Dante e l'esilio

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Categoria:Dante

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Testo

Dante e l’esilio

Trovarsi ad essere esiliati dalla propria città non è una bella situazione. Vedere la propria casa in mano ad una fazione nemica, ad uno schieramento avverso che ora è al potere, è terribile. Un tempo, ora parliamo del 1300, non era propriamente una rarità. L’esilio era un’economica soluzione per disfarsi degli avversari politici che col tempo è andata perdendosi. Rimane però che a Firenze nel 1302 viene emessa una condanna a due anni di confino, all’esclusione dai pubblici uffici e al pagamento di una multa ai danni di un poeta politicamente impegnato, Dante Alighieri. Successivamente la condanna verrà mutata in confisca dei beni e rogo in caso di cattura, in modo da obbligarlo a fuggire. Morirà lontano da Firenze.
Ma lontano dalla sua patria scriverà molto e comporrà la sua grande opera: la Divina Commedia. Con questo scritto, insieme ai mille simbolismi e insegnamenti morali che ci offre, si prende anche una piccola parte di vendetta. Il suo è un grande operato e verrà letto e pubblicato per secoli, così, consapevole del successo che non avrebbe potuto mancare, infila tra i versi più alti piccole frecciate, o invettive, contro i suoi nemici. In questo modo riesce a colpirli abilmente con una satira studiata e davanti ad un grande pubblico, tenendo anche conto che scrive in volgare.
Dante quindi ci offre un completo quadro politico della Firenze del 1300. Lo fa con cura, tenendo conto dei numeri, a lui tanto cari. Infatti, come sempre, Dante è metodico e dedica per ogni cantica un canto politico ed è ogni volta il sesto.
Analizziamo l’Inferno, unica cantica osservata finora.
Dante ha appena lasciato Paolo e Francesca nel cerchio dei lussuriosi e si sta dirigendo in quello dei golosi. Qui acqua putrida, pioggia sporca e grandine tormentano i dannati con la faccia nel fango. Dopo aver passato Cerbero si scontra con Ciacco, cittadino fiorentino vissuto al tempo di Dante. Parlando arriva la sua famosa profezia. Dante rivolge al peccatore tre domande, rispondendo alle quali Ciacco fa il resoconto dei fatti. Le due parti, guelfi bianchi e neri, si scontrano per superbia, invidia e avarizia e ormai sono soltanto due gli uomini giusti in tutta la città. Su quest’ultima cosa abbiamo diverse interpretazioni di cui non intendo discutere ora. Poi Ciacco prevede la conclusione dei conflitti. Infatti Dante scrive l’opera successivamente all’esilio, ma inscena i fatti nel 1300, quando ancora non era stata data la condanna. Così Ciacco dice: dopo un lungo contrasto verranno al sangue, ovvero un ragazzo verrà ferito in una rissa il primo maggio 1300 e con questo gesto l’odio fra le fazioni crebbe notevolmente, poi i bianchi avranno il sopravvento, ma cadranno nuovamente entro tre anni. In effetti così sarà, ma passeranno meno di tre anni da una supremazia all’altra, venuta nel 1302, e al numero va attribuito un valore simbolico. Ciacco però non ha finito perché specifica che i neri torneranno al potere grazie a colui che fino a quel momento non aveva preso le parti di alcuno, si parla del tanto amato Bonifacio VIII. Ancora tre versi per questa risposta che Dante dedica al fine di far sfigurare i suoi avversari dipingendoli come specie di barbari crudeli e privi di pietà, infatti scrive che saranno crudeli, imporranno forti multe e saranno crudeli, benché gli altri piangano e subiscano l’onta. E qui Ciacco conclude.
Ma non possono bastare tre canti su cento per denigrare coloro che lo hanno allontanato dalla sua casa, così troviamo qua e là versi interessanti di satira.
Saltiamo ora al canto decimo. Dante con Virgilio sono entrati nella città di Dite e stanno visitando le tombe aperte degli epicurei. Tralasciando l’incontro con Cavalcante, non utile ai fini della tesi, osserviamo la discussione con Farinata degli Uberti, fiero ghibellino.
All’inizio i due si incalzano e Farinata ricorda orgogliosamente a Dante che il suo partito fu cacciato due volte da Firenze, nel 1248 e nel 1260. E’ facile per Dante difendersi, rispondere e schernirlo, infatti i guelfi erano tornati a Firenze entrambe le volte, nel 1251 e nel 1267, mentre quando è stata la volta dei ghibellini non fu così. Qui però Farinata si vendica e prevede l’esilio di Dante da Firenze. Dice: non passeranno cinquanta mesi che capirai cosa significa perdere. Il periodo è di quattro anni e due mesi, ovvero il maggio del 1304. Esiliato nel 1302, Dante parteciperà per due anni ai molti tentativi dei guelfi bianchi di tornare a prendere possesso della città con la forza.
La cantica è costellata di invettive su Firenze e soprattutto sul suo grande nemico: il papa Bonifacio VIII. Questi tocchi leggeri rendono più divertente la lettura dell’opera e fanno assumere a volte aspetti comici ai personaggi.
Per concludere nomino un passo che ho trovato deliziosamente arguto, sempre contro Bonifacio VIII.
Siamo nell’ottavo cerchio, nella bolgia dei simoniaci. Qui i dannati sono conficcati nella terra in colonna e ogni nuovo che arriva spinge la fila un po’ più in giù. L’ultimo, l’unico con le gambe fuori, ha la compagnia di una fiamma che gli brucia le palme dei piedi. Niccolò III è l’ultimo della fila dei papi e Dante gli si avvicina. Sentendo lui e Virgilio parlare Niccolò si stupisce, convinto che sia il suo successore. Chiaramente chi può essere il successore se non proprio Bonifacio? Niccolò lo esplicita e in questo modo Dante riesce a mettere all’inferno Bonifacio ancor prima della sua morte.

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