Materie: | Riassunto |
Categoria: | Economia |
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Data: | 17.04.2007 |
Numero di pagine: | 57 |
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Testo
Il funzionamento del mercato
Parlando in ambito di economia politica il termine mercato sta ad indicare un luogo non necessariamente fisico nel quale avvengono le contrattazioni fra compratori e venditori, si formano i prezzi e si realizzano gli scambi.
Per gli economisti, invece, il mercato si viene a formare quando gli operatori vengono a contatto tra loro.
Molto spesso, però, essi effettuano le contrattazioni a distanza comunicando attraverso telefono o fax; in questo caso il luogo è astratto e quindi si può definire mercato l’insieme delle operazioni necessarie per la compravendita di un prodotto.
Molte volte si viene a contatto con un serie di operazioni di beni non legalmente in vendita che si svolgono principalmente in luoghi sotterranei senza nessun controllo.
In questo caso si sta parlando di mercato nero, molto diffuso nel nostro paese e caratterizzato da un giro d’affari di centinaia di miliardi.
Il buon funzionamento del mercato si basa sostanzialmente sul meccanismo della domanda e dell’offerta.
Molti di noi considerano la domanda tutto ciò che si può acquistare con il proprio patrimonio oppure l’insieme dei beni che tutti vorremmo avere.
Questa definizione è imprecisa perché la domanda di un consumatore si può definire come la quantità di beni o servizi che egli è disposto e contemporaneamente in grado di acquistare .
La domanda dipende da diversi fattori:
Il prezzo di acquisto del bene
Il reddito disponibile per la spesa
I gusti personali
Le proprie necessità
Questi aspetti variano da individuo a individuo ma il prezzo rimane fisso.
Le variazioni del prezzo provocano, di norma, variazioni in senso inverso nella quantità domandata.
Gli economisti hanno sostenuto che ciò avviene per la maggioranza dei beni, e per questo motivo hanno formulato una legge generale della domanda secondo la quale la quantità domandata di un bene aumenta se il prezzo diminuisce e diminuisce se il suo prezzo aumenta.
Le eccezioni a questa legge sono poche e riguardano solo i beni di prima necessità come pane, benzina e medicine.
La curva di domanda non è altro che una rappresentazione grafica dove vengono messe in relazione il prezzo e la domanda.
La variazione nella quantità domandata che si produce in conseguenza della variazione nel prezzo di vendita può essere maggiore o minore a secondo del tipo di bene.
Difatti se si considera un bene di necessità primaria di cui difficilmente si può fare a meno, nonostante l’aumento del suo prezzo si continuerà ad acquistarlo e quindi la riduzione della domanda sarà modesta.
Per quanto riguarda un bene poco necessario, se esso aumenta di prezzo, il compratore sarà meno soggetto ad acquistarlo e di conseguenza la riduzione della quantità domandata sarà notevole.
Affinché sul mercato si possano effettuare scambi corretti, è necessario che oltre ai consumatori ci siano i produttori e di conseguenza la presenza di un’offerta.
L’offerta è la quantità di beni che il produttore è disposto e contemporaneamente in grado di produrre e vendere.
Anch’essa è influenzata da alcuni aspetti:
Tecnologia dei macchinari
Efficienza organizzativa
Prezzoli vendita della merce
In questo caso le variazioni del prezzo provocano variazione nella stessa direzione della quantità offerta; infatti i produttori offrono una maggiore quantità di bene quando il suo prezzo aumenta, e una minore quantità quando il suo prezzo diminuisce.
Possiamo quindi affermare che secondo la legge generale dell’offerta la quantità offerta di un bene aumenta se il suo prezzo aumenta e diminuisce se il suo prezzo diminuisce.
Anche in questo caso è un grafico dove viene rappresentata la relazione tra prezzo e quantità offerta.
A differenza della curva di domanda, essa è inclinata in senso opposto a causa della diversa relazione che lega domanda e offerta al prezzo.
Sul mercato domanda e offerta agiscono in maniera opposta; affinché queste due esigenze si possano conciliare è necessario raggiungere un equilibrio.
Domanda e offerta possono essere paragonate a due lame di forbici dove la disponibilità ad acquistare ha poco senso se non c’è dall’altra parte una disponibilità a vendere.
Se la domanda è maggiore dell’offerta si produrrà una situazione di carenza che porterà in consumatori in concorrenza tra loro ad accettare prezzi elevati e quindi dividersi la merce acquistata.
In una situazione di carenza, dunque, la domanda opera in modo da spingere il prezzo verso l’alto e di conseguenza fa aumentare la quantità offerta.
Se invece l’offerta è maggiore della domanda si formerà una situazione di eccedenza che porterà i venditori ad accettare prezzi più bassi pur di riuscire a vendere merce destinata nei magazzini.
In una situazione di eccedenza l’offerta opera in modo da spingere il prezzo verso il basso e fa aumentare la domanda.
In sostanza il prezzo di equilibrio si può sintetizzare così:
Se la domanda è maggiore dell’offerta (carenza) il prezzo aumenta.
Se l’offerta è maggiore della domanda (eccedenza) il prezzo diminuisce. Le variazioni del prezzo continuano fino al raggiungimento del prezzo di equilibrio in corrispondenza del quale domanda = offerta
L’equilibrio è il punto di arrivo; è il meccanismo di mercato che alla fine garantisce la coincidenza tra domanda e offerta.
Le forma di mercato
A seconda del numero delle imprese produttrici presenti sul mercato, della loro dimensione, del tipo di prodotto offerto, ma anche della maggiore o minore facilità con la quale nuove imprese possono aggiungersi a quelle già esistenti, gli economisti distinguono quattro principali tipi o “forme” di mercato: la concorrenza perfetta da un lato e le forme di mercato non perfettamente concorrenziali (monopolio, oligopolio, concorrenza monopolistica)
Nel mercato di concorrenza perfetta la prima condizione è garantita dalla presenza di tanti venditori e tanti compratori; la seconda dal fatto che le quantità vendute da ogni venditore e acquistate da ogni compratore sono molto piccole: le imprese sono tutte di piccole dimensioni e i compratori hanno più o meno tutti la stessa, modesta, disponibilità di spesa.
Oltre queste due caratteristiche fondamentali, il mercato di concorrenza perfetta ne presenta altre.
Il prodotto è omogeneo, ciò significa che il bene offerto da un’impresa è assolutamente uguale e indistinguibile da quello di qualsiasi altra impresa.
L’informazione è perfetta, cioè ogni compratore è in grado di conoscere con esattezza e molto rapidamente il prezzo di vendita praticato da tutti i venditori.
Una nuova impresa che desideri entrare sul mercato, e mettersi in competizione con quelle già esistenti ha assoluta libertà di entrata, cioè è libera di farlo e non trova nessun ostacolo.
In un mercato con queste caratteristiche nessun operatore (venditore o compratore) dispone di un potere sufficiente per influenzare, con le proprie decisioni, il prezzo di equilibrio che a lungo andare sarà il più basso possibile, cioè appena sufficiente per garantire alle imprese di coprire i propri costi di produzione e guadagnare un piccolo margine di profitto.
Dunque nel mercato di concorrenza perfetta si stabilisce un prezzo di vendita unico che tutte le imprese sono costrette ad accettare per poter vendere.
Il prezzo di equilibrio può variare nel tempo, infatti ogni impresa cerca con nuovi macchinari di ridurre di costi di produzione aumentando così i propri guadagni.
Questo si verifica finché anche le altre imprese adotteranno i nuovi macchinari; a questo punto avverrà l’abbassamento del prezzo di vendita, con benefici da parte del compratore.
Dunque grandi quantità di prodotto in vendita a un prezzo molto basso.
Però la concorrenza perfetta in un mercato non esiste perché è impossibile avere tutte queste caratteristiche, perciò si parla di un mercato teorico.
Il monopolio è un mercato in cui opera una sola impresa, che controlla quindi tutta la produzione e le vendite.
Nella realtà i casi di monopolio sono pochi e si trovano soprattutto nel campo dei servizi pubblici: energia elettrica, acqua, gas, trasporti ferroviari ecc.
Esistono forti barriere che impediscono l’ingresso sul mercato di altre imprese consentendo al monopolista di rimanere solo.
Le barriere naturali si hanno quando il monopolista dispone in modo esclusivo di determinate risorse naturali.
Le barriere legali danno origine a monopoli legali, in cui l’ingresso sul mercato di nuove imprese è impedito per legge.
Così si formano vari tipi di monopoli: pubblico, fiscale e privato.
Il monopolista non è una fra le imprese esistenti: è l’unica impresa esistente, perciò i compratori o acquistano dal monopolista o rinunciano all’acquisto.
Il monopolista così è libero di fissare il prezzo di vendita a sua discrezione.
L’obbiettivo di ogni imprenditore è quello di trovare un prezzo né troppo elevato né troppo basso cercando di ricavare così il massimo profitto totale.
In monopolio il prezzo di vendita è comunque superiore e le quantità prodotto inferiori, rispetto ai valori che si avrebbero nell’ideale mercato di concorrenza perfetta.
Il compratore è svantaggiato dal monopolio che lo costringe a pagare un prezzo molto elevato a causa della mancanza di concorrenza.
Nel mercato di concorrenza monopolistica venditori e compratori sono in numero molto elevato; la differenza rispetto alla concorrenza perfetta riguarda soltanto il prodotto, che non è omogeneo ma differenziato, cioè simile ma non identico.
La differenziazione del prodotto consiste infatti nel creare differenze reali o immaginarie in prodotti simili. In concorrenza monopolistica le diverse imprese presenti sul mercato possono offrire al consumatore un prodotto realmente diverso da quello offerto dalle imprese rivali oppure introdurre delle differenze soltanto apparenti, creando nel consumatore l’illusione di acquistare un prodotto con caratteristiche sue proprie.
Le differenze reali possono riguardare la qualità, il gusto, le caratteristiche estetiche o di funzionamento.
Le differenze immaginarie fanno invece leva sulla psicologia del consumatore, creando in lui l’illusione di acquistare un prodotto realmente diverso
Tra le tecniche di marketing (attività volta allo studio e alla definizione dei rapporti tra l’impresa e il mercato) concretamente utilizzate da produttori e rivenditori anche per creare nel consumatore stimoli di tipo illusorio.
L’esistenza, sul mercato di concorrenza monopolistica, di prodotti differenziati porta i consumatori a considerare diversi fra loro prodotti anche molto simili.
In concorrenza monopolistica il prezzo di vendita è comunque superiore e le quantità prodotte inferiori, rispetto ai valori che si avrebbero nell’ideale mercato di concorrenza perfetta.
Anche la concorrenza monopolistica, di conseguenza sembra essere una forma di mercato svantaggiosa per il consumatore.
L’oligopolio è un mercato caratterizzato dalla presenza di poche grandi imprese. Il numero minimo di imprese è due: si parla in questo caso di duopolio.
Ma in molti mercati oligopolistici il numero dei venditori è compreso fra tre e quindici.
In alcuni casi gli oligopolistici offrono un prodotto pressochè identico, in altri casi offrono un prodotto differenziato.
Le protagoniste dei mercati oligopolistici sono le più grandi multinazionali.
Le imprese potrebbero cercare di ampliare la propria fetta di mercato: in altre parole cercando di portare via i clienti, agli altri oligopolisti, attirandoli con sconti, offerte speciali, o migliorando le caratteristiche del prodotto. Così facendo ogni impresa spera di poter eliminare le imprese avversarie, conquistando così l’intero mercato.
La guerra commerciale fra imprese oligopolistiche tende dunque ad avvantaggiare i consumatori.
Gli oligopolisti possono però trovare più conveniente rinunciare a comportamenti aggressivi e trovare pacifiche forme di convivenza, stipulando accordi di tipo collusivo, veri e propri patti di concorrenza.
Quasi sempre l’accordo riguarda il prezzo di vendita: ogni oligopolista si impegna a non abbassare il prezzo, in modo da non portare via clienti agli altri oligopolisti e non innescare in loro pericolose reazioni.
Gli accordi collusivi fra oligopolisti vanno a tutto svantaggio del consumatore, che sarà costretto a pagare un prezzo anche molto più elevato di quello che si avrebbe avuto in un mercato di concorrenza perfetta, o anche soltanto nel caso in cui vi fosse stata competizione fra gli oligopolisti.
La regolamentazione del mercato
Nelle attuali economie miste i frequenti rapporti tra stato, famiglie e imprese non avvengono tramite normali mercati regolati dal meccanismo “domanda – offerta” ma sono gestiti dallo stato.
Questi rapporti sono molto stretti sia per la presenza di imprese private in competizione con quelle pubbliche sia perché lo stato interviene in prima persona ad aiutare il mercato a produrre risultati migliori (finanziamenti).
Perché regolamentare il mercato? Innanzitutto perché alcuni problemi,come l’inquinamento, non possono essere risolti dal semplice meccanismo della domanda – offerta, ma bensì deve intervenire lo stato con una sua legge che obblighi, per esempio in questo caso, le imprese ad installare degli appositi depuratori.
Ma la regolamentazione del mercato si giustifica per un’ulteriore ragione: tutelare il consumatore in un mondo dominato da forme di mercato non perfettamente concorrenziali.
Le nuove economie da poco sviluppate sono caratterizzate da una forte concentrazione dove il mercato è controllato da un numero limitato di imprese che mirano a costituire un monopolio.
Come sappiamo il monopolio svolge una funzione del tutto sfavorevole al consumatore.
Quindi, tutelare il consumatore significa innanzitutto far si che non si formino mercati monopolistici attraverso apposite normative.
Molte volte, però, si ricorre volentieri a sfruttare il monopolio nel caso si dovessero acquistare beni di costo fisso elevato (es. rete ferroviaria).
Per quanto riguarda il mercato oligopolistico, si può verificare che alcuni oligopolisti,per evitare che entrino in competizione tra loro firmano degli accordi che penalizzano però sempre i consumatori.
Per questo motivo questi accordi sono vietati dalla legge.
Nei maggiori paesi industrializzati, è presente una legislazione che tutela la concorrenza.
Negli Stati Uniti, per esempio, dal 1890 sono state emanate leggi antimonopolistiche molto dure che impedivano soprattutto i rapporti tra le imprese.
Nel corso degli anni anche altri paesi decisero di adottare questo metodo funzionale, ma i risultati non furono gli stessi del regime statunitense perché le imprese stipulavano accordi segretamente.
In Italia ciò avvenne molto tardi: solo nel 1990, infatti, vennero emanate le Norme per la tutela della concorrenza e del mercato.
Nel nostro paese l’organo statale che si occupa della lotta contro i monopoli è l’Autorità garante della concorrenza con sede a Roma e formata da cinque membri la cui carica dura sette anni.
Per verificare che tutto proceda per il meglio in Italia si sono formate da tempo organizzazioni private di consumatori come l’Unc, l’Adiconsum, ecc…
La moneta e la sua storia
La moneta è un qualunque bene utilizzabile diffusamente e facilmente per acquistare beni e servizi.
La moneta non è l’unico bene utilizzabile per effettuare i pagamenti poiché in passato gli uomini hanno utilizzato anche altri beni come animali, sale e conchiglie.
La moneta:
è un mezzo di scambio o di pagamento, infatti facilita i pagamenti rendendo più
semplice e comodo l’acquisto di beni e servizi.
Se non esistesse la moneta, le operazioni di compravendita sarebbero più complicate;
permette di confrontare rapidamente il valore dei diversi beni e servizi. Se vivessimo
in un mondo in cui la moneta non esistesse, i prezzi dei diversi beni dovranno venir espressi solo in termini di altri beni.
Così andando al mercato scopriremo, per esempio, che 1 kg di mele costa 2 kg di pane; in un’economia monetaria invece 1 kg di mele costa 5.000 £.
è riserva di valore, infatti la moneta è uno dei modi in cui la gente può decidere di
tenere la propria ricchezza. Gli individui possono tenere la propria ricchezza in immobili, gioielli, azioni ma possono anche “tesaurizzare” la moneta, poiché rappresenta un potere d’acquisto utilizzabile negli anni.
La moneta ha una lunga storia, gli studiosi dimostrano che già in epoche remote erano presenti forme primordiali di moneta. Esistono tuttavia prove dell’esistenza di tribù che non hanno mai conosciuto la moneta, quindi un’ecomonia può fare a meno della moneta.
Un primo svantaggio è rappresentato dalla mancanza di un’unica misura che permetta di confrontare il valore di tutti i beni: se andiamo al mercato e il prezzo di 1 kg di mele è 2 litri di vino, mentre quello di 1 kg di mandarini è 1 litro di olio, non capiamo se costano di più le mele o i mandarini.
Un altro inconveniente è che lo scambio merce contro merce può avvenire solo se si ha una doppia coincidenza di bisogni.
Immaginiamo di trovarci in un’economia di baratto cove il produttore di mais desideri offrirne una certa quantità al produttore di vino; affinché questo scambio avvenga è necessario che il produttore di vino desideri nello stesso tempo del mais. È però possibile che il produttore di vino preferisca del burro al mais: lo scambio diretto di mais contro vino non sarà perciò possibile. Sarà invece possibile uno scambio indiretto, nel caso in cui il produttore di burro sia disposto a scambiarne una certa quantità in cambio del mais cosicché il produttore di mais potrà procurarsi il burro non per consumarlo, ma per scambiarlo poi con il vino.
La moneta-merce è la prima forma di moneta costituita da uno dei beni esistenti nel sistema economico che serviva come mezzo di pagamento.
Ma in questa economia non mancano gli inconvenienti, infatti molti beni che si scambiavano erano deperibili (sale e birra) e altri erano scomodi da trasportare (pellicce). Presso la maggior parte dei popoli ci si rese conto che i metalli preziosi erano in realtà la merce più adatta per utilizzare come moneta. Oro e argento non sono deperibili e sono perfettamente divisibili. Possiedono inoltre un elevato valore: per comprare vino, carne, pane serviranno poche decine di oro o argento, invece per fare piccoli acquisti ne bastano quantità modestissime.
Per pagare noi oggi utilizziamo solo cartamoneta, cioè banconote, rettangoli stampati di carta filigranata di diverso valore (5.000,10.000,50.000 lire). Questi pezzi di carta sono le monete-segno, cioè il mezzo di pagamento che ha sostituito la moneta-merce.
La moneta-segno è una moneta il cui valore intrinseco, cioè il valore commerciale del materiale di cui è fatta, è quasi nullo e si discosta dal valore nominale, cioè dal valore impresso sulla facciata. Prendiamo il caso di una banconota da 100.000 £, centomila lire è il valore nominale mentre la carta filigranata di cui è composta costa poche lire.
La banconote hanno indicato la dicitura “pagabile a vista al portatore”, questo consiste nel fatto che una banconota è proprietà di tutte le persone.
Il corso forzoso è un sistema di circolazione monetaria che impone per legge a tutti i cittadini di accettare le banconote come mezzo di pagamento.
In quanto imposte per legge, le banconote perdono la caratteristica di certificato di deposito e diventano moneta legale. La moneta legale comprende anche la moneta divisionaria, cioè le monete di piccolo taglio (50,100,500 lire). L’emissione di tutti i biglietti a corso legale, cioè le banconote, è affidata alla Banca d’Italia, che ha sede in Roma con molte filiali in città italiane ed estere; la moneta metallica è coniata dalla Zecca di stato, che ha sede in Roma.
Negli attuali sistemi monetari la funzione di mezzo di pagamento è svolta anche dalla moneta bancaria, cioè i depositi in conto corrente. Molto più spesso le persone per effettuare pagamenti utilizzano assegni bancari, bonifici bancari e carte di credito.
I mercati
Il mercato della moneta è il luogo di incontro delle transazioni monetarie in cui viene stabilito il prezzo come interesse. In questo mercato l'offerta è rappresentata dagli operatori che dispongono di un eccesso di liquidi e che sono disposti a prestarli a chi ne ha bisogno, in cambio di un interesse. La domanda viene rappresentata da chi ha bisogno di prestiti a condizione che l'interesse non sia troppo alto.
L'incontro tra domanda e offerta può avvenire in modo diretto, tra le persone interessate, o in modo indiretto, con l'aiuto di un mediatore come le banche. Questi intermediari finanziari trasferiscono i soldi da chi ne dispone a chi ne ha bisogno.
Il mercato della moneta si divide in due tipi di mercati: il mercato monetario, i prestiti avvengono per brevi periodi, e il mercato finanziario, dove i prestiti hanno lungo/medio termine.
Il mercato monetario rende possibile la trasmissione di soldi temporaneamente dagli operatori in avanzo e disavanzo. I prestiti vengono negoziati con una durata minore di 90 giorni.
I titoli finanziari utilizzati in questo mercato sono:
I buoni ordinari del tesoro (BOT)Sono titoli di credito emessi dallo stato, con durata di 3 6 12 mesi. L'acquisto di BOT corrisponde al prestito di soldi verso lo stato. Essi fruttano un rendimento certo che corrisponde alla differenza tra prezzo di rimborso e prezzo d'acquisto.
Il loro assegnamento avviene tramite aste, dove vengono fissati i prezzi. I BOT esistono solo a livello contabile e chi li sottoscrive riceve solo una ricevuta d'acquisto.
I certificati di deposito vengono emessi dalle banche. Acquistare certificati di deposito equivale a prestare soldi alla banca. Il ricavati di queste operazioni è la somma depositata aumentata degli interessi. La banca può prestare a sua volta i soldi ricevuti ad altri operatori.
Nel mercato finanziario vengono trattate risorse monetarie a medio e a lungo termine, destinate a finanziare gli investimenti delle imprese, le opere pubbliche e le costruzioni.
Gli operatori che domandano i prestiti sono soprattutto lo stato, imprese, famiglie: gli offerenti di questo mercato sono le famiglie, mentre gli intermediari sono le banche.
Ecco alcuni titoli del mercato finanziario:
AZIONI: è il documento che rappresentante una quota minima del capitale di una società per azioni. Gli azionisti sono i possessori delle azioni, proprietari di una parte (in azione) della società; essi diventano “soci” e hanno il diritto a una parte del profitto conseguito dalla società.
OBBLIGAZIONI: Sono titoli di credito emessi dallo stato, dagli enti pubblici e dalle società per azioni. Chi acquista l’obbligazione non diventa “socio” ma creditore della società. L’interesse viene pagato a scadenza prefissata ed è rappresentato da una cedola.
BUONI DEL TESORO POLIENNALI (BTP): sono titoli di credito emessi dallo stato, con scadenza che varia da 3 a 30 anni. L’interesse è rappresentato da una cedola semestrale.
CERTIFICATI DI CREDITO DEL TESORO (CCT): sono titoli emessi dallo stato il cui rendimento è dato dal rendimento dei bot maggiorato di una quota che varia a seconda dell’emissione. La scadenza varia da 3 a 10 anni.
CERTIFICATI DEL TESORO ZERO-COUPON (CTZ): hanno caratteristiche simili a quelli dei bot; l’interesse è dato dal rendimento fra il prezzo di rimborso e il prezzo d’acquisto, e hanno durata di 18 mesi o 2 anni.
La borsa valori è il mercato nel quale vengono negoziati titoli finanziari pubblici e privati. Chi intende effettuare acquisti o vendite di titoli nella borsa valori non può operare direttamente ma deve rivolgersi ai mediatori autorizzati che sono gli agenti di cambio e le Sim ( società di intermediazione mobiliare).
L’unica sede del mercato borsistico italiano è a Milano. In questa borsa vengono contrattate le azioni di oltre 250 società. In base all’andamento della domanda e dell’offerta, la quotazione dei titoli può aumentare o diminuire. Gli andamenti giornalieri delle quotazioni vengono sintetizzati dall’indice generale di borsa, che esprime il loro livello.
Le borse sono sempre più dominate da speculazioni, cioè dall’acquisto di azioni con l’intenzione di rivenderle il più pesto possibile ad un prezzo più alto; ciò comporta il susseguirsi continuo di acquisti e vendite.
La moneta e il suo valore
Per valore della moneta si intende il suo potere d’acquisto, cioè la quantità di merci e servizi che la moneta è in grado di acquistare. Il fatto che la moneta abbia un maggiore o minore potere d’acquisto (dunque un maggiore o minor valore) dipende dall’andamento dei prezzi: quando il prezzo dei beni aumenta il potere d’acquisto diminuisce. Quando, al contrario, il prezzo di tutti i beni diminuisce il potere d’acquisto della moneta aumenta. Poiché i beni sono tantissimi e le variazioni dei prezzi non avvengono mai tutte nella stessa direzione (aumento o diminuzione) e proporzione (per esempio raddoppio o dimezzamento) per capire se il valore della moneta è aumentato o diminuito lo si calcola facendo il reciproco del livello generale dei prezzi, indice che misura il prezzo medio di tutti i beni e servizi nel sistema economico. A partire dalla seconda guerra mondiale il livello generale dei prezzi ha continuato incessantemente a crescere: questo fenomeno prende il nome di inflazione. Con il termine inflazione si intende infatti l’aumento continuo e prolungato dei prezzi e perciò la diminuzione continua del potere d’acquisto della moneta. L’inflazione può essere strisciante se il tasso di inflazione o l’aumento dei prezzi non supera il 5% e galoppante quando supera il 10%. Quando l’inflazione raggiunge livelli estremi si parla di iperinflazione. Il fenomeno dell’inflazione può portare alla riduzione del potere d’acquisto, danneggiando quindi tutti quelli che hanno un reddito fisso e chi ha prestato denaro e rendere meno competitivi i prodotti nazionali costringendo gli esportatori a rimetterci. Inoltre l’aumento dei prezzi può provocare uno scontento della popolazione con la conseguente instabilità politica, ai danni dell’economia.
L’inflazione può essere dovuta a due cause principali: l’eccessivo aumento della domanda e l’aumento dei costi di produzione. A seconda di quale delle due cause è all’origine dell’aumento dei prezzi, gli economisti parlano di inflazione da domanda e inflazione da costi.
La prima si ha quando l’aumento dei prezzi è dovuto al fatto che l’offerta non riesce a soddisfare un aumento della domanda mentre la seconda quando la crescita nel livello generale dei prezzi è dovuto a un aumento nei costi di produzione delle imprese.
I rimedi adottati per combattere l’inflazione da domanda sono di ridurre il volume degli acquisti effettuati dalle famiglie, aumentando la tassazione, dalle imprese, rendendo meno convenienti le concessioni di credito effettuate dal sistema bancario e dalla pubblica amministrazione, riducendo la spesa dello stato. Quelli per sconfiggere l’inflazione da costi sono di limitare le richieste di aumenti salariali e ottenere dagli imprenditori l’impegno a contenere gli aumenti dei prezzi dei beni offerti.
La crescita economica
Mettendo a confronto il benessere e il modo di vivere di decine o anche centinaia di anni fa, con quello di oggi si possono osservare gli enormi passi avanti che sono stati fatti.
Ad esempio nel Settecento un nobile inglese aveva una speranza di vita che non superava i 50 anni, mentre oggi qualsiasi cittadino, sia povero sia ricco può ragionevolmente sperare di superare i 75 anni.
L’insieme di tutti questi fenomeni, ma soprattutto l’aumento della produzione complessiva di un paese e del benessere individuale dei singoli cittadini, costituisce quello che gli studiosi chiamano crescita economica.
In tutte le imprese, l’attività economica può raggiungere il suo massimo splendore (boom economico) oppure raggiungere bassi livelli (crisi economica). Questo andamento si chiama ciclo economico.
Il livello di attività di un’economia può aumentare e diminuire nel breve periodo, mentre può solo aumentare (almeno nei paesi ricchi) durante il lungo periodo.
Gli alti e bassi dell’economia costituiscono un problema serio per diversi motivi:
Innanzi tutto quando la produzione rallenta anche l’occupazione o le retribuzioni possono risentirne. Questo provoca paure e rivendicazioni fra i lavoratori e in genere aumenta la tensione sociale.
Inoltre, se le imprese producono di meno vuol dire che non utilizzano appieno i propri impianti, il che è uno spreco e rappresenta la perdita di un reddito potenziale.
Gli obbiettivi dei governi sono dunque due:
Nel breve periodo, limitare le oscillazioni del ciclo per evitare la disoccupazione;
Nel lungo periodo, aumentare al massimo la crescita complessiva dell’economia.
Nella vita reale esistono periodi di splendore per qualsiasi impresa denominato “vacche grasse”, mentre quando le cose vanno male per ogni impresa si parla di “vacche magre”.
L’instabilità dell’economia si spiega con:
Eventi eccezionali, come guerre, calamità naturali, ecc.
Questi eventi sono stati presi come esempio da molti studiosi per spiegare l’andamento altalenante dell’attività economica.
Grandi innovazioni tecnologiche, come ferrovia, elettricità, computer.
Questi eventi, invece sono stati presi come esempio da alcuni economisti perché considerati in grado di influenzare fortemente la produzione, l’occupazione e il livello dei prezzi.
Variabilità della domanda aggregata.
L’insieme di tutti gli acquisti indirizzati verso le imprese dai consumatori vengono ritenuti responsabili delle fluttuazioni.
Con una consistente caduta della domanda, si hanno conseguenze molto negative: poco lavoro, basse retribuzioni, profitti modesti, scarsi investimenti.
Anche le fasi espansive oltre un certo limite portano anch’esse a qualche inconveniente: l’inflazione che comporta l’aumento dei prezzi, ma non solo
Nella fase espansiva quando la domanda è in forte aumento, il governo teme una crescita dei prezzi, per far fronte a questo problema il governo riduce l’offerta di moneta.
Gli strumenti sono molti, ad esempio aumentare il tasso ufficiale di sconto o il coefficiente di riserva obbligatoria delle banche o vendere titoli di stato sul mercato. Tutti questi provvedimenti hanno la conseguenza di rendere più costoso il ricorso al credito.
Il governo inoltre, può anche aumentare il prelievo tributario su famiglie e imprese, riducendo il loro reddito e spingendo in tal modo consumi e investimenti, oppure può ancora ridurre la spesa pubblica.
Nella fase di recessione quando invece la domanda cala e bisogna sostenere l’economia, gli strumenti sono gli stessi, ma le cose si fanno più difficili.
Un aumento dell’offerta di moneta rende più conveniente prendere denaro a prestito e può indurre molte imprese a investire.
La diminuzione del prelievo tributario può avere maggiore efficacia, comportando l’aumento del reddito delle famiglie delle imprese le quali vengono spinte a effettuare acquisti e investimenti.
Un altro strumento anti-recessione è l’incremento della spesa pubblica .
La fase ascendente del ciclo economico non è infinita poiché la capacità produttiva di un paese non può crescere oltre certi limiti.
Se vengono superati gli eventuali aumenti della domanda, non si traducono più in un incremento della produzione, ma dei prezzi.
Nel dopoguerra gli Stati Uniti idearono un piano per aiutare lo sviluppo dei paesi europei distrutti dal conflitto. L’Italia ricevette molti aiuti, soprattutto nel settore industriale modernizzando il proprio apparato produttivo, diventando così un paese industrializzato.
Dall’inizio degli anni ottanta la crescita della produzione energetica sembra non essere più influenzata dalle vicende del settore industriale. Questo periodo indica il passaggio dell’Italia da un’economia basata prevalentemente sull’industria a un sistema di servizi
La capacità produttiva complessiva di un paese si può misurare con il Prodotto interno lordo (Pil) ossia la somma del valore di tutte le merci e i servizi prodotti in un anno all’interno dei confini nazionali.
Il Pil è un indicatore importante perché fornisce la misura del peso politico ed economico di un paese e per misurare l’effettiva condizione economica della popolazione vi sono diverse possibilità.
Una delle tante è quella di dividere il Pil per la popolazione residente, ottenendo così il Pil pro capite, il quale fornisce la misura della ricchezza a disposizione di ogni cittadino.
Poiché i paesi hanno dimensioni demografiche molto diverse, i due indicatori possono avere valori fra loro molto diverse. Ad esempio la Cina ha un Pil superiore a quello della Svizzera, ma il suo miliardo di abitanti registra un Pil pro capite molto inferiore.Questo significa che il peso economico e politico della Cina è maggiore di quello della Svizzera, ma il tenore di vita dei suoi abitanti è invece molto inferiore.
Il Pil e il Pil pro capite sono gli indicatori più utili per misurare la crescita delle economie. L’aumento annuale più o meno grande del reddito determina la possibilità per un paese di affrontare con successo i problemi socio-economici attribuiscono ad aumenti percentualmente modesti.
Se paragoniamo la crescita economica e la corsa di un atleta possiamo capire che se quest’ultimo cerca di spingersi oltre i propri limiti può correre un po’ più veloce, ma ne pagherà le conseguenze e dovrà rallentare.
Però esiste un modo duraturo di rendere più veloce la corsa, ad esempio l’atleta potrebbe diventare più robusto o utilizzare una tecnica o materiali sportivi più moderni.
Se trasferiamo il precedente esempio nel campo dell’economia, scopriamo che anche l’attività produttiva di un paese può correre, ossia crescere più velocemente, se vengono attuati mutamenti di lungo periodo. In particolare è necessario aumentare la quantità e la produttività del lavoro, il che richiede un certo tempo.
Cominciamo dalla quantità di lavoro: si misura in ore-uomo per aumentarla devono crescere l’orario di lavoro oppure il numero di lavoratori.
Nei paesi avanzati esiste però una generale propensione della popolazione a non aumentare, ma a diminuire l’orario di lavoro, che quasi sempre è fissato dalla legge.
Il numero dei lavoratori può essere aumentato nel breve periodo impiegando tutta la manodopera disoccupata, ma una volta arrivati vicini alla piena occupazione sarà necessario ricorrere all’immigrazione o all’aumento della popolazione.
Quindi si può capire che l’Italia, con una popolazione incline a non aumentare l’orario di lavoro, stabile o declinante dal punto di vista demografico e non ancora in grado di utilizzare al meglio la risorsa immigrazione, difficilmente può aumentare la crescita tramite l’aumento della quantità di lavoro.
La produttività del lavoro si misura con la quantità di prodotto per ora di lavoro e dipende da diversi fattori:
Innanzi tutto dalla quantità di capitale, ossia dal livello di investimenti.
Poi conta anche il grado di sviluppo tecnologico.
Anche la formazione professionale dei lavoratori ha una notevole importanza, ciò evidenzia l’importanza di istruzione di ogni singolo lavoratore.
Serve inoltre una buona organizzazione, che assicuri una distribuzione efficiente delle risorse.
Infine contano anche le economie di scala, ossia i risparmi che derivano dal fatto di essere grandi.
La crescita economica dipende da condizioni come, la dimensione della popolazione o il grado di istruzioni dei lavoratori, che non si possono modificare nel breve periodo.
Tuttavia lo stato può fare qualcosa per favorire queste condizioni, ad esempio può contribuire al livello di investimenti con la costruzione di una moderna rete di infrastrutture, specializzate nel campo dei trasporti o delle comunicazioni.
Lo sviluppo tecnologico può essere favorito mediante investimenti diretti nella ricerca scientifica.
Molto può essere anche fatto nel campo della formazione, assicurando una buona preparazione per tutti i cittadini. Infatti, il livello di preparazione è l’elemento chiave che differenzia i paesi arretrati da quelli avanzati.
L’efficienza organizzativa dipende dalle capacità degli imprenditori, tuttavia lo stato può garantire le condizioni di una effettiva concorrenza, in modo che i migliori prevalgono.
Infine esiste una condizione molto importante che sta alla base delle possibilità di crescita e che balza agli occhi se si osserva l’andamento del Pil italiano nell’ultimo secolo: la stabilità politica.
La crescita è un aspetto quantitativo di un’economia, mentre lo sviluppo è un processo di tipo qualitativo, più lento della crescita.
Nel Mondo esistono molti paesi ove la crescita non produce tutto quei fenomeni di modernizzazione che vengono definiti “sviluppo”; inoltre in alcuni paesi anche se gli aiuti dello stato o delle regioni più ricche permettono un certo livello di crescita, permangono condizioni tipiche delle società arretrate.
A questo proposito si parla di crescita senza sviluppo.
Infine il benessere è un concetto diverso ancora, legato alla qualità della vita della popolazione e alla prospettive future di questa.
Non tutti i paesi hanno la stessa capacità di tradurre l’aumento di capacità produttiva (crescita) in modernizzazione della società (sviluppo) e ancora meno in qualità della vita (benessere) degli abitanti.
Ancora una volta è lo stato ad essere chiamato in caso: questo deve assicurare la stabilità politica e sociale e favorire un elevato livello di istruzione per trasformare la ricchezza in benessere.
La crescita di solito si misura in termini di Pil pro capite. Ma il Pil pro capite non misura in modo efficace e preciso il benessere dei cittadini per diversi motivi:
Innanzi tutto si tratta di un valore medio
Per attuare politiche efficaci bisogna che ci sia l’accordo almeno della maggioranza dei cittadini, ma ciò è molto difficile in un paese diviso sul piano degli interessi
Il costo della vita non è lo stesso in tutti i paesi e per esprimere il reddito dei cittadini di diversi paesi in modo confortabile bisogna utilizzare una nuova unita di misura lo Spa, che tiene conto del livello dei prezzi nei diversi paesi e indica la capacità di spesa media dei cittadini del mondo.
Infine il benessere non è dato solo dal livello di beni prodotti, ma anche dalla qualità di certi servizi, come ad esempio la sanità, l’istruzione, condizioni ambientali o la sicurezza.
Tutte queste condizioni non vengono prese in considerazione dal Pil e anche in questo caso si deve ricorrere ad un nuovo indicatore: il Ben che considera sia il reddito prodotto che tutti gli elementi extra-economici. Inoltre gli uffici per lo sviluppo dell’Onu utilizzano L’Hdi, un indicatore che tiene conto contemporaneamente della ricchezza economica prodotta, del livello di istruzione e dello stato di salute della popolazione.
La disoccupazione
I governi dei paesi industrializzati hanno in genere due fondamentali obbiettivi in campo economico: la crescita e la piena occupazione.
Crescita significa che la società ha a disposizione risorse economiche in misura crescente, cioè guadagna ogni anno di più. Purtroppo però la crescita non basta; nella nostra società per partecipare alla divisione della ricchezza prodotta, bisogna lavorare. La democrazia non può convivere a lungo con molte persone che sono senza lavoro.
Esistono molte categorie di cittadini che non hanno un lavoro, ma che non possiamo definire disoccupati in quanto non desiderano un’occupazione oppure perché non hanno i requisiti di legge per lavorare, cioè l’età e il godimento dei diritti civili.
Si può quindi definire disoccupato un cittadino privo di lavoro.
I costi più evidenti della disoccupazione sono certamente quelli che riguardano le persone prive di lavoro. Tuttavia la mancanza di lavoro determina una riduzione del reddito familiare e quindi la rinuncia a molte spese abituali e di conseguenza delle condizioni di vita peggiori.
Un secondo tipo di costo economico è legato alla perdita di professionalità. Un lavoratore accumula esperienza sia tramite la propria attività, sia grazie all’introduzione di un nuovo macchinario o una tecnica innovativa. Un disoccupato invece non solo rischia di dimenticare quanto ha appreso in passato, ma anche di non apprendere le nuove tecnologie.
I costi psicologici e sociali della disocupazione sono meno visibili di quelli economici.
L’Italia come il resto del mondo industrializzato è una società basato sul lavoro; privare un cittadino di una occupazione significa che “non ha diritto di esistere”. Inoltre la disoccupazione è da sempre legata ad un aumento di fenomeni come crimini, disturbi psicologici, divorzi e suicidi.
Possiamo quindi definire la disoccupazione come il nemico pubblico numero 1. L’inattività di molti lavoratori comporta una produzione inferiore a quella che si potrebbe raggiungere se tutti lavorassero.
I governi ritengono molto importante sapere in qualsiasi momento quanta disoccupazione c’è nella società. È infatti una sorta di malattia per la società e il primo passo per curarla consiste nel sapere quanto è grave e dunque quanto energica deve essere la cura.
Se una qualsiasi delle tre condizione che definiscono il disoccupato (assenza di lavoro, desiderio di lavorare, condizioni legali per farlo) viene a mancare, non si può parlare di disoccupato ma, di persona che non appartiene alla popolazione attiva, ossia quella parte di cittadini in grado di lavorare.
Il tasso di attività è il rapporto fra i cittadini attivi, ossia in grado di lavorare e il totale dei residenti nel paese. Il tasso di attività può aumentare o diminuire a seconda delle fasi di sviluppo di un paese.
I governi, i partiti politici e in fondo gli stessi cittadini non dedicano grande attenzione al tasso di attività, ma sono generalmente interessati al tasso di disoccupazione.
Il tasso di disoccupazione è il rapporto fra i disoccupati veri e propri e la popolazione attiva.
All’interno del tasso di disoccupazione si devono distinguere le persone che avevano un lavoro e lo hanno perso, i giovani in cerca del loro primo impiego e i lavoratori “scoraggiati” ossia persone che vorrebbero un lavoro ma non lo cercano perché pensano di avere poche possibilità di trovarlo.
Il tasso di disoccupazione riferito ad un paese rappresenta una media in cui vi sono situazioni opposte. In particolare si registrano tassi di disoccupazione molto elevati della media nel Sud, fra giovani e donne.
In itali dunque la disoccupazione non è distribuita in modo uniforme ma è maggiore:
Al sud rispetto al nord
Fra i giovani rispetto agli adulti
Fra le femmine rispetto ai maschi
Queste sono le cosiddette sacche di disoccupazione e rappresentano un problema in quanto qualsiasi fardello è molto più pesante se sono in pochi a portarlo.
Le statistiche indicano alla fine degli anni novanta, oltre due milioni e mezzo di disoccupati.
Secondo alcuni sarebbero molti di più, perché le statistiche non tengono conto dei cosiddetti lavori scoraggiati ossia delle persone che vorrebbero un lavoro, ma non lo cercano neppure, perché pensano di avere poche probabilità di trovarlo. Secondo altri i disoccupati sarebbero meno di quanto appare dalle statistiche, perché molte persone che risultano disoccupate hanno un lavoro nero, ossia svolgono un’attività in imprese non regolarmente registrate presso le camere di commercio e quindi ufficialmente inesistenti. L’insieme di queste attività è detto anche “economia sommersa”.
La disoccupazione è una malattia con molte radici, e conviene distinguerle fra loro, perché ognuna deve essere affrontata in modo diverso.
Un primo tipo è quello che deriva dalla modalità dei lavoratori quando si spostano da un’occupazione all’altra, in quanto come sappiamo una persona non è destinata a praticare lo stesso lavoro per tutta la vita lo stesso lavoro.
Questa viene definita disoccupazione frizionale, ossia dovuta dal fatto che le esigenze delle imprese e quelle dei lavoratori non combaciano perfettamente, ma si adeguano dopo un certo tempo.
Un secondo tipo di disoccupazione è legato ai grandi cambiamenti che si producono nella struttura economica e perciò viene definita disoccupazione strutturale, ossia le modifiche permanenti della domanda o le innovazioni tecnologiche che rendono inutile la professionalità di alcuni lavoratori; in tempi più recenti l’introduzione di computer o altri macchinari all’interno delle imprese, che hanno provocato la scomparsa di certe professionalità lavorative.
Un terzo tipo di disoccupazione è quella ciclica, ossia legata agli alti e bassi della domanda del mercato.
In certi periodi la domanda dell’insieme delle imprese e dei consumatori cala, e in momenti simili le imprese rallentano l’attività e non assumono nessuno, siccome si registrano sul mercato arrivi continui, il semplice blocco delle assunzioni determina nuovi disoccupati.
È molto importante limitare i disagi psicologici e la privazione economica che colpiscono i disoccupati.
Esistono misure, nei paesi industrializzati, che fanno in modo che le persone prive di un’occupazione non cadano in miseria: questi sono gli ammortizzatori sociali.
In Italia lo strumento più importante con questa finalità è la Cassa integrazione guadagni; si tratta di un fondo in parte finanziato dagli stessi lavoratori in parte dai loro datori di lavoro e in parte dallo stato. Gli imprenditori le cui aziende sono in crisi e in pericolo di licenziare alcuni lavoratori, dopo aver ottenuto l’autorizzazione dallo stato, possono sospendere dall’attività un certo numero del personale; le retribuzioni di questi, vengono coperte dalla Cassa. Infatti chi rimane disoccupato può ricevere per un breve periodo di tempo un sussidio di disoccupazione.
In altri paesi europei, esistono invece strumenti come un salario minimo garantito anche a chi ha perso il lavoro, o sussidi ai disoccupati per permettergli di vivere.
Gli ammortizzatori, però rappresentano un costo per la collettività e sarebbe meglio se i disoccupati avessero un’occupazione, anziché ricevere sussidi di qualsiasi forma. Questi provvedimenti inoltre, non tutelano chi un lavoro non l’ha mai avuto e lo sta cercando per la prima volta.
La disoccupazione frizionale è un tipo di disoccupazione a breve durata, dovuta dal fatto che alcuni lavoratori sono in passaggio da un’occupazione all’altra. Il periodo “di transito” può essere diminuito se la domanda o l’offerta di lavoro, ossia le preferenze dei lavoratori e delle imprese, si incontrano più in fretta.
Questo può essere ottenuto migliorando l’efficienza del mercato di lavoro.
Per migliorare la disoccupazione strutturale è meglio prevenirla; inoltre i lavoratori colpiti dalla disoccupazione strutturale possono essere riconvertiti ad altre occupazioni mediante dei corsi di formazione, nel senso che se sono ancora abbastanza giovani e ne hanno voglia, posso aggiornarsi e di conseguenza occuparsi di un altro tipo di lavoro.
La disoccupazione ciclica, infine, dipende da una momentanea caduta della domanda e può essere affrontata con interventi pubblici di sostegno della domanda (nuove spese dello stato oppure diminuzione delle imposte).
La distribuzione di sussidi in denaro ai disoccupati, oltre a migliorare la loro personale situazione, ha l’effetto di mantenere elevati i consumi evitando così che la crisi si aggravi.
Riassumendo:
Frizionale: si diminuisce con sistemi di collocamento più efficienti e moderni
Strutturale: si previene con una scuola adeguata al mercato
Ciclica: si combatte con il contegno pubblico della domanda
Negli anni novanta la disoccupazione è aumentata rispetto al passato, e la questione più preoccupante è che non scompare neppure nei periodi di ripresa economica.
Nei periodi di crisi gli imprenditori licenziano o favoriscono il pensionamento dei propri dipendenti e non assumono; nei periodi di ripresa economica realizzano nuovi investimenti, diminuendo sempre più i lavoratori, grazie alle nuove tecnologie.
Per migliorare la situazione dell’occupazione si propongono due grandi opzioni:
La flessibilità del mercato: assumere e licenziare più facilmente, pagare meno i giovani e i lavoratori del sud.
La riduzione dell’orario di lavoro: lavorare meno e lavorare tutti, per legge o tramite accordi tra le parti
Flessibilità: con questo termine si indica che le assunzioni dei lavoratori quando le imprese ne hanno bisogno, devono diventate più semplici e meno vincolate dalle leggi.
Riduzione dell’orario di lavoro: con questo termine alcuni studiosi propongono una riduzione dell’orario di lavoro da raggiungere tramite accordo.
Lo sviluppo mondiale
I paesi definiti “industrializzati” sono protagonisti rilevanti sulla scena mondiale.
L’organizzazione che riunisce i paesi industrializzati, l’Ocse (Organizzazione per lo sviluppo economico), talvolta definito “il club dei ricchi”, conta 22 paesi membri (Europa, Nordamerica, Giappone, …).
Nella sede dell’Onu, a New York, un grande display digitale riporta un numero che aumenta di 47 unità ogni minuto. E’ l’orologio della povertà e indica il numero di nuovi poveri che si aggiungono a coloro (nel mondo sono già circa 1 miliardo e 300 milioni) che vivono con un dollaro al giorno.
I poveri abitano quasi tutti nella parte non industrializzata del pianeta, spesso definita il “sud del mondo”.
Poco meno di 1 miliardo si trovano in Asia. Nei paesi più industrializzati il reddito pro capite è di 16.000 dollari annui, mentre nel sud del mondo, circa 100 paesi abitati da oltre 5 miliardi di persone il reddito pro capite medio non arriva a 1.000 dollari l’anno.
Nel sud del mondo l’obiettivo di pochi privilegiati è la rincorsa alla qualità della vita del “club dei ricchi”.
La sproporzione di reddito è certamente la differenza più vistosa nelle condizioni di vita dei due gruppi di paesi.
Povertà vuol dire molto di più che avere un basso potere d’acquisto. Essere poveri vuol dire prima di tutto soffrire la fame. Oltre 800 milioni di persone al mondo soffrono di “MALNUTRIZIONE CRONICA”, ossia hanno fame e non hanno cibo a sufficienza.
Le malattie sono una minaccia molto seria in paesi in cui una parte enorme della popolazione non ha acceso ad acqua potabile e sicura e dove esiste un medico ogni 7.600 persone contro uno ogni 500 paesi industrializzati.
Non deve stupire né la breve aspettativa di vita né l’elevata mortalità infantile. Povertà significa dunque fame, cattive condizioni di salute, una vita breve e una elevata mortalità infantile.
Ogni tentativo di uscire da questa precaria condizione di vita si scontra con la generale arretratezza della società.
Poco meno della metà della popolazione è analfabeta e le informazioni circolano con difficoltà. Il cittadino medio dei paesi poveri non dispone neppure delle risorse d’informazione e di istruzione minime.
La popolazione cresce a ritmo del 2-3% annuo.
Molti paesi ricchi e organismi internazionali come l’Onu si impegnano in politiche di aiuto, sia tecnico che finanziario, verso le ex colonie disagiate.
Gli aiuti economici a sostegno dello sviluppo sono stati inizialmente molto limitati, ma sono cresciuti rapidamente, però le prestazioni dei sistemi economici assistiti sono peggiorate.
Gli anni 60 e 70 sono stati gli anni della grande competizione fra i paesi liberali occidentali e i paesi socialisti orientali.
Gli aiuti dei principali paesi donatori erano guidati da indirizzi politici più che da criteri di efficienza economica e così ingenti capitali hanno finanziato il sostegno a regimi dittatoriali e inefficienti. L’idea che tutti i paesi dovessero seguire la strada dello sviluppo a suo tempo percorsa dall’Europa ha portato in quegli anni a concentrare gli investimenti nel settore industriale, trascurando l’agricoltura.
L’aiuto sotto forma di assistenza tecnica ha prodotto danni, mettendo in moto la cosiddetta “FUGA DEI CERVELLI”. Molti studenti che conseguivano titoli di studio elevati preferivano risiedere nel paese donatore. Il risultato è stato per molti paesi la perdita delle risorse umane migliori. Molti paesi produttori di petrolio si sono indebitati con le banche dei paesi più ricchi per finanziare investimenti mirati all’industrializzazione dei loro sistemi economici.
La diminuzione del prezzo del petrolio ha comportato una forte riduzione delle entrate per quei paesi. Dalla metà degli anni 80 i paesi poveri pagano a quelli ricchi, sotto forma di interessi e riduzione del debito, più di quanto ricevano sotto forma di aiuti.
Gli studiosi di economia suggeriscono 4 risorse-chiave, che devono entrare in qualsiasi ricetta per lo sviluppo:
Le risorse umane
Le risorse ambientali e naturali
Le risorse tecnologiche
Le risorse finanziarie
Le risorse umane sono costituite dalle qualifiche e dalle capacità della popolazione, dal grado di coesione sociale, dalla fiducia reciproca, dal livello di istruzione e di salute.
Le risorse ambientali scarseggiano nei paesi poveri. I paesi non industrializzati non possono fare altro che vendere le loro materie prime a quelli più sviluppati e la tendenza secolare dei prezzi di questi beni è al ribasso. L’acqua, sia potabile che per usi irrigui, scarseggia in buona parte del mondo non industrializzato.
Le risorse tecnologiche dipendono in buona parte da quelle umane. Molti paesi ex socialisti non sono stati capaci di tenere il passo con l’Occidente e stentano anche a imitare ciò che è stato prodotto da altri.
Le risorse finanziarie sono limitate perché i paesi poveri non riescono ad accumulare quanto basta per investimenti decisivi. Essi sono prigionieri della “trappola della povertà” e riescono a conseguire solo modesti aumenti di produzione agricola, rapidamente rimangiati dall’aumento della popolazione.
Per questo motivo il modello delle economie dei paesi poveri è stato definito sottosviluppo.
La strada per uscire dal sottosviluppo incomincia proprio dalla riflessione sugli errori commessi in passato.
La fine del confronto fra USA e URSS apre forse qualche nuova prospettiva per i paesi poveri. Nel mondo di oggi è meno importante di un tempo assicurarsi che il paese aiutato faccia parte della propria alleanza.
Questo dovrebbe impedire ai governi dittatoriali di ottenere finanziamenti sulla base di un sostanziale ricatto e permettere scelte più illuminate dal punto di vista economico.
Se oggi sappiamo che in molti paesi l’agricoltura e il turismo offrono più chances di sviluppo dell’industria bisognerebbe tentare a concentrare l’attenzione proprio su questi settori. Anche dal punto di vista politico gli aiuti possono essere meglio indirizzati.
Oggi sono i paesi ricchi a trovarsi nella condizione di esercitare un ricatto. Gli aiuti si rivelano più efficaci se sono costituiti da finanziamenti parziali anziché al 100%.
Se una certa iniziativa viene finanziata solo in parte, si spinge l’economia locale e mobilitarsi per coprire la parte rimanente. Questo favorisce il risparmio e la creazione di una mentalità imprenditoriale.
Il ruolo dello stato nel favorire il processo di sviluppo è un punto controverso che divide gli studiosi. Quasi tutti gli attuali paesi poveri erano un tempo colonie delle potenze occidentali e queste non hanno quasi mai favorito la nascita di classi dirigenti locali.
La fine del colonialismo ha significato spesso il passaggio a una dittatura militare o comunque a uno stato dispotico e accentratore.
Questo ha ostacolato lo sviluppo in diversi modi. Uno stato dispotico tende a essere molto presente nell’economia e in genere nel modo peggiore: si tratta naturalmente di fenomeni che possono verificarsi anche in paesi democratici, ma che in dittatura assumono proporzioni gigantesche e finiscono per deprimere il mercato.
Lo stato deve fare un passo in dietro dove il mercato può funzionare da solo e in particolare:
Non deve modificare i prezzi di mercato
Deve garantire la libera concorrenza
Deve assicurare pari condizioni a tutti gli imprenditori
I risultati fallimentari di molte politiche di sviluppo hanno spinto molti economisti a riscoprire l’importanza del mercato nei confronti del dirigismo.
Lo stato deve fare di meno dove il mercato è in grado di intervenire da solo, ma deve fare molto di più nei campi nei quali l’iniziativa pubblica può risultare più efficace di quella privata.
La tutela dell’ambiente
La costruzione di infrastrutture per il sistema produttivo
Il controllo demografico
I governi dei paesi poveri non sono stati neppure in grado di far fronte ai compiti minimi dello stato: garantire l’ordine e la stabilità istituzionale per assicurare un ambiente favorevole all’iniziativa economica.
La stabilità politica e l’ordine pubblico devono essere garantiti dallo stato.
“Paesi non industrializzati” è una definizione molto generale che raccoglie sotto di sé realtà fra loro molo diverse. In effetti i paesi che non fanno parte del “club dei ricchi” costituiscono un mondo eterogeneo e complesso: si va da paesi che presentano buone performances economiche nel campo commerciale o turistico ad altri che non hanno ancora risolto il problema della fame o delle malattie epidemiche.
“Il posto più vicino all’inferno sulla Terra”. Con queste terribili parole iniziava, a metà degli anni 80, un famoso servizio della televisione inglese. Alla fine del 1996 nello Zaire la situazione non sembrava migliorata.
I dati dell’Onu descrivono un continente povero, malato, denutrito e poco istruito.
Solo il 59% della popolazione ha accesso a servizi sanitari e appena il 45% dispone di acqua potabile. Il 31% dei bambini risulta sottopeso, la dotazione media di calorie è pari al 92% del minimo vitale e poco meno di una persona su due sa leggere e scrivere.
La riflessione degli economisti dello sviluppo è tuttora in corso, tuttavia qualche conclusione provvisoria si può avanzare: le politiche di industrializzazione forzata sono fallite perché si proponevano l’obiettivo di uno sviluppo troppo accelerato in un mondo non preparato al mercato.
Lo sviluppo richiede anche una rete invisibile fatta di rapporti interpersonali di fiducia tra i commercianti e clienti, un sistema finanziario sia pure primitivo, regole e consuetudini da rispettare.
Ciò ha tolto spazio all’ammodernamento dell’agricoltura e al potenziamento di aree di servizi relativamente nuove come il turismo.
Infine l’Africa è il continente nel quale forse più che altrove si avverte un deficit di democrazia e di pace.
Qui si sono registrati gli effetti negativi della “guerra fredda” fra Usa e Urss.
Negli anni 50 fu coniata l’espressione “terzo mondo”, riferita a quei paesi poveri che non facevano parte né dei paesi industrializzati e ricchi (il primo mondo) né del blocco socialista (il secondo mondo).
Durante gli anni 70 i sistemi del cosiddetto socialismo reale, a partire da quelli di maggiori dimensioni, Urss e Cina popolare, hanno manifestato segni di crescente debolezza.oggi il sistema del blocco orientale costituito dalle repubbliche sovietiche e dai loro alleati non esiste più e ognuno di quei paesi ha intrapreso la propria via di sviluppo.
I paesi dell’Europa orientale hanno rigettato l’economia di tipo socialista, dove tutto apparteneva allo stato e ogni paese ha affrontato la sfida del mercato e della competizione internazionale con risultati in alcuni casi incoraggianti.
Fra i paesi a economia socialista il più rappresentativo dal punto di vista simbolico è certamente l’Urss. Oggi questo paese è divenuto una confederazione di stati indipendenti (Csi) il maggiore dei quali è la Russia che ha abbandonato l’economia di tipo socialista in modo assai più lento e meno marcato rispetto all’Europa orientale.
La riforma dell’economia nella Cina popolare è iniziata prima della crisi del muro di Berlino.
Già nel 1978 una profonda riforma del sistema economico aveva tentato di dare più spazio al mercato, inizialmente nel settore agricolo, con risultati molto incoraggianti.
Una delle carte vincenti del modello cinese sembra essere stata la creazione di zone economiche speciali destinate ad attirare imprese straniere. L’idea si rivela un successo e consente 60.000 arrivi di nuove imprese.
A beneficiare degli investimenti stranieri sono i settori tessile e delle confezioni, calzaturiero, ma anche delle telecomunicazioni. La riforma viene estesa al sistema industriale, dove il tasso di crescita arriva al 10% annuo fino al 1988 e sale addirittura al 26,7% nel 1992.
Nel periodo considerato la Cina raddoppia il proprio peso nel commercio mondiale e alla metà degli anni 90 è il 13° esportatore del pianeta, e il suo prodotto interno è il 3° al mondo.
I paesi del sud-est asiatico erano considerati alla stregua dei paesi africani eppure hanno seguito u percorso totalmente opposto.
Quattro di questi –Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore- sono stati soprannominati, per il vigore della loro crescita economica, i “quattro samurai” o anche le “quattro tigri”.
Oggi questo piccolo gruppo dispone nell’aria asiatica di uno stock di investimenti superiore a quello giapponese, mentre al quota nel commercio mondiale delle prime 10 economie asiatiche emergenti è pari a quella dell’Unione europea e degli USA e doppia di quella del Giappone.
I segreti di questo successo?
Marcata stabilità politica, iniziale intervento statale nell’economia solo per dirottare le spese verso i campi considerati strategici, forte integrazione internazionale, grandiosa mobilitazione di risorse umane.
Malesia, Indonesia e Thailandia hanno seguito un sentiero di sviluppo analogo ai “quattro samurai”. Maggiormente dotati di materie prime, questi paesi hanno dato vita negli anni 50 a una fiorente agricoltura di esportazione; hanno applicato anch’essi un efficace mix di intervento statale e iniziativa privata, rivolto all’esportazione di prodotti industriali manufatti. La Banca mondiale ha spiegato il loro successo sulla base di tre elementi: stabilità economica, trasparenza e realismo dei prezzi, investimenti nel campo formativo.
La riconosciuta efficienza dell’intervento statale viene attribuita alla competenza dei funzionari pubblici e alla scarsa corruzione amministrativa.
Una quinta tigre è la cosiddetta diaspora cinese: 50.000.000 di cinesi sparpagliati in 12 paesi del sud-est asiatico ma fra loro strettamente legati da vincoli di lealtà e di responsabilità collettiva e in stretto rapporto con la madrepatria.
Prevalentemente dediti al commercio di derrate alimentari o di prodotti manufatti, raggiungevano a metà degli anni 90 un prodotto lordo pari al 50% di quello dei paesi dell’Asean.
Lo Stato
Lo stato ha un’influenza importante non solo nella vita sociale e politica di ogni cittadino, ma anche in quella economica. Stabilisce le regole attraverso le quali ognuno di noi può esercitare la propria attività economica, garantisce che i contratti saranno rispettati, emette la moneta che usiamo per le nostre operazioni di compravendita ecc..
La pubblica amministrazione nei paesi moderni è divisa in:
enti di governo
enti di previdenza
imprese pubbliche
Gli enti di governo, centrali e locali, si occupano di servizi che non è possibile vendere sul mercato, come sanità, scuola, difesa, giustizia.
Gli istituti previdenziali si occupano di amministrare le pensioni e le varie forme di assistenza sociale, ossia di aiuto che lo stato fornisce ai bisognosi.
Le imprese pubbliche si occupano infine di attività produttive. Esistono imprese pubbliche di carattere nazionale (ferrovie) e altre di dimensione locale (trasporti comunali).
Come si misurano le dimensioni dello stato?
I metodi sono simili a quelli usati per misurare l’importanza delle grandi imprese private: numero di addetti oppure quantità di soldi spesi o incassati.
La somma di tutte le spese effettuate dallo stato viene chiamata spesa pubblica. La spesa pubblica è un misuratore importante delle dimensioni dell’intervento dello stato nell’economia, ma solo se viene misurata in rapporto all’insieme della produzione di un paese, ossia al Prodotto interno lordo. Il rapporto fra spesa pubblica e Pil ci dice in pratica quante, su 100 lire di ricchezza prodotte in un paese, vengono spese per finalità pubbliche.
Poco dopo l’Unità, su ogni 100 lire prodotte dal paese, erano appena 16 quelle destinate a finalità pubbliche. Nel secondo dopoguerra, con la nascita di un vero sistema nazionale, superarono le 40; a metà degli anni novanta raggiunsero le 55 e oggi sono circa 50. Ma è normale che lo stato spenda in questa misura? Oggi è del tutto normale che in Europa la spesa pubblica si avvicini al 50% del Pil: Italia, Francia e Germania hanno una spesa pubblica più o meno su questi livelli, mentre è un po’ inferiore in Gran Bretagna e nell’Europa del sud e decisamente superiore nell’Europa del nord.
Non tutta la spesa pubblica si traduce automaticamente in servizi pubblici. La spesa va divisa in:
spesa di trasformazione
spesa di trasferimento
La spesa di trasformazione Si chiama così perché per ogni lira spesa dallo stato esiste un corrispettivo che migliora la situazione dei cittadini (acquisto di merci o servizi utilizzati per esempio nelle scuole, negli ospedali).
La spesa di trasferimento invece consiste quasi per metà nel pagamento di interessi ai cittadini che in passato hanno prestato denaro allo stato e nel pagamento di pensioni. Si tratta di un atto dovuto e del tutto legale, ma che non porta alcun particolare beneficio ai cittadini (salvo quelli che sono creditori nei confronti dello stato)
La misurazione della spesa pubblica in rapporto al Pil presenta un inconveniente di tipo statistico. In quasi tutti i paesi esistono operazioni economiche di compravendita e di produzione che sfuggono alla contabilità (la cosiddetta economia sommersa). Questo fa sì che l’indicatore spesa/Pil indichi in realtà una dimensione della spesa pubblica maggiore rispetto a quella realmente esistente (problema riscontrabile soprattutto in Italia dove il fenomeno dell’economia sommersa assume una dimensione molto importante nelle regioni meridionali e nelle zone rurali). Un altro problema è quello relativo alla cosiddetta spesa fiscale. Lo stato ha molti modi per intervenire in un determinato campo. Se vuole aiutare un certo tipo d’impresa può erogare sussidi o finanziamenti a tassi agevoli oppure può esimere le stesse imprese dal pagamento delle imposte per qualche anno. Entrambi i sistemi hanno il medesimo costo per lo stato, ma il primo comporta un aumento della spesa pubblica e il secondo una diminuzione delle entrate.
Come si può garantire che i soldi dei cittadini siano spesi nel modo migliore possibile? Si tratta di operare su due fronti:
assicurare la migliore gestione possibile dell’esistente
scegliere con criteri opportuni i nuovi investimenti
La pubblica amministrazione italiana è caratterizzata da una scarsa trasparenza di bilancio, vale a dire che molti ministeri sanno quanto spendono complessivamente ma non conoscono le spese di ogni singolo servizio. Su questo fronte le nuove tecnologie permettono di sapere quanto è costata una singola azione e consentono di intervenire dove si registrano anomalie di costi.
L’efficienza negli investimenti richiede di adoperare tecniche in grado di comparare fra loro diversi progetti in modo da scegliere quello più conveniente. Anche l’analisi dei risultati può risultare utile per orientare meglio di investimenti futuri.
L’aspetto più spiacevole dell’attività dello stato è che la spesa finanziata e i costi dell’intervento pubblico non possono che essere coperti dai cittadini. Lo stato ha tre vie principali per finanziare la propria attività:
tariffe pubbliche
indebitamento
tributi
Le tariffe pubbliche (biglietto del tram) possono coprire solo una quota molto modesta della spesa pubblica poiché molti servizi non sono vendibili (difesa) e perché lo stato in genere non desidera coprire interamente il costo dei servizi perché intende favorire le fasce di cittadini più bisognose.
L’indebitamento consiste nel prestito che i cittadini effettuano allo stato, in cambio dell’acquisto di un documento che dà diritto al godimento di un certo interesse annuo oltre alla restituzione del prestito entro una certa data.
I tributi costituiscono la parte principale delle entrate dello stato e sono costituiti da tasse, imposte e contributi. Le tasse sono somme versate volontariamente dal cittadino in cambio di una specifica controprestazione (tasse scolastiche), le imposte sono versate obbligatoriamente e senza controprestazione specifica, i contributi sono versati obbligatoriamente ma in cambio di una specifica controprestazione (contributi previdenziali).
Anche le entrate dello stato possono essere misurate, chiaramente la misurazione che ha più senso è quella che avviene in rapporto al Pil. Il totale delle entrate obbligatorie dello stato diviso per il Pil costituiscono la pressione fiscale.
Gli anni recenti hanno visto una crescita considerevole della pressione fiscale più o meno parallela alla crescita della spesa pubblica. Lo stesso si è registrato anche in altri paesi europei.
Le imposte dirette sono ritenute più eque di quelle indirette perché sono maggiormente in grado di differenziare fra contribuenti ricchi e poveri. Le imposte dirette sono infatti normalmente progressive, ossia colpiscono in modo più che proporzionale chi è più ricco.
Le imposte indirette possono tenere conto della ricchezza di chi effettua gli acquisti tuttavia per motivi di semplicità non è possibile avere un numero di imposte troppo elevato.
Le imposte dirette si prestano al fenomeno dell’evasione fiscale che consiste nella sottrazione di base imponibile al fisco ossia allo stato. Il fenomeno dell’evasione è molto grave in quanto sottrae risorse allo stato.
I possibili rimedi sono:
maggiore semplicità nei meccanismi fiscali
maggiori investimenti e accuratezza nei controlli
utilizzo di meccanismi presuntivi (controllo indiretto). Questo provvedimento intaccherebbe però la privacy dei cittadini e sarebbe fonte di discussione.
Le dimensioni e le caratteristiche della spesa pubblica e del prelievo di risorse necessario a finanziarla concorrono a formare il bilancio dello stato, un documento di grande importanza per la programmazione degli interventi pubblici.
Il bilancio di previsione riporta le entrate e le spese che si conta di realizzare nell’anno seguente. Il bilancio consuntivo riporta invece le entrate e le spese effettivamente realizzate nell’anno appena concluso.
Il bilancio distingue la spesa in parte corrente, utilizzata per la gestione delle attività pubbliche normali e in conto capitale, ossia per l’effettuazione di investimenti e spese straordinarie.
Le entrate vengono distinte in tributarie (pagamento coattivo) ed extra–tributarie (tariffe di servizi).
L’approvazione del bilancio è preceduta dalla legge finanziaria che è un atto molto importante perché è un impegno assunto dal paese verso gli operatori economici italiani e internazionali. Nella legge finanziaria si enunciano gli obbiettivi economici del governo e i metodi con i quali si intende perseguirli.
La differenza fra entrate e spese può dar luogo a un avanzo, se le prime sono maggiori rispetto alle seconde, o a un deficit nel caso contrario. Il deficit può essere colmato o con un avanzo dell’anno successivo oppure ricorrendo a un prestito. In questo secondo caso il deficit pubblico dà luogo a un debito pubblico.
Deficit pubblico = Spese pubbliche – Entrate fiscali
Debito pubblico = Soldi prestati dai cittadini allo stato (per finanziare un deficit o un investimento)
Questa situazione non è positiva in quanto la spesa per interessi assorbe risorse che potrebbero essere destinate a fini più utili e rende poco credibile l’Italia nel panorama economico internazionale, obbligando il nostro paese a pagare di più per trattenere i capitali in patria.
Ora il nostro paese sta faticosamente cercando di ridurre debito e spesa per interessi con azione su tre fronti:
diminuzione delle spese
aumento delle entrate
lenta diminuzione del tasso d’interesse
Perché lo stato interviene nell’economia? Vi sono casi in cui il mercato non è in grado di assicurare da solo il migliore utilizzo possibile delle risorse economiche. In queste occasioni si parla di fallimento del mercato e si richiede un intervento pubblico.
Lo stato si è sempre occupato di offrire servizi quali la difesa dei confini dai nemici esterni. Si tratta infatti di beni che non sono vendibili sul mercato e che quindi nessun imprenditore privato avrebbe interesse a offrire. Lo stato invece dispone del potere coercitivo per obbligare i cittadini a pagare la loro quota per la difesa e per tutti gli altri beni pubblici.
Un altro caso di fallimento del mercato è quello dei servizi che richiedono grandi infrastrutture (ferrovie). Se questi servizi venissero affidati alla concorrenza privata si sprecherebbero molte risorse oppure si instaurerebbe un monopolio. Questa non è però una situazione auspicabile, in quanto si è constatato che il monopolio tende a produrre una quantità inferiore e a mantenere prezzi superiori. La soluzione consiste nell’affidare il servizio a un’impresa pubblica che opera in regime di monopolio ma mantiene prezzi e quantità di produzione simili a quelli che si avrebbero che si avrebbero nel caso della concorrenza.
Un’altra ragione di intervento è legata alle crisi di caduta della domanda. Che succede durante una crisi? Gli imprenditori riducono l’attività e se possono licenziano una parte del personale. In questo modo la quantità di salari e stipendi distribuiti ai lavoratori diminuisce e quindi i loro acquisti calano. Il mercato registra così una contrazione della domanda ancora più forte. Se lo stato, nella fase iniziale della crisi, sostituisce il calo della domanda con la propria spesa oppure riduce le imposte in modo da spingere i cittadini a consumare di più, può stroncare sul nascere il meccanismo della crisi.
Dopo la seconda guerra mondiale è emersa un’ulteriore ragione di intervento pubblico. in molti paesi ci si è resi conto che, anche se il reddito del paese cresceva, la sua distribuzione poteva risultare ingiusta e anche controproducente per il futuro. In altre parole fasce di popolazioni anche molto estese potevano rimanere tagliate fuori dai benefici dello sviluppo.
Questo ha spinto lo stato ad intervenire nel campo dei servizi sociali. L’impegno rilevante che ha assunto in questo campo ha portato all’espressione di welfare state o stato sociale.
Le problematiche circa l'intervento dello stato nell'economia sono una costante del dibattito politico e civile. La necessità dell'intervento pubblico in determinati casi di fallimento del mercato, non è sufficiente a mettere d'accordo gli antagonisti. Infatti, anche una volta chiarito che lo stato deve intervenire, rimane il problema del determinare la dimensione dell'intervento.
Anche i più accesi oppositori dell'intervento dello stato nell'economia ammettono che esistono alcuni campi nei quali non si può fare a meno dell'intervento pubblico. La difesa dei confini, il mantenimento della giustizia e dell'ordine pubblico. Questo che viene chiamato stato minimo, corrisponde alle attività da sempre affidate all'autorità statale.
La vera pietra della discordia è invece lo stato sociale. Qui il contrasto fra le forze politiche è aperto. Una società con troppo stato rende l'economia inefficiente, obbiettano i liberisti, e non sfrutta appieno quella leva di sviluppo potente che è l'interesse privato. Una società troppo incentrata sul mercato privato, affermano i sostenitori dell'intervento pubblico, tende a essere ingiusta e crea sacche di scontento che alla lunga minano il processo stesso dello sviluppo.
Nessuno ha ancora dimostrato che un forte intervento statale aiuta lo sviluppo, ma neppure è stato dimostrato il contrario. La scelta fra una società con molto intervento privato e poco statale, o al contrario, dipende da una preferenza politica su quale delle due società sia più desiderabile e i quale sia meglio vivere.
L'intervento dello stato come siamo abituati a conoscerlo in Europa non è una costante in tutto il mondo. In generale Giappone e Stati Uniti hanno una presenza pubblica molto più limitata e questo si traduce in una pressione fiscale molto più leggera ma anche nel sostanziale abbandono dei cittadini non in grado di pagarsi salute e istruzione superiore.
Ma lo stato deve per forza spendere soldi per intervenire nell'economia? I costi crescenti dello stato sociale hanno spinto molti a domandarsi se non esista un altro modo per far valere l'interesse pubblico nell'economia e nella società. Spesso infatti ciò che è importante è che lo stato fornisca, ossia assicuri, determinati servizi con certi prezzi e una certa qualità, ma non è necessario che li produca direttamente.
Il tipo di stato che si delinea in questo caso è definito leggero, cioè dovrebbe "fare" di meno e "decidere" di più e quindi dovrebbe avere meno personale ma con qualifiche e titoli di studio più elevati.
Per venire incontro alle necessità di riduzione di spesa, di maggiore efficienza e di alleggerimento della macchina pubblica, tutti gli stati hanno avviato da tempo un programma di privatizzazioni: molte imprese che in passato erano state create o acquistate dallo stato vengono cedute ai privati.
La politica economica
Evitare le crisi economiche, assicurare elevati livelli di occupazione, contenere l’inflazione cioè l’aumento generale dei prezzi, tutelare il patrimonio, ecc.; l’insieme degli interventi che lo stato attua per cercare di conseguire questi e altri obiettivi prende il nome di politica economica.
Principali responsabili della politica economica sono i governi, cui spetta il difficile compito di tenere costantemente sotto controllo l’economia e adottare, quando è necessario, provvedimenti non soltanto efficaci ma anche in grado di ottenere un sufficiente consenso fra le forze politiche e fra i cittadini. Gli interventi di politica economica possono realizzarsi con misure di politica fiscale, che consistono nel far variare le entrate e le uscite della pubblica amministrazione, ma anche con misure di politica monetaria, che agiscono invece sull’offerta di moneta e sul credito.
La politica fiscale (politica di bilancio) è attuata dal governo agendo sulle due componenti del bilancio dello stato: le entrate e le uscite. La politica fiscale si realizza dunque modificando il prelievo fiscale o la spesa pubblica.
L’obiettivo principale della politica fiscale è quello di evitare le crisi economiche e ridurre l’instabilità ciclica.
L’attività economica procede infatti in modo ciclico, cioè alternando periodi di espansione con periodi di depressione. Nelle fasi di depressione, a causa dell’insufficiente domanda, le cose vanno male: elevata disoccupazione, basse retribuzioni, profitti modesti e scarsi investimenti. Anche le fasi espansive però presentano degli inconvenienti dovuti all’eccesso della domanda. I prezzi aumentano generando l’inflazione mentre le imprese effettuano i loro investimenti in misura superiore al dovuto, favorendo l’insorgere della crisi recessiva.
Compito del governo è perciò di adottare delle politiche anticicliche, può farlo mediante interventi di politica fiscale.
Nella fase espansiva, quando la domanda è in forte aumento e si teme una crescita dei prezzi, il governo può aumentare il prelievo tributario su famiglie e imprese, riducendo il loro reddito e spingendole in tal modo a limitare i propri acquisti. Il risultato finale sarà un contenimento della domanda e un conseguente benefico “raffreddamento” dell’economia.
Nella fase recessiva, quando invece la domanda cala e bisogna sostenere l’economia, il governo può ridurre il prelievo tributario: famiglie e imprese pagheranno meno imposte spingendole così a effettuare più acquisti, il che aiuterà l’economia a risollevarsi. A volte il governo può anche aumentare la spesa pubblica acquistando numerosi acquisti per le proprie strutture.
Anche la politica monetaria, attraverso un controllo dell’offerta di moneta e del credito, può avere qualche efficacia nel ridurre le fluttuazioni cicliche e dare maggiore stabilità all’economia.
Il principale strumento di politica monetaria cui il governo può ricorrere è la manovra del tasso ufficiale di sconto.
Il tasso ufficiale di sconto può essere definito come quel particolare tasso di interesse che la Banca d’Italia fa pagare alle banche quando presta loro del denaro. Essendo fissato dal ministero del tesoro, il tasso ufficiale di sconto si presta così a manovre di politica monetaria.
Nelle fasi di espansione un aumento del tasso ufficiale di sconto può aiutare a raffreddare l’economia. La conseguenza sarà infatti un aumento del tasso di interesse: gli imprenditori rinunceranno probabilmente a una parte degli investimenti.
Nelle fasi di recessione, al contrario, una diminuzione del tasso ufficiale di sconto può aiutare la ripresa. La conseguenza sarà, in questo caso, una riduzione del tasso di interesse: il minor costo del denaro potrà indurre gli imprenditori a chiedere soldi in prestito per effettuare nuovi investimenti.
Per facilitare la stabilità del ciclo economico, le manovre di politica monetaria possono essere abbinate, in modo coerente, a quelle di politica fiscale. Così, in una fase di recessione il governo potrà, per esempio, decidere di aumentare la spesa pubblica e al tempo stesso di ridurre il tasso ufficiale di sconto.
Dare stabilità all’economia è il principale obbiettivo della politica economica, ma non è l’unico. Infatti sia la politica monetaria sia quella fiscale possono render possibile il raggiungimento di altri obiettivi:
la crescita economica può essere favorita, per esempio, mediante la defiscalizzazione degli utili di impresa reinvestiti nella produzione.
una più equa distribuzione del reddito può essere raggiunta facendo pagare un maggior onere d’imposta ai ricchi e utilizzando una parte della spesa pubblica per dare aiuti economici ai più poveri.
Il commercio internazionale
Il commercio fra i paesi del mondo appare come un frenetico scambio di tonnellate di merci diverse, privo di una logica chiara. Eppure è un fenomeno in crescita e al quale nessun paese sembra disposto a rinunciare: infatti nel 1993 quasi tutti i paesi del mondo hanno fatto un accordo per rendere più aperti i loro scambi di mercato, privilegiando così il commercio internazionale.
Questo infatti nel mondo d’oggi ha un ruolo molto importante, perché occupa un posto rilevante nella nostra vita anche se magari non ce ne accorgiamo, perché potremmo mangiare benissimo cibi olandesi, comprare jeans americani e così via.
Infatti senza il commercio internazionale la maggior parte di oggetti che noi usiamo quotidianamente, anche quelli più semplici, non esisterebbero. La prima cosa che spinge i paesi al commercio è il vantaggio assoluto derivante dalla loro diverse abilità nel produrre le stesse merci.
Immaginiamo per esempio che l’Olanda produca una camicia di qualità migliore rispetto a una francese, impiegandoci anche minor tempo e minor materiale per fabbricare le medesime camice. Ora immaginiamo invece che la Francia produca dei guanti di qualità migliori rispetto a quelli olandesi, impiegandoci anche minor tempo e minor materiale per produrre gli stessi guanti. E’ logico che a parità di qualità la camicia olandese e i guanti francesi costeranno di meno, ed è ancora più logico che a parità di costo la camicia olandese e i guanti francesi saranno migliori. Quindi riassumendo diremo che l’Olanda ha un vantaggio assoluto rispetto alla Francia nella produzione di camice, mentre diremo che la Francia ha un vantaggio assoluto rispetto all’Olanda nella produzione di guanti.
La regola del vantaggio assoluto dice che un paese esporta le merci prodotte da lui a costi più bassi rispetto a quelli esteri e importa merci prodotte a minor costo in altri paesi.
Se vi è per esempio l’America che è bravissima nella produzione di calze e solamente brava nella produzione di scarpe e vi è l’Italia che è inferiore all’America, quest’ultima, secondo la base del vantaggio assoluto, non avrebbe nessun guadagno commerciare con essa. Ma invece non è così, perché potrebbero trarne vantaggio tutte e due. Visto che l’America è solo brava nella produzione di scarpe, potrebbero unirsi e fare in modo che l’America si occupi solamente delle calze, visto che nella produzione di essa è bravissima, e lasciare la fabbricazione delle scarpe all’Italia visto che non aveva eccellenti risultati come per le calze. In questo modo tutte e due starebbero meglio di prima e si sarebbero concentrate con maggiore attenzione sul lavoro che aveva dei risultati migliori senza perdere tempo.
La regola dei vantaggi comparati dice che un paese esporta le merci prodotte da lui per ottenere un miglior vantaggio comparato rispetto all’estero, e importa le merci per le quali ottiene un vantaggio comparato minore.
L’importanza dei vantaggi comparati è stato uno dei motivi che ha spinto i paesi ad aumentare il commercio internazionale.
Certamente se i prezzi di uno stesso bene sono molto diversi tra un paese all’altro, qualcuno avrà interesse a commerciarli dove il prezzo è più basso e rivenderli dove il prezzo è più alto.
Ma la ricchezza del commerciante, cioè di colui che ha comprato le merci e poi le ha rivendute, non durerà tanto, perché gli altri commercianti lo imiteranno facendo calare così i suoi guadagni con la concorrenza, perché ognuno offrirà prezzi sempre più alti, nello stesso tempo la domanda crescerà e farà aumentare i prezzi. Dopo un po’ di tempo le forze del mercato renderanno il prezzo della merce più o meno uguale in quasi tutti i mercati facendo si che ogni paese si specializzi nel settore che sa fare meglio.
Il rapporto tra il prezzo dei beni esportati e il prezzo dei beni importati viene chiamato ragione di scambio.
Prezzo dei beni esportati
Ragione di scambio =
Prezzo dei beni importati
La ragione di scambio è un concetto cruciale nel commercio internazionale e dalla quale dipende la prosperità di un paese.
Dire che le ragioni di scambio di un paese sono peggiorate significa lavorare di più per avere di meno.
I vantaggi del libero scambio sono principalmente cinque:
SPECIALIZZAZIONE: specializzarsi vuol dire produrre più merci a parità di costo. Questo spiega il perché i paesi si scambino delle merci apparentemente tanto simili. La specializzazione comporta l’investimento in macchinari e attrezzature per avere poi il miglior profitto.
UNICITA’ DEI BENI: molte materie prime sono sparse sul pianeta e quindi non tutti i paesi ce lo hanno, quindi il commercio internazionale permette che molti paesi abbiano quelle materie prime che prima del commercio non avevano.
ECONOMIE DI SCALA: un impresa che produce un milione di automobili ha costi inferiori rispetto a dieci imprese che ne producono centomila ciascuna. Questo fenomeno viene chiamato economia di scala che si verifica in misura maggiore o minore in tutti i tipi di produzione.
VANTAGGI DI LUNGO PERIODO: il commercio tra i paesi fa si che aumento la diffusione delle scoperte scientifiche e delle nuove tecnologie, e poi spinge gli imprenditori a essere più creativi sia per affrontare la concorrenza, sia per cercare di avere più guadagni.
STABILITA’ POLITICA NAZIONALE: grazie al commercio internazionale i rapporti tra i vari paesi che commerciano migliorano notevolmente, quando poi il livello di vita dei vari paesi aumenta rende ognuno dipendente dall’altro.
Un sistema molto efficace per limitare le importazioni è quello di imporre uno standard, di tipo per esempio igienico, tanto per rendere le importazioni antieconomiche.
Però ogni misura presa da un paese può essere seguita da una ritorsione da parte del paese colpito e scatenare delle “guerre commerciali”.
Esistono anche le ragioni della limitazione del libero scambio:
DIFESA DEI POSTI DI LAVORO: per difendere i posti di lavoro nelle imprese nazionali minacciate da quelle internazionali molto più potenti, i cittadini dovrebbero comprare le merci prodotte nel proprio paese.
DIFESA DELLE INDUSTRIE NASCENTI: le industrie nascenti devono affrontare molte spese e molti ostacoli prima di affermarsi sul mercato, e questo le espone al pericolo della concorrenza. Le industri nascenti dovrebbero essere protette solo per non favorire una troppo specializzazione.
DIVERSIFICAZIONE: la specializzazione è molto produttiva ma anche molto rischiosa, invece diversificando, cioè non basarsi su di una sola attività, è sicuramente meno produttivo ma molto più sicuro.
DIFESA NAZIONALE: certi prodotti tipo armi o esplosivi non si possono vendere ad altri paesi, per esempio quelli sospettati di finanziare il terrorismo e quindi sono soggette a restrizioni di commercio.
LOBBY E INTERESSI NAZIONALI: gli interessi nazionali sono una cosa molto diversa dagli interessi individuali. I governi si stanno incamminando verso un libero scambio dove le lobby nazionali, cioè dei gruppi di interesse che pressano in questo caso su singoli problemi, qualche volta riescono a spuntarla e a ostacolare il commercio.
La finanza internazionale
Un paese che commercia su un mercato internazionale "prende nota" di tutto ciò che i suoi cittadini o le sue imprese acquistano o vendono all'estero in un documento: la bilancia dei pagamenti.
Ogni anno entrano in Italia oltre 400.000 miliardi di lire provenienti da individui o società di altri paesi per l'acquisto di merci nazionali o di servizi o ancora per investimenti finanziari.
Una cifra più o meno grande altrettanto esce invece dai confini dell'Italia e si dirige all'estero per motivi del tutto simili.
Tutte le somme spese per acquistare merci, servizi o titoli finanziari all'estero (importazioni) e quelle incassate per la vendita di merci, servizi o titoli finanziari nazionali all'estero (esportazioni) sono registrate nella bilancia dei pagamenti.
La bilancia dei pagamenti si suddivide nella bilancia di parte corrente (che registra i movimenti in entrata e uscita di merci e servizi) e in quella in conto capitale (che registra acquisti e vendite di attività finanziarie).
La bilancia corrente a sua volta si suddivide in bilancia commerciale vera e propria (acquisti e vendite di merci) e in bilancia delle partite invisibili (acquisti e vendite di servizi, redditi e trasferimenti vari con l'estero).
Non è detto che importazioni ed esportazioni siano esattamente in pareggio. Se le importazioni eccedono le esportazioni si parlerà di bilancia in disavanzo (o in deficit) mentre se sono maggiori le esportazioni si parlerà di avanzo (o di surplus).
Avanzo e disavanzo si possono calcolare per ogni singola bilancia.
Esportazioni maggiori delle importazioni = Avanzo della bilancia (surplus)
Importazioni maggiori delle esportazioni = Disavanzo della bilancia (deficit)
Esportazioni uguali alle importazioni = Pareggio della bilancia.
Quale bilancia?
La bilancia commerciale registra i movimenti delle merci, le partite invisibili,…
La bilancia di parte corrente (partite visibili e invisibili insieme) registra tutti quei movimenti che fanno parte del Prodotto interno lordo, è perciò un buon indicatore dell'autosufficienza economica di un paese.
La bilancia dei pagamenti (che include i movimenti di capitale) è un buon indicatore della solidità economica e finanziaria insieme. Registra la ricchezza prodotta ma anche quella prestata e quindi le risorse che un paese ha a disposizione.
Non c’e’ nulla di male se gli stranieri effettuano investimenti in un paese. Le imprese statunitensi e inglesi acquistate dai giapponesi negli anni ottanta funzionano benissimo, impiegano personale quasi completamente statunitense o inglese e pagano le tasse negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Certo i prodotti appartengono agli imprenditori giapponesi, che li investo chissà dove nel mondo, ma in fondo non accadrebbe lo stesso se quei profitti fossero statunitensi o inglesi?
Ottenere valuta estera di per sé non è difficile, basta rivolgersi a una banca qualsiasi dove sappiamo che con circa mille lire potremo ottenere, per esempio, un marco tedesco.
Per sapere se è conveniente importare dalla Germania un chilo di patate messo in vendita a un marco, è necessario poter “tradurre” quel marco in lire. Per farlo occorre disporre del tasso di cambio cioè del prezzo di un marco espresso in lire. Se questo prezzo è di 1.000 lire, l’importazione di un chilo di patate costera’ mille lire piu’ le spese di trasporto. E’ possibile a questo punto confrontare il prezzo tedesco con quello italiano per o stesso bene e decidere se conviene o no effettuare l’acquisto all’estero.
Come tutti i prezzi anche il tasso di cambio puo’ subire variazioni. Quando il prezzo di una lauta estera espressa in lire, per esempio il prezzo di un marco, aumenta si dice che la lira si e’ deprezzata, in questo caso rispetto al marco. Quando invece succede il contrario si dice che la lira si e’ apprezzata rispetto al marco.
Il tasso di cambio si determina sul mercato sulla base di domanda e offerta.
Le forze che, da un giorno all’altro o nel giro di poche ore, possono spingere, verso l’alto o verso il basso, il valore della lira sono essenzialmente due: il tasso di interesse e la speculazione.
I tassi elevati incoraggiano gli investimenti finanziari a “mettere i soldi in banca”, ma scoraggiano quelli reali, cioe’ quelli che producono e danno occupazione, perche’ per quelli bisogna “prendere i soldi a prestito dalla banca”.
Tassi elevati rappresentano un impegno a pagare in futuro.
Una seconda forza che puo’ modificare il tasso di cambio e’ quella degli speculatori internazionali. Gli speculatori sono persone o societa’ che spostano denaro da un impiego all’altro in giro per il mondo in modo da massimizzare il rendimento dei propri capitali.
Gli economisti sono in disaccordo sul ruolo della speculazione. Secondo alcuni e’ un fattore destabilizzante, perche’ amplifica le oscillazioni dei cambi e rende il mercato piu’ instabile. Secondo altri economisti la speculazione tende a stabilizzare perche’ lo speculatore acquista una valuta quando la quotazione e’ bassa. L’osservazione dei mercati finanziari dalla fine degli anni ottanta in avanti sembra dare ragione ai pessimisti.
Naturalmente anche le banche centrali dei diversi paesi possono intervenire per modificare il tasso di cambio.
Nel lungo periodo, vale a dire settimane o mesi in un mercato finanziario, le forze che possono modificare il tasso di cambio sono le preferenze dei consumatori, il reddito nazionale e la parita’ dei poteri d’acquisto.
Se tutti gli italiani vogliono comprare prodotti tedeschi, le banche saranno sommerse di richieste di marchi da parte di persone che pagano in lire e la conseguenza sara’ che il prezzo del marco salira’.
Il reddito invece puo’ influire sul tasso di cambio attraverso i consumi.
La parita’ dei poteri d’acquisto significa che se il tasso di cambio marco – lira e’ fissato a 1.000 lire, con questa somma si deve poter comprare in Italia piu’ o meno quello che si puo’ comprare in Germania con un marco.
Se i prezzi in Italia aumentano del 10% e le patate passano a 1.100 lire al chilo mentre in Germania i prezzi sono stabili, agli italiani conviene importare patate tedesche, il che causa una forte richiesta di marchi contro lire, quindi un deprezzamento della lira sul marco e un nuovo prezzo del marco, probabilmente molto vicino a 1.100 lire.
Una forte differenza di inflazione fra i paesi spinge dunque all’instabilità dei tassi di cambio e per questo gli accordi per la formazione dell’unione monetaria pongono limiti all’inflazione di ogni paese.
La stabilità e’ una qualità molto importante per un paese e per un mercato. Stabilità vuol dire che le politiche dei governi non cambiano in continuazione.
Ma la stabilità riguarda anche i mercati finanziari. Per un investitore estero non e’ importante che la lira valga molto o poco, ma che sia stabile. Nessuno effettua volentieri investimenti in un paese la cui moneta oscilla troppo violentemente.
La stabilità e’ un mattone fondamentale della crescita economica e per assicurare stabilità sui mercati finanziari i diversi paesi stipulano accordi per evitare oscillazioni troppo estese dei tassi di cambio.
Quando un paese si trova sottoposto a tali pressioni verso il deprezzamento o l’apprezzamento e nessuna misura, intervento della Banca centrale o altro, si rivela efficace, può essere costretto a chiedere di rivedere la parità centrale o a uscire dall’accordo. Se la parità centrale viene modificata nel senso del deprezzamento si parla di svalutazione, mentre nel caso opposto di rivalutazione.
Quando la lira si svaluta o si deprezza, tutto quello che si importa costa più caro e questo limita automaticamente le importazioni. Contemporaneamente le merci italiane diventano di fatto più a buon mercato per gli stranieri e questo rende più facile l’esportazione.
E’ difficile dire se a un paese conviene avere una valuta sottovalutata o sopravalutata. Le industrie esportatrici premono per un deprezzamento.
Probabilmente la parola chiave e’ stabilità: una moneta che subisce oscillazioni troppo violente può rendere diffidenti gli imprenditori esteri.
L’integrazione economica nel mondo
Lo sviluppo derivante dal commercio internazionale non ha beneficiato nello stesso modo tutti i paesi del mondo. Infatti i paesi industrializzati come gli Stati Uniti, Europa e Giappone, detengono il primato sulle percentuali di esportazioni ed importazioni.
In generale, i paesi sviluppati esportano soprattutto manufatti e importano materie prime, soprattutto energetiche.
Visto che il prezzo dei manufatti continua costantemente ad aumentare, i paesi sottosviluppati sono costretti ad indebitarsi facendo sprofondare ancora di più nella miseria la popolazione più povera.
Nel frattempo, mentre le barriere al commercio tendono a cadere, gli scambi aumentano soprattutto all’interno di aree geografiche ben definite e quindi per non soccombere sul mercato internazionale, essi sono quasi costretti a stipulare alleanze commerciali fra loro.
Dalla firma del trattato di Roma nel 1957 sono stati raggiunti numerosi accordi politici e commerciali e l’Unione Europea è passata da 6 a 15 membri.
Il progetto più ambizioso, però, è quello di avere un’unica moneta per tutta l’Europa: l’Euro.
Ciò è stato definito con il trattato di Maastricht nel 1992. I paesi che vogliono aderire all’UE, devono però rispettare i seguenti parametri:
Deficit dello Stato non superiore al 3% del PIL
Debito pubblico non superiore al 60% del PIL
Inflazione e tassi d’interesse a lungo termine non superiori alla media dei tre migliori paesi europei.
Ma l’Europa conviene? A giudicare dai risultati sembrerebbe proprio di si. Infatti dal 1986 al 1990 sono stati introdotti 9 milioni di nuovi posti di lavoro, i costi di trasporto sono diminuiti del 3%, sono stati emessi 70 milioni di certificati doganali in meno ed il PIL è cresciuto di mezzo punto percentuale.
I costi della non-Europa. Se l’Europa non si unificasse le conseguenze sarebbero quasi certamente negative.
Considerando che il mercato finanziario è spesso attraversato da crisi finanziarie e che l’economia di un paese si basa quasi principalmente su poche grandi società che dispongono di molto denaro un’unica banca centrale farebbe accusare meno ai singoli paesi i colpi della crisi. In questo modo l’Europa diventerebbe la più grande potenza economica del pianeta.
In questo periodo, però, anche alcuni paesi del sud-est asiatico si stanno sviluppando in modo rapidissimo facendo scendere i prezzi di produzione. Per questo motivo, Stati Uniti e Giappone stanno attrezzandosi con alleanze e accordi per una maggiore integrazione con i paesi vicini. Se l’Europa non facesse altrettanto potrebbe non essere in grado di affrontare la spietata concorrenza negli anni a venire.