Evoluzione della vita

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Testo

Le teorie enunciate sin dall'antichità per far luce sul destino delle specie possono essere distinte in due gruppi: quelle implicanti la fissità delle specie viventi e quelle implicanti una loro evoluzione. L'idea che gli esseri viventi si siano differenziati in tempi successivi a partire da un'origine comune risale alla filosofia naturalistica greca. Fra i precursori dell'evoluzionismo quale è oggi inteso si possono citare Anassimandro di Mileto, Empedocle d'Agrigento e successivamente alcuni padri della Chiesa, fra i quali sant'Agostino. Le concezioni evoluzionistiche della filosofia greca erano note durante il Rinascimento. Nessun contributo venne a questa posizione per tutto il XVIIsec., ma il XVIII sec. preparò con gli enciclopedisti un clima favorevole a essa; una visione razionale della realtà si sostituì alla visione mitica e le ricerche scientifiche, nella fattispecie quelle di sistematica, portarono a una migliore conoscenza della nozione di specie. Un notevole contributo spetta a Buffon, che peraltro non formulò esplicitamente il suo pensiero sul tema, nonché a Maupertuis ed Erasmus Darwin, nonno di Charles. Una teoria chiaramente evoluzionistica fu formulata esplicitamente per la prima volta da Lamarck, discepolo di Buffon; l'ipotesi lamarckiana fu però oggetto di aspre critiche da parte dei contemporanei, specialmente da Cuvier, che va ricordato come uno dei più accesi antievoluzionisti; paradossalmente gli importanti lavori di quest'ultimo nel campo della sistematica, dell'anatomia comparata e soprattutto della paleontologia fornirono validi argomenti alla ipotesi dell'evoluzione. A questo punto si inserisce la figura di Charles Darwin che diede alla teoria evoluzionistica la formulazione tutt'oggi accettata, come filiazione delle specie animali e vegetali da fonti unitarie, successivamente evolute per selezione di mutazioni.
Le basi sperimentali dell'ipotesi evoluzionistica sono numerosissime; le principali sono fornite dagli studi paleontologici e embriologici e anatomici.
1. Dati paleontologici. La paleontologia segue l'evoluzione storica e la filiazione delle forme viventi lungo un arco di tempo dell'ordine di centinaia di milioni di anni. I diversi tipi di vegetali e di animali sono comparsi nel tempo secondo un ordine che va dal più semplice al più complesso. La progressione del grado di organizzazione è manifesto: il momento di comparsa di un gruppo è in accordo con il posto che questo assume nella scala degli organismi; per es. fra i vertebrati gli agnati precedono i pesci, i quali sono a loro volta anteriori ai rettili, come questi agli uccelli e ai mammiferi; fra i mammiferi gli aplacentali precedono i placentali. La continuità genetica fra i gruppi successivi è dimostrata dall'esistenza delle forme intermedie, che costituiscono termini di passaggio fra i due gruppi. Tali forme intermedie hanno forme composite, con tratti caratteristici di gruppi diversi, e sono dette perciò sintetiche. Si conoscono forme intermedie fra i pesci crossopterigi e gli anfibi stegocefali, fra gli stegocefali e gli anuri. L'Archaeopteryx
rappresenta la forma di passaggio nota fra i rettili e gli uccelli; la sua struttura generale, il capo e le piume sono caratteristiche degli uccelli, ma possiede anche numerosi caratteri dei rettili: disposizione delle ossa craniche, assenza del becco, presenza di denti e di una lunga coda, ecc. Alcuni terreni sedimentati in condizioni particolari contengono serie di fossili che dimostrano l'evoluzione in situ del riccio di mare (Micraster) o di molluschi (planorbe, paludine).
2. Dati embriologici. L'ontogenesi, ovvero lo studio dello sviluppo degli individui, presenta numerosi fatti interpretabili unitariamente solo secondo l'ipotesi evoluzionistica. Il cuore del feto umano è costituito da un semplice tubo ricurvo nel quale si individuano un'orecchietta, un ventricolo e un bulbo; questa disposizione corrisponde all'assetto definitivo del cuore dei pesci. L'embrione degli amnioti possiede nella regione cervicale aperture branchiali analoghe a quelle dei pesci. Più in generale un embrione durante il suo sviluppo ripete il tipo di organizzazione di stadi adulti delle specie o gruppi inferiori che l'hanno preceduto.
3. Dati anatomici. L'embriologia mostra che, in organismi di specie diverse, da formazioni embrionali simili evolvono organi diversi, sia morfologicamente sia funzionalmente; tali organi sono detti omologhi. Spesso oltre alla affinità filogenetica essi mantengono una omologia topografica; esempio di organi omologhi sono la vescica natatoria dei pesci e i polmoni degli animali polmonati: entrambi evolvono da un'evaginazione del primo tratto del tubo digerente. Gli schemi d'organizzazione e le omologie d'organo, come le analogie fra filogenesi e ontogenesi, sono interpretabili alla luce dell'evoluzione. Un caso particolare di omologia è quello fra organi efficienti in specie ancestrali e organi rudimentali in specie più evolute, come per es. la piega semilunare della congiuntiva umana, omologa della terza palpebra di molti mammiferi.

Varie regole seguite dal processo evolutivo sono rivelate dagli studi paleontologici. Innanzitutto una legge di complessità crescente: i mammiferi di organizzazione più elevata sono comparsi più recentemente. La storia evolutiva di ogni grande gruppo presenta lo stesso andamento, che ricorda lo sviluppo dell'individuo. La nascita del gruppo è abbastanza ben definita nel tempo; il gruppo poi aumenta numericamente, si espande e si differenzia; infine si riduce e scompare, salvo il sopravvivere di alcune specie, che costituiscono i “fossili viventi”. Il gruppo compare in genere con piccole specie dette generalizzate o sintetiche (legge di Cope). Dopo la fase di espansione, durante la quale il gruppo predomina nell'ambiente, esso diventa statico, decade e viene sostituito da un altro gruppo dominante; questa successione costituisce la legge di ricambio, fenomeno caratteristico dell'evoluzione. In numerose linee evolutive si osserva che le successive mutazioni portano verso tipi di organizzazione sempre più specializzati (v. ORTOGENESI
). Un organo scomparso durante l'evoluzione non ha probabilità di ricomparire nelle specie successive, ovvero l'evoluzione regressiva è irreversibile (legge di Dollo); se ricompare un
organo con funzioni simili a quelle dell'organo scomparso, esso ha origini filogenetiche differenti.
L'evoluzione è un fenomeno che si svolge su archi di tempo molto ampi; un tubercolo di molare di un mastodonte ha probabilmente richiesto 600 mila anni per costituirsi ed altri 20 milioni di anni sono stati necessari per il costituirsi dell'intero molare. Taluni fenomeni evolutivi appaiono più rapidi che altri: l'evoluzione dei grandi gruppi pare tanto più rapida quanto più recente è la data di comparsa del gruppo. Al presente tutti i grandi gruppi paiono statici; da migliaia di anni nessuna nuova famiglia è comparsa.
Una teoria che interpreti unitariamente i fenomeni evolutivi deve rendere conto sia dei fenomeni succitati, sia dell'origine delle specie. Una tale teoria, se pur non esauriente, ha preso veste scientifica nel secolo scorso e nel presente, attraverso tappe successive, chiamate lamarckismo, darwinismo, mutazionismo, neodarwinismo e si riassume nella proposizione che l'evoluzione avviene per selezione naturale delle mutazioni spontanee.
La collaborazione di tutti i dati acquisiti nel campo della biologia negli ultimi anni ha fatto progredire la teoria dell'evoluzione. Così le differenze degli amminoacidi nella molecola del citocromo delle diverse piante e animali sono tanto più grandi quanto più gli alberi genealogici, basati sull'anatomia comparata, indicano la distanza tra gli organismi esaminati. Anche i meccanismi in atto, che rappresentano le cause del processo evolutivo, sono stati identificati e meritano un cenno. Essi sono: la mutazione, la selezione, la segregazione e la deriva genetica. Darwin aveva un'idea precisa solo sulla selezione e parla di segregazione; vedeva la necessità di cambiamenti, ma non aveva idee chiare sulla mutazione, forse perché non conosceva ancora le leggi dell'ereditarietà che vennero scoperte, sette anni dopo la sua opera, dal Mendel e conosciute dopo oltre trent'anni, grazie alle ricerche di K. Correns, H. De Vries e E. Tschermak.
Le mutazioni: pochi anni prima lo stesso De Vries, studiando alcune piante, tra cui particolarmente l'Oenottera lamarckiana, si accorse che certi individui differivano da altri per alcuni caratteri (aspetto dei fiori o delle foglie) che erano ereditari, cioè trasmessi alla discendenza. A queste differenze dette il nome di mutazioni e, già all'inizio del XX sec., mutazioni vennero descritte in piante e animali. Lo zoologo statunitense T. H. Morgan studiò lungamente queste mutazioni nel moscerino del mosto (Drosophila) e mise in evidenza la frequenza con cui esse insorgono negli allevamenti, rilevò anche che si ereditavano secondo le leggi di Mendel e scoprì che risiedevano nei cromosomi. Le mutazioni infatti apparivano corrispondere a brevi segmenti disposti lungo i cromosomi, per cui Morgan arrivò alla conclusione che i caratteri ereditari si identificano con i geni regolarmente disposti lungo i cromosomi. I geni mutano, le mutazioni che appaiono visibili sono pertanto quelle dei geni e si osservano negli animali, nelle piante e nei virus. Oggi, per esempio, crediamo che le grandi epidemie di influenza siano dovute a mutazioni del virus dell'influenza, che per una mutazione cambia alcuni caratteri, così da divenire attivo anche
negli individui immunizzati da precedenti forme influenzali, determinate da virus che non presentavano quella mutazione. Le mutazioni si distinguono di solito in geniche, cromosomiche o genomiche. Molte mutazioni non sono compatibili con la vita: sono le cosiddette mutazioni letali. Altre sono compatibili e sarà la selezione a determinare la sopravvivenza degli individui che le presentano e, di conseguenza, la loro importanza per l'evoluzione. La presentazione fatta da Darwin della selezione rappresenta una pietra miliare nello sviluppo della scienza e della filosofia. In ogni popolazione di viventi c'è un eccesso di individui rispetto alle possibilità di vita. Questo fatto porta a una concorrenza tra gli individui per sopravvivere. Sopravvivono quelli che presentano una mutazione che li
rende meglio adatti all'ambiente nel quale vivono. Così, per esempio, i pesci hanno un forma perfettamente rispondente alle leggi dell'idrodinamica e possono agevolmente spostarsi nelle acque, sfuggire al nemico e inseguire la preda. Questa selezione naturale è stata paragonata da Darwin alla selezione artificiale operata dagli agricoltori e dagli
allevatori che, nel corso dei secoli, hanno preferito allevare quegli individui che presentavano caratteri più interessanti: maggiore quantità di uova deposte dalle galline, maggiore produzione di latte dalle vacche, ecc. Così, per esempio, diversi bisogni dell'uomo hanno favorito l'origine delle razze di cani (guardia, caccia, gusto estetico) che si sono differenziate negli ultimi 10.000 anni. Alla selezione sembrano dovuti tutti i fenomeni noti comunemente come adattamento all'ambiente. É ovvio infatti che tra due mutazioni, una perfettamente rispondente all'ambiente e l'altra non rispondente, venga selezionata la prima. Si spiegano in tal modo i colori simpatici e il mimetismo: a esempio le farfalle (Kallima), che vivono sulle piantagioni di tabacco, ad ali chiuse somigliano a una foglia di tabacco della quale hanno il colore, e gli uccelli che si cibano di quelle farfalle non riescono in distanza a riconoscerle.
Segregazione: se mutazione e selezione fossero gli unici fattori dell'evoluzione, difficilmente potrebbero differenziarsi le varie razze e specie. Occorre una qualche condizione per cui individui, che presentano una mutazione, non si mescolino con altri. Così per esempio anatre artiche, che vivono nel medesimo ambiente, differiscono tra loro perché la maturazione e l'epoca degli amori avvengono in momenti differenti dell'anno: in questa maniera lo scambio di geni tra i gruppi non può avvenire. ln analoga situazione si trovano testuggini che vivono in due isole vicine. Nei due esempi presentati si tratta sempre di segregazione: segregazione fisiologica nel primo, segregazione geografica nel secondo.
La deriva genetica:è un fenomeno posto in evidenza dalle ricerche di genetica delle popolazioni. Esso è indubbiamente di notevole importanza per valorizzare i fenomeni di segregazione. Se si aggregano pochi individui di una popolazione numerosa nella quale sono presenti parecchie mutazioni (e cioè geni mutati) la frequenza dei singoli geni nei pochi individui mutati sarà diversa da quella della popolazione di partenza. È per questo che, in piccole popolazioni segregate, si possono osservare notevoli differenze non solo rispetto alla popolazione originaria, ma anche tra i singoli individui. Lo studio dei gruppi sanguigni delle popolazioni delle alte valli dell'Appennino Emiliano dimostra fatti di questo genere. Queste popolazioni si sono verosimilmente segregate dalla popolazione etrusco-romana della pianura padana al momento delle invasioni barbariche. La mutazione, la selezione, la segregazione e la deriva genetica cooperano tra loro nel diversificare i vari gruppi di individui riuscendo così a accentuare le differenze, raggiungendo in molti casi il differenziamento fino alla separazione tra loro di specie diverse.

Può essere studiata su proteine oppure su molecole di DNA. Il confronto della stessa proteina in organismi differenti permette di solito di rilevare che nel corso dell'evoluzione
si sono venute manifestando fra loro un certo numero di differenze di solito sotto forma di sostituzioni di amminoacidi, talvolta come rimozioni o addizioni di amminoacidi. Il numero di proteine sulle quali è possibile affrontare studi di evoluzione molecolare non è molto alto, e comprende proteine quali fibrinopeptidi, insulina, ribonucleasi, immunoglobulina (catena leggera), citocromo ed emoglobina. Le ultime due proteine sono le più studiate. Nel caso dell'emoglobina, è possibile ricostruire una vera e propria storia evolutiva della molecola proteica che la compone, la globina. Da una proteina ancestrale, circa 900 milioni di anni fa, si formarono una molecola di emoglobina (per il trasporto di O2) e una di mioglobina (per l'immagazzinamento di O2). Al momento della comparsa dei pesci superiori, 500 milioni di anni fa, la linea evolutiva dell'emoglobina si divise producendo due tipi di molecole distinte, le e le , che si associarono nelle emoglobine tipiche di moltissimi vertebrati, a formare il complesso indicato come 22. In seguito, 200 milioni di anni fa, la linea si divise ancora originando le catene , tipiche dell'embrione e del feto dei mammiferi. Questi differenziamenti si sono originati in diversi modi, anche se è frequente il caso in cui il materiale genetico si duplica: i geni duplicati sono il substrato grezzo dell'evoluzione molecolare. Se, per esempio, in uno dei due insorge una mutazione, questa porta, se adattativa, alla comparsa di una molecola variante, se letale viene compensata dalla presenza della proteina identica funzionale codificata dal secondo gene. Anche per le macromolecole si parla di velocità di evoluzione, in termini di periodo evolutivo unitario (per esempio u) che, pur essendo costante per ogni proteina, è diverso da caso a caso: per esempio le molecole di emoglobina evolvono più rapidamente di quelle di citocromo c. Il fattore principale che regola questo parametro è la complessità delle interazioni che le molecole stabiliscono con altre molecole o con sostanze chimiche endocellulari. I fibrinopeptidi A e B che si originano dalla attivazione del fibrinogeno sono soggetti a cambiamenti evolutivi molto rapidi (per esempio u = 1,1 milione di anni) perché con la loro liberazione esauriscono praticamente la propria funzione, dato che non interagiscono con altre sostanze. Le emoglobine, al contrario, interagiscono con l'O2 (per esempio u = 5,8 milioni di anni); il citocromo c prende contatti specifici con i complessi enzimatici citocromoossidasi e citocromoriduttasi a livello delle membrane mitocondriali (per esempio u = 20 milioni di anni). L'istone IV ha per esempio un u altissimo (600 milioni di anni) né questo stupisce dato che, pur essendo presente in tutti gli organismi eucariotici, interagisce con la struttura più conservata che le cellule possiedano, il DNA. Lo studio dell'evoluzione molecolare è stato affrontato anche a livello del DNA stesso. È possibile misurare la distanza evolutiva tra specie diverse studiando l'omologia delle sequenze dei loro DNA, o l'uguaglianza di specifici geni. Ciò è possibile sfruttando tecniche di riassociazione di sequenze di DNA diversi sottoposti a denaturazione termica, oppure analizzando in modo diretto le sequenze di limitati tratti di DNA. Questi studi hanno portato a una conclusione inaspettata: metà dei cambiamenti nelle basi del DNA che codificano il messaggio genetico sono silenti, vale a dire danno origine a proteine con sequenze amminoacidiche inalterate. Ciò è spiegabile con la nota “degenerazione” del codice genetico che permette a più triplette di basi di codificare per lo stesso amminoacido.
Si è perciò propensi a considerare il DNA il primo “bersaglio” della evoluzione e di conseguenza la deriva genetica come una delle maggiori forze evolutive: essa stabilizza
mutazioni puntiformi apparse casualmente nel DNA. Queste, sommando la loro azione alle possibilità di duplicazione, traslocazione e ricombinazione degli acidi nucleici, contribuiscono ad assicurare la continuità evolutiva del DNA. In questo contesto le proprietà particolari delle proteine sono solo un aspetto del processo cumulativo dei cambiamenti mutazionali: le sostituzioni amminoacidiche, sia quelle che influiscono sulla funzione delle proteine sia quelle che non hanno influenza, possono occasionalmente diventare adattative e venire così fissate in proteine con nuove proprietà funzionali; ma in ogni caso rimangono nel DNA dove assicurano a questa macromolecola la variabilità necessaria perché essa possa perpetuarsi nel tempo.

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