David Hume

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Testo

David Hume
David Hume fa parte della tradizione empiristica inglese; l’empirismo è quella concezione secondo cui non esistono idee innate (quindi è in contrasto col pensiero di Platone e di Cartesio), e che tutto ciò che è nella nostra mente deriva dall’esperienza. Hume riprende le teorie del filosofo Locke e le dà per scontate.
Siamo nel ‘700, cioè negli anni in cui è giunta a maturazione con Newton la rivoluzione scientifica che si era avviata con la rivoluzione astronomica di Copernico e poi con Galileo.
Newton poteva ormai dire che si aveva una conoscenza scientifica della natura, e che si potevano spiegare certi fenomeni perché se ne conoscevano le leggi, insomma della natura si aveva ormai scienza.
La fondazione di una scienza della natura umana
E dell’uomo? Hume vuole essere in qualche modo “il Newton dell’uomo”; egli vuole elaborare una scienza dell’uomo; egli, infatti, presuppone che l’uomo possa essere studiato con la stessa scientificità con la quale fino a quel momento si era studiata la natura. Alla scienza della natura si deve aggiungere questo nuovo capitolo: “La scienza dell’uomo”.
Hume è contrario alla tesi cartesiana secondo cui le nostre conoscenze nascono “spremendo” idee innate; secondo Hume la filosofia che si occupa della natura umana può diventare scienza solo se si applica all’uomo quello stesso metodo sperimentale che si era usato per lo studio della natura.
Per Hume Bacone è il padre del pensiero scientifico proprio perché aveva sostituito il metodo deduttivo di Aristotele con quello induttivo.
Di Newton condivide il disprezzo per le ipotesi astratte, per cui la natura non fa salti, opera in maniera uniforme ed è caratterizzata dalla semplicità e dal limitato numero di leggi.
Oggi la filosofia nasce dalla contestazione di questo assunto di fondo, cioè l’idea che compito della scienza è scoprire quelle poche leggi che spiegano tutto. La natura, pensa Newton, è semplice, e la scienza non deve fare altro che scoprire le semplici leggi che la regolano. Oggi sta nascendo l’idea che forse il mondo non è semplice, ma complesso; se ciò si dimostrasse vero, tre secoli di storia della filosofia verrebbero ad entrare in crisi. Oggi si parla, infatti, di sfida della complessità. Per Newton la natura segue sempre la via più breve, la più lineare.
Gli empiristi inglesi studiosi della morale, fondavano l’etica sulla religione; Hume è l’erede di una serie di studi che facevano leva sullo studio dei comportamenti umani. Lo studio dell’uomo partiva dall’attenta considerazione dell’attività umana. L’idea più originale di Hume è che dà il primato al sentimento piuttosto che alla ragione.
Qui il tentativo è intanto quello di definire la portata e la forza, il limite, ma anche le potenzialità della mente umana, per poter spiegare la natura delle idee di cui ci serviamo.
E’ sempre l’uomo che produce tutti i saperi, per questo diventa centrale per Hume lo studio della mente umana. Se non sappiamo chi è, come ragiona questo soggetto che produce le varie scienze, queste diventano disorganiche, rapsodiche, sparpagliate.
Quando avremo conosciuto la natura umana saremo più in grado di dominare la natura; in lui rimane l’intento che soltanto dalla scienza della natura umana si può arrivare ad una conoscenza più generale.
1. La logica e la teoria della conoscenza
Ci troveremo davanti ad un’elaborazione per certi versi opposta a quella cartesiana che partiva dalla pratica del dubbio che investiva tutto il sapere. Stiamo partendo dalla gnoseologia, cioè come Hume pensa che noi elaboriamo le nostre idee e come ragioniamo.
La natura umana viene studiata da Hume da quatto prospettive diverse: la logica, che studia le operazioni del nostro intelletto, la morale e l’estetica, che si riferiscono al sentimento e al gusto, e la politica, che considera gli uomini in quanto essi formano una società.
Solo se c’è uniformità nella natura è possibile una scienza unitaria, questo è il principio generale newtoniano su cui poggia la filosofia di Hume; quando si studia qualsiasi scienza, infatti, si presuppone la regolarità della natura.
Se la scienza è volta al rinvenimento di quelle leggi, scoperte le quali si conosce la natura, si dà per scontato che tali leggi esistano. Newton, avendo studiato la natura fisica, presupponeva l’esistenza di leggi, la stessa cosa fa Hume con l’uomo.
Noi facciamo miliardi di cose, ma il primo approccio con la natura è il fatto che abbiamo una percezione di ciò che è intorno a noi.
LA PERCEZIONE
Percezione è tutto ciò che può essere presente alla mente; la percezione in Hume è sinonimo di un determinato stato mentale; tutto ciò che costituisce un mio stato mentale viene da Hume definito “percezione”.
Non a caso Hume è empirista, infatti, le idee sono il risultato che ha alla partenza un atto di percezione; niente è realmente presente nella nostra mente al di fuori della percezione.
Il soggetto di tutte le attività percettive è sempre l’uomo, perché a se riconduce i suoi atti percettivi. Non c’è bisogno di giustificare questo punto di partenza poiché è tanto ovvio che non ha bisogno di dimostrazione.
I due tipi di percezioni: le impressioni e le idee
L’idea è il ricordo illanguidito di un’impressione; l’impressione è immediata, forte, ha nei nostri confronti un effetto intenso: non posso essere passivo nei confronti di un oggetto che vedo o di un suono che sento; ma ciò non vale soltanto per le sensazioni di oggetti esterni, ma anche il dolore è un’impressione nel momento stesso in cui lo sto provando. I sensi trasmettono l’immagine di un oggetto; la differenza tra impressione e idea consiste nel fatto che l’impressione colpisce la nostra mente con maggiore forza e vivacità.
Il rapporto di causalità tra impressioni e idee
Un’impressione consiste nel provare passioni o emozioni e nell’avere determinate immagini sensibili; un’idea consiste nel riflettere su passioni, emozioni o sensazioni già provate.
Le impressioni sono tutte quelle percezioni immediate, forti e vivaci nel momento stesso in cui le proviamo.
Le idee sono le immagini illanguidite delle impressioni, e anche questo non c’è bisogno di dimostrarlo perché evidente; le idee somigliano alle impressioni che le hanno generate, quindi ogni idea ha un’impressione che le somiglia, poiché è il riflesso indebolito dell’impressione.
E’ l’esatto opposto di ciò che diceva Cartesio: non possiamo pensare a niente se non ne abbiamo avuto percezione in passato (un cieco non può avere l’idea di azzurro).
Hume vuole farci capire come secondo lui funziona la nostra mente a partire da impressioni, questo è il suo empirismo.
L’impressione come “criterio di verificazione”
Le idee sono figlie delle impressioni, ma allora come nascono le idee astratte? Le idee astratte nascono con la capacità che ha la mente umana di comporre idee concrete (il cavallo con le ali), associare (all’idea di buio l’idea di notte o a quella di fumo il fuoco), trasportare, aumentare e diminuire le nostre idee.
Ma il problema è che le idee sono derivate tutte dalle impressioni, che essendo così chiare ed evidenti forniscono alla conoscenza tutto ciò di cui ha bisogno.
L’impressione è quindi un criterio di verificazione, ciò vuol dire che se qualcuno dice una parola e di questa parola non è possibile ricavarne un’idea, e quindi l’impressione da cui essa deriva, vuol dire che quella parola non ha senso. Quello di verificazione è il criterio con il quale siamo in grado di ordinare la realtà, in altre parole è il criterio che ci permette di stabilire quali tra le nostre idee sono sensate e quali non lo sono.
Il principio di verificazione è un termine della filosofia del nostro secolo: del neopositivismo logico, ma siccome cade bene a proposito dell’idea humeana che per verificare se un’idea è sensata dobbiamo essere in grado di individuare l’impressione da cui deriva.
La sensatezza o la significatività di un termine è riconducibile al fatto che questo termine sia riconducibile o meno ad un’impressione da cui lo traiamo. Questo ci consente di demarcare da una parte i termini sensati e dall’altra quelli insensati. Se un’idea ci sembra ambigua, l’impressione corrispondente sarà in grado di renderla chiara.
L’origine delle nostre idee sono impressioni da cui possono essersi notevolmente allontanate in grazia della proprietà umana di comporre, associare, diminuire ecc…
L’unico punto di partenza delle mie idee sono le impressioni, ma esistono le idee a prescindere dal fatto che io ne abbia avuto un’impressione? Può anche darsi che questo sia un assunto metafisico; l’esistenza è una questione che Hume non vuole affrontare.
L’inconoscibilità della causa ultima delle sensazioni
Qual è quindi la causa delle nostre percezioni, e in particolare delle nostre sensazioni? Hume non se la sente di stabilire quale sia la causa quale sia la causa ultima da cui ricaviamo le sensazioni. Secondo il senso comune questa causa è data dall’esistenza di questi oggetti al di fuori di noi. Noi siamo certi di avere impressioni e per Hume è irrilevante sapere da cosa abbiano origine, non interessa per il fine che ci stiamo proponendo.
A questo punto potrebbero ritornare tutte le questioni che abbiamo incontrato con Cartesio; l’una ipotesi vale l’altra e quale sia quella che assumiamo non cambia l’esito del risultato, e studiando la critica humeana dell’idea di sostanza torneremo a ciò.
La critica di Hume va alla pretesa che il senso comune ha di sapere la causa ultima delle sensazioni.
Il potere creativo della mente: l’immaginazione
A questo punto se alla base delle nostre idee ci sono le impressioni, quali sono i procedimenti attraverso i quali le idee derivano dalle impressioni? Allora Hume analizza il mondo delle idee e arriva alla conclusione che abbiamo due modi di conservare le impressioni nella nostra mente: la memoria e l’immaginazione.
L’immaginazione è quella facoltà che ci consente di coniugare un’idea ad un’altra ottenendone una terza diversa, oppure al contrario di rescindere un’idea composta. L’idea si fonda sulla sensazione, ma quando coniugo due idee ottengo qualche cosa di nuovo. In altre parole l’immaginazione svolge nei confronti delle idee un’attività di analisi e di sintesi. In questa attività si esplica per Hume il cosiddetto “potere creativo della mente”.
Il principio di associazione
La nostra mente funziona associando alcune idee ad altre; si parla di scienza dell’uomo perché se io vedo del fumo posso pensare al fuoco, ma se lo vede un’altra persona non è detto che pensi la stessa cosa.
A certe idee ne associamo certe altre e ciò non è accidentale, infatti, certe idee trascinano con se altre idee, e adesso vedremo secondo quali leggi ciò avviene.
C’è nell’uomo la tendenza spontanea ad associare certe idee a certe altre, ma quello che abbiamo come istinto si trasforma in abitudine con l’esercizio.
Il principio di associazione funziona secondo tre regole: contiguità nello spazio e nel tempo, somiglianza e causalità.
La contiguità nello spazio e nel tempo è la tendenza che ha la nostra mente ad associare quelle esperienze che in maniera costante e regolare si mostrano vicine nel tempo e nello spazio (se si parla di Colosseo viene in mente Roma).
La somiglianza fa associare alla nostra mente idee simili (per esempio quando passiamo dall’idea di un ritratto all’idea associata dell’originale).
La causalità, invece, ci fa associare idee ed esperienze secondo un principio di causa ed effetto (l’idea del fumo, per esempio, richiama quella del fuoco).
Il nominalismo di Hume
Anche Hume sostiene una posizione di tipo nominalistico: in natura non esiste il concetto di qualcosa, ma esistono enti individuabili.
Non è vero che quando qualcuno sente un nome astratto lo coglie nella sua astrattezza, ma vi associa qualcosa di concreto, poiché ognuno di noi le idee se le fa in base all’esperienza.
L’immagine che si forma nella nostra mente è sempre quella di un oggetto particolare; esistono dunque soltanto individui in natura, ma si possono notare delle somiglianze, e si colgono soltanto gli aspetti comuni per poi generalizzare.
I concetti si formano attraverso il processo di accomunare sotto un solo nome soggetti che hanno aspetti somiglianti.
CONOSCENZA ASTRATTA E CONOSCENZA EMPIRICA
Hume distingue due forme fondamentali di conoscenza:
1. 1. quella astratta, propria della matematica, che si esplica mediante la “relazione tra idee” (relation of ideas);
2. 2. quella empirica, riferita ai fatti dell’esperienza, la quale istituisce un legame tra impressioni, cioè tra cose o “materie di fatto” (matter of fact).
A questa distinzione Hume fa corrispondere quella tra conoscenza certa e conoscenza probabile.
La matematica è una conoscenza di idee; queste conoscenze, che sono certe, alcune le cogliamo per intuizione e sono i postulati, ovvero delle proposizioni autoevidenti, ad altre ci arriviamo con le dimostrazioni, e sono i teoremi.
La conoscenza astratta astrae dal singolo caso le caratteristiche comuni a casi analoghi e vale per tutti questi; per esempio, il teorema di Pitagora vale per qualsiasi triangolo noi prendiamo in considerazione.
Le relazioni che si instaurano tra idee sono inoltre assolutamente necessarie, poiché si fonda sul principio di identità, secondo cui, date determinate idee, non è possibile il contrario della relazione che tra di esse viene posta; per esempio, data l’idea di triangolo, non è possibile che la somma dei suoi angoli interni non sia uguale ad un angolo piatto.
La conoscenza empirica, è quella che instaura relazioni tra impressioni, la cui conoscenza è solo probabile, e non giunge mai ad essere necessaria, poiché il contrario di un dato di fatto è possibile, ma non lo è il contrario di una relazione tra idee; un fatto non implica contraddizione, infatti si può dare questo fatto in maniera diversa da come si presenta, mentre non si può concepire un triangolo con la somma dei suoi angoli interni diversa da un angolo piatto.
Qualunque proposizione rientra nell’una o nell’altra categoria delle due conoscenze (astratta ed empirica).
Le proposizioni che non attendono né a relazioni tra idee, né a relazioni di fatto non costituiscono una conoscenza, ciò significa che un libro di matematica contiene proposizioni con una portata conoscitiva, mentre un libro di metafisica no.
L’origine empirica delle idee della matematica
Hume dice: io non so se esistono cose come i triangoli, ma se penso un triangolo rettangolo, tra gli elementi che lo compongono si instaurano precise relazioni, che sono certe.
Tutta la teoria della conoscenza di Hume si fonda su questo principio: ogni idea deriva da un’impressione, e in questo consiste, se ci pensiamo bene, l’empirismo di Hume.
A questo punto Hume dimostra come si può avere l’origine empirica di un ente geometrico o matematico. Per esempio come può un cerchio avere un’origine empirica nella mia mente? In natura c’è qualcosa di approssimativamente circolare, è ciò che fa arrivare all’idea del cerchio perfetto.
Il carattere necessario e a priori della conoscenza matematica
Le idee matematiche sono come per Platone realtà che esistono a prescindere dal fatto che noi le conosciamo, o sono prodotte dalla nostra mente? Per Hume vale sicuramente la seconda ipotesi: anche la conoscenza più astratta è riconducibile in ultima analisi ad impressioni.
E’ conoscenza a priori una conoscenza che non ha bisogno di fare esperienze o osservazione, come la matematica per esempio.
Hume ci vuole dire che le relazioni tra idee sono a priori, cioè prescindono dalle nostre possibili impressioni: da certe idee ne derivano certe altre puramente logiche.
Non dipende dalla mia esperienza la verità delle conoscenze matematiche, e ciò vale pure per le regole della logica, come il principio di identità, secondo cui ogni cosa o idea è uguale a se stessa, e non ho bisogno di fare esperienza di ciò per affermarlo.
Questo ha indotto Platone a ritenere che le idee esistessero a prescindere dalle impressioni; il fatto che noi riusciamo ad eseguire operazioni mentali con le idee ci dimostra proprio questo.
Per Hume la matematica è inefficace nella spiegazione della realtà; è questo che distingue nettamente Hume da Galilei: mentre per Galilei la funzione della matematica era fondamentale per la conoscenza della natura, poiché tra matematica e natura vi era un nesso strettissimo, Hume afferma l’opposto, poiché altrimenti salterebbe la distinzione tra conoscenza astratta e conoscenza empirica.
In altre parole, non possiamo spiegarci la realtà attraverso la matematica che è conoscenza astratta, poiché la realtà è conoscenza empirica; la realtà non è traducibile in numeri.
Per quante conoscenza matematica l’uomo possa avere, questa non può essere usata come strumento interpretativo della natura, ma solo come ausilio nella scoperta delle leggi naturali o nella descrizione degli aspetti quantitativi dei fenomeni.
Il carattere particolare e contingente della conoscenza empirica
Nelle relazioni fra idee io arrivo alla verità partendo da certe idee ed applicando il ragionamento, e non c’è alcun nesso con l’esperimento di matematica perché è un puro ragionamento.
Le questioni di fatto non si possono dimostrare, perché si colgono attraverso un’impressione che ne abbiamo; io mi contraddirei se pensassi un triangolo la cui somma degli angoli interni sia diversa da un angolo piatto, ma non mi contraddirei se data un’impressione, la pensassi con altre qualità. Per esempio, dall’idea di lampo non ne deriva che deve seguire il tuono, ma non è lo stesso per un triangolo, la somma dei cui angoli deve essere pari a 180°.
L’analisi del principio di causalità: qual è il suo fondamento?
Hume porterà avanti la critica più radicale che nella storia sia stata fatta al principio di causalità, in questo modo salta la scienza che non è altro che trovare la causa dei fenomeni.
Perché la nostra mente è in grado di fare previsioni sul futuro? E’ chiaro che ce lo consente l’utilizzo del principio di causalità.
Il problema è che Hume dice che questo principio non ha alcun fondamento logico, scardinerà quindi la necessità di questo principio, che se ci pensiamo bene, è uno dei principi di cui facciamo più largo uso nella vita di tutti i giorni.
Hume non dubita mai del fatto che i sensi ci mostrino le cose come stanno, ma l’uso che facciamo del principio di causalità ci fa andare oltre alle nostre sensazioni presenti.
L’unica scienza che non si fonda sul principio di causalità è la matematica.
2. La critica del principio di causalità
Se non solo il nostro agire quotidiano, ma anche il pensiero scientifico si basano sul principio di causalità mettendolo in discussione verrebbe incrinata una delle colonne su cui si basa la scienza.
Che noi lo usiamo non ce n’è dubbio, il problema è: quale fondamento ha questo principio? Consideriamo pertanto due oggetti che siamo soliti ritenere l’uno causa e l’altro effetto, e analizziamo la natura della loro relazione: per esempio una palla da biliardo che sta ferma su un tavolo ed un'altra che si muove verso di essa con rapidità; le due palle si urtano e quella delle due che prima era ferma, ora acquista un movimento.
A questo punto dobbiamo analizzare il tipo di relazione che si instaura tra un evento che chiamiamo causa e l’altro che è l’effetto: ci vuole una contiguità nel tempo e nello spazio, altrimenti nessuno penserebbe il movimento della seconda palla come effetto del movimento della prima.
L’effetto lo riteniamo sempre successivo alla causa che l’ha originato (principio di priorità della causa rispetto all’effetto).
Se facciamo la stessa prova con altre palle della stessa specie troveremo sempre che l’impulso dell’una produce il movimento dell’altra, c’è quindi una congiunzione costante tra causa ed effetto.
Tre sono i tipi di relazioni di cui prendiamo atto:
1. 1. la contiguità nel tempo e nello spazio;
2. 2. il principio di priorità secondo cui A è causa di B e non viceversa;
3. 3. la congiunzione costante;
Queste sono per Hume le uniche tre cose di cui possiamo prendere atto sul fatto in questione, e non è possibile scoprire nulla di più.
L’ABITUDINE E LA CREDENZA
Tuttavia usiamo il principio di causalità anche per instaurare un rapporto di connessione necessario tra l’evento A e l’evento B.
Il problema non è quello di negare la costanza che c’è nel verificarsi degli eventi A e B, ma è che pretendiamo che questo rapporto sia necessario.
Su cosa si fonda questa pretesa che l’evento A provocherà necessariamente l’evento B? in realtà per Hume questa certezza assoluta non ha alcun fondamento.
Adesso vedremo come Hume contesterà questa presunzione di deducibilità dell’effetto a partire dalla sua presunta causa.
Nel concetto di qualcosa non si deduce l’effetto, e questa è la vera differenza tra Hume e Kant.
Nel concetto di una palla che si muove non è deducibile a priori che farà muovere l’altra palla, oppure dal concetto di acqua non se ne deduce necessariamente l’idea di bagnarsi.
Un empirista come Hume dice: uno che non sa niente, non può dal constatare qualcosa prevederne gli effetti Kant la pensava diversamente.
Non c’è nessuna necessità logica che dato un certo evento ne debba conseguire un altro; quello che noi notiamo è che a un certo evento ne segue un altro, ma non che ne è la causa.
Dalla pura analisi concettuale di un evento non sono in grado di ricavarne le esperienze. Il ragionamento: “Siccome piove tutte le volte che mi aspetto che piova, anche in futuro accadrà lo stesso” non ha niente a che fare con la necessità, che c’è solo in matematica.
La guida dell’uomo in questo caso è l’abitudine (custom), che si fonda sul postulato della presunta regolarità della natura.
Delle quattro relazioni che si instaurano nella mente umana, le prime tre sono vere, perché scontate, l’ultima sulla necessità (cioè io constatando l’evento X prevedo che si verificherà l’evento Y) non lo è.
Il nesso causale è indeducibile a priori
Qual è il fondamento di questa previsione secondo cui certi eventi sono provocati da certi altri? Adamo non sarebbe in grado di inferire che il movimento della palla A ha causato quello della palla B.
Quindi non esiste nella causa nulla che la ragione veda e che ci porti ad inferirne l’effetto. Lo facciamo perché abbiamo l’esperienza, perché siamo abituati a vedere quelle connessioni.
Tutti i ragionamenti sono fondati dunque sull’esperienza: io posso anticipare ciò che accadrò, ma su cosa si fonda questo postulato della regolarità?
Solo l’abitudine ci induce a pensare che si ripeterà in futuro ciò che è stato in passato, allo stesso modo l’abitudine è il fondamento del principio di regolarità.
Abbiamo capito che il principio di causalità di cui si fa così largo uso non si fonda sulla ragione, perché la presunta necessità che dato un certo fenomeno ne debba seguire un altro si fonda esclusivamente sull’esperienza.
Il fondamento psicologico del principio di causalità
Una cosa in sé non ha affatto delle proprietà tali da determinare certi effetti: dal concetto di acqua, a meno che non ne abbia fatto esperienza non ne deriva che a toccarla mi bagnerò.
Stiamo sottolineando l’infondatezza del principio di regolarità della natura, ma è una questione squisitamente filosofica questa critica del principio di causalità.
Il problema è che gli scienziati danno per scontata una cosa che scontata non è: la pretesa di assolutezza della conoscenza scientifica è infondata, quindi se non avessimo l’abitudine, ogni nuovo evento sarebbe assolutamente nuovo; l’abitudine resta comunque una buona guida, senza la quale saremmo ignoranti circa ogni questione di fatto, al di fuori di quelle immediatamente presenti ai nostri sensi.
Il fondamento della relazione causale quindi non è logico, ma psicologico: noi non vediamo cause di eventi, ma solo successioni di eventi, ai quali per abitudine attribuiamo un valore di necessità. L’abitudine quindi crea la credenza, ma non c’è nient’altro che abitudine ad indurci a credere che accadrà ciò.
L’abitudine spiega perché siamo abituati a ragionare in termini di causa ed effetto, ma non giustifica razionalmente tale comportamento.
Il carattere probabilistico delle scienze empiriche
Il confine tra le idee a cui diamo un senso e quelle a cui non lo diamo, è dato dalla credenza.
Salta dunque la tradizionale concezione della scienza che si era affermata da Aristotele in poi. Ora sappiamo che questa causa è figlia della credenza, ma per questo la scienza non ha un fondamento razionale, ma ha un fondamento in un sentimento, nella credenza. Sul piano gnoseologico c’è quindi per Hume un primato del sentimento sulla ragione.
LA CRITICA DELL’IDEA DI SOSTANZA
Questa è la prima volta che un filosofo critica l’idea di sostanza. Sostanza è ciò che sta sotto all’apparenza, ovvero ciò che costituisce la struttura non coglibile tramite i sensi; è ciò che qualcosa è in sé.
Secondo Aristotele, al di là del fatto che ci siano degli accidenti, la sostanza permane pur mutando i suoi accidenti; è proprio ciò che vuole contestare Hume.
Secondo Cartesio io permango a prescindere dai contenuti della mia mente; Hume critica l’idea di permanenza del soggetto a prescindere da ciò che facciamo o pensiamo, e quindi critica sia la sostanza spirituale che quella materiale.
Poiché ciò che noi cogliamo dalla realtà è una serie di accidenti, la nostra conoscenza non è altro che una collezione di idee semplici unite dalla nostra immaginazione.
L’idea di un corpo, non è altro che l’idea di un insieme di percezioni particolari, senza alcuna nozione di ciò che viene chiamata sostanza.
Ma a questo punto, abbiamo delle sostanze? A quali impressioni le riduciamo? La sostanza si riduce ad una serie di accidenti?
Noi abbiamo la certezza soltanto di ciò che percepiamo direttamente. Domandarsi se i corpi esistano o no è inutile.
Non solo il principio di causalità, ma anche l’idea di sostanza, come permanenza a prescindere dal fatto che la percepiamo è una questione di credenza.
L’indimostrabilità dell’esistenza del mondo esterno
La necessità che una cosa permanga nel tempo mentre non la percepiamo, è solo un’ottima credenza. Se vedo qualcosa è effetto dell’esistenza di quella cosa, ma il principio di causalità non ha alcun fondamento logico, quindi la sostanza non permane a prescindere.
La realtà esterna è quindi indimostrabile; Hume sa bene che noi abbiamo la credenza nell’esistenza di un mondo fuori di noi. Quale fondamento ha la nostra credenza nell’esistenza del mondo esterno? Ce l’ha nel sentimento, non nella ragione.
L’io e l’anima come “fascio di percezioni”
Reale è dunque per Hume, solamente ciò che viene percepito hic et nunc attraverso la particolarità dell’impressione. Vero è solamente ciò che si consegue nell’attimo dell’impressione, mentre ogni generalizzazione ed anticipazione del futuro istituiscono solo nessi fittizi e probabili.
Hume utilizza questo esempio: la nostra psiche in realtà è paragonabile ad un palcoscenico, che è un semplice contenitore dove vanno e vengono attori diversi.
Il nostro io ha varie impressioni, come se fossero i vari attori che vanno e vengono dal palcoscenico che è la nostra psiche.
Noi pensiamo continuamente a seconda dei contenuti che di volta in volta sono presenti nel nostro io. E’ la nostra immaginazione che pensa come momenti diversi di una sostanzialità permanente quello che è un vai e vieni di percezioni, un “fascio di percezioni”.
Per Hume la presunzione della continuità dell’io come sostanza che permane al di là delle diverse attività non ha alcun fondamento.
Hume, tuttavia, non mette in discussione l’uso e la validità del principio di causalità, qui viene messo in discussione il suo valore logico, ovvero il fatto che non ho nessuna certezza che in futuro le cose continueranno ad andare secondo le stesse leggi.
Noi non abbiamo l’esperienza diretta del nostro io come sostanza sussistente che rimane identica a sé al di là dei diversi pensieri che di volta in volta io ho; questo in base al principio solo ciò che è riconducibile ad un’impressione è vero.
Lo scetticismo di Hume
Il bilancio è: l’idea di causa come necessità logica è venuta meno; anche le due idee poste alla base di tante costruzioni metafisiche (l’idea di anima e l’idea del mondo esterno) sono state incrinate; a questo punto come si fa a costruire un sapere scientifico e quindi necessario? Con questo approccio di critica all’idea di causa e di sostanza si salva la scienza come sapere necessario? Secondo ciò che dice Hume non è possibile, ecco da cosa nasce lo scetticismo di Hume.
Possiamo dire: finora le leggi che hanno regolato il corso della natura sono queste, domani non lo sappiamo.
La sintesi di tutto ciò è: l’unità del mondo naturale che noi presumiamo per abitudine, non ha alcun valore razionale, così come la sussistenza del mondo, o di un’esistenza oggettiva oltre le impressioni.
La validità pratica delle credenze
La mancanza di fondatezza razionale non significa che queste nostre credenze non abbiamo un’utilità pratica.
L’uomo deve prendere atto che la conoscenza umana le sue origini nei bisogni umani e nei pregiudizi.
Quello di Hume è uno scetticismo moderato e vuole dire: cari scienziati, costruite pure le vostre teorie, ma nessuno pretenda - visto che il principio cardine di ogni scienza è il nesso causa effetto – che queste teorie siano fondate sulla ragione o che abbiano una loro esigenza logica.
Noi abbiamo bisogno di teorie per vivere, ma dobbiamo avere l’umiltà di ammettere che conoscenze certe non ne abbiamo – a parte la matematica – che però resta una scienza astratta, cioè incapace di spiegarci la realtà.
Di norma chi è moderatamente scettico, in politica è tollerante.
La filosofia come scienza descrittiva e critica
La filosofia è il tentativo di conoscere un po’ meglio l’uomo, e chi vuole conoscere deve usare lo stesso metodo che parte dall’esperienza e dalla descrizione di ciò che le impressioni ci mostrano e non è prescrittiva, la filosofia deve limitarsi a descrivere partendo dalle impressioni, che sono la fonte di ogni conoscenza.
Il pensiero di Kant sarà fortemente stimolato - anche se lo contesterà – da quello di Hume; Kant vorrà arrivare ad una fondazione della scienza, quindi allo scetticismo di Hume si contrapporrà la scienza di Kant, infatti per Kant si può dare la scienza universale.
3. La morale e lo studio delle passioni
Hume contesta il razionalismo etico, in fondo quello che già caratterizzava l’etica socratica, ovvero la tesi secondo cui il Bene e la Virtù sono riconducibili a ragionamenti.
Non condivide né l’egoismo di Hobbes, né l’universalismo ottimistico di Shaftesbury e Hutcheson, ovvero la pretesa che noi siamo per natura aperti a relazioni positive e altruistiche nei confronti della natura che ci circonda.
Quella di Hume non vuole essere una morale prescrittiva o normativa, ma una morale descrittiva e critica.
Hume non vuole insegnarci come ci dobbiamo comportare, ma vuole descrivere i comportamenti umani con l’atteggiamento li osserva dall’esterno; egli arriva alla conclusione che l’obiettivo a cui mira l’umanità è quello del benessere.
Hume non crede all’idea di Mandeville sulla complementarietà di felicità pubblica e vizio privato.
In un mondo in cui tutto pretendeva di aver trovato la molla dell’agire umano, Hume è invece realistico, un po’ come Boccaccio, perché vuole cercare non la causa ultima del comportamento umano, ma la varietà dei comportamenti che caratterizzano l’agire umano.
LA CLASSIFICAZIONE DELLE PASSIONI
Hume, studiando dall’esterno le passioni, non lo fa a partire da presupposti metafisici, ma a partire dalla descrizione, volta a mostrare come nelle passioni ci sono strutture regolari.
Come le sensazioni e le idee, le passioni sono per Hume percezioni; le passioni infatti sono impressioni, quindi forti e vivaci, e hanno una capacità di coinvolgere e farsi notare. Sono percezioni sia le sensazioni, sia le passioni.
Le sensazioni sono percezioni di qualcosa che sta fuori di me, le passioni invece sono percezioni di qualcosa che è dentro di me. Le passioni sono quegli impulsi da cui si genera l’azione.
Il nostro agire non è radicato nelle nostre conoscenze, noi non facciamo qualcosa come prodotto di un ragionamento, la radice del nostro agire sta dunque nelle passioni, non nella conoscenza.
Hume fa una distinzione tra passioni forti e passioni deboli o emozioni, cioè tra passioni violente come l’amore, l’odio, la gioia, il dolore, e passioni più tranquille come il senso del bello. Poi distingue tra passioni dirette, che sorgono in noi tramite un rapporto immediato con l’oggetto (un bel vestito, per esempio, ci dà piacere perché la passione che proviamo nasce dal rapporto diretto col vestito); e passioni indirette che dipendono da relazioni più complesse; queste passioni indirette nascono quando per esempio al piacere si unisce l’orgoglio, e diventa una passione complessa perché si complica di più passioni dirette.
Hume non ha preteso di derivare le passioni da qualche assioma, ma si limita a descriverle, poiché la sua vuole essere un’etica descrittiva e non normativa.
La passione complessa nasce dunque dal groviglio di più sensazioni; anche nelle passioni opera il meccanismo associativo riscontrato sul piano conoscitivo; le passioni sono tra di loro collegate un po’ come sono collegate le nostre idee.
Gli istinti primari dell’uomo
Come Newton diceva: non faccio ipotesi (C’è la gravità. Ne prendo atto), così Hume prende atto che il nostro agire è prodotto dalle nostre passioni, ma non sa, né pretende di sapere cosa abbia prodotto le passioni. Le passioni sono dunque degli istinti primari della vita umana, e non ci sono età e popoli che non siano guidati nel loro agire dalle passioni.
LA MORALE COME IMPULSO NATURALE
Il primo filosofo che rintracciava nella ragione il fondamento dell’etica fu Socrate che diceva: “Mi comporto bene perché so”. Per Hume il fondamento dell’etica è il sentimento.
Non esistono per Hume misure eterne del giusto e dell’ingiusto, come al contrario poteva pensare Platone secondo il quale era giusto ciò che imitava l’idea di Bene.
Per Hume la morale va liberata da ogni presupposto intellettualistico. Non siamo guidati in maniera assoluta dalle nostre passioni, ma il ragionamento non ne è il fondamento.
L’antirazionalismo dell’etica humeana
Di un’azione non potremmo mai dire se è vera o falsa, cosa che si può fare con una proposizione. Il vero o il falso non attiene al comportamento, ma al ragionamento.
Hume cerca in qualche modo di render conto, di analizzare con cura ciò che accade nel nostro agire; non è la ragione che produce in noi questa o quella azione, la ragione è anche incapace di impedire una volizione.
Ad una passione si può opporre solo un’altra passione, non un ragionamento; la lotta per Hume è quindi tra passioni per cui non c’è contrasto tra passioni e ragione.
E’ l’esatto opposto di ciò che si affermava nella tradizione socratica, platonica e stoica, ovvero l’idea che la ragione è come il sovrano e le passioni sono i suoi schiavi; Hume capovolge questo concetto ed afferma che la ragione in realtà è schiava della passioni. Il fondamento del nostro agire sono dunque le passioni.
Il problema della valutazione morale
Noi valutiamo il movente, non l’azione in sé; infatti, non possiamo valutare astrattamente un’azione.
Se ci fosse con assoluta certezza la conoscenza di cos’è il bene non saremmo più liberi, perché non potremmo che farlo.
Se l’errore fosse assimilabile al vizio saremmo iperviziosi , nessuno ritiene colpevole un altro che commette un delitto per errore.
Il carattere disinteressato del sentimento morale
In etica non si può procedere con ipotesi astratte perché si analizzano i singoli casi. Quella di Hume è abbastanza originale come posizione e non sarà del tutto diversa da quella di Kant; inoltre avrà parecchio a cha fare con l’etica del ‘900.
Esaminando un’azione dichiarata viziosa, come l’omicidio, è un sentimento di disapprovazione che proviamo nei confronti di tale atto e che ce lo fa definire “vizioso”.
Quindi l’impressione che nasce dalla virtù è piacevole, mentre quella che nasce dal vizio è spiacevole. Questo è il criterio di valutazione di cui ci serviamo per giudicare un atto.
La virtù è quel sentimento di piacere che proviamo di fronte a qualcosa, ma in maniera disinteressata.

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