaggi come Anassagora, Protagora, Erodoto, Fidia, Euripide ecc.

§. 2. La cultura dell’Atene del V secolo

La tragedia e la commedia
Lungo tutto il secolo V la tragedia incarna lo spirito cittadino di Atene e riflette il conflitto tra i valori propri dei miti degli eroi (dai quali pretendevano di discendere le famiglie aristocratiche, ma che erano anche considerati antichi fondatori o re delle città o delle stirpi greche) ed i nuovi valori cittadini, affermati nelle discussioni giuridiche dei tribunali e delle assemblee; tra la religiosità privata e familiare e la religione pubblica statale; tra la volontà di potenze divine incomprensibili ed i progetti umani; tra le potenze divine che accecano e rendono folli gli uomini e quelle che li guidano e li illuminano; tra potere come forza e potere come autorità e persuasione; tra fato e giustizia divina, ecc. Questi conflitti non sono nella tragedia di solito risolti a favore di una delle due alternative, ma i due contrari sono tipicamente fatti convivere, e la loro conciliazione è possibile semmai solo dopo la conclusione cruenta della tragedia.
In Euripide la tragedia tende a diventare conflitto di caratteri, studiati nelle loro passioni e tensioni interne, per cui mentre si viene delineando la nozione di personalità, si viene perdendo la dimensione della giustizia e del comune destino. Agatone, più giovane di Euripide (prima metà del IV secolo) tenderà ad abbandonare addirittura gli eroi mitici per personaggi inventati.
La commedia attica, di cui è massimo esponente Aristofane, è di argomento contemporaneo e quotidiano, ma è direttamente impegnata nei dibattiti culturali e politici del tempo, in particolare il conservatore Aristofane (che solo ci è stato ampiamente conservato) attacca le nuove mode importate dai nuovi ricchi ateniesi o dagli intellettuali periclei; critica anche violentemente la politica di guerra imperialistica del partito democratico. Si noti che questo messaggio conservatore, espresso in modo semplice e vigoroso, è rivolto proprio al grande pubblico popolare di Atene.
La storiografia e le scienze dell’uomo.
Sulla scia di Ecateo e di Erodoto, le Storie di Tucidide (generale ateniese nella guerra del Peloponneso del 445 - 403, esiliato in seguito ad una sconfitta) perseguono un programma apertamente razionalista: esporre i puri fatti, rigorosamente appurati, non per meravigliare, come nelle favole mitiche, ma per dare conoscenze utili, che siano una acquisizione eterna.
Nell’Atene del V secolo si sviluppano naturalmente anche le scienze naturali (con Archelao, discepolo di Anassagora), la matematica, la geometria, l’astronomia ecc.. Quanto alle scienze dell’uomo ed alla retorica, esse sono direttamente collegate al movimento sofistico. Esse furono particolarmente stimolate dalla necessità, per chi voleva far carriera politica nella democratica Atene, di imparare le tecniche del parlare in assemblea e gli argomenti adatti a persuadere il pubblico.

§. 3. Caratteri generali del movimento sofistico (massima fioritura 460 - 380 circa)

3.1. I sofisti, professionisti dell’insegnamento.
“Sofista” significa nel V secolo “sapiente di professione”, che viene in questo periodo differenziandosi dal “sofos” tradizionale aristocratico, che si dedica allo studio nel suo “otium” (in greco “scholè”) ed anche dal “filosofo” pitagorico che si dedica al sapere come ad una missione religiosa.
Sono detti specificamente “sofisti” quei sapienti di professione che si spostavano di città in città nel V e IV secolo per tenere lezioni o conferenze soprattutto di retorica, di grammatica e teoria del linguaggio, di diritto, di politica e di morale (cioè delle diverse scienze dell’uomo).
Essi avevano una mentalità comune (antimitica, antitradizionale, razionalistica ecc..); costituivano un ambiente relativamente unitario, in quanto l’Atene periclea e post-periclea ne costituiva il naturale centro di attrazione; avevano alcune dottrine tipiche e dominanti (ma sempre con qualche eccezione), tuttavia non costituivano affatto una scuola di pensiero, ma semmai una serie di personalità in competizione (commerciale) tra loro, e nemmeno una corrente politica (tuttavia i sofisti in genere potevano esistere grazie alla tolleranza ideologica della democratica Atene e di altre città, e molti sofisti erano sostenitori dei regimi democratici, mentre altri, considerandosi “cittadini del mondo”, criticavano anche questi regimi, ed altri ancora, come Critia - sofista per cultura ma non per professione - erano aristocratici disincantati e fautori della restaurazione antidemocratica).
3.2. La polemica contro i sofisti.
Era abbastanza tipico dei sofisti, nella loro esaltazione del nuovo contro i valori della tradizione e del mito, un forte gusto per la dissacrazione e la distruzione delle certezze, così come una fiducia nella potenza persuasiva dell'arte della parola, considerata capace di trasformare il discorso debole in discorso forte, ed un sostanziale scetticismo per le “grandi verità della filosofia precedente. Tuttavia la cultura successiva, che fu a sua volta ostile ai valori della democrazia periclea, e che è anche l’unica fonte sui sofisti (dei quali abbiamo solo frammenti), presumibilmente ha calcato la mano sugli aspetti distruttivi della cultura sofistica, presentandola come corresponsabile della crisi di Atene. Ciò è stato fatto in particolare da Platone.
3.3. Dottrine comuni o tipiche del movimento sofistico.
a) La virtù (aretè) è insegnabile (non è quindi una caratteristica naturale dell’aristocratico Kalokagathòs=bello e buono). Il sofista Protagora, esponente di primo piano del movimento, afferma (secondo Platone nel dialogo a lui dedicato) che gli uomini sono, almeno potenzialmente, tutti uguali e tutti perfettibili, per quanto riguarda il senso della giustizia e la capacità di vivere correttamente in società.
b) L’azione buona è conseguenza del sapere e nessuno fa il male coscientemente (su questo concordano Socrate e Protagora nel dialogo Protagora di Platone).
c) I sofisti, maestri di retorica, non insegnano verità assolute (come la conoscenza dell’Essere), ma possono persuadere i cittadini ad avere opinioni conformi con l’utile della città (così Protagora nel Teeteto di Platone). Il vero dunque coincide con l’utile.
d) La retorica, l’arte della parola, ha il primato su tutto il sapere, perchè è capace di persuadere gli uomini che sono divisi tra le più diverse opinioni. I sofisti esercitavano dunque come professione l’arte del persuadere, e l’arte di trasformare il discorso debole in discorso forte. Questi sono forse i loro tratti più diffusi e tipici, confermati anche dall’unico discorso filosofico sofistico che ci è stato tramandato, i Discorsi doppi, che consiste nella contrapposizione sistematica di argomentazioni contrarie. In effetti proprio la rassegna delle tesi opposte sullo stesso tema era un modo di procedere tipico della retorica dei sofisti, e si esercitavano a difendere sia l’una che l’altra. Inoltre essi spesso usavano il metodo della “riduzione all’assurdo” delle tesi avverse secondo il modello di Zenone.

§. 4. I principali sofisti.

4.1. Protagora di Abdera: “l’uomo è la misura di tutte le cose”.
Protagora (di Abdera, secolo V), secondo Platone sosteneva che la sensazione è fonte di ogni conoscenza, e concepiva la verità, piuttosto che come conoscenza dell’essere, come opinione utile all’individuo ed alla città. Celebre è la sua sentenza secondo cui “l’uomo è misura di tutte le cose”, che probabilmente va intesa sia nel senso di misura e criterio della conoscenza (cioè: l’uomo, e non la tradizione mitica rivelata, è criterio della conoscenza) si nel senso di criterio dei valori morali (l’uomo è misura del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto). L’uomo di cui qui si parla è l’individuo, soggetto della sensazione, di per sé mutevole; ma, di fronte alla molteplicità e alla mutevolezza delle opinioni individuali, Protagora rivendica per il sofista una specie di funzione di “medico” delle città, che con la persuasione trasforma le opinioni dei cittadini dannose alla polis in opinioni ad essa utili.
Quanto agli dei, egli riteneva che non si può dire “né che sono né che non sono”, data “l’oscurità dell’argomento”: ciò gli valse un processo per empietà.
4.2. Gorgia di Lentini: la parola come artificio.
Per Gorgia (secolo V) retore e insegnante di retorica di Lentini, in Sicilia, “la potenza del discorso sta nei riguardi dell’ordine dell’anima nello stesso rapporto della potenza dei farmaci nei riguardi dell’ordine del corpo”. Il discorso dunque produce ordine, stabilisce un equilibrio.
Non ci risulta che Gorgia abbia enunciato in modo rigoroso l’idea del carattere artificiale dell’ordine del discorso, ma certo questo testo vi si approssima.
Egli ha cercato di dimostrare la smisurata potenza del discorso, scrivendo scherzi retorici, come L’Encomio di Elena e L’Apogeo di Palamede. Forse è anche uno scherzo o una parodia la sua opera Del Non-Essere (della quale abbiamo scarsi frammenti). In essa troviamo la “riduzione all’assurdo” (secondo il modello di Zenone) della tesi di Parmenide sull’Essere: “nulla è; se qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile, se fosse conoscibile non sarebbe comunicabile”. Ma potrebbe anche essere una effettiva professione di scetticismo: in tal caso, proprio l’impossibilità di conoscere l’Essere farebbe risaltare l’importanza del discorso e del linguaggio come strumenti di persuasione del tutto autonomi dalla conoscenza oggettiva della realtà.
4.3. Prodico di Ceo.
Studioso del linguaggio, si occupò delle etimologie dei nomi, nonché dei sinonimi e delle loro differenze, per stabilire un uso univoco e rigoroso del linguaggio. Socrate, che era in relazione con lui, trasse probabilmente dal suo insegnamento l’esigenza di dare una definizione dei termini.
4.4. Ippia.
Ippia praticava la polymathia (“scienza di molte cose”) e la polypragmosyne (“arte di fare molte cose”), volendo realizzare l’ideale di un individuo dal sapere enciclopedico e capace di produrre autarchicamente tutto quanto gli è indispensabile.

§. 5. I dibattiti tra i sofisti

== La questione dell’origine della religione.
Prodico si spingeva a considerare gli dei come proiezione fantastica delle forze naturali utili all’uomo. L’aristocratico Critia sostiene invece che gli dei furono inventati da saggi governanti perché il timore della loro ira trattenesse gli uomini dal trasgredire alle leggi di nascosto.

== La distinzione fra ciò che è per natura e ciò che è per legge.
Tipica dei sofisti è l’opposizione fra ciò che è per natura (physis) e ciò che è per legge (nomos) o per convenzione (thèsis), insomma per artificio umano. Le loro posizioni oscillano però tra la convinzione che l’ordine naturale sia per sè giusto e preferibile all’artificio umano (Antifonte considera gli uomini tutti uguali, Ippia si considera “cittadino del mondo”) e quella secondo cui la giustizia in sé non esiste, ma è detto giusto ciò che è stabilito dalle leggi dello stato, scritte in base all’utilità del potere costituito. E ciò è valido sia per un potere democratico, sia per uno tirannico, o di qualunque tipo (Trasimaco).

== Governo delle leggi e governo degli uomini.
Platone, nel Politico, ci presenta come sofistica la seguente dottrina: il “governo delle leggi” (cioè il governo in cui i magistrati governano attraverso le leggi e secondo il comando delle leggi, secondo la forma generale-astratta e impersonale della legge eguale per tutti) è preferibile al “governo degli uomini” (cioè al governo discrezionale dei magistrati che, caso per caso, dispongono provvedimenti particolari adeguati, senza che la loro azione sia regolata dalle leggi).

§. 6. La formazione di Socrate in ambiente sofistico.

6.1. Socrate (di Atene, 470 o 469 - 399) non scrisse nulla perché, secondo quanto ci è stato riferito, considerava il dialogo diretto e vivo con i suoi concittadini superiore alla morta parola scritta, congelata nel testo.
Dai sofisti deriva probabilmente il prevalente interesse per il mondo morale dell’uomo e della polis, nonché l’impostazione problematica di Socrate, che di ogni termine rilevante usato dai suoi interlocutori chiedeva “che cos’è?”, invitandoli a darne una definizione (cfr. Prodico, sopra). Nei suoi dialoghi costringeva dapprima l’interlocutore a dare una definizione vera e propria di un certo termine morale (come la saggezza, la virtù, l’amicizia, il bene ecc..) rifiutando gli elenchi di casi particolari o gli esempi e costringendolo ad individuare ciò che , in generale, hanno in comune tutte le cose o le azioni che ricadono sotto la forma universale del concetto in questione (per esempio rifiutando di considerare come definizione della saggezza un elenco di azioni sagge, ma pretendendo l’indicazione di ciò che sempre ed in ogni caso è saggezza).
Poi mostrava che da quella definizione nascevano conseguenze assurde, secondo la procedura di Zenone e dei sofisti.
6.2. Egualmente, l’idea che la virtù è la stessa cosa del sapere (per cui si compie il male solo per ignoranza) accomuna Socrate ai sofisti, e lo contrappone alla vecchia concezione aristocratica della virtù come coraggio (valore militare) e capacità di comando (entrambe “innate” nei nobili). Per i sofisti in genere, però, la virtù è la capacità di conseguire il proprio utile (o quello della singola città), ed essi si offrivano di insegnarla a pagamento. Viceversa la ricerca del vero saper e della vera virtù è svolta da Socrate in modo disinteressato, attraverso il dialogo, il cui scopo non pare essere nè l’elaborazione di una teoria precisa nè l’acquisizione di tecniche politiche come la retorica, ma piuttosto la comprensione progressiva di se stessi e dei propri limiti date degli interlocutori.
Con ciò non si acquisisce in modo definitivo una virtù precisa, ma si entra in un cammino di indefinito perfezionamento.
NB= Non avendo scritto nulla di suo pugno, Socrate ci pone problemi storici ancor più gravi dei filosofi precedenti. La sua personalità si prestava in effetti ad una rapida mitizzazione: divenuto già da vivo il simbolo stesso della filosofia, fu condannato a morte con l’accusa di empietà e di corruzione dei giovani nel 399 da un tribunale del rinnovato regime democratico (risorto nel 403 dopo la tirannide aristocratica dei Trenta).
Di questo martire della filosofia l’aristocratico e conservatore Platone, che ne era stato discepolo, fece il protagonista di quasi tutti i suoi “dialoghi socratici (un nuovo genere letterario!), attribuendo al maestro anche le dottrine nuove che egli stesso andava elaborando. Oggi per lo più si attribuiscono a Socrate solo quelle idee che, oltre che da Platone, ci sono testimoniate anche da altre fonti (e cioè: Senofonte, uomo politico conservatore, più cronista che filosofo; Aristotele, discepolo di Platone, che non conobbe personalmente Socrate, ma che si è rivelato in moltissimi casi fonte attendibile ed intelligente; Aristofane, fonte ostile: commediografo conservatore avverso a tutte le novità intellettuali). Da questo confronto risulta che i problemi di cui Socrate si occupava erano soprattutto di tipo morale e di tipo logico. A ulteriore conferma, si può osservare che è dello stesso tipo la problematica delle cosiddette “scuole socratiche minori” (cfr. infra).

§ 7. La differenziazione di Socrate dai sofisti: la sua “missione divina” di mostrare agli uomini i limiti del loro sapere e della loro virtù.

Proclamato l’uomo più sapiente di tutti dall’oracolo di Delfi, Socrate interpretò l’oracolo nel senso che egli sapeva di non sapere, mentre i pretesi sapienti, da lui sottoposti all’esame attraverso il dialogo, risultavano ignoranti ed inguaribilmente presuntuosi. Questa lotta contro la falsa sapienza umana è considerata da Socrate come una missione divina, ispiratagli dal dio delfico e dal suo proprio “demone, (una voce interiore) che lo spingono a pungolare come un tafano gli ateniesi, che si pretendono sapienti e virtuosi, invitandoli a cambiar vita.
Egli proclamava di non avere dottrine proprie, e, con la sua tipica ironia, sosteneva che, lui figlio di una levatrice, aiutava gli altri a partorire le loro. Tuttavia si può senz’altro attribuire a Socrate la convinzione che la virtù è unica ed indivisibile, e consiste nella conoscenza del bene e del male, e che virtù, felicità e sapere sono la stessa cosa. Sosteneva inoltre che è preferibile subire ingiustizia piuttosto che commetterla, e che chi ha già la virtù non può subire alcun vero male.
Dalla sua stessa vita si può ricavare il messaggio che la ricerca della verità morale, attraverso il dialogo, non ha mai fine, e che l’uomo è indefinitamente in marcia verso la perfezione.

§ 8. . Socrate secondo Aristotele: l’universale o concetto.

Secondo Aristotele, a Socrate dobbiasmo importanti contributi per la nascita della logica, e cioe:
1) la scoperta della DEFINIZIONE (cfr. sopra)
2) la scoperta dell’UNIVERSALE, o CONCETTO, o FORMA, o ESSENZA COMUNE, che dà unità al molteplice e che è l’aspetto comune realmente presente nella cose molteplici particolari riconducibili allo stesso genere; esso viene colto verbalmente attraverso la definizione;
3) la scoperta del metodo induttivo, per cui dalle cose particolari (questo o quel cavallo, questa o quell’azione saggia), sia passa ad astrarre l’universale della “definizione” e del “concetto” (la cavallinità, la saggezza).

§ 9. Processo e morte di Socrate. Da Socrate a Platone.

Socrate, secondo quanto ci è stato riferito, ha scelto coscientemente di lasciarsi condannare a morte nel processo per empietà e corruzione dei giovani, ed ha rifiutato la fuga per restare fedele alla sua missione divina per la rigenerazione morale di Atene.
Egli, pur di formazione sofistica, era ormai da tempo in radicale conflitto con la cultura prevalente in Atene, i cui valori principali erano secondo lui il successo, l’efficacia e il dominio sugli altri attraverso il discorso - e non l’”aver cura della propria anima”. Ma la sua missione educativa, benché svolta in privato, intendeva avere un significato civile e politico. Nell’Apologia di socrate di Platone, Socrate stesso dichiara invece che per il giusto è impossibile far politica nel mondo corrotto della democrazia demagogica e della tirannide oligarchica dei Trenta (404-403). Questa tensione irrisolubile tra il carattere politico della filosofia e l’ impossibilità di far politica per il giusto porterà Socrate al processo e alla morte.
C’è poi un altro problema per lui irresolubile. Nell’ Apologia platonica egli dichiara di non temere la morte pur non potendosi sapere che cos’è esattamente. Non può però trattarsi di un amle, perché essa può consistere solo o nel puro nulla, o in un’altra vita. Ma così egli non chiarisce che cosa significhi esattamente “aver cura della propria anima”.
Sarà Platone che, nella sua evoluzione successiva, abbandonerà il “sapere di non sapere” del suo maestro, come pure il suo rifiuto di darsi un programma politico.
Platone elaborerà dunque una teoria dell’anima e del suo destino ultraterreno. Per lui solo i veri filosofi - gli unici uomini in grado di accedere alle eterne idee ultraterrene, che l’anima umana apprende in una vita precedente - hanno diritto al comando politico.

§ 10. . Le scuole socratiche minori. I cinici ed i cirenaici: il socratismo come esperienza vissuta. I paradossi dei megarici.

1. Il movimento cinico, fondato da Antistene, discepolo di Socrate, si sviluppò ad Atene ed altrove per un paio di secoli. I cinici contestavano da “cittadini del mondo” le convenzioni sociali e vivevano “secondo natura”, poveramente e semplicemente. Rifiutavano ogni tipo di sapere scientifico organizzato, ritenendo che il saggio, raggiunta la conoscenza intuitiva del bene, non abbia bisogno di nulla, se non di “vivere in società con se stesso”, libero dalle passioni del corpo e dai desideri artificiali indotti dalla società.
2. Anche la scuola di Cirene, fondata da Aristippo, disprezzava il sapere sistematico; la saggezza per i cirenaici consiste nel conseguire il piacere sensibile, seguendo la natura ed evitando di cadere nell’inganno delle convenzioni e dei pregiudizi, senza temere gli dei e la morte.
La scuola di Mègara sviluppa idee socratiche ed eleatiche: secondo il suo insegnamento l’Essere (l’Uno) è il bene, e la Virtù, come il Bene cui è rivolta, è assolutamente unitaria e non distinguibile dalla Scienza. Questa scuola persegue la confutazione degli avversari con la riduzione all’assurdo, alla maniera di Zenone e di Socrate. I megarici riprendono anche la tendenza di Socrate allo scetticismo: essi sostengono che la predicazione è logicamente impossibile, e, come gli eleatici, negano che si possa parlare del divenire dell’Essere e della molteplicità degli esseri. Per loro, dunque, la conoscenza umana è essenzialmente paradossale. Celebre il paradosso del mentitore: se dico “io mento”, mento o dico il vero?
* * *
Esercizi del cap.5

Esercizio sul § 1 e 2
Esercitazione di confronto tra il mondo della democrazia ateniese e quello della liberaldemocrazia odierna.-
Segnate con una A le caratteristiche appartenenti esclusivamente alla civiltà e alla cultura sociale e politica della democrazia ateniese, con una B quelle oggi solitamente considerate appartenere al patrimonio della democrazia (o meglio "liberaldemocrazia"). Notate che ci sono anche items che devono essere segnati con entrambe le lettere. Non segnate poi in nessum modo gli items "distrattori", ed estranei ad entrambe le culture. In caso di difficoltà o di esitazione, spiegate i motivi della vostra scelta.
Un esercizio di ulteriore approfondimento consiste nell'indicare, là dove le caratteristiche sono comuni, le differenze specifiche di ciascuna cultura.
[[NB: sarebbe velleitario tentare di elaborare items assolutamente univoci; a noi pare più sensato invitare lo studente a commentare la sua scelta. Per es. dalla discussione sul primo item, che in qualche misura è valido anche per l'età contemporanea, potrebbe nascere un'utile riflessione e discussione. Aggiungendo la parola "teatrali" l'item diventa più univoco, ma non è usato come strumento di riflessione.]
[A]............I cittadini abbienti tentano di influenzare l'opinione pubblica attraverso gli spettacoli [teatrali].
[A].............I cittadini di pieno diritto sono solo una minoranza.
[A].............Sono considerati cittadini di pieno diritto solo quelli che sono in grado di servire la patria in armi.
[A].............I cittadini concorrono in modo diretto a determinare le principali decisioni politiche dello Stato.
[Né A né B]....Lo Stato garantisce direttamente lavoro e assistenza sociale a tutti i lavoratori.
[B]...........Non sono ammesse discriminazioni politiche in base al sesso, alla razza o alla religione.
[B]...........Lo Stato è neutrale in materia di religione e garantisce a tutti libertà di culto e di opinione.
[B]...........E' diffusa l'opinione che lo sviluppo economico, scientifico e tecnico sia in stretta relazione con il progresso morale, civile e politico dell'umanità.
[A e B].......E' diffusa l'idea che i tutti cittadini abbiano eguale diritto a concorrere in qualche modo alle decisioni che concernono al loro destino comune.
[A e B]........E' diffusa la concezione secondo cui l'uomo è in grado di ordinare il suo mondo in modo relativamente originale rispetto alla tradizione ed autonomo rispetto a potenze superiori.
[Né A né B]...Le autorità sorvegliano attentamente l'ortodossia ed i costumi dei cittadini.
...

Esercizi sui § 3, 4 e 5
AUTONOMIA DEL MONDO DELLA POLIS E ARTIFICIO NEL PENSIERO SOFISTICO.
1) TEST A SCELTA MULTIPLA (§. 3 e 4, anche senza gli approfondimenti): LA CAPACITA' CREATIVA DELL'UOMO QUALE INVENTORE DI ARTIFICI E L'AUTONOMIA DELL'INDIVIDUO E DELLA POLIS RISPETTO ALL'ORDINE TRADIZIONALE E DIVINO NELLA CULTURA SOFISTICA.
+¯ Secondo Gorgia la parola e il discorso sono artifici utili perche' creano con la persuasione e senza violenza l'ordine dell'anima.
+¯ Secondo Protagora ogni individuo è fornito del senso dell'onore e della giustizia, cosicchè non dipende in questo da nessuna autorità tradizionale.
¯ I sofisti in Atene costituivano un vero e proprio partito politico, che difendeva l'autonomia dell'uomo e la libertà di pensiero.
¯ Protagora affermò che gli dei non sono, e che pertanto tutto è lecito.
+¯ Poiché secondo i sofisti la virtù è insegnabile, si puo' desumerne che per loro tutti gli individui siano potenzialmente uguali.
¯ Poiché ritenevano che gli individui sono potenzialmente eguali, i sofisti si opposero alla schiavitù.
+¯ Gorgia riteneva che la capacità creativa della parola fosse qualcosa di straordinariamente potente.
+¯ I sofisti pensavano che il mondo greco nelle ultime generazioni avesse accumulato un notevole patrimonio di conoscenze teoriche e pratiche, ben superiore a quello della tradizione precedente.
¯ I sofisti avevano un senso della storia e del progresso simili a quelli del mondo contemporaneo, per cui assunsero un atteggiamento rivoluzionario nei confronti della società greca tradizionale.
¯ Tutti i sofisti pensavano che fosse giusto non ciò che è conforme alla tradizione o alla natura, ma ciò che è stabilito per convenzione dalla società.
+¯ Protagora riteneva che tutte le opinioni sono vere in quanto si riferiscano a sensazioni da noi provate.
¯ Per Protagora la maggioranza ha sempre ragione e le sue decisioni sono di per sè giuste e utili alla città.
¯ I sofisti sottoposero a una critica generale le credenze religiose tradizionali per liberare l'umanità dall'oppressione dei ceti nobiliari e sacerdotali.
+¯ I sofisti, convinti della superiorità del loro sapere, spesso criticavano le credenze mitiche e tradizionali.
...
2) ESERCITAZIONE AVANZATA: SULLA BASE DEGLI APPROFONDIMENTI, DELLE SCHEDE E DELLE LETTURE, CONFRONTA LA CONCEZIONE SOFISTICA DELL'AUTONOMIA DELL'UOMO E DELLA POLIS CON IL PRIMATO DELLA TRADIZIONE PROPRIO DEL MONDO MITICO OMERICO ED ESIODEO.
...
...
Esercizi di confronto
1.Confronto generale tra Socrate e i sofisti.
Indicate con una A le caratteristiche proprie dei Sofisti e con una B quelle proprie di Socrate. Alcuni items possono essere segnati con entrambe le lettere. Attenzione a non segnare i "distrattori" (elementi estranei sia ai Sofisti che a Socrate)! E'possibile ampliare l'esercizio motivando le scelte, in particolare spiegando perche' si considerano elementi estranei quelli contenuti negli items che NON si sono scelti.
SCOPO DELLA CONOSCENZA UMANA:
Né A né B...Contemplare l'ordine divino del Cosmo e dell'Essere.
B.......Conoscere se stessi e i propri limiti, e prendersi cura della propria anima.
A.......Conseguire l'arte oratoria e politica.
A e B...Conoscere la virtù.
A.......Conoscere ciò che giova alla città.
Né A né B...Conoscere la perfezione divina.
Né A né B...Ricordare le idee apprese in una vita precedente.
LUOGHI E CIRCOSTANZE IN CUI SI SVOLGE L'INSEGNAMENTO.
Né A né B...Nella sede della setta, di fronte ai soli iniziati.
Né A né B...Nel tempio, davanti al popolo riunito.
B...........Ovunque e con chiunque, quando la voce interiore ci spinge a fare domande, o qualcuno ci pone delle domande.
Né A né B...In un circolo riservato agli aristocratici e ai loro amici.
A..........In case private o in luoghi pubblici, purche' si sia regolarmente pagati.
B..........Nei crocchi che si formano sulla pubblica piazza (agorà) o nei ginnasi (i tipici luoghi di riunione dei maschi di condizione libera).
METODI D'INSEGNAMENTO.
B..........Si chiede la definizione di un termine e si mettono a nudo le contraddizioni in essa insite.
Né A né B....Vengono ripetuti in pubblico gli esperimenti precedentemente messi a punto dallo scienziato in laboratorio.
B..........Si esamina il problema attraversa una serie di brevi domande e risposte condotta da uno degli interlocutori del dialogo.
A.........Si esibisce la propria bravura oratoria sostenendo tesi paradossali o sostenendo in sucessione tesi opposte.
A.........Si esibisce la propria erudizione esponendola al pubblico con un discorso lungo, fiorito e circostanziato.
B.........Si mettono in discussione i pregiudizi degli ascoltatori.
Né A né B...Insegnanti e discepoli si incontrano insieme in un convito, per conseguire il piacere, che è il fine dell'insegnamento.
SENSO COMPLESSIVO DELL'INSEGNAMENTO.
A...........Non è possibile raggiungere la verità a proposito dell'Essere, ma si possono conseguire opinioni utili all'individuo o alla collettività.
Né A né B......Il mondo è stato ordinato dalla divinità e l'uomo puo' conoscere perfettamente tale ordine ed armonizzarvisi.
Né A né B......Il saggio non ha bisogno di nulla e di nessuno: gli basta vivere in armonia con se stesso.
B...........L'uomo è un essere limitato ma perpetuamente alla ricerca della verità e della perfezione morale.
A e B.......La virtu' e la conoscenza sono la stessa cosa, per cui nessuno fa il male intenzionalmente.
Né A né B......L'Essere e' e non puo' non essere.
Né A né B......La filosofia ci svela il senso della vita umana, che e' appunto la preparazione ad un'altra vita, che senza dubbio ci attende dopo la morte.

2.CONFRONTO TRA SOCRATE E I SOFISTI SULLA QUESTIONE DELLA VIRTU' - O "ARETE'" (STESSA PROCEDURA DEL PRECEDENTE).
Né A né B......La virtu' e' innata ed ereditaria, ma puo' essere stimolata dall'ascolto delle gesta degli eroi omerici, da cui i clan nobiliari traggono origine.
A.........Le diverse virtu' etico-politiche non sono possesso esclusivo di certi uomini ma, essendo potenzialmente in tutti, possono essere insegnate a chi abbia tempo e denaro per imparare.
A e B.....La virtù e la conoscenza sono la stessa cosa, per cui nessuno fa il male volontariamente.
B.........La virtù è unica ed indivisibile e consiste nella conoscenza del bene e del male.
B.........Non tutti quelli che credono di possedere la virtù e la conoscenza realmente le possiedono.
Né A né B.......La virtù consiste nella preparazione ad una vita ultraterrena.
1 Abbiamo sottolineato con il corsivo il contrasto retorico tra le imprese belliche (la cui menzione sarebbe stata apparentemente molto opportuna in una commemorazione funebre di guerra) e il sistema di vita e la forma di governo - di cui invece Pericle vuole parlare, perché le considera il vanto della città e la giustificazione morale della guerra ancora in corso.
2 Pericle, certo con una terminologia diversa dalla nostra, sembra anticipare in questo paragrafo alcuni dei grandi temi della liberaldemocrazia: i principi cioè dell'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, delle pari opportunità per tutti di partecipare alla vita politica (primo capoverso), della tolleranza del modo di vita e delle opinioni degli altri (secondo capoverso), della sovranità della legge(terzo capoverso).
3 Vale a maggior ragione per gli ateniesi quello che abbiamo già detto per la civiltà ionica, culla della cultura greca: l'apertura attraverso il commercio ai prodotti materiali e culturali degli altri paesi è un fattore decisivo per lo sviluppo di una mentalità flessibile, tollerante e pluralistica.
4 Nelle precedenti note (3) e (4) abbiamo visto aspetti che accomunano la democrazia commerciale di Atene con la moderna democrazia dei paesi capitalistici. Ma qui emergono anche tratti tipicamente greci, scomparsi nel mondo moderno: il gusto per il bello, il senso della misura, l'armonia tra pubblico e privato (primo capoverso).
Segue poi una difesa della democrazia assembleare ateniese: Pericle respinge la tesi oligarchica secondo cui le lunghe discussioni nell'assemblea popolare "danneggiano le azioni". Per lui, invece, è proprio la libertà di critica vigente in Atene che porta alle "necessarie cognizioni", sulla cui base si può agire razionalmente.
5 Qui si affaccia un'altra idea tipicamente greca (ben lontana dalla mentalità moderna): quella secondo cui la virtù dell'individuo è la capacità di svolgere armoniosamente le più svariate attività (la politica, la guerra, l'attività economica privata, la cultura, ecc.), di vivere con decoro e di essere sufficiente a se stesso.
6 "Nomos" significa "legge", sia nel senso della legge scritta, sia nel senso di legge consuetudinaria e di convenzione sociale. La traduzione di Erodoto è di L. Canfora, Storia della letteratura greca, Laterza, Bari-Roma 1986, p. 251
7 Questo termine pagano indicava una forza spirituale in genere e non esclusivamente lo spirito del male, come invece il termine cristiano "demonio".
8 Si noti che gli Ateniesi rinunciano subito a legittimare dal punto di vista della giustizia il loro comportamento (primo capoverso del par. 89), ma si pongono immediatamente sul piano del realismo politico, della politica di potenza (par. 89) e del calcolo degli interessi (par. 91), giocando a carte scoperte.
9 In effetti in altri frammenti Antifonte non sembra affatto condannare la civiltà (framm. 44 a).
10 Le tre citazioni che precedono sul concetto secondo Aristotele, Senofonte e Socrate sono tratte da Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, voce: “concetto”.
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