La necropoli di Tarquinia

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Necropoli di Tarquinia
Scoperta nel XV secolo, anche se la sua esistenza era nota già in età romana, la necropoli etrusca di Tarquinia cominciò a essere esplorata sistematicamente a partire dal Settecento. La storia degli scavi e l’accurata analisi storico-artistica della ricchissima decorazione pittorica delle tombe è quello che andremo a descrivere più dettagliatamente nel breve brano sottostante.
La necropoli che si visita (altre si trovano sulle alture vicine, ma sono di scarso interesse) occupa un’area di circa 5 chilometri di lunghezza e poco meno di 1 chilometro di larghezza, nella collina immediatamente a est sud-est dell’attuale Tarquinia e a sud dell’antica, dalla quale è separata dal fosso San Savino. È detta comunemente Monterozzi dai tumuli di terra detti ipogei. La necropoli fu in uso, prescindendo dall’età arcaica, dal VII secolo a.C. fino all’età romana e presenta pertanto una grande varietà di tombe: a fossa, a corridoio, a camera con tumulo di terra, a camera senza tumulo, a cremazione; alcune sono a poca profondità, altre, in generale più recenti, a profondità maggiore. Naturalmente quelle accessibili sono soltanto le dipinte, per cui le tombe si presentano al visitatore isolate o a gruppi dando l’impressione di monumenti distaccati; in realtà tutta l’area tra l’una e l’altra di esse è occupata da un fitto numero di altre tombe oggi rinchiuse. Le tombe visitabili, benché prive delle suppellettili originarie, presentano grandissimo interesse per le decorazioni pittoriche; infatti nessun’altra necropoli etrusca conosciuta è altrettanto ricca di pitture, che costituiscono un eccezionale documento della vita civile, delle arti, dei costumi, delle credenze del popolo etrusco e dei suoi rapporti commerciali, specie con la Grecia.
La storia degli scavi delle ricche necropoli tarquiniesi non ha una vera e propria data di inizio. Già in età romana le tombe etrusche di Tarquinia, come quelle di tutti gli altri antichi centri italici, subirono saccheggi volti principalmente al recupero di materiali preziosi quali oro e argento.
Tuttavia solo alcune scoperte casuali, avvenute nel XV secolo, resero nota l’esistenza della necropoli di Tarquinia. Nel 1400 si ha infatti notizia del rinvenimento di un ricco sarcofago ove furono recuperate otto once di oro puro e quindici di oro impuro che servirà per le spese di bonifica del vicino fiume Marta. Sembra poi che, più tardi, Michelangelo traesse ispirazione dai dipinti di un sepolcro tarquiniese per un disegno di Aita, dio dell’Averno.
Nel XVIII secolo l’interesse per i sepolcri tarquiniesi si accrebbe a tal punto che veniva dato inizio ad una sistematica esplorazione che portò al recupero di ricche suppellettili ma anche al successivo abbandono dei sepolcri e dei loro dipinti che pure, al momento della scoperta, avevano suscitato tanto entusiasmo da parte degli studiosi. Conseguenza di ciò fu il decadimento e la distruzione di molte pitture che purtroppo ci sono ora solo note attraverso poveri disegni ed incerte descrizioni degli eruditi e dei visitatori.
Fra le più famose scoperte, purtroppo perdute, sono da ricordare quelle dei dipinti delle tombe della Mercareccia, della Tappezzeria, delle Ceisinae, dei Sacerdoti danzanti ecc.
Nel XIX secolo, specie per la passione degli abitanti dell’allora Corneto, crebbe ancora l’interesse e tornarono alla luce i famosi dipinti delle tombe del Triclinio, del Tifone, dei Coreuti, della Querciola, del Morto ecc. In pochi anni la conoscenza e la fama della necropoli dei Monterozzi, ove sempre più si concentrò l’attenzione degli studiosi, portò alla scoperta di migliaia di tombe, che nel 1839 aveva già raggiunto la cifra di duemila sepolcri.
Nella seconda metà dell’800, un cultore tarquiniese, il Dasti, affiancato da un grande archeologo, W. Helbig, riprese le esplorazioni, che, svolte in forma ancora più organica, fruttarono un gran numero di preziose scoperte riportando in luce seppellettili che andarono a costituire il nucleo dell’attuale Museo, allora Comunale, di Tarquinia: di questo periodo è la scoperta dei dipinti delle tombe del Citaredo e del Pulcinella.
Con il 1881 ha inizio l’interessamento alle antichità tarquiniesi del governo italiano, interessamento che si concretizza con la scoperta di numerosi sepolcri di tutti i periodi dal villanoviano alla fase tardo etrusco-romana, scoperte che vengono poi comunicate agli studiosi attraverso le relazioni che il Ghirardini ed il Pasqui fanno sulle Notizie degli Scavi. Tornano alla luce, in questo periodo, i dipinti della Tomba dei Tori e di quella della Tarantola, il cui frontoncino, distaccato, si trova ora presso il Museo Archeologico di Firenze, ed altri ancora.
Sono queste scoperte, per quanto riguarda il patrimonio pittorico tarquiniese etrusco, le ultime e più importanti avvenute in un arco di tempo che va dal XIX secolo sino ai primi decenni del XX e più precisamente sino a quando nel 1958 ebbe inizio la nuova e più grandiosa campagna di ricerche promossa dallo Stato Italiano, avvenuta in stretta collaborazione con la Fondazione Lerici del Politecnico di Milano. Sono state individuate in tal modo oltre 6000 tombe, delle quali 62 interamente dipinte, 39 dipinte con semplici elementi geometrici richiamanti le strutture delle abitazioni e 25 recanti ancora solo pochi resti delle decorazioni purtroppo quasi del tutto scomparse. Troppo lungo è l’elenco delle più importanti, delle quali ricordiamo solo le tombe delle Olimpiadi, Bartoccini, Giocolieri, Giglioli, Cacciatore, Pantere, Caronti, Nave, Scrofa Nera, ecc.
I soggetti ai quali si ispirano gli ignoti decoratori etruschi non sono che relativamente differenti tra il vecchio ed il nuovo gruppo di dipinti formanti oggi il ricco patrimonio pittorico tarquiniese. Fanno forse eccezione i dipinti delle tombe del Cacciatore, della Giglioli, della Nave, ma la maggior parte hanno per tema per lo più i giochi funebri, i banchetti, le danze, tutti motivi del resto desunti dalla vita reale e connessi alle cerimonie celebrate in onore del defunto.
La scelta del tema non è in relazione allo sviluppo cronologico e stilistico dei dipinti: anche se si può osservare come le scene di giochi e di danze ricorrono dal VI al IV secolo mentre il banchetto appare più di frequente a partire dal V. Per quanto riguarda i soggetti mitologici, allo stato attuale delle nostre conoscenze, essi sono limitati alle più antiche (Tomba dei Tori) e a quelle del tardo periodo ellenistico (Tomba dell’Orco).
Al carattere essenzialmente decorativo delle pitture più antiche (Tomba delle Pantere) e delle composizioni desunte dal repertorio mitologico greco (Tomba dei Tori) si contrappone il gusto per soggetti desunti dalla vita reale che risulta elemento determinante nel corso del VI secolo sino a rendere partecipe della scena anche il defunto, al quale si fa chiaramente allusione attraverso la parte del sepolcro oltre la quale egli è già (Tomba degli Auguri) o addirittura con la sua presenza alle cerimonie ed ai giochi che si svolgono in suo onore (Tomba dei Giocolieri). Questo realismo, che ha pochi riscontri nell’arte greca, si richiama invece all’Oriente ed in particolare ai dipinti funerari dell’Egitto per i loro soggetti desunti dalla vita reale e profondamente permeati da una mistica realtà. Quando poi nel IV-III secolo a.C. per la profonda crisi politica ed economica che investe tutta la nazione etrusca gli antichi principi religiosi consacrati nella vecchia tradizione escatologica mediterranea si affievoliscono, il problema della sopravvivenza dello spirito in un mondo dell’oltretomba (Averno) si pone in tutta la sua cruda e spietata evidenza. Così il tradizionale mondo pittorico che con i suoi colori ed i suoi sereni motivi aveva allietato il triste mondo funerario cede il posto a soggetti più tetri in cui mostruosi protagonisti abitatori dell’oltretomba e scene di dolore e di rimpianto divengono la nota predominante.
Si giunge così, attraverso questo nuovo ciclo di monumenti pittorici, agli ultimi documenti di un mondo che scompare. Tuttavia se tramontano quelle antichissime credenze che per tanti secoli avevano alimentato l’ispirazione dei decoratori degli ipogei etruschi, non muoiono certo le loro esperienze figurative che vanno a fondersi nel crogiolo della civiltà artistica dell’Italia romana.
L’ampio orizzonte decorativo affrontato nella pittura funeraria tarquiniese nelle linee generali segue quella che può essere considerata la risultante di due elementi fondamentali: il concetto religioso dell’aldilà ed il momento artistico.
La religiosità è sempre presente, indubbiamente con impostazioni filosofiche nei tempi diverse e cioè con l’assoluta certezza di un oltretomba, come attestano in particolar modo i dipinti della fase etrusco-ionica, o il dubbio, a volte atroce, che trapela da protagonisti e soggetti delle più tarde fasi ellenistica ed etrusco-romana.
Per quanto riguarda il momento artistico in cui nasce e si sviluppa il fenomeno della pittura etrusca di Tarquinia, il discorso si fa più impegnativo specie per quanto riguarda il suo rapporto con tutti gli orizzonti culturali mediterranei.
Indubbiamente gli aspetti più chiari e più significativi li abbiamo con le fasi più antiche: l’orientalizzante, dove nella tomba delle Pantere viene chiarito il problema delle origini della pittura tarquiniese ed il suo riferimento ad altri monumenti consimili di Veio e di Cervéteri, ed in quelle di poco più tarde della Capanna, dei Leoni Rossi e del Fiore di Loto viene ribadito il concetto dell’antica casa etrusca, e l’etrusco-ionica, ove il realismo, che nell’arte greca può essere considerato un’eccezione, ci riporta insistentemente all’Oriente ed in modo particolare ai dipinti funerari egiziani profondamente sublimati da mistica realtà.
È in questo periodo che nascono i più insigni monumenti della pittura etrusca, quali le tombe degli Auguri, della Caccia e della Pesca, del Barone, delle Olimpiadi, dei Giocolieri, del Morto, ecc., ove gli ignoti artisti hanno scelto temi sorprendentemente vivi ed umani.
Verso la fine del VI secolo il delicato momento tecnico evolutivo del mondo culturale greco non può non avere i suoi riflessi anche in quello tarquiniese. Gli argomenti trattati, se pur perdono le splendide e peculiari caratteristiche cromatiche della fase precedente, in un orizzonte ormai “severo”, si arricchiscono nei particolari duraturi, come avviene per il banchetto funebre che spesso non solo orna la parete di fondo della camera sepolcrale ma si estende sino ad occupare una buona parte di quelle laterali.
È il momento in cui s’inseriscono monumenti celebri quali i dipinti delle tombe del Triclinio, della Scrofa Nera, delle Bighe, dei Leopardi, ove la scienza disegnativa del nuovo gusto greco largamente condiziona i pittori tanto da rendere lecito proporre di riconoscere in alcuni di essi, e cioè negli autori degli affreschi delle tombe delle “Bighe”, del “Triclinio”, della “Scrofa Nera”, un’origine decisamente greca. Si può dire in conclusione che da questi dipinti si diparte, senza eccessivo distacco iconografico dall’antica, la nuova fase classica ed ellenistica dell’arte tarquiniese.
Nell’ultima fase di questo periodo, in dipinti come quelli nelle tombe della “Nave” e del “Guerriero”, che denunciano ormai una produzione in chiave decisamente provinciale, si determina un vuoto che è la conseguenza dell’isolamento e della incapacità interna di sviluppo derivanti da quella crisi politica, sociale ed economica che sconvolse l’Etruria sul finire del secolo.
Tale crisi politica condiziona ed indirizza il gusto delle nuove generazioni verso nuove e più crude istanze di contenuto religioso e di rappresentazione dell’oltretomba. Tutto ciò realizzato in forma fantastica e terrificante in cui si mescolano eroi greci e demoni etruschi. Tipico è, al riguardo, la figura di Charun, genio infernale, che domina il gusto dei pittori degli “Scudi”, dell’”Orco”, del “Tifone”, degli “Aninas”, dei “Festoni”, dei “Caronti”, ecc. ove accanto a patetiche scene quali quelle dei coniugi degli Scudi l’orrido dell’oltretomba insiste con inesorabile cadenza. Fra tutti eccezione va fatta per i motivi decorativi della tomba “Giglioli”, che, di repertorio, si rivelano affini a quelli della decorazione plastica della tomba dei Rilievi a Caere o per le solenni e ieratiche processioni di esseri umani che appaiono nelle tombe del “Convegno” o del “Tifone”, preziose testimonianze di esperienze figurative destinate a fondersi nel crogiolo della civiltà artistica dell’Italia Romana, in una eterna ed indistruttibile continuità di eredità spirituali e culturali.

Tomba delle leonesse
Scoperta nel 1874 questa tomba risale all'ultimo quarto del VI secolo a.C. ed è considerato uno dei più evidenti esempi dell'influenza dell'arte ionica per la sua marcata policromia, ma anche per il suo stile e per l'elevato livello qualitativo. Camera immaginata come il tendone di stoffa sorretto da un'intelaiatura lignea sotto cui si esponeva il corpo del defunto disteso sul letto intorno al quale si svolgevano gli atti rituali della cerimonia funebre. La parete di fondo fu dipinta in un primo momento ; sul suo frontone sono rappresentate due leonesse maculate affrontate mentre al centro è dipinta una scena gioiosa di danzatori e musici intorno ad un cratere a volute che non aveva funzioni cinerarie, ma conteneva vino visto.1'attingitoio dipinto sulla destra. Le pareti laterali non erano ancora state dipinte quando morì adolescente il figlio dei proprietari della tomba. Il bambino venne cremato e le ceneri deposte nell'urna cineraria all'interno della nicchia scavata nella parete di fondo. Questa triste storia è stata poi rappresentata sulle pareti laterali do ve in quattro sequenze, a partire da quella della parete di destra, è dipinto il padre che prima tiene in mano il ramoscello dell'olivo, simbolo della vita, poi 1'uovo,simbolo della fecondità, rivolto verso la sciarpa della vita, come se desiderasse avere un figlio. Nella terza sequenza è raffigurato il figlio dipinto di bianco come le donne, per evidenziare la giovane età, che tiene in mano il festone nero della morte per dimostrare che è morto e dona al padre l'uovo della fecondità come gesto di buon augurio per una prossima paternità. Il padre rivolge verso il figlio il ramoscello d'olivo e nella quarta sequenza alza verso il cielo la mano che sostiene lo scialle della vita. Il carattere delle raffigurazioni con scene riferite alla vita reale, riflette una concezione della morte secondo la quale il defunto sopravvive là dove il suo corpo è deposto.
Ricostruzione della tomba.

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