dante alighieri

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Testo

Dante
Dante nacque a Firenze nel 1265 da una famiglia della piccola nobiltà cittadina di parte guelfa. Non abbiamo notizie certe sulla sua formazione:nell’inferno presenta Brunetto Lantini come suo maestro. Imparò da sé “l’arte di dire parole per rima”, leggendo i poeti provenzali, i siciliani, Guittone, Guinizzelli,subendo anche l’influenza dell’amico Cavalcanti, più anziano di lui.La sua esperienza di questi anni giovanili si compendia intorno alla figura di una donna che egli chiama Beatrice e che si carica di complessi significati, restando poi il cardine di tutto il suo percorso successivo. La morte di Beatrice nel 1290 segna x Dante un periodo di smarrimento, ma costituisce anche lo stimolo ad uscire dal mondo chiuso e rarefatto dello stilnovismo.Si rivolge agli studi filosofici;approfondisce la sua cultura poetica leggendo i poeti latini, in particolare Virgilio,che considera suo “maestro” e suo “autore”;riscopre inoltre i grandi poeti provenzali, soprattutto il caposcuola del trobar clus (poesia astrusa e raffinata) Arnaut Daniel;e si accosta anche alla poesia burlesca e realistica. A partire dal 1295 si avvicinò alla politica, Dante entrò nell’Arte dei Medici e Speziali (allora stretti rapporti tra filosofia e scienze naturali) e nel 1300 fu eletto tra i Priori, la suprema magistratura cittadina. Il Comune fiorentino è lacerato fra le fazioni dei Guelfi Bianchi e dei Guelfi neri e minacciato nella sua autonomia dalle manovre del papa Bonifacio VIII che, approfittando del fatto che gli imperatori di Germania si disinteressavano dell’Italia, mirava ad imporre il dominio della Chiesa sulla Toscana. Dante aveva a cuore sia la pace sia l’autonomia esterna del Comune e si adoperò con ogni mezzo x ristabilire la concordia fra i cittadini e per contrastare i maneggi del papa. Pur essendo al di sopra delle parti fu + vicino ai Bianchi, che difendevano la libertà di Firenze,mentre i Neri appoggiavano sempre + scopertamente la politica di Bonifacio VIII. Il legato pontificio Carlo di Valois favorì invece i Neri e questi nel 1301 si impadronirono di Firenze. Nel 1302 Dante fu condannato all’esilio con l’accusa di baratteria (corruzione nell’esercizio delle cariche pubbliche). Nei primi tempi dante non rinunciò alla speranza di ritornare in patria e si unì agli altri esuli Bianchi. Ma dopo un tentativo fallito di rientrare con la forza, iniziò il suo pellegrinaggio per varie regioni italiane. Continuava però a pensare a Firenze e questa nostalgia affiora frequentemente dalle sue opere. Però l’esilio valeva ad allargare ulteriormente i suoi orizzonti da Firenze all’Italia e al mondo intero. Nel 1315 Dante rifiutò un’amnistia x il rientro a Firenze che aveva come prezzo il riconoscimento della propria colpevolezza e un’umiliazione pubblica. Negli ultimi visse a Ravenna dove morì il 14 settembre 1321.
Firenze era un ambiente culturale ricco di fermenti in cui varie tendenze coesistevano fianco a fianco. Dante cominciò ben presto a dedicarsi alla poesia e il suo apprendistato poetico è documentato nelle RIME. Tra i vari indirizzi culturali sceglie quelli più ardui e raffinati, orientandosi verso la lirica d’amore di ascendenza cortese. Le sue prime prove riprendono il modello guittoniano ma subentra l’amicizia con Guido Cavalcanti e nasce quel gruppo di spiriti eletti, orgogliosi della propria “altezza d’ingegno”. Chiusi in un’aristocrazia d’élite dell’intelligenza, che viene designato comunemente con la formula dantesca di DOLCE STIL NOVO. ( Guido, i’vorrei che tu Lapo ed io qui il poeta vagheggia un sogno di evasione accanto agli amici poeti e alle donne amate in un mondo sereno e fuori del tempo che ha la fisionomia fiabesca delle leggende arturiane) Da questa influenza però Dante ben presto si libera, intraprendendo una strada che lo distacca nettamente dallo stilnovismo precedente.
Dopo la morte di Beatrice, Dante decise di raccogliere, dal complesso delle liriche scritte fino a quel momento, quelle più significative, facendole precedere da un commento
in prosa che spiegasse l’occasione in cui i singoli componimenti erano nati, e facendole seguire da un commento retorico. La prosa dantesca (grandissima novità perché prima i poeti avevano raccolto solo canzonieri) vale ad individuare nelle poesie un senso profondo ed unitario, la linea di svolgimento di una decisiva vicenda interiore. L’opera, compiuta fra il 1293 e il 1295, fu intitolata VITA NUOVA proprio ad indicare il rinnovamento spirituale determinato nel poeta da un amore eccezionale ed altissimo. Nella narrazione torna costantemente il numero 9 che, rimandando alla Trinità, possiede una scoperta valenza simbolica ed allude al carattere miracoloso della donna. La Vita Nuova si presenta dunque come ricapitolazione di un’esperienza passata, e al tempo stesso come ricostruzione del suo significato profondo: un’esperienza sentimentale e intellettuale insieme, di vita e di poesia, così unite tra loro da non potersi distinguere. Dante mira soprattutto a cogliere i significati segreti che stanno al di là delle esperienze reali ed a comporli in una vicenda esemplare, valida universalmente, sottratta ai limiti del tempo e dello spazio. Da qui il carattere irrealistico della narrazione dantesca. Tra i fatti della vita quotidiana viene operata una rigorosissima selezione, che lascia filtrare solo pochi gesti, poche azioni, stilizzati e come rarefatti, privati di ogni urgenza fisica immediata, ridotti a pure cifre immateriali:incontri, sguardi, saluti, gentili colloqui, solitarie passeggiate, lacrime, sospiri. Ne deriva l’impressione di un mondo diverso da quello reale, impalpabile ed evanescente, immerso come in un’atmosfera stranita, di sogno. Il libro è suddiviso in tre parti: nella prima si tratta degli effetti che l’amore produce sull’amante; nella seconda si ha la lode della donna; nella terza, la morte della “gentilissima”. A queste tre corrispondono tre diversi stadi dell’amore. Nel primo esso rientra ancora pienamente in quelli che erano i canoni dell’amor cortese, secondo cui l’amante poteva sempre sperare una ricompensa al suo amore da parte della donna. Nel secondo stadio egli non ama + la donna x averne qualcosa in cambio ma l’amore diviene fine a se stesso, l’appagamento consiste solo nel contemplare e lodare la creatura altissima che è in terra come un miracolo. L’amore x Beatrice si è innalzato a un livello ben superiore a quello cortese dei trovatori. L’amore non è + una passione terrena, sia pur sublimata e raffinata, non si limita ad ingentilire l’animo: è un aspetto di quell’amore di cui parlano mistici e teologi, la forza che muove tutto l’universo, che innalza le creature sino a ricongiungersi con Dio. Ma sono superati anche i termini dello stilnovismo in cui era inevitabile un conflitto tra l’amore x la donna e l’amore x Dio, in quanto x l’amante non vi poteva essere nulla al di sopra della donna. In Dante il conflitto è superato: la donna è da tramite nell’amore x Dio (uomo(donna(Dio). Nel terzo stadio dell’amore nella Vita Nuova l’amore x la donna innalza l’anima sino alla contemplazione del cielo (Oltre la spera che più larga gira : l’Amore mette nel pensiero del poeta un’ “intelligenza nova” che gli consente di contemplare Beatrice nella gloria dell’Empireo. La Vita Nuova narra quindi di un’esperienza mistica, di un viaggio dell’anima verso Dio. I tre momenti della tradizione mistica ricalcano i tre stadi dell’ascesa dell’anima a Dio (di cui parla l’Itinerarium mentis in Deum – viaggio dell’anima di Dio – di san Bonaventura) che sono chiamati “extra nos” , fuori di noi, “intra nos”, dentro di noi, e “super nos”, sopra di noi. Nel proposito che chiude l’opera, di dire un giorno di Beatrice “quello che mai non fue detto d’alcuna” è probabilmente da vedere l’indizio che nella mente di dante si è formato il primo germe del futuro “poema sacro”, ma nonostante questo legame il passaggio dalla Vita Nuova alla Divina Commedia non è affatto diretto e immediato.
Dante narra di aver incontrato Beatrice all’età di nove anni e di averne provato una tale impressione che da quel momento Amore era divenuto il signore del suo animo. Dopo nove anni Dante incontra ancora Beatrice, e al suo saluto gli sembra di vedere “tutti li termini” della sua “beatitudine”. Da allora nel saluto della “gentilissima” egli ripone tutta la sua felicità. Però, seguendo rigorosamente i rituali dell’amor cortese, si sforza di tener nascosta a tutti l’identità della donna amata; perciò finge di rivolgere il suo amore ad altre donne, che chiama “dello schermo” perché proteggono il suo amore dall’invidia dei “malparlieri”. La finzione suscita tuttavia le chiacchiere della gente, e ciò provoca lo sdegno di Beatrice, che gli nega il saluto. La privazione del saluto della sua donna genera nel poeta uno stato di profonda sofferenza: in questa sezione del libro viene utilizzata come modello la poesia di imitazione cavalcantiana, imperniata sull’analisi dei tormenti provocati dall’amore. Dante si rende conto però che il fine del suo amore deve essere posto non più nel saluto, ma in qualche cosa che “non gli puote venire meno”: le parole che lodano la sua donna. Di conseguenza decide di assumere per la sua poesia una “matera nuova e più nobile che la passata”, non più la descrizione delle sue sofferenze ma la lode della “gentilissima”. Comincia così la sezione dedicata alle rime in lode di Beatrice. Ma una visione, avuta durante una malattia, preannuncia al poeta la morte della donna. Dopo poco tempo, Beatrice muore realmente. Per il poeta trascorrono giorni di grande dolore, ed egli trova consolazione nello sguardo pietoso di una “donna gentile”. La tentazione di un nuovo amore è vinta da una visione, in cui Beatrice appare al poeta come la prima volta che gli era apparsa in sogno. Tutti i pensieri di Dante tornano allora a Beatrice; e l’ “intelligenza nova” che Amore mette in lui lo innalza sino all’Empireo, la sede dei beati, dove ha la visione ineffabile di Beatrice splendente tutta di gloria del paradiso. È questo l’argomento dell’ultima poesia del libro, Oltre la spera che più larga gira. Nel capitolo successivo, che chiude l’opera, Dante narra di aver avuto un’altra “mirabile visione”, che lo induce a non parlare più di “questa benedetta” fino a quando non possa “più degnamente trattare di lei”. Si augura perciò di poter vivere tanto da arrivare a “dicer si lei quello che mai non fue detto d’alcuna”.
L’esperienza filosofica e politica si riflettono soprattutto nelle Rime scritte dopo la Vita Nuova. Nel Convivio Dante racconta come, dopo la morte di Beatrice, fosse sorta in lui una passione ardente per la filosofia (identificata allegoricamente con la “donna gentile”che aveva consolato il suo dolore). Nell’allegoria amorosa si esprimono le l’ardore intellettuale e l’ansia di conoscenza, che da questo momento divengono aspetti essenziali della poesia dantesca. Però poi abbandona l’allegoria e affronta direttamente la materia concettuale, passando a trattare problemi morali, in questo caso la definizione della vera nobiltà. L’adozione di nuovi contenuti implica anche l’abbandono dello stile “dolce” tipico della poesia amorosa precedente e determina l’uso di una rima “aspra e sottile”, che traduca lo sforzo di esporre nudi concetti, non più velati di leggiadre immagini amorose. In queste canzoni Dante si misura con problemi vivi nella società del suo tempo, assumendo la posizione del conservatore, del difensore dei valori del passato contro la corruzione del presente. Nel suo atteggiamento polemico si manifesta una rigorosa tempra morale, una visione della vita sorretta da incrollabili principi: al poeta d’amore, chiuso nel rarefatto mondo dello stilnovismo, subentra l’austero “cantor recitudinis” (cantore della virtù) come Dante amerà chiamarsi in seguito. La scoperta della politica avvenne proprio in quel periodo e suggerì al poeta un ideale di vita attiva, di impegno civile ispirato al rigore morale e alle più alte idealità cavalleresche. Ma questi anni che intercorrono tra la morte di Beatrice e l’esilio costituiscono per Dante un periodo di intense sperimentazioni. Se nelle grandi canzoni allegoriche e morali egli ricerca uno stile sublime, dotto ed elevato, percorre poi anche la via della poesia comica e burlesca, viva nella cultura del suo tempo. L’interesse pere la poesia comico-parodica è documentato dalla “tenzone” con l’amico Forese Donati, composta tra il ’93 e il ’96, uno scambio di sonetti pieni di mordaci invettive, in cui Dante sperimenta un linguaggio basso e plebeo, denso di rimandi alle realtà + quotidiane e corpose, ma impiegato con estrema abilità tecnica. Quasi contemporaneamente si verifica l’incontro di dante con la poesia trobadorica del periodo aureo e soprattutto con il trobar clus dell’elaboratissimo e astruso Arnaut Daniel. Da qui il gruppo delle RIME PETROSE (1296) così chiamate perché dedicate ad una madonna Pietra, bella e insensibile (forse un’altra personificazione allegorica della Filosofia). In queste rime si riversa una passione sensuale, dalla forte carica erotica, lontanissima dalle estasi e dai rapimenti stilnovistici. Negli anni dopo l’esilio la visione di dante si fa sempre + cupa: il mondo ai suoi occhi pare sprofondare in una totale abiezione. Un intenso desiderio di pace e giustizia, che componga il mondo umano secondo l’ordine perfetto del mondo divino; e del vedere una realtà che è il rovesciamento totale delle sue aspirazioni e dei suoi ideali nascono gli sdegni e le ire di dante.
Il CONVIVIO (=banchetto) scritto tra il 1304 e il 1307. negli intenti dell’autore doveva essere una vasta enciclopedia, in cui si raccogliesse tutto lo scibile umano. Con essa, Dante si proponeva di dimostrare la propria dottrina, per difendere la propria fama dalle ingiuste accuse che gli erano state mosse dai concittadini che l’avevano esiliato. Doveva comprendere 15 trattati, il 1° introduttivo, mirante a spiegare le ragioni dell’opera, gli altri costruiti come commenti ad altrettante canzoni, allegoricamente interpretate. È una serie di poesie inserite in un commento in prosa per esporre dottrine e concetti: l’amore di cui qui Dante parla è solo quello, in lui ardentissimo, per la sapienza; in secondo luogo vi è un fattivo impegno con la realtà morale e civile. Il progetto però non fu portato a compimento; furono composti solo i primi 4 trattati, in cui venivano commentate tre canzoni, Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete, Amor che ne la mente mi ragione, Le dolci rime d’amor ch’i’ solia. Nel 1° trattato, che ha funzione di proemio, lo scrittore espone i fini dell’opera: egli vuole offrire un “banchetto” di sapienza, ma non ai dotti, bensì a tutti coloro che, per “cure familiari e civili”, non abbiano potuto dedicarsi agli studi. Per questo non scrive in latino, usato solitamente per le opere dottrinali, ma in volgare di cui pronuncia un’appassionata esaltazione proclamando che la sua dignità è pari a quella del latino. Dante mira a un pubblico “nobile”, di una nobiltà che può essere di nascita ma anche solo spirituale ed etica; un pubblico quindi che sia capace di rivolgersi alla cultura in forma disinteressata, per puro amore di conoscenza, non per motivi di lucro, come fanno gli intellettuali di professione. Nel 2° trattato Dante spiega il metodo che seguirà nel commento alle proprie canzoni, un metodo di sola lettura allegorico; poi, passando a commentare la prima canzone, offre una descrizione dei cieli e delle gerarchie angeliche da cui essi sono governati, in cui si può ravvisare l’impianto che sarà alla base del Paradiso. Il 3° trattato è tutto un inno alla sapienza, che per Dante è la somma perfezione dell’uomo. Nel 4° trattato viene infine affrontato un problema morale a quel tempo molto discusso, quello della vera nobiltà. Dante, confutando una tesi dell’imperatore Federico II, sostiene che la nobiltà non è solo privilegio di sangue ma conquista personale attraverso l’esercizio della virtù. In quest’ultimo libro trova posto una prima enunciazione della teoria politica di Dante, incentrata sulla necessità di un impero universale. La prosa volgare del Convivio è diversa da quella della Vita Nuova: è una prosa costruita per il ragionamento e l’argomentazione, più tesa e robusta. Vi si nota già la volontà di riprendere il modello degli scrittori latini, facendo gravitare intorno alla proposizione principale le proposizioni subordinate, disposte per grado di subordinazione. La sicurezza nell’impianto della scrittura fa del Convivio il 1° esempio di vera prosa volgare italiana, lontana dagli impacci e dalle goffaggini così come dalla gracilità di tanta prosa duecentesca.
Il DE VULGARI ELOQUENTIA è nato dal proposito di fornire un trattato di retorica che fissi le norme della lingua volgare,del quale si conclude il processo di affermazione come lingua della cultura. L’obiettivo della trattazione di Dante è la lingua letteraria, anzi, un determinato livello di tale lingua, quello più elevato e sublime. Scritta in latino l’opera doveva comprendere almeno 4 libri ma rimase interrotta a metà circa del secondo. Il 1° libro imposta il problema del “volgare illustre”, cioè della formazione di un linguaggio adatto ad uno stile sublime che tratti argomenti elevati ed importanti. La retorica medievale classificava uno stile sublime o “tragico”, uno mezzano o “comico” ed uno umile o “elegiaco”. Il volgare illustre, secondo Dante, deve essere “cardinale” (nel senso che esso è il cardine intorno a cui devono ruotare tutti i volgari municipali), “aulico” (perché se gli italiani avessero la reggia, esso sarebbe proprio del palazzo reale) e “curiale” (perché risponde a quelle esigenze di eleganza e dignità che si possono avere solo nelle “excellentissimis curiis” – eccellentissime corti). Dante passa in rassegna tutti i dialetti d’Italia alla ricerca di quel “volgare illustre” al quale egli mira, ma non riesce a rintracciarlo in alcuno di essi. L’elaborazione del volgare illustre toccherà allora ai letterati e ai dotti sparsi nelle varie città d’Italia. Nel 2° libro sono definiti invece gli argomenti per i quali occorre lo stile “tragico”: e sono per Dante le armi, l’amore, la virtù. Il De vulgari eloquentia, ammettendo anche gli argomenti epico-guerreschi e quelli morali segna un notevole allargamento del campo poetico della nuova lingua letteraria. La presa di coscienza teorica di quell’ampliamento d’orizzonti che si era verificato nella poesia dantesca e che si era manifestato nelle rime d’argomento morale e politico posteriori al giovanile periodo stilnovistico.
Un intenso lavoro di riflessione politica prende corpo nella MONARCHIA e in alcune delle EPISTOLE. La Monarchia ha le radici nel terreno vivo della realtà contemporanea: inizio del Trecento – rapido logoramento delle due massime istituzioni del Medio Evo, l’Impero e la Chiesa. In questa duplice decadenza Dante individua le cause dell’abiezione in cui è piombata l’umanità, privata delle due guide, quella temporale e quella spirituale, stabilite per essa da Dio. L’arrivo dell’imperatore Enrico VII di Lussemburgo è accolto da Dante con tre epistole politiche in latino in cui vibrano le sue speranze per l’impresa, lo sdegno per gli intrighi di chi la ostacola, i timori di un fallimento. Sotto lo stimolo di questo capitale evento politico nasce anche il De monarchia: scritto in latino e suddiviso in 3 libri. Nel 1° si dimostra la necessità di una monarchia universale. Il 2° dimostra come l’autorità sia stata concessa da Dio al popolo romano. Il 3° libro affronta il rapporto tra Impero e Chiesa, Dante afferma che i due poteri sono autonomi, poiché entrambi derivano direttamente da Dio. Il loro rapporto non è come quello del sole, che brilla di luce propria, con la luna, che brilla di luce riflessa, ma come quello fra “due soli”. La loro sfera d’azione è però diversa: l’Impero ha per fine la felicità dell’uomo in questa vita, la Chiesa invece il raggiungimento della beatitudine eterna. Di carattere politico è ancora l’Epistola XI (1314), un solenne rimprovero ai cardinali italiani, responsabili di aver trasferito, sotto la spinta della cupidigia, la sede papale ad Avignone. L’Epistola a Cangrande della Scala (tra il 1315 e il 1317) che contiene la dedica del Paradiso al signore di Verona ma soprattutto contiene fondamentali indicazioni sulla lettura del poema.
Dante cominciò a scrivere la COMMEDIA probabilmente dopo il 1307, nel 1319 l’Inferno e il Purgatorio erano già pubblicati mentre il Paradiso, comparve ormai postumo. Dante mise a frutto tutti gli strumenti che gli forniva la cultura del suo tempo. *Lo schema della “visione” dei regni oltremondani, delle pene dell’inferno e delle gioie del paradiso, di cui la tradizione medievale era ricca d’esempi. *Si collegava anche al genere del poema allegorico, con l’esempio del Roman de la rose. *Apporto della letteratura didattico-enciclopedica (scopo d’insegnamento di tutti gli aspetti della vita). *Lo schema del viaggio, come ricerca dell’espiazione e della salvezza, rimanda al romanzo cavalleresco del ciclo bretone. *Suggestione dei libri profetici della Bibbia e dell’Apocalisse da cui dante trae ispirazione per l’impianto e per il tono apocalittico-profetico del suo messaggio. *Influenza modello classico, specialmente Eneide. La base filosofica del poema è costituita dalla Scolastica, e soprattutto da San Tommaso, che aveva compiuto una geniale opera di fusione della filosofia aristotelica con il cristianesimo. Il poema dantesco si può considerare un equivalente in volgare delle grandi Summae del Medio Evo, con la differenza che Dante, con la sua opera, non vuole solo spiegare concettualmente il mondo, come i teologi, ma trasformarlo in conformità della missione profetica che ritiene a lui destinata, restaurandone l’ordine sconvolto. Nel poema però vi confluisce anche il filone mistico e concepiva l’ascesa a Dio non come lucido percorso intellettuale, ma come slancio d’amore, come ebbrezza di identificarsi e annullarsi nell’infinità di Dio. Dante distingue un’”allegoria dei poeti” (in cui il piano letterale è un’invenzione fittizia, sotto cui si nasconde una verità) dall’“allegoria dei teologi” (in cui il piano letterale non è fittizio ma vero, è un evento storico e reale che rimanda a significati ulteriori. Tre livelli di senso ulteriori a quello letterale: l’allegorico vero e proprio, che comprende verità generali della dottrina; quello morale, da cui si ricavano insegnamenti per la condotta dell’uomo; quello anagogico, che allude al piano trascendente di Dio. Dante ritiene che l’allegoria della Commedia sia quella “dei teologi”: ciò che narra il suo poema non è finzione ma verità storica, un fatto realmente accaduto. Non vi agisce + una pura astrazione ma un uomo reale a cui fanno da guida persone storiche (Virgilio, Beatrice e S. Bernardo). Virgilio, Beatrice e Catone hanno anche un significato ulteriore, allegorico:ma benché rappresentino la Ragione (V), la Teologia (B) e la Libertà (C) ciascuno di essi conserva pienamente la sua fisionomia individuale di persona realmente esistita, che il sovrasenso allegorico non compromette minimamente. Concezione figurale: si concepiva la storia come una catena di fatti in continua correlazione con un piano divino. In questo disegno divino ogni fatto poteva essere visto come anticipazione di altri fatti, verificatosi posteriormente. Differenza tra “figura” e allegoria: nella “figura” significante e significato sono storici e reali, nell’allegoria il significante può essere storico, ma il significato è sempre un concetto astratto, non un evento o un personaggio individuale e concreto. Nella Commedia, oltre all’allegoria, ha un ruolo determinante anche la concezione figurale. Tutti i personaggi che compaiono nelle tre cantiche, nella loro esistenza terrena erano la “figura” della loro vita nell’aldilà, e, viceversa, la loro apparizione nell’ aldilà è l’ “adempimento” della loro esistenza sulla terra. Realismo che caratterizza la rappresentazione dantesca: la condizione eterna in cui i personaggi si trovano non cancella affatto la loro personalità, ma al contrario potenzia al massimo livello le loro qualità individuali, palesa ciò che fu essenziale e decisivo nel loro carattere e nelle loro azioni.

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