Dante Alighieri

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Testo

Dante Alighieri
Dante, primo intellettuale laico europeo
Nell'opera di Dante, e in particolare nella Commedia, si ritrovano i fermenti culturali, religiosi e politici che caratterizzano la civiltà comunale. Infatti l'Alighieri appare disponibile a recepire le esperienze artistiche e intellettuali precedenti e contemporanee, pur rielaborandole con esiti del tutto originali. Fervente partecipe alla vita politica animata dai contrasti tra opposte fazioni, e giudice di estremo rigore morale delle vicende ecclesiastiche, Dante si scaglia contro la corruzione degli uomini che rappresentano le istituzioni del tempo per indicare la strada di una renovatio palingenetica che conduce gli uomini dallo stato di miseria a quello di felicità. Proprio per questo il poema dantesco è sempre più considerato opera di valore universale per il messaggio morale, politico e religioso che esprime, attraverso la storia del riscatto di un'anima, quella di Dante, l'anelito di ogni uomo a liberarsi dalle sofferenze aspirando a una realizzazione di ordine superiore.
Dante Alighieri
La modernità di questo autore trova conferma nell'affermazione rivoluzionaria del concetto di nobiltà in cui viene capovolto il rapporto tra stirpe e individuo. Nel Convivio sostiene: "La stirpe non fa le singulari persone nobili ma le singulari persone fanno nobile la stirpe".
Non siamo ancora all'affermazione del concetto di uomo fautore del proprio destino, perché Dante è legato a una concezione della nobiltà di stampo conservatore, tuttavia si dà un maggior rilievo all'individuo, anticipando in qualche modo le tematiche umanistiche. Sul piano politico, Dante sostenne la preminenza dell'autorità imperiale su quella papale pur rimanendo consapevole che entrambe le realtà erano reciprocamente necessarie per garantire la vicendevole sopravvivenza istituzionale.
Dante, padre della lingua italiana
Sotto il profilo letterario Dante può essere considerato il padre della lingua italiana (il volgare illustre) non solo perché la utilizzò con risultati artistici mai raggiunti prima, ma perché ne difese la dignità con vigore, affidando al nuovo idioma la trattazione di argomenti che in passato erano stati esclusiva prerogativa della lingua latina (storia, teologia, scienza, giurisprudenza). Attraverso il suo operato la cultura, privilegio dei chierici ed espressione della loro potenza sociale, viene diffusa presso larghi strati di persone, favorendo la circolazione di idee e di valori.
L'attuazione di un programma di rinnovamento culturale, promotore di una nuova aristocrazia intellettuale lontana dal controllo ecclesiastico, e la sua validità unanimemente riconosciuta oltralpe, valse a Dante l'appellativo di primo intellettuale laico europeo.
La vita
Dante nacque a Firenze nel maggio 1265 da Alighiero di Bellincione della famiglia degli Alighieri, appartenente alla piccola nobiltà guelfa, e da donna Bella. Nonostante le condizioni economiche disagiate, poté procurarsi una raffinata educazione. Dei suoi primi studi non abbiamo notizie certe, ma pare abbia appreso la retorica proprio dal più grande maestro fiorentino del tempo, Brunetto Latini. La precoce vocazione alla poesia lo portò a frequentare gli ambienti letterari fiorentini presso i quali conobbe Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Cino da Pistoia. La complessa esperienza intellettuale e sentimentale di questi anni si raccoglie attorno alla figura di Beatrice, figlia di Folco Portinari e moglie di Simone dei Bardi, che Dante aveva conosciuto all'età di nove anni. Quando nel 1290 Beatrice morì, il poeta cadde in un profondo periodo di depressione che fu allietato solo dalla lettura dei classici quali Cicerone, Virgilio e Boezio.
In quel periodo prese a frequentare "le scuole de li religiosi" e "le disputazioni de li filosofanti". Ascoltò sicuramente la predicazione del domenicano Remigio de' Girolami e quella dei francescani Pietro di Giovanni Olivi e Ubertino da Casale. Intanto Dante entrava nella vita pubblica e quando, nel 1295, un emendamento agli "Ordinamenti di giustizia" di Giano della Bella permise la partecipazione alle cariche pubbliche solo a chi fosse iscritto a un'"arte", l'Alighieri si iscrisse a quella dei "medici e degli speziali", probabilmente per il legame che allora univa filosofia e medicina.
L'esilio
Affresco del Giubileo di Bonifacio VIII
Firenze, nel 1300, si divise nuovamente, all'interno del gruppo guelfo, in due fazioni, l'una delle quali, capeggiata da Corso Donati, ebbe il nome dei Neri e l'altra, che si stringeva soprattutto intorno alla famiglia dei Cerchi, si denominò dei Bianchi; Dante si avvicinò a questi ultimi, che si opponevano tanto all'ingerenza di papa Bonifacio VIII nelle vicende della Toscana quanto alla trasformazione di Firenze in una signoria più o meno vasta, e intendevano mantenere gli ordinamenti comunali. Nelle tumultuose vicende politiche di Firenze dei primi anni del Trecento, Dante ebbe una parte di rilievo: fu priore fra il 15 giugno e il 15 agosto 1300 e nell'ottobre 1301 si recò a Roma membro di un'ambasceria a Bonifacio VIII, le cui richieste aveva più volte avversato nella sede dei Consigli cittadini. Sulla via del ritorno dalla missione romana, nel 1302, apprese la sentenza che lo condannava a due anni di confino, all'interdizione dai pubblici uffici e a una multa: per contumacia la pena gli fu commutata in quella capitale.
Cominciò così un lungo esilio che ebbe fine solo con la morte: fu dapprima a Verona, ospite di Bartolomeo della Scala, poi in Lunigiana, presso Malaspina. La discesa in Italia di Arrigo VII di Lussemburgo (eletto imperatore nel 1308) alimentò la speranza di Dante di far ritorno in patria; la morte improvvisa dell'imperatore (1313) fece tuttavia tramontare definitivamente ogni aspettativa. Non sempre sicure sono le tappe successive dell'esilio di Dante: fu certo lungamente a Verona, presso Can Grande della Scala, poi, forse dal 1318, a Ravenna, ospite di Guido Novello da Polenta.Inviato da costui con un'ambasceria a Venezia nel 1321, vi contrasse delle febbri, in seguito alle quali morì fra il 14 e il 15 settembre di quell'anno. Fu sepolto nella chiesa di San Pier Maggiore.
La Vita Nova
Come abbiamo visto, l'attività letteraria di Dante ebbe un inizio assai precoce. I documenti del suo noviziato poetico costituiscono una parte consistente delle Rime, che verrano esaminate in seguito. Dall'assidua frequentazione del circolo stilnovista e in particolare di Cavalcanti nascono le rime segnate dalla visione drammatica dell'amore. Ma da questa influenza Dante si libererà ben presto per intraprendere una strada del tutto autonoma, che trova espressione nella Vita Nova. Scritta intorno al 1293, questa silloge include la produzione poetica di un decennio (25 sonetti, quattro canzoni, una ballata, una stanza di canzone) articolata in liriche e capitoli in prosa con la duplice funzione di connessione e di spiegazione dei significati allegorici del testo poetico. L'opera, che illustra il rinnovamento interiore del poeta grazie all'amore altissimo per Beatrice, che Dante canta dopo la sua morte, si distacca dai modi della concezione cavalcantiana dell'amore (Donne ch'avete intelletto d'amore) per rinnovare le tematiche stilnovistiche in una visione mirabile della donna amata, che, attraverso il suo sguardo, innalza il poeta alla contemplazione di Dio.
Le Rime
Le Rime (54 sicuramente autentiche, più di 15 di attribuzione incerta) sono state suddivise dagli studiosi a seconda dei temi: rime contemporanee alla Vita Nova; tenzone con Forese Donati; rime allegoriche e dottrinali; rime d'amore e di corrispondenza; rime per la donna Pietra; rime varie del tempo dell'esilio. Il primo gruppo comprende le liriche scritte fino al 1293, che nella prima fase rivelano netti influssi guittoniani nella scelta degli schemi e degli artifici adottati, e i componimenti poi utilizzati nella Vita Nova.
Il secondo gruppo è costituito dai sonetti di tenzone scambiati con Forese Donati, fratello di Corso, ricchi di invettive argute, in cui Dante si cimenta con un linguaggio basso e plebeo, impiegato con grande perizia tecnica. Nei sonetti il poeta rimprovera al rivale le inadempienze ai doveri coniugali e il vizio della gola, mentre Forese gli rammenta la precaria condizione economica degli Alighieri. Nella terza e quarta sezione troviamo le canzoni dottrinali che entreranno a far parte del Convivio e le poesie d'amore e di corrispondenza. Dall'incontro con la poesia del provenzale Arnaldo Daniello nascono le Rime petrose, così chiamate perché dedicate a madonna Petra, bella e insensibile. Si tratta di quattro canzoni scritte tra il 1296 e il 1298 nelle quali prevale il tono aspro e gli artifici metrici rispetto alla dolcezza delle liriche stilnoviste. Nelle rime scritte dopo l'esilio spicca soprattutto l'alta dignità dell'esule immeritevole. La visione del mondo si fa per Dante sempre più cupa. Dai suoi sonetti trapela un'aspirazione alla giustizia terrena, alla pace, desideri sconfessati dalla realtà pratica la cui durezza spinge l'autore a manifestare in tono apertamente polemico ira e sdegno.
Il Convivio
Tra il 1304 e il 1307, frutto degli studi filosofici e dell'attività politica, Dante compone il Convivio, lasciato incompiuto al IV libro rispetto ai 15 previsti nel piano iniziale.
Utilizzando provocatoriamente il volgare per trattare argomenti dottrinali dei quali possa in tal modo divenire partecipe il più alto numero di "commensali", il poeta offre il suo banchetto di sapienza. Il secondo trattato, commentando la canzone Voi che intendendo il terzo ciel movete, descrive invece i cieli e le intelligenze angeliche che li governano. Il terzo (Amor che ne la mente mi ragiona) è un inno alla sapienza, somma perfezione dell'uomo alla quale il poeta umilmente aspira. Nel quarto trattato (Le dolci rime d'amor ch'ì solia) si affronta infine il tema della nobiltà intesa non come privilegio di sangue, ma come conquista personale ottenibile mediante l'esercizio della virtù.
Il De vulgari eloquentia
Coevo alla stesura del Convivio è un trattato in lingua latina, il De vulgari eloquentia, interrotto al XIV capitolo del secondo libro ma che nel disegno originale doveva comprendere almeno quattro libri. Il primo libro imposta il problema del volgare illustre, ossia di un linguaggio e di uno stile elevato, capace di trattare argomenti importanti. Dante, dopo aver distinto la locutio vulgaris (la lingua parlata appresa oralmente) dalla gramatica (la lingua provvista di uno statuto di regole, appannaggio di popoli dotati di cultura scritta come i greci e i latini), cerca di individuare una lingua comune fra i quattordici principali tipi di volgare italico, il cosiddetto "volgare illustre", frutto dell'elaborazione di dotti e letterati dispersi nelle varie corti d'Italia. Nel secondo libro si definiscono gli argomenti per i quali occorre lo stile "tragico": le armi, l'amore, la virtù. Dante sceglie come espressione metrica, in cui meglio si concreta lo "stile tragico", la canzone, della quale evidenzia le varie componenti. La ricerca del volgare illustre che costituisca una lingua nazionale capace di trascendere i dialetti municipali obbedisce a un intento politico: quello di ricreare una magna curia, come aveva fatto Federico II, per raccogliere tutti gli spiriti eletti in nome di un'unità nazionale basata sulla tradizione culturale.
Il De Monarchia
Quel pensiero politico, già espresso in linea generale nel Convivio, viene ripreso sistematicamente nel trattato in tre libri del De Monarchia. Scritta in latino e dalla datazione controversa, rappresenta l'opera dottrinale più organica di Dante. Nel primo libro si dimostra la necessità della monarchia universale, di un imperatore che sia arbitro supremo e garante della giustizia e della libertà, realizzando sulla Terra i precetti evangelici. Nel secondo si dimostra come l'autorità imperiale sia stata giustamente attribuita da Dio al popolo romano, il quale pacificò il mondo intero per accogliere Cristo. Il terzo libro affronta il rapporto tra Chiesa e Impero. Vi si confutano le teorie che affermavano la dipendenza dell'imperatore dal papa, sostenendo che l'autorità imperiale deriva direttamente da Dio.
Dante sostiene che i due poteri sono autonomi e la loro sfera d'azione diversa ma complementare: l'impero ha per fine il raggiungimento della felicità in questa vita, la Chiesa si propone il raggiungimento della beatitudine eterna. La grande costruzione utopica di Dante rappresentava così il tentativo di congiungere il passato glorioso di Roma con la tradizione religiosa presente e con il Sacro Romano Impero.
Le epistole
Tenendo presente questo obiettivo il poeta indirizzò numerose epistole a sfondo politico ai signori delle corti d'Italia, all'imperatore (la terna VIII, IX, X per appoggiare l'impresa di Arrigo VII in Italia) e ai cardinali della Chiesa romana riuniti in conclave dopo la morte di Clemente V, ricordando loro la corruzione della Chiesa e auspicando un ritorno a Roma della sede papale trasferita ad Avignone.
La XIII epistola, scritta poco prima del 1317, ci testimonia la conclusione della Commedia essendo indirizzata a Can Grande della Scala, destinatario dell'opera.
Il tema dell'esilio torna prepotente nella XII epistola all'amico fiorentino, nella quale il poeta rivendica con fierezza e con dignità il diritto di tornare a Firenze a titolo di risarcimento dell'esilio lungamente sopportato. Alla fine della sua vita Dante compose una dissertazione di filosofia naturale, la Quaestio de acqua et terra, che mostra l'interesse del poeta per gli argomenti scientifici e la capacità dialettica con cui ne discetta. In occasione dell'invito a Bologna per il conferimento della corona d'alloro, massimo riconoscimento per un poeta, si ricordano le due ecloghe latine indirizzate a Giovanni del Virgilio, con le quali Dante respinge le accuse mossegli dall'amico per aver impiegato nella Commedia il volgare, lingua non adatta a esprimere tale altezza di pensiero.
La Commedia
Un poema universale
La profonda e varia cultura di Dante, l'impegno etico-politico, le sue vicende personali, le esperienze acquisite come poeta d'amore e dottrinale confluiscono nella Commedia. Il poema, ruotando attorno all'idea cardine del viaggio ultraterreno, da intendere come un itinerarium mentis in Deum (titolo d'un famoso trattato di Bonaventura da Bagnoregio), individua la presenza del disegno provvidenziale nel manifestarsi concreto della storia.
L'opera nasce da una visione cupa e apocalittica della realtà presente e dall'ansiosa speranza di un riscatto futuro. La stessa allegoria di cui si avvale largamente il poeta non è usata in modo avulso dal dato concreto ma lo rappresenta nel suo significato più profondo, per evidenziare il contrasto tra attrazioni terrene e valori universali trascendenti.
I modelli della Commedia
Per questo il modello più vicino alla Commedia è la Bibbia, letta nel Medioevo secondo un duplice livello interpretativo: quello storico (la realtà vissuta) e quello morale e anagogico che rimanda a un mondo spirituale altrettanto vero e reale, ma posto al di fuori della immediata percezione umana. L'altro modello letterario al quale Dante si ispira è l'Eneide, che nella cultura pagana svolgeva le stesse funzioni della Sacra Scrittura. Il poeta è perciò consapevole della sacralità del suo messaggio che nella storia della redenzione individuale sottintende quella dell'intera umanità. In questo clima di rinnovamento o renovatio, la redenzione deve condurre alla salvezza eterna nella città celeste, ma prima ancora deve realizzare la pace e la felicità nella vita terrena. A tal fine Dante richiama i potenti della Terra alle loro responsabilità in quanto guide del gregge umano.
La composizione del poema e la struttura
Dipinto di Botticelli per "L'Inferno" dantesco
Piuttosto controversa è la questione sulle date di composizione del poema. Iniziato probabilmente dopo il 1307, nel 1319 l'Inferno e il Purgatorio erano già pubblicati, mentre il Paradiso comparve dopo la morte del poeta. Le tre cantiche constano di 33 canti ciascuna più uno di introduzione a tutto il poema, per un totale di cento canti. La Commedia si articola in 14.233 endecasillabi uniti in terzine a rima incatenata, secondo lo schema del sirventese di origine provenzale (aba, bcb, cdc). Lo svolgimento del poema segue il viaggio che si immagina compiuto da Dante nei tre regni dell'oltretomba, tra il 7 e il 14 aprile 1300. Il poeta, a 35 anni, smarritosi nella selva del peccato, è aiutato a uscirne da Virgilio, simbolo della sapienza profana, il cui intervento è stato richiesto alla Madonna per tramite di Beatrice e di santa Lucia. Dante e la sua guida affrontano il viaggio nei regni dell'Inferno e del Purgatorio. Non essendo credente, Virgilio, relegato nel Limbo, non può contemplare la beatitudine del Paradiso e lascia il posto a Beatrice, figurazione della scienza divina, o teologia, o rivelazione. L'Inferno è una vasta voragine che si apre fino al centro della Terra, dove è infisso Lucifero. I peccatori sono tanto più in basso (dunque più lontani da Dio) quanto maggiori sono state le loro colpe, e vengono sottoposti, nei dieci cerchi concentrici nei quali si suddividono (ripartiti nelle tre grandi sezioni dei colpevoli di incontinenza, di violenza e di frode) alla pena del contrappasso (i castighi sono direttamente proporzionali alle colpe e assegnati con un riferimento simbolico di contrasto o di somiglianza con quelle).
Agli antipodi di Gerusalemme, presso la quale si colloca l'ingresso dell'Inferno, si erge la montagna del Purgatorio, suddiviso in sette balze corrispondenti ai sette peccati capitali; espiate le colpe, le anime giungono (come giunge Dante) sulla vetta: il paradiso terrestre. Il Paradiso è un susseguirsi concentrico di cieli; le anime sono tutte nel decimo, l'Empireo, disposte in forma di "candida rosa" intorno alla Vergine.
Gli insegnamenti della Commedia
Gli insegnamenti che il lettore deve ricavare dal poema sono espressi in una lettera a Can Grande della Scala: la destinazione dell'uomo alla felicità eterna, preclusagli con il peccato di Adamo; la libertà di scegliere tra il bene e il male; l'usurpazione, da parte della Chiesa, dei poteri e dei compiti spettanti all'Impero (e dunque il disordine che ne è seguito nel mondo e la necessità di restaurare la pienezza dei poteri imperiali); la miseria che attende nell'oltretomba chi abbia aderito alla suggestione del male e la beatitudine spirituale destinata a chi abbia avuto l'avvedutezza di raccogliere l'invito di Dio.

I numeri della Commedia
Nell'organizzare la mole della materia trattata nel poema, Dante procede secondo una legge geometrica, fedele agli schemi e rigorosamente coerente con le speculazioni religiose e dottrinarie dell'epoca. Tutto l'universo è regolato da un ordine perfetto, simboleggiato dal numero tre e con i suoi multipli, e dal numero dieci, importantissimi per la mistica medievale. Il tre e il dieci, che rappresentano l'uno la Trinità e l'altro la perfezione, sono i principi regolatori del poema. Nel Medioevo, infatti, si attribuiva particolare importanza ai numeri e si riteneva che la realtà circostante fosse il risultato armonico delle loro combinazioni e dei loro valori simbolici.
Le contraddizioni interne al Comune signorile
L'età dei Comuni
Nel corso del XIV secolo il Comune italiano subisce numerose trasformazioni in senso oligarchico o signorile. Le due istituzioni medievali dell'impero e del papato, già in crisi, ridimensionano la loro sfera d'influenza politica privilegiando il carattere locale. Questi mutamenti inducono gli intellettuali a sostenere differenti posizioni: alcuni sono già integrati nel sistema signorile, altri lo rifiutano in nome di quella libertà della quale il comune duecentesco si era fatto garante. Il conflitto tra i diversi modelli culturali e la progressiva affermazione del volgare toscano sugli altri dialetti costituiscono le chiavi per comprendere le contraddizioni presenti nella letteratura minore del Trecento.
Le opere dei minori
Sulla scia del Tesoretto, del Fiore e della Commedia dantesca, la cui fortuna crebbe grazie all'opera dei commentatori, fiorisce una letteratura didattico-allegorica priva di soluzioni e di proposte veramente nuove e originali.
Il poeta stilnovista Francesco di Neri da Barberino, vissuto tra il 1264 e il 1348, autore dei Documenti d'Amore - in versi volgari con commento latino - e del Reggimento e costumi di donna, nel quale, sostenendo la teoria della nobiltà d'animo e non di stirpe, fornisce ammaestramenti di cortesia e nobiltà.
Nel Dottrinale, Jacopo Alighieri tenta di allestire un'opera che ricalchi la struttura di quella paterna, ma sortisce l'esito di una confusa raccolta di concetti scientifico-morali privi di organicità. L'aspetto didattico prevale nel Quadriregio del domenicano Federico Frezzi, componimento che narra le vicende del viaggio immaginario nei regni del vizio e della virtù. Tra le opere a carattere enciclopedico spicca il Dittamondo di Fazio degli Uberti, autore anche di una raccolta di Rime. In polemica con i sostenitori di Dante, Cecco d'Ascoli compose l'Acerba per confutarne la concezione del mondo, le idee sulla nobiltà e la pretesa di mescolare scienza e finzione poetica. Per la produzione storiografica, sebbene in versi, i sirventesi di Antonio Pucci (1310-1388), autore del Centiloquio, narrano con toni encomiastici gli eventi più importanti di Firenze. Di forma più popolare sono i romanzi in prosa di Andrea da Barberino (1370-1431) che ripropongono le tematiche cavalleresche di derivazione francese: Guerrin Meschino, l'Aspromonte, i Reali di Francia. Nel Fiore d'Italia si propone di narrare in chiave romanzesca la storia di Roma.
Dino Compagni e Giovanni Villani
Monumento ad Arrigo VII di Tino di Camaino
Contemporaneo di Dante, Dino Compagni (1225-1324) fu spettatore e protagonista - rivestì la carica di priore nel 1301 - della vita politica fiorentina che descrisse nella Cronaca delle cose occorrenti ne' tempi suoi.
Nell'opera, redatta all'incirca dieci anni più tardi, si narrano le vicende della città dalla formazione dei partiti dei guelfi e dei ghibellini (1215) fino alla discesa di Arrigo VII di Lussemburgo, nel 1312. Nella sua trattazione il Compagni si concentra sulla storia attuale, per cui la sua opera ha la fisionomia di una discussione politica assai fervida e partecipata. Ne deriva il tono drammatico del racconto e l'incisività dei ritratti umani delineati dall'autore. Ben diversa è la Cronica di Giovanni Villani, esponente della borghesia mercantile fiorentina. Il senso pratico e l'amore per la concretezza tipico della sua classe si ritrovano nella descrizione a tutto campo che il cronista fornisce degli eventi, registrando fatti politici, ambientali e sociali. Villani riflette ancora nella sua opera una concezione tipicamente medievale: la storia non è opera di uomini ma del volere di Dio, e le discordie fiorentine sono generate dai peccati dei cittadini. Principale documento storico-letterario per la peste nera che colpì Firenze nel 1348, la Cronica fu continuata dal fratello Matteo fino all'anno 1363 e dal figlio di quest'ultimo, Filippo, fino al 1364.
Gino Capponi e Jacopo Passavanti
I tumulti cittadini della rivolta dei Ciompi e la personalità politica di Cola di Rienzo furono oggetto rispettivamente dei Commentari del tumulto dei Ciompi di Gino Capponi e dell'anonima Vita di Cola di Rienzo. Il genere della lauda continuava ad avere fortuna soprattutto per il progressivo sdoppiamento del quale era stata protagonista: accanto infatti alle forme liriche che avevano subito gli influssi delle composizioni musicali dell'Ars nova polifonica, la lauda drammatica accentuava gradualmente i caratteri di sacra rappresentazione, elaborando allestimenti scenici di crescente e suggestiva complessità.
Fra le composizioni in prosa è degna di nota l'opera del domenicano Jacopo Passavanti (1302-1357), famoso predicatore, il quale nei suoi sermoni unisce alla vivacità espositiva il rigore teologico tipico del suo ordine d'appartenenza, tutto nutrito della scolastica di San Tommaso. Nelle pagine dello Specchio di vera penitenza, che accoglie le prediche tenute nel 1354 in occasione della quaresima, domina un cupo pessimismo che si traduce in tonalità tetre e piene d'angoscia. A differenza della poesia di Passavanti la visione religiosa di Santa Caterina da Siena (1347-1380) è animata da un forte senso positivo.
Palazzo dei Papi ad Avignone
Oltre al Dialogo della divina provvidenza, nella quale è testimoniata una forte carica mistica tutta pervasa da un complesso travaglio spirituale, ci rimangono le Lettere, opera in cui Caterina affronta problemi politici e religiosi quali la riforma della Chiesa, il ritorno del papa a Roma dopo la cattività avignonese e la pace in Italia.
Il Preumanesimo letterario
Nella seconda metà del Trecento la diffusione della cultura provocò un rinnovato interesse per le opere dei classici latini da parte di notai, giuristi e grammatici che volgarizzano e studiano la metrica dei classici. I principali centri di questo fervore culturale si collocano a Padova, Verona, Vicenza e Bologna. L'ammirazione per il mondo latino spinge a una rilettura filologicamente più rigorosa dei testi prodotti in epoca classica così da trarne una lezione di stile e di vita.
Albertino Mussato
Tra le figure più illustri del "preumanesimo padovano" ricordiamo quella del notaio Albertino Mussato (1261-1329). La sua opera si ispirò allo studio di Seneca, del quale riprese lo stile nella tragedia Ecerinis, che rievoca le imprese di Ezzelino da Romano, signore della Marca trevigiana. La sua attività storiografica annovera la Historia Augusta, in sedici libri, nella quale si narra la vita dell'imperatore Arrigo VII e la sua discesa in Italia, e il De gestis Italicorum post Henricum VII Cesarem, in quattordici libri.
Con le Epistole, Mussato cercò di contagiare gli intellettuali con l'interesse per i classici inaugurando un "genere" di corrispondenza letteraria destinata a grande successo.
Tra prosa profana e fede religiosa
Frattanto il dibattito sui valori propugnati dalla poesia profana e i principi della fede cristiana sono al centro delle discussioni teoriche fra preumanisti e domenicani. In difesa degli insegnamenti e del messaggio morale della poesia si schierano ripetutamente sia Petrarca sia Boccaccio. Fonte di bellezza e di elevazione morale le argomentazioni di Boccaccio a favore della poesia vennero riprese da Coluccio Salutati e da Enea Silvio Piccolomini. Il dibattito trovò l'epilogo nel 1412 con la Lucula noctis di Giovanni Dominici, domenicano che condannò con forza la morale proposta dalla lectio poetarum.

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