Adam Smith

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Testo

Adam Smith

Questo grandissimo filosofo, che rivoluzionò la concezione economica settecentesca, nacque in Scozia nel 1723 e morì all’età di 67 anni il 17 luglio del 1790. Dopo aver terminato gli studi, ottiene una cattedra all’università di Edimburgo dove insegnerà letteratura inglese, e in seguito all’università di Glasgow dove insegnerà dapprima logica e in seguito "filosofia morale". Abbandonata nel 1764 la cattedra universitaria Smith si trasferirà in Francia e in Svizzera dove verrà a contatto con la cultura illuminista francese, e conoscerà Quesnay e gli altri fisiocratici, dai quali trae diversi spunti per il suo pensiero economico, illustrato nelle grandi opere: “La teoria dei sentimenti morali” e l'importantissima “Una indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni”. Con queste opere Smith fonderà l’economia politica, rendendola una scienza completamente sciolta dai vincoli della morale. L’importanza degli studi di Smith è evidente; infatti in un periodo in cui la rivoluzione industriale è in pieno sviluppo (ricordo che “Una indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni” uscì nel 1776 in piena rivoluzione industriale) Smith è il primo a delineare la situazione dell’economia, analizzando lo sviluppo capitalistico e l’accumulo di capitale, e definendo i concetti di valore di scambio e valore d’uso e ponendo di fatto le basi al sistema liberista-capitalistico.
Il suo studio si basa su una attenta analisi della società industriale inglese: Smith ritiene infatti che alla base dell’attività economica c’è il desiderio dell’uomo di guadagnare al fine di assicurarsi il benessere e la sicurezza e delineando le caratteristiche di un homo aeconomicus, uomo economico, che esiste sempre e ovunque, e dunque è sciolto dalle circostanze storiche. L’homo aeconomicus di Smith però si differenzia, almeno in parte, da quello di Mandeville: quest’ultimo infatti si rifaceva al pensiero pessimistico Hobbesiano, secondo il quale l’uomo è guidato in ogni sua azione dall’egoismo. Cito a questo proposito Smith: “La nostra immaginazione, che nella pena e nel dolore sembra restringersi e limitarsi solo alla nostra persona, in tempi di agi e di prosperità si espande su tutto ciò che le è intorno[…] Il piacere della ricchezza e della grandezza colpisce in sommo grado l’immaginazione come qualcosa di grande, di bello, di nobile, il cui raggiungimento merita bene tutta la fatica e l’ansietà che sono state spese per essa.(Morale dei sentimenti) ”. È chiaro in questo passo l’idea di Smith: egli descrive un uomo intento al lavoro per procacciarsi il benessere. Ma ancora: “Ed è un bene che la natura ci abbia fatto così. Questo inganno spinge gli uomini a perseverare nella loro attività. Così li dispone dapprima a coltivare la terra, a costruire case, a fondare città e stati, a perfezionare e inventare scienze ed arti, nobilitare ed abbellire la vita umana[…] Senz’alcuno scopo il superbo e insensibile proprietario terriero vede i suoi campi estesi, e senza nessun pensiero per i bisogni del suo prossimo, ma la capacità del suo stomaco è pari a quella del povero contadino. Egli è obbligato a distribuire il resto dei suoi prodotti (quelli non consumati da lui) tra quelli che preparano quel poco di cui egli farà uso; tutti costoro ottengono dal suo amore per il lusso e del suo capriccio ciò che invano avrebbero atteso dalla sua umanità e giustizia.” Partendo da una concezione prettamente pessimistica quale quella di Hobbes, cioè che l’uomo compie ogni attività spinto solo dalla cupidigia, Smith trae delle conclusioni molto ottimistiche, tali da spingerlo addirittura a scrivere che alla fine la Provvidenza spartendo tra pochi la terra, non si è dimenticata dei tanti esclusi, che comunque ne ricevono i frutti.
Marx scriverà che questa sua idea viene dal fatto che lui parla in nome di una borghesia rivoluzionaria che vede il lavoro dell’operaio al pari di una merce, come tante altre, e che quindi non si rende conto, proprio perché rivoluzionaria, che ciò porterà alla nascita di una nuova classe, il proletariato, che egli stessa adesso ricerca.
L’attenta analisi di Smith della società industriale Inglese delinea anche le caratteristiche classiste di tale società; questa divisione da lui è giustificata giacché frutto della saggezza umana. La divisione del lavoro è quindi necessaria in quanto senza di essa ciascun uomo sarebbe impegnato in tutti i lavori e non ci sarebbe diversità caratteriale; ed è per questo che “presso i selvaggi si nota una uniformità dei caratteri maggiore che non nella società civile (Motivi della ricchezza delle nazioni) ”. È qui evidente anche un’altra caratteristica del pensiero di Smith, secondo cui la civiltà di una nazione è misurabile in base alla ricchezza che essa produce, non tanto al benessere assicurato da essa ai suoi cittadini.
Ma tornando alla divisione del lavoro, secondo Smith, come dicevo, esso è appunto figlio della saggezza umana, ma anche fautore di questa, poiché permette a una ristretta elite di dedicarsi al pensare e al ragionare, ristretta elite che poi fornirà alla popolazione impegnata nella altre attività tutti i propri pensieri. Tuttavia egli critica la divisione classista anticipando quella che poi Marx definirà l’alienazione, cioè l’incapacità dell’intelletto umano di potersi realizzare compiendo sempre le stesse azioni che spesso hanno sempre lo stesso effetto (è questo il caso di chi lavorava in fabbrica ad esempio). Questo porta quindi a una crescente ignoranza e ad un decadimento del senso critico umano, alimentando così la divisione classista e diminuendo la produttività della persona. Egli è quindi convinto che ogni stato civile dovrebbe abbattere questo problema, ma egli stesso interrompe qui il suo ragionamento, non potendo trovare soluzioni che mantengano coerenza con il liberismo.

Ma al di là dell’analisi sulla società, Smith è il primo, come poc’anzi dicevo, a definire la distinzione tra valore d’uso e valore di scambio. Questi due concetti ancora oggi fondamentali nell’economia sono spiegati da Smith osservando le regole che stabiliscono lo scambio di merci con la moneta e di merci con merci. Smith è il primo ad osservare che effettivamente non sempre queste due sfumature di significato del termine valore non coincidono; non è detto infatti che un bene superusato costi anche di più. L’acqua ha un altissimo valore d’uso, ma un valore di scambio pressoché nullo; al contrario un diamante ha un valore d’uso pari a zero, ma un altissimo valore di scambio. Nella sua analisi nel perché i valori siano differenti, Smith identifica tre problemi principali:

1. la definizione propria di valore di una merce, ovvero il suo prezzo reale. Smith definisce prezzo reale di una merce il lavoro e la fatica impiegati per la produzione di una merce. Ma da qui sorge un altro problema, ovvero definire il rapporto tra specie di lavori diversi, e giunge alla conclusione che questo prezzo sia definito dalla contrattazione di mercato, in una sorta di equilibrio tra tempo impiegato, difficoltà e ingegno;
2. da cosa è composto invece il prezzo delle merci, ovvero le tre parti che lo compongono: oltre al lavoro dell’operaio a cui prima si accennava che sarebbe poi il salario di quest’ultimo (quindi oltre al prezzo effettivo di una merce) va aggiunto l’investimento che il proprietario fa sulle macchine e, poiché l’operaio non investe per riottenere il capitale iniziale, il profitto;
3. ciò che effettivamente è causa dell’aumento o della diminuzione del prezzo di mercato, che è in fondo il nocciolo dell’idea capitalistica di Smith e contro cui si abbatteranno la maggior parte delle critiche. Secondo Smith questo prezzo è il rapporto tra la quantità di merce immessa sul mercato e l’effettiva richiesta; è ovvio quindi che se la domanda è maggiore della quantità chi ha bisogno della merce sarà disposto a pagare di più pur di aggiudicarsi il prodotto, e tra questi scatterà una sorta di concorrenza che porterà il prezzo a levitare; al contrario se la domanda è inferiore alla quantità di merci il prezzo subirà un rilassamento perché pur di poter vendere la propria merce in surplus si sarà costretti a venderla a minor prezzo, creando una concorrenza opposta alla precedente. Secondo Smith però questo rapporto è destinato ad autoregolarsi in base alle esigenze dei produttori, creando quindi con un aumento dei profitti anche un aumento dei salari e quindi un aumento generale del benessere

Tutto questo ragionamento ci fa giungere ad un altro caposaldo dell’idea Smithiana, il capitalismo, o accumulazione dei profitti: infatti la divisione del lavoro non permette all’uomo di sostentarsi da solo, ma necessita del lavoro degli altri, perciò egli deve “scambiare” il proprio lavoro con quello altrui e per fare ciò deve vendere il proprio lavoro, quindi accumulare le proprie merci in modo da poterle rivenderle al fine di acquistare da altri ciò di cui necessita. Risulta quindi ovvio che maggiore è la frammentazione del lavoro e maggiore sarà la quantità di merci da accumulare, ma al tempo stesso solo un maggiore accumulo di capitale può portare ad una maggiore frammentazione del lavoro, esemplificando in parte con investimenti su macchine il lavoro dell’operaio. Se ne deduce quindi che chi investe vuole anche aumentare la produttività, e tirando le somme un maggiore accumulo del capitale porta ad un rivestimento che porta a sua volta ad un maggiore aumento del capitale e così via.
Questo è la base del pensiero capitalistico di Smith, un modo di pensare l’economia che ha resistito a 200 anni di storia, due rivoluzioni industriali, al marxismo e alla rivoluzione socialista, e che ancora oggi continua a essere il punto di riferimento per l’economia mondiale.

Tuttavia il sistema capitalistico fu molto criticato, soprattutto da Marx come ho prima accennato, che non condivideva con Smith l’idea che la forza lavoro operaia fosse considerata al pari di una merce, ma che anzi questa forza lavoro fosse alla base della produttività; Marx inoltre criticava l’alienazione causata dalla divisione del lavoro, e lo sfruttamento sugli operai per opera dei padroni, cosa a cui Smith non aveva minimamente pensato e che invece diede vita nell’800 ad una nuova classe sociale, il proletariato, destinata a essere protagonista nel 800 tanto quanto la borghesia nel 700).

Altra critica mossa al sistema capitalistico di Smith riguarda la sua teoria sull’accumulo e il rivestimento, in quanto nella sua visione ottimistica questi aveva pensato che tale rivestimento potesse portare ad un aumento della ricchezza, senza però contare la concorrenza della manodopera che spinge gli investimenti all’estero, in paesi dove questa costa meno e impoverendo la nazione, o la possibilità di reinvestire solo in situazioni favorevoli (ad esempio durante un crollo dei prezzi delle macchine), che porta quindi ad una situazione di accentramento della ricchezza in mano ai padroni

Altro errore di valutazione di Smith fu lo sperare che la domanda e l’offerta si autoregolassero, cosa che si rivelò in parte falsa, in quanto decretò le crisi di sovrapproduzione: questo perché all’aumento dei capitali corrisponde una diminuzione dei salari, e quindi una diminuzione della richiesta poiché mancano agli operai le risorse per potersi permettere i beni di consumo.

Riassumendo il pensiero politico di Smith si basa sulla riflessione che un sorta di “mano invisibile” regoli l’economia interna di una nazione e che ogni intervento esterno dello stato possa solo rompere questo equilibrio.

Prima di terminare però al fine di inquadrare meglio la personalità filosofica di Adam Smith occorre spendere due parole su un altro suo scritto molto importante che niente ha a che fare con l’economia politica. Si tratta dei “Saggi filosofici”, un’opera di analisi del metodo filosofico sperimentale Newtoniano di cui Smith era grande sostenitore. Dice infatti J.A. Schumpeter: “Oso dire che chi non conosce questi saggi non può avere un’idea adeguata della statura intellettuale di Smith.”
E così pare anche a me, infatti pur non condividendone appieno alcune idee, trovo innegabile la grandezza di un uomo che ha dato vita a tutta l’economia moderna.

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