la citta di anghiari

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Testo

La città d’Anghiari
Toniato Pierpaolo
Zonta Filippo
Albanese Alessio
Ferrari Damiano
Marchesi Tommaso
Lago Nicola
Anghiari
Stato:
Italia
Regione:
Toscana
Provincia:
Arezzo
Coordinate:
Latitudine: 43° 33′ 0 N
Longitudine: 12° 3′ 0 E
Altitudine:
429 m s.l.m.
Superficie:
130 km²
Abitanti:
5.887 31-12-04
Densità:
45 ab./km²
Anghiari è uno splendido borgo medioevale situato nel territorio disegnato dallo scorrere dei fiumi Tevere ed Arno.
Bastione inviolabile grazie alle potenti mura duecentesche, ha costituito un notevole punto di riferimento per tante vicende storiche tenendo alta la bandiera della toscanità in una terra di confine ed equilibri molto delicati. Il 29 giugno 1440, la celebre, affrescata da Leonardo Da Vinci in Palazzo Vecchio, riaffermò l’egemonia fiorentina sulla Toscana.
Anghiari e il suo circondario ha conosciuto l’opera e la vita dei più grandi intelletti del Rinascimento che dall’“Intra Tevero et Arno” hanno portato in tutta Europa i semi dell’età moderna. I secoli successivi hanno lasciato segni importanti nelle chiese e nei palazzi, sviluppando un disegno urbanistico molto suggestivo raccolto lungo la ripida “ruga” che attraversa il paese rendendolo unico ed inconfondibile.
Attorniato da pievi e castelli Anghiari gode del meraviglioso scenario dell’Alta Valle del Tevere, anfiteatro naturale denso di spiritualità francescana. Un’atmosfera selvatica, incontaminata, ricca di boschi secolari punteggiati da monasteri e siti archeologici.
Le sue piazzette e vicoli stretti ospitano botteghe antiquarie e laboratori di restauro del mobile; le torri e le chiese conservano capolavori di pittura e di scultura. Tutto il centro storico offre ad ogni angolo scorci panoramici e prospettive mozzafiato.
Fiere ed esposizioni si accompagnano a mostre e feste popolari. L’attività teatrale è fervente come quella della conservazione e della diffusione delle tradizioni storiche e folcloristiche.
Paese a forte vocazione turistica, grazie anche ai suoi incantevoli panorami, Anghiari vanta origini antiche e si presenta al visitatore con un suo caratteristico aspetto medievale, posizionato su di una altura a dominio della valli del Tevere e del Sovara.
Se è già bello osservarlo dalla pianura, ancor più affascinante è il girovagare per l'antico borgo con le sue pittoresche case in pietra, i vicoli, le scale, le suggestive piazzette, testimonianze di valori storici tramandati attraverso i secoli.
Di certo fu durante il Medio Evo che Anghiari assunse la massima importanza soprattutto per
l'evidente posizione strategica: si trova nominato per la prima volta in una pergamena del 1048, conservata nell’archivio di Città di Castello, anche se i primi insediamenti furono in epoca romana.
Dominio dei Signori di Galbino prima e dei Camaldolesi poi, il paese vide uno dei momenti più importanti della sua storia nella Battaglia d’Anghiari che, il 29 giugno 1440, segnò la vittoria delle truppe fiorentine alleate con il papa sull’esercito milanese. L’importante evento fu commentato da Machiavelli e celebrato con un affresco in Palazzo Vecchio da Leonardo. Da visitare, ad Anghiari, è il Palazzo Taglieschi con il suo Museo Statale delle Arti e Tradizioni Popolari, dove sono conservati affreschi, dipinti, sculture lignee policrome (notevole è una Vergine di Jacopo della Quercia), pregevoli terrecotte invetriate, statuette devozionali, arredi sacri di varie epoche, strumenti ed armi che testimoniano sin dal passato l'abilità degli artigiani locali. Proprio questi artigiani tramandano tutt’oggi una vivissima tradizione nelle arti del ferro e del legno che li spinge ad organizzare annualmente la Mostra Mercato dell'Artigianato della Valtiberina Toscana.La manifestazione, che si svolge ogni anno tra la fine d’aprile e gli inizi di maggio, gode di gran risonanza, anche per il legame profondo che unisce questa qualificata rassegna alle botteghe di un centro storico tra i più pregevoli dell'Italia centrale, esaltandone ulteriormente la scoperta: il visitatore rimarrà affascinato girovagando per un paese che da subito appare misurato su ritmi lontani da quelli di un raccordo anulare o di una tangenziale, dove basta allontanarsi pochi passi dal centro per ritrovarsi nella pace di silenziosi sentieri immersi nel verde dei campi o nel colore argenteo degli oliveti.
Monumenti artistici ad Anghiari
La Chiesa di Santo Stefano ovvero Bisanzio ai piedi di Anghiari
All'interno di una piccola corte, abbracciata da un prato verde, la Chiesa di Santo Stefano ad Anghiari è tra le più antiche della Valtiberina, databile tra il VII e l'VIII secolo. Le linee bizantineggianti sono legate alla sua antica appartenenza al Vescovado di Città di Castello, a quel tempo alle dipendenze di Ravenna. D'altra parte la Valtiberina fu in quel periodo il corridoio naturale per collegare Roma con Ravenna. La chiesetta di Anghiari, il cui nome appare anche in un'epigrafe conservata presso l'Abbazia di Pomposa, in realtà rappresenta una scoperta piuttosto recente. Fu uno studio effettuato dal Prof. Giuseppe Nomi a solleticare l'interesse dell'esperto di storia dell'arte Prof. Mario Salmi e della Soprintendenza ai Beni Artistici: da un muro della casa colonica che inglobava l'antica struttura della chiesa emergeva, infatti, un capitello ionico di epoca romana. Saggi successivi evidenziarono la presenza di un altro capitello simile e fu così che , grazie agli scavi che ne seguirono, apparve a poco a poco, insieme ad alcune tombe, la pianta originale dell’edificio religioso. Altri particolari, oltre ai capitelli già citati e alle relative colonne, fecero supporre che esso fosse stato edificato, come accadeva di sovente, su di un pre-esistente tempio romano. I lavori condotti tra il 1967 e il 1970 hanno restituito , almeno in parte, la struttura architettonica dell’edificio , caratterizzata da mura in laterizio di chiara derivazione bizantino-ravennate. La pianta centrale quadrata è chiusa da tre cappelle semicircolari che sporgono all’esterno a guisa di absidi: non è da escludere che queste alludano a un teologico simbolo cattolico della Trinità in un territorio che era conteso con i Longobardi di religione ariana.

Chiesa di S. Agostino
Le origini della chiesa sono legate al passaggio da Anghiari di Thomas Becket (1115-1170), Cancelliere di Enrico Il d'Inghilterra e Arcivescovo di Canterbury, la cattedrale dove fu assassinato. Egli ottenne nel 1164 da Rolando di Montedoglio, Abate di San Bartolomeo, le carbonaie del Castello che si trovavano fuori delle mura, dove gli Spedalieri di S. Antonio Abate, suoi accompagnatori, costruirono delle celle ed un oratorio dedicato a Sant'Antonio.
Nel XIII secolo la comunità passò alla regola di Sant'Agostino e poco dopo, sopra l'oratorio, fu edificata una chiesa dedicata al Santo. In seguito al crollo del campanile, la chiesa fu ampliata nel 1464 all’indomani della conquista fiorentina, quando anche tutto il quartiere circostante fu oggetto di un ampio intervento edilizio che definì le caratteristiche urbane mantenutesi fino ad oggi.
Attualmente la chiesa è chiusa al culto per i restauri urgenti dei quali necessita.
La Badia
La chiesa fu il primo luogo di culto di Anghiari. Ricostruita dai Tarlati nel XIV sec., fu ampliata nel 1447 assumendo le dimensioni attuali. Sull'altare maggiore settecentesco è un Crocifisso ligneo, databile tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo; da sempre oggetto di forte devozione popolare, veniva portato in processione nel giorno della festa della Santa Croce, agli inizi di maggio.
Nella cappella sul lato sinistro della chiesa, al centro di un altare in pietra la cui parte centrale fu disegnata, secondo Vasari, da Guillaume de Marcillat nel XVI secolo, è esposta un'opera lignea policroma trecentesca raffigurante la Madonna col Bambino, attribuita all’artista senese Tino di Camaino.Attualmente tale scultura è in restauro.
Chiesa di S. Maria delle Grazie o della Propositura
Costruita fra il 1628 ed 1740 e restaurata più volte, la chiesa ospita all'interno, dietro l'altare maggiore, la Madonna delle Grazie, terracotta invetriata della bottega di Andrea della Robbia.
Altre opere di rilevante valore sono due dipinti del pittore fiorentino Giovanni di Antonio Sogliani (1492-1544): la monumentale tavola con l’Ultima Cena e la Lavanda dei piedi , entrambe oggetto di un recente restauro.Sopra l’altare di destra è la tavola con la Deposizione dalla Croce (1515) di Domenico di Bartolomeo Ubaldini detto il Puligo, ricordata da Vasari come”dell’opere sue la migliore”.
La Rocca o Conventone
L’ imponente complesso costituiva il nucleo fortificato attorno a cui si sviluppò Anghiari ed il sobborgo rurale delle Cascine. La rocca doveva essere più alta di almeno tre metri ed era sostenuta da contrafforti abbattuti nel 1935 per costruire una strada. Il cassero era merlato e nei secoli fu prima luogo di difesa , poi monastero camaldolese : per questo motivo è detto anche Conventone. Durante la prima guerra mondiale fu adibito a raccolta dei soldati, finché, divenuto proprietà comunale, fu ristrutturato nel 1978 per ospitare la scuola Media del paese.
Il Campano
Insieme all’antico Cassero, la torre dell’orologio, detta Il Campano, è un elemento emergente del paesaggio urbano di Anghiari. Costruita durante il XIII secolo e terminata nel 1323 fu distrutta da Vitellozzo Vitelli il 24 giugno 1502.
Fu ricostruita un secolo dopo e, nell’occasione, vi fu sistemato un
orologio. Nella prima metà del XIX secolo fu restaurata nel modo in cui oggi appare.
Porta Sant'Angelo
Porta Sant'Angelo rappresentava in antichità il principale accesso al paese, fino a quando, con il breve dominio dei Tarlati di Pietramala iniziato nel 1332, venne costruito il Borgo alla Croce, che invertì l'orientamento dello sviluppo del paese.
Da questa porta gli abitanti della vicina Sansepolcro rubarono il ‘catorcio’, come narra il poema eroicomico La Catorceide di Federico Nomi, illustre letterato locale del sec. XVII.
Palazzo Pretorio
Al centro del primo nucleo del paese, l'edificio mostra nella facciata i segni della struttura originaria, con finestre ad arco a tutto sesto, un grande affresco situato sotto una loggia e stemmi in terracotta e pietra.
Il piano terreno era occupato dalle prigioni. Infatti, sulla parete a sinistra delle scale, un affresco raffigura la Giustizia. L’opera, realizzata intorno al 1460, è stata attribuita ad Antonio d’Anghiari.
Notevole per i suoi affreschi è la cappella del vecchio tribunale. Il Palazzo era parte della Rocca e fu residenza dei podestà e dei vicari della Repubblica Fiorentina fin dal 1386. Fu sede del Tribunale, fino a quando nel secolo scorso non divenne Municipio.
Piazza Baldaccio e la Galleria Magi
Già detta del Mercatale, Piazza Baldaccio prende nome dal famoso condottiero anghiarese e sin dal 1388 vi si svolge tradizionalmente ogni mercoledi il mercato.
A fianco della piazza è l’antica Ruga di San Martino (attuale Corso Matteotti) il lungo rettifilo realizzato dal vescovo di Arezzo Guido Tarlati nei primi decenni del XIV secolo. Domina la piazza il monumento a Garibaldi, opera in bronzo dello scultore Pietro Guerri, pesante 30 quintali e ivi collocata nel 1914.
Davanti al monumento sono visibili le Colonne di Borgo , un portico con tre colonne in pietra costruito nel 1466. Chiusa la loggetta per ricavarne una bottega, gli archi furono riaperti dopo la ristrutturazione del 1928.
Davanti alle Colonne di Borgo è la Galleria Girolamo Magi, costruita nel 1882 per ospitare il mercato coperto e ottimamente restaurata cento anni dopo: originariamente chiusa sul lato che dà verso il Teatro dei Ricomposti, fu successivamente aperta consentendo il collegamento tra Piazza Baldaccio e Piazza IV Novembre, su cui si affacciano il Teatro e la Cappella Corsi, oggi trasformata in Tempietto votivo ai Caduti della prima guerra mondiale.
Artigianato e commercio
Anghiari, per il modo stesso di comunità rustica, fu centro ricco di botteghe artigiane. Il governo degli Abati camaldolesi (XII-XIV sec.) fu, con la sua liberalità, l'incentivo più efficace all'espansione del borgo, al sorgere di un vivace mercato e di botteghe artigiane: vasai, fabbri, maestri di pietre e legname, maestri di muro, tessitori, stipettai, calzolai, gualcatori, mugnai, armaioli. L'importanza dell'attività edilizia, forse il maggior pilastro dell'economia anghiarese, fu riscontrata anche dal fatto che l'unica corporazione riconosciuta dallo statuto era quella dei maestri di pietre e legnami. Tra il '500 e l'800 si affermarono con molta fortuna l'arte del ferro battuto (che ci rammenta la famiglia Miccioni) e la produzione di armi da fuoco, in altre parole fucili, pistole, pezzi rari di un'arte raffinata custodita in importanti collezioni e musei nazionali ed esteri.
In Toscana, nello scorcio del '700, le attività economiche ebbero un notevole impulso dalla nuova politica granducale di Leopoldo I. E certo che in Anghiari le manifatture erano peraltro avvantaggiate da alcuni fattori ambientali: i boschi, che fornivano combustibile per il processo di lavorazione, e le miniere di ferro e di rame attivate sui Monti Rognosi, fra Montauto e il Ponte alla Piera, sul percorso di un'antica strada romana.
Soprattutto, però, la zona aveva una grande tradizione artigiana in grado di offrire una manodopera altamente qualificata. Nei primi del secolo scorso Anghiari contava una popolazione di cinquemila abitanti. Esisteva un lanificio di panni fini e grossi con 30 addetti, una concia di pelli e cuoi con sei operai, una fabbrica di griglie e ringhiere, tintorie grossolane in lana con 25 operai, 20 stovigliai ed armaioli, 13 molini ad acqua, sei fabbri ferrai. La tessitura richiedeva una coltivazione della canapa per 98 ettari e del lino per 147 ettari. Rilevante era la coltivazione del guado per tintura dei tessuti. Nel 1833 si parlava di attività importanti: un lanificio, otto gualchiere, cinque tintorie, due fabbriche di cappelli di feltro, due archibusiere, una fabbrica di strumenti chirurgici, due polveriere, tre fornaci di terraglie ed altre di calce e laterizi. Le attività erano puramente artigianali a livello di bottega. Frequenti erano la lavorazione della canapa e del ferro. Fino al nostro secolo, e per parte di esso, il livello artigianale di Anghiari rimase nell'assetto tradizionale. Sorge l'arte tipografica e si afferma una fabbrica di strumenti musicali.
La Battaglia di Anghiari: la storia
Il 29 Giugno 1440 il cardinale Trevisan Ludovico, detto Scarampo Mezzarota, legato di Papa Eugenio IV, riorganizzato sotto l'obbedienza della chiesa un esercito di 4.000 uomini, si trasferì ad Anghiari. Qui era atteso dall'esercito fiorentino, forte anch'esso di 4.000 unità, e da una compagnia della Repubblica di Venezia di 300 cavalieri, al comando di Micheletto Attendolo Sforza.
Nello stesso giorno, si distribuirono le aree per gli alloggiamenti degli eserciti della Lega nel territorio attorno ad Anghiari. Nell'area di Maraville si attestò l'esercito di Eugenio IV, sotto il comando di Simonetta da Castelpeccio. Nell'area tra Palazzolo e le chiese di S. Girolamo e S. Stefano, si acquartierò l'esercito fiorentino, riunito sotto la guida di Neri Capponi e Bernardetto de’Medici, commissari generali dell'esercito, nominati dalla Repubblica Fiorentina. A questo contingente si erano aggregate le compagnie dei capitani anghiaresi, tra i quali: Agnol Taglia, Grigorio di Vanni e Leale di Anghiari. Nella notte tra il 28 e il 29 Giugno, Niccolò Piccinino, alla testa di un esercito, numericamente superiore a quello della lega, al soldo di Filippo Maria Visconti, duca di Milano, deliberò di venire a giornata - cioè di scontrarsi in battaglia - con l'esercito della Lega che stazionava ad Anghiari.
Il Piccinino sicuro della sua superiorità, dopo un'escursione notturna nel campo nemico, mosse le sue genti dal campo di Selci. Nel giorno 29 Giugno, senza che i nemici se ne accorgessero, entrò in Sansepolcro e raccolse oltre 2.000 uomini, attratti dalle virtù militari del capitano visconteo e desiderosi di fare il sacco ai castellani di Anghiari.
Era il 29 Giugno 1440, ricorrenza dei SS. Pietro e Paolo, quando Niccolò Piccinino, nelle ore pomeridiane, puntò con il suo esercito su Anghiari.
L'azione militare basata sulla sorpresa, forse, sarebbe riuscita, al Piccinino se Micheletto, dal suo alloggiamento presso Monteloro, non avesse visto un sottile polverio sullo stradone fra Sansepolcro e Anghiari, il quale ingrossando, dette conferma dell'approssimarsi dell'esercito nemico.
Micheletto Sforza, dato l'allarme, con i suoi cavalieri corse subito all'imbocco del ponte sul canale per organizzare una prima difesa contro i milanesi e consentire ai commilitoni della cavalleria di mettersi in arnese per la battaglia.
In breve tempo, i capitani della lega giunsero nel campo presso il ponte sul canale: Simonetta da Castelpeccio, Giovanpaolo Orsini, Leale di Anghiari, Niccolò da Pisa ed altri ancora.
Tennero consiglio e, quando l'esercito milanese era a meno di un tiro di balestra dal ponte sulla reglia, fu stabilito che l'esercito del Simonetta coprisse il lato destro dello schieramento, quello fiorentino-anghiarese il lato di centro e sinistro, mentre, i cavalieri veneziani ebbero il compito di provvedere alla difesa del ponte come unità mobile di tutto lo schieramento. Le fanterie frattanto, presero posizione lungo i ciglionamenti del canale e, con le loro balestre, colpirono sui fianchi l'esercito aggressore.
Eroica fu la difesa della cavalleria veneziana all'imbocco del ponte. Micheletto ed i suoi dovettero più volte ricacciare indietro gli inimici finchè, di fronte ad un attacco cruento di Francesco Piccinino e di Astorre Manfredi, la cavalleria di Micheletto fu percossa e sospinta dal ponte fino all'inizio dell'erta.
In questa fase la battaglia s'accese e, come dicono le cronache, intervennero fatti mirabili. Il Simonetta alleggerì la pressione sul fianco destro del fronte, costringendo Francesco Piccinino ed Astorre Manfredi a ritirarsi sino al ponte ove la zuffa aumentò in modo tragico.
Si combattè, per quasi quattro ore, senza soluzione di continuità sul ponte della reglia ora dominato dai milanesi, ora dominato dai fiorentini. In queste vicende alterne della battaglia, cadde prigioniero dei viscontei Niccolò da Pisa; rischiò la cattura anche Micheletto. Già sembrava che lo scontro fosse favorevole al Piccinino per un'azione fulminea lungo l'asse dello stradone -da S. Stefano alla porta degli Auspici-, quando il Simonetta e l'Orsini scesero dal colle tra Palazzolo e Maraville con una schiera serrata di armati. Liberarono Niccolò da Pisa e, con un'operazione a tenaglia, divisero in due parti l'esercito del Piccinino, un terzo del quale rimase chiuso di qua dal ponte verso Anghiari.
Era già notte alta, quando la battaglia si concluse con la vittoria dell'esercito della lega. Aveva giocato a suo favore la conoscenza del luogo, la stanchezza delle genti e dei cavalli del Piccinino, ma soprattutto, come riferisce Lorenzo Taglieschi negli "Annali della Terra di Anghiari", l'essersi in verso il declino del sole levato un vento impetuoso molto, il quale, gettando la polvere nel volto e negli occhi de’suoi, tolse loro il vedere ed il respirare, chiede finalmente la vittoria a quelli della lega i quali, passato grossi il ponte con gran ferocia urtato addosso a nimici, in guisa li disordinarono che non trovando più tempo né comodità di rimettersi insieme li costrinsero a fuggire, essendo Nicolò, con mille cavalli, al Borgo ricoveratosi.
Alla conclusione si contarono molti morti e feriti, 600 corpi di cavalli restarono sul campo tra l'una e l'atra parte.
Dice dunque Neri Capponi che di 26 capi di squadre de’nimici 22 ne furono prigionieri, 400 huomini d'arme, 1540 borghesi da taglia che insomma furono tutti 300 cavalieri, ma che, aiutati dai medesimi vincitori, secondo la stolta disciplina di quei tempi, gli huomini d'arme, e le persone di qualità a fuggirsi. Con gran fatica da commissari fiorentini furono condotti ad Anghiari sei capitani di conto prigionieri; Astorre Manfredi, Lodovico da Parma, Romano da Cremona, Sacromoro Visconti, Danese e Antonello della Torre. Fu nondimeno la preda grandissima".
Nondimeno è da considerare che questa vittoria, se ben si fuggì il Piccinino, con non più di mille cavalli, fu molto più utile per la Toscana che dannosa per il Visconte; iperocchè, se i fiorentini perdevano, la Toscana veniva tutta in mano al Piccinino, la dove, perdevano, egli non perdette altro che l'armi e i cavalli del suo esercito i quali, con non molti danni, potè riavere facilmente .
La Battaglia di Anghiari: fra mitologia e politica
Proponiamo a seguire un saggio sulla battaglia di Anghiari di Frank Zöllner*.
Con la cacciata dei Medici avvenuta nel dicembre del 1494 i rapporti di forza a Firenze si erano spostati a favore di una élite di potere di orientamento repubblicano, che cercò di porre l’accento le proprie idee politiche procedendo alla reinstallazione di opere d’arte più antiche e commissionandone di nove. In questo senso è da intendere la sistemazione, immediatamente davanti a e nel cortile del Palazzo Vecchio, nel 1495 del David bronzeo di Donatello e della sua Giuditta e nel 1504 del gigantesco David marmoreo di Michelangelo . Qui le sculture annunciavano le pretese anti-medicee della giovane repubblica. L’iconografia politica legata alla produzione scultorea di impronta repubblicana ha trovato una continuazione all’interno del Palazzo , in particolare attraverso le diverse opere d’arte che richiamavano gli avvenimenti politici e militari più importanti della Firenze repubblicana. Si tratta di due opere religiose e due profane per la Sala del Gran Consiglio: una pala di altare con Gesù Bambino e sant’Anna commissionata nel 1498 a Filippino Lippi e che Fra’ Bartolomeo iniziò nel 1504 dopo la morte di Filippino ma lasciò incompiuta nel 1512 . La scelta dei temi del dipinto avvenne secondo criteri politici. Dalla cacciata del despota Walter von Brienne, duca di Atene, nel 1334, il giorno di Sant’Anna (il 26 luglio) era diventato giorno di festa generale, le cui connotazioni repubblicane, particolarmente dopo la cacciata dei Medici, è probabile risultassero considerevoli agli occhi di ogni osservatore. Il secondo contratto per la Sala Maggiore del Consiglio fu una scultura del Salvatore, commissionata il 10 giugno 1502 ad Andrea Sansovino ma mai realizzata, che si sarebbe dovuta collocare nella Loggia della ‘Signoria’. Anche quest’opera veicolava un messaggio politico poiché il giorno del Salvatore, il 9 novembre, la proclamazione della repubblica nel 1494 era stata resa possibile dalla cacciata dei Medici. Il Salvatore per di più fu commissionato nello stesso anno in cui i Fiorentini elessero ‘gonfaloniere’ a vita Piero Soderini, il quale, in una fase difficile della repubblica che andò aggravandosi a partire dal giugno 1502, appare infatti quasi come un salvatore: il Salvator di Sansovino rinvia dunque al gonfaloniere Soderini, il salvatore o ‘salvator’ della repubblica.
I due contratti più importanti e allo stesso tempo più noti per la decorazione della ‘Sala grande’ furono di carattere profano e andarono a Leonardo da Vinci e Michelangelo. All’artista più anziano, Leonardo, la Signoria commissionò nell’ottobre del 1503 un monumentale dipinto di una battaglia.
* L`edizione completa edita dal Comune di Vinci, Biblioteca Vaticana,è pubblicata da Giunti, Firenze, nell`Aprile 1998, comprensiva di note, appendice e tavole.
Questo dipinto murale che Leonardo lasciò incompiuto all’inizio del 1506 e che fu distrutto già a metà del 16° secolo, mostrava una rappresentazione della battaglia di Anghiari, una vittoria ottenuta nel 1440 presso la cittadina di Anghiari dai Fiorentini e dai loro alleati pontifici sulle truppe milanesi. Vicino all’opera di Leonardo si sarebbe dovuta collocare la cosiddetta battaglia di Cascina di Michelangelo , più precisamente la rappresentazione dell’allarme che il 28 luglio 1364 avvertì i soldati fiorentini intenti al bagno della minaccia nemica e che quindi contribuì all’esito vittorioso della scaramuccia. Entrambi i dipinti, a noi ancora noti solo per mezzo di copie dell’epoca, sarebbero diventati la creazione pittorica più impressionante di uno spazio interno pubblico degli inizi del 16° secolo. Nessun dipinto profano dell’epoca possedeva una qualità drammatica anche solo simile e monumentalità paragonabile. In termini di storia dello stile le due opere contrassegnano l’inizio dello stile eroico dell’alto Rinascimento, in relazione alla storia dei generi possiamo definirle come incunaboli della pittura di scene storiche e precursori della pittura d’avvenimento barocca.
Innanzitutto gli elementi figurativi della Battaglia di Anghiari di Leonardo, in ragione della scelta tematica orientata politicamente, testimoniano un programma politico ponderato, quale è naturale attendersi per il dipinto d’altare Madonna con Gesù bambino e sant’Anna e per il Salvatore collocato nella Loggia della ‘Signoria’. Per quanto riguarda gli elementi pittorici della Battaglia di Anghiari qui da interpretare e sinora non sono ancora discussi in maniera coerente, si tratta soprattutto della testa e pelliccia di ariete e delle armi con cui è stato equipaggiato il cavaliere all’estrema sinistra. Meritano attenzione anche l’elmo con drago e la maschera dell’elmo indossati dai due guerrieri provenienti da destra. In considerazione del carattere politico dell’intero apparato decorativo della Sala del Consiglio è escluso che gli elementi ricordati siano stati accostati in maniera puramente casuale e che abbiano avuto un carattere esclusivamente ornamentale. L’interpretazione che seguirà è di natura politica; ed è con questa interpretazione politica che si prende le mosse dalla tesi sostenuta recentemente da Nicolai Rubenstein e in precedenza da Frederik Hart secondo la quale i dipinti di Michelangelo e Leonardo riflettono l’idea lanciata intorno al 1503 a Firenze da Niccolò Machiavelli di una milizia civica. La mia argomentazione si suddivide in cinque parti, cioè 1. Il significato dei disegni e delle copie, 2. La possibilità di una interpretazione mitologica, 3. Il significato della speciale iconografia martiana a Firenze, 4. Firenze alleata della prudentia, 5. Il problema del significato del dipinto.
1. Il significato dei disegni e delle copie
La nostra idea del dipinto murario si basa su diversi schizzi preparatori di Leonardo e su copie contemporanee (***si veda l'appendice). Nella riproduzione dell’intera composizione queste prime copie corrispondono pienamente le une con le altre. Oltre a tre fanti che a terra combattono o sono inginocchiati, esse mostrano in primo piano quattro cavalieri che si scontrano gli uni contro gli altri e, infuriati, si contendono il possesso di uno stendardo e della sua asta. Da sinistra a destra si tratta dei seguenti personaggi: Francesco Piccinino e suo padre Niccolò, i comandanti perugini dell’esercito milanese; Lodovico Scarampo e Piergiampaolo Orsini, i capi delle truppe papali e fiorentine alleate che uscirono vittoriose dalla battaglia raffigurata.In tutte le copie sono rappresentati in maniera concorde lo scontro dei quattro cavalieri e la battaglia dei fanti che combattono a terra ai piedi della cavalleria. La battaglia dei cavalieri ha raggiunto quello stadio in cui l’asta dello stendardo si dovrebbe di fatto rompere oppure, al contrario, si dovrebbero sciogliere le forze contrapposte. La composizione si basa quasi su un viluppo dinamico il cui scioglimento sembra incombere imminente.Già i due più importanti schizzi, oggi a Venezia, mostrano questa dinamica compositiva. Essi chiariscono come Leonardo si sia avvicinato a dominare la dinamica della battaglia attraverso un motivo compositivo centrale - il groppo di cavalli -. Sempre di più si è concentrato, già nella fase degli schizzi, sul centro di forza rappresentato appunto dal motivo centrale della battaglia, ossia sul gruppo dei quattro cavalieri in lotta per lo stendardo. A questo modo ha addirittura trascurato quasi tutti i vantaggi che erano a sua disposizione per la rappresentazione di un’intera battaglia. Quanto Leonardo si sia distaccato da questi vantaggi lo chiariscono i seguenti fatti: tenne appena in considerazione le tradizioni che erano a sua disposizione; rappresentò solo la battaglia per lo stendardo, ma non altri avvenimenti documentati da fonti storiche. Ignorò quasi completamente un memorandum appositamente redatto per lui dalla cancelleria di Machiavelli, contenente precise indicazioni sulla battaglia. Come compilatori del programma contenutistico del dipinto, vincolante per Leonardo, è probabile che siano da chiamare in causa Marcello Adriani oppure Agostino Vespucci, il segretario di Machiavelli, il quale già all’inizio dei lavori aveva redatto per Leonardo una breve descrizione della battaglia così come una lista dei personaggi più significativi. Leonardo trascurò in gran parte anche le sue descrizioni del Trattato di pittura nelle quali si era occupato della rappresentazione artistica delle battaglie. Mentre queste descrizioni del Trattato di pittura, i resoconti storici delle fonti e le indicazioni suggerite dal committente sullo svolgimento della battaglia avrebbero vantato un certo spessore epico e richiesto una rappresentazione adeguatamente varia e ricca, Leonardo si concentrò sempre di più su un unico episodio, la battaglia per lo stendardo. L’impressione è che addirittura l’artista, in uno stadio ideativo già avanzato, non fosse interessato a nient’altro che all’esclusiva rappresentazione della battaglia centrale dei cavalieri. A riguardo delle composizioni ridotte all’essenziale di Michelangelo e Leonardo è anche possibile che entrambi gli artisti abbiano preparato un cartone solo del gruppo di figure più importante, mentre avrebbero dovuto disegnare le scene complementari, che denotavano minor dinamismo e drammaticità figurativi, senza un progetto a grandezza reale.
Le copie giunte fino a noi confermano la supposizione secondo cui l’artista non avrebbe realizzato né sul cartone preparatorio del dipinto murale né sul dipinto murale stesso una composizione che essenzialmente andasse oltre la battaglia per lo stendardo. Tuttavia la questione delle copie è estremamente complicata, poiché nella restituzione dei particolari si differenziano in parte le une dalle altre. Queste divergenze sono dovute fra l’altro al fatto che i copisti contemporanei avevano fondamentalmente tre possibilità nella scelta dei loro modelli: potevano prima di tutto copiare il cartone di Leonardo oppure, in secondo luogo, il dipinto murale. In terzo luogo, sulla base delle differenze tra dipinto murale e cartone, nella rappresentazione dei particolari stava loro di fronte la possibilità di servirsi ora dell’uno ora dell’altro progetto. Una delle copie più attendibili è un disegno della ex raccolta Rucellai di Firenze che, mostra lo stadio del dipinto murale . Ugualmente si rifanno forse al già danneggiato dipinto murale due copie dipinte: una tavola attualmente a Palazzo Vecchio e la cosiddetta Tavola Doria . Altrettanto affidabile sono considerate un secondo gruppo di copie condotte da un disegno, che si trova ora a Den Haag, risalente agli inizi del 17° secolo . Malgrado la sua tarda datazione, ha un alto valore documentario poiché riproduce molto precisamente lo stadio di una copia realizzata già molto presto, e quindi affidabile, che Rubens aveva rielaborato e integrato . Il foglio riadattato da Rubens, che attualmente si trova al Louvre a Parigi, e la sua copia riproducono lo stadio compositivo del cartone di Leonardo per la Battaglia di Anghiari o almeno uno stadio progettuale che si differenzia per alcuni dettagli dal dipinto murale effettivamente realizzato e che ne precedette temporalmente l’esecuzione. Per inciso resta comunque da notare che per quanto riguarda le copie, la loro derivazione dal dipinto murale da una parte e dal cartone dall’altra necessita di un’ulteriore precisazione.
2. L’interpretazione mitologica: Francesco Piccinino come Marte
Dedichiamoci ora agli elementi del dipinto prima ricordati e da reinterpretare, al loro significato politico e al loro contesto storico. La raffigurazione estremamente curata nei dettagli delle singole figure della composizione di Leonardo testimonia non solo la straordinaria creatività dell’artista ma fa pensare ad un progetto pittorico che riflettesse esso stesso la volontà politica del committente nei particolari dal gusto esotico. In particolare dalle figure di Niccolò Piccinino e di suo figlio Francesco risulta evidente quanto l’artista abbia ricevuto esatte indicazioni per la realizzazione del dipinto e le abbia riadattate creativamente e nei dettagli. Niccolò, che con la mano destra brandisce con veemenza la sciabola e con la sinistra cerca di trattenere l’asta dello stendardo, è identificabile sulla base del suo noto copricapo rosso. Si riconosce suo figlio Francesco da un ariete raffigurato sul petto animale, questo, simbolo del dio della guerra Marte e contemporaneamente animale araldico della famiglia Piccinino .
Oltre all’allusione a Marte evidente in relazione ai Piccinino, l’equipaggiamento di Francesco presenta ancora ulteriori elementi provenienti dal repertorio corrente della simbologia bellica: l’impugnatura della spada in alcune copie ha la forma di una zampa di in altre di testa di leone, a suggerire la forza leonina e l’intrepidezza del suo portatore. Meno chiaro sembra essere il significato delle corna di Ammone sul suo copricapo. Dovevano il loro nome alla divinità antico-egizia Ammone il cui animale sacro era l’ariete. Inoltre Ammone, come Marte, aveva un’immagine oltremodo negativa. Era considerato essere sanguinario e raffigurazione menzognera di Zeus-Giove e si adattava dunque molto bene all’iconografia di Marte, quale aveva trovato espressione nella rappresentazione del giovane Piccinino.
Decisiva nella rappresentazione di Leonardo dei due capitani perugini non fu solo l’iconografia corrente di Marte ma anche la sua concreta trasposizione in particolari figurativi. Era infatti plausibile aspettarsi Niccolò Piccinino nel ruolo di Marte, visto che i poeti del 15° secolo lo avevano celebrato come Mars alter. Tuttavia, ad esclusione della selvaggia mancanza di controllo della sua fisionomia, niente richiama l’antico dio della guerra. Chiaramente si doveva rendere riconoscibile Niccolò come personaggio storico, appunto attraverso l’equipaggiamento in uso all’epoca ed il copricapo tramandato anche altrove. Con i tratti somatici del dio della guerra venne quindi rappresentato suo figlio, Francesco Piccinino, che agli occhi dei suoi contemporanei appariva infatti altrettanto incapace di controllo quanto Marte stesso e ancora più incapace di controllo di suo padre. In misura maggiore di suo padre si confaceva ad una rappresentazione negativa dell’aspetto fisico dell’antico dio della guerra. Nel suo aspetto Francesco ha qualcosa di quelle rappresentazioni di Marte risalenti al 15° e 16° secolo e che si trovano in autori antichi come Omero, Stazio, Ovidio, Isidoro e in scrittori più tardi come Giovanni Boccaccio e Lorenzo Spirito.
Ai riferimenti alla mitologia antica, che si ritrovano soprattutto nella rappresentazione dei particolari figurativi, corrispondono altrettanti riferimenti alle discussioni politiche del consiglio su aumenti delle tasse, politica estera, strategia di guerra e simili. I rimandi alla storia e mitologia antiche qui ricorrenti facevano infatti parte di un repertorio argomentativo generalmente riconosciuto; addirittura nelle riunioni del consiglio si polemizzava contro un eccessivo ricorso ad exempla classici (come per esempio dell’antica Grecia) e ad uno scarso uso di exempla biblici. Un altro esempio del legame con l’antichità classica sarebbero le poesie di eco virgiliana per l’elezione di Piero Soderini alla carica di ‘gonfaloniere’ il 1° novembre 1502. Il poeta Cipriano Brachali promise solennemente una nuova età dell’oro per Firenze che Giove aveva inaugurato con l’elezione di Soderini. Brachali scomodò inoltre simili lusinghieri paragoni tra l’attualità politica e la mitologia antica anche per i più importanti alleati interni di Soderini. Per quanto riguarda i riferimenti all’antichità è altrettanto interessante un’indicazione di Flavio Biondo secondo la quale la Battaglia di Anghiari sarebbe unica nella storia poiché, come le battaglie antiche, fu vinta solo grazie al valore. Al pubblico della battaglia di Anghiari di Leonardo erano dunque ampiamente familiari i richiami alla mitologia e storia antiche, per lo meno nella misura in cui sarebbe stato in grado di comprendere anche le allusioni tematizzate nei particolari del dipinto.
3. La speciale iconografia marziana a Firenze
La rappresentazione di Francesco Piccinino come Marte è di grande interesse poiché nella raffigurazione degli antichi dei della guerra di regola ci si serviva di altri tipi iconografici. Così Marte assurgeva spesso alla dignità della rappresentazione nella figura conciliante di un bel giovane le cui azioni erano di natura prima erotica che guerriera - un po’ come in Marte e Venere di Botticelli . Questa immagine idealizzata era praticamente inconciliabile con quella del mostro che Omero aveva rappresentato nell’Iliade. Tuttavia, anche nella variante figurativa del guerriero, non ci si orientava alla descrizione di Omero ma a compendi mitografici più recenti nei quali Marte compariva come furibondo conducente di carro da battaglia. Questa tipizzazione fu preferita anche per le corrispondenti raffigurazioni nella pittura murale pubblica - per esempio a Palazzo Pubblico a Siena ed al Collegio di Cambio a Perugia . La rappresentazione del dio della guerra in forma di cavaliere non era in genere usuale nel 14° e 15° secolo. Tuttavia a Firenze, dove Marte in epoca precristiana era stato il patrono della città, andò in maniera diversa; ed anche la famiglia Piccinino si figurò l’antico dio della guerra non in forma di conducente di carro da guerra ma di cavaliere. Niccolò Piccinino infatti aveva già sognato in gioventù una carriera militare, e in una visione notturna Marte gli era apparso come un terribile cavaliere dal volto furioso e adirato.Questa apparizione del dio della guerra che a cavallo si precipita con impeto fu presa a modello da Niccolò Piccinino e suo figlio Francesco - così in ogni caso confermano le esecuzioni di Lorenzo Spirito, la cui poesia di lode è dedicata nelle prime parti a Niccolò e nell’ultima a suo figlio Francesco.
Inoltre a Firenze ci si figurava Marte non esclusivamente nella forma più comune del conducente di carro da guerra ma anche come cavaliere, per esempio in un codice manoscritto della "Cronica" di Giovanni Villani e nel relievo di Andrea o Nino Pisano per il Campanile del Duomo di Firenze. Qui, a Firenze, sopravvisse infatti a lungo il ricordo di un’antica statua di cavaliere, nel Medioevo erroneamente identificata con Marte, che nel 1333 fu affondata nelle acque dell’Arno. In precedenza la statua, ormai composta solo dal torso di un cavaliere, era servita come oggetto di culto pagano e si adornava con superstiziosa riverenza per allontanare la mala sorte dalla città. Tuttavia fin dal 13° secolo sembra che si siano fatte strada connotazioni negative, al punto che l’antica statua fu alla fine considerata funesta e fu lasciata nell’Arno dopo la sua seconda caduta. A questa figura non canonica di Marte e alle sue connotazioni negative si richiamava la rappresentazione di Francesco Piccinino ad opera di Leonardo.
La figura inusuale di Marte aveva un senso immediatamente comprensibile in relazione alla Battaglia di Anghiari. Questo senso emergeva da fonti conosciute e dalla situazione politica contemporanea. Le caratteristiche negative del dio della guerra erano infatti un’immagine diretta di quei capitani mercenari che condizionarono ampiamente le vicende militari del 15° secolo e degli inizi del 16° . Come questi condottieri che per il soldo cambiavano prontamente schieramento, Marte si distingueva per la sua manchevole coscienza giuridica e per la sua qualità di sostenitore di partito senza scrupoli, di uomo malvagio, dunque, che indulgeva senza problemi al suo opportunismo bellico.
Altrettanto malvagi erano molti dei capitani delle truppe mercenarie del 15° - inizi del 16° secolo, comandanti di una soldatesca incontrollabile, assassina, la cui letale maledizione fu inequivocabilmente rappresentata da Leonardo nel mantello di Francesco Piccinino sollevato come un vortice: qui compare infatti, visibile solo in una delle copie, nella Tavola Doria, un teschio che simbolicamente richiama la professione mortale del condottiere . Contro la notoria inaffidabilità di questi soldati professionisti, che si consideravano essi stessi figli di Marte, si erano rivoltati i rappresentanti della Firenze Repubblicana a partire dal tardo 14° secolo. La creazione di una milizia civica proposta da Machiavelli fin dal 1503 ha contrassegnato la fine di questa polemica contro la piaga dei capitani al soldo, la cui pericolosità si era appena resa nuovamente manifesta nella primavera del 1501 con la minaccia della città da parte di Cesare Borgia e dei suoi mercenari. Ma anche durante il periodo di lavoro di Leonardo al dipinto murale, i politici al potere si trovarono ad avvertire il pericolo della corruttibilità dei capitani mercenari, inizialmente nei primi mesi del 1504 a causa delle difficoltà per l’elezione del ‘condottiere’ preposto alla campagna contro Pisa e poi, circa un anno dopo, per l’infedeltà dell’appena nominato capo mercenario Giovanpaolo Baglioni. La decorazione, iniziata nell’autunno del 1503, della ‘Sala del Gran Consiglio’ ebbe dunque sullo sfondo avvenimenti contemporanei che ripetutamente avevano dimostrato l’inaffidabilità dei ‘condottieri’. Nel dipinto murale della Battaglia di Anghiari Niccolò e Francesco Piccinino incarnavano, in quanto già figure storiche, quella stessa inaffidabilità dei capitani mercenari da cui si sperava di potersi liberare attraverso una milizia civica. L’incarico promosso da Machiavelli per la decorazione della Sala del Consiglio con due rappresentazioni di battaglie doveva sottolineare la necessità di una forma di difesa del genere sostenuta dal coraggio civile dei Fiorentini.
4. Firenze come partito della guerra operante con prudentia
Machiavelli con la sua richiesta di una milizia cittadina civica si richiamava alle virtù civili che già Aristotele aveva formulato nell’Etica Nicomachea e che erano state solennemente giurate a Firenze sin dai giorni di Filippo Villani. Qui di seguito si sosterrà la tesi secondo cui i due cavalieri sul lato destro del dipinto murale, Ludovico Scarampo e Piergiampaolo Orsini, rispettivamente i comandanti delle truppe fiorentine e di quelle papali alleate, sarebbero la rappresentazione artistica di queste virtù. Lo dimostra già il drago alato sull’elmetto di Ludovico Scarampo, che compare solo su tutte le copie che derivano dal dipinto murale . Il terribile animale simboleggiava tradizionalmente per lo più qualità negative, anche se sull’elmetto di un guerriero la minacciosità del drago era diretta contro l’avversario in battaglia. Un possibile significato di questo animale in relazione alla decorazione di palazzi comunali è suggerito da un ciclo di dipinti al secondo piano di Palazzo Vecchio, precisamente nella Sala dei Gigli decorata dagli artisti della bottega di Domenico Ghirlandaio (attiva dal 1482) . Nella stanza immediatamente adiacente la cancelleria di Machiavelli appaiono due gruppi di virtuosi eroi romani: a sinistra Bruto, Mutio Scevola e Camillo, a destra Decio, Scipione e Cicerone. Decio si era sacrificato come eroe della guerra per la res publica; Bruto, noto anche come tirannicida, veniva considerato anche il salvatore della patria; Cicerone era lo statista e l’oratore che agiva e scriveva in virtù di un impegno politico (contro il tiranno); Camillo era eroe della guerra e del popolo, Muzio Scevola il fondatore del diritto civile.
Questi eroi incarnano dunque l’impegno repubblicano, l’onestà politica, la dedizione militare e lo spirito di sacrificio per la collettività così come un’esemplare coscienza giuridica. Anche Scipione l’Africano, che compare sotto queste figure simboliche, indossa un elmetto con drago. Nel caso di Scipione l’animale, che nel dipinto è addomesticato, adorna l’eroe vittorioso contro Annibale ed i Cartaginesi; ma il drago compare generalmente anche nel contesto delle virtù repubblicane, qui illustrate dallo stesso Scipione e dalle vicine rappresentazioni di Cicerone e Decio. Si trattava essenzialmente di due elementi: del valore delle virtù repubblicane e della vittoria militare che con quelle virtù fu messa in relazione e simbolicamente rappresentata dal drago.
Oltre a rimandare al rapporto tra virtù e vittoria, l’elmo con drago consentiva però anche un’altra associazione più generale, quella con l’avvedutezza e la prudenza (prudentia). Dal Medioevo il drago si era imposto come animale simbolo di prudente avvedutezza, e questo significato poteva concretamente riflettersi addirittura in un copricapo con decorazione a forma di drago - come nel caso della corona identificata intorno al 1520 con la denominazione ‘prudentia’ nel commentario vitruviano di Cesare Cesariano . Ma nel dipinto murale della Battaglia di Anghiari si alludeva anche al significato concreto di prudenza in battaglia.
Nella Battaglia di Anghiari è stata quindi creata un’antitesi tra la fazione che combatte con forza brutale da una parte ed i vincitori prudenti, che procedono con avvedutezza, dall’altra. La contrapposizione tra un mostro brutale da un lato e forze che agiscono con avvedutezza da un altro è paragonabile alla coppia antitetica di Marte e Minerva, così come ci è stata tramandata soprattutto dalla pittura profana dei palazzi comunali e delle sale assembleari dell’Umbria e della Toscana. Un’esplicita rappresentazione dell’antitesi Marte-Minerva si trovava nei già citati affreschi di Taddeo di Bartolo a Palazzo Pubblico a Siena . Su questa forma di confronto antitetico ebbe di nuovo influenza l’Iliade. Omero descrive Minerva (Atena) - la dea della prudenza nella condotta di guerra - come l’unica in grado di controllare Marte, altrimenti incontrollabilmente furioso e violento. Inoltre Minerva, come dea della prudenza e protettrice delle città e delle assemblee popolari, aveva caratteristiche del tutto positive con le quali la Firenze repubblicana si poteva identificare. Ma il richiamo a Minerva era comprensibile anche in ragione della situazione politica concreta, visto che sia l’istituzione di una milizia civica di cui si andava discutendo a Firenze sia l’appello alle virtù civili che ne era necessario presupposto potevano essere propagandati nel migliore dei modi nello spirito di Atena-Minerva.
In relazione alla contrapposizione di Marte e Minerva (Atena) potrebbe forse valere la pena di analizzare anche la maschera della visiera dell’elmo di Orsini. Marte (cioè Ares nelle fonti greche) stava insieme a Venere (Afrodite) dalla parte dei Troiani, Minerva (Atena) sosteneva invece i Greci. La maschera dell’elmo di Orsini compare in una copia del dipinto murale in una foggia che ricorda il copricapo di Minerva, quindi un elmo corinzio . Questo tipo di elmo veniva associato nel 16° secolo alla dea greca, per esempio in una antica copia del Codice Pighiano. Un’allusione del genere all’elmo di Minerva sarebbe del tutto coerente con il significato appena analizzato del dipinto: visto che i Fiorentini si identificavano con un’Atena vittoriosa grazie ad una condotta di guerra prudente, anche un riferimento al suo copricapo aveva una sua logicità. Minerva compare però solo in una copia, per il resto comunque molto attendibile e di antica datazione. La sua spiegazione trova riscontro nella tipologia della pittura profana antecedente il 1500 e corrisponde anche alle esigenze politiche dei Fiorentini, sebbene il reperto ammetta questa lettura solo come una delle possibili, visto che altre copie al posto dell’elmo corinzio presentano un volto molto marcato, addirittura con barba, a mo’ di maschera .
L’antitesi evocata nel dipinto della Battaglia di Anghiari tra i mercenari combattenti con forza bruta in nome di Marte ed i Fiorentini che lottano con ‘prudentia’ corrisponde precisamente alla realtà politico-militare degli anni dopo il 1500. Firenze infatti, da decenni - appunto dalla battaglia di Anghiari in poi - militarmente perdente, correva continuamente il pericolo di cadere in balia delle grandi potenze (Francia, Spagna, il Papa e l’Imperatore). La politica estera fiorentina non si basava sulla forza militare e su una conseguente volontà politica attiva, bensì su una ponderata valutazione della situazione politica, riassunta con concetti quali ingegno e ragione (v. verbali delle sedute). Il termine ragione - nel dipinto impersonata dalle figure di Piergiampaolo Orsini e Lodovico Scarampo - rappresentava l’antitesi rispetto alle potenze esterne sentite come irrazionali e incontrollabili, i cui spaventosi rappresentanti erano nella realtà i mercenari e nel dipinto i condottieri combattenti sotto le insegne di Marte.
5. Il problema del significato del dipinto
Tematizziamo alcune obiezioni che possono scaturire da questo tentativo interpretativo. L’obiezione più importante sarebbe quella secondo la quale l’ambiguità dei simboli citati impedirebbe un’interpretazione coerente. Questo è in prima battuta giusto; e non basterebbe nemmeno sottolineare il fatto che i due dipinti sono alla fine rimasti incompiuti e quindi un’interpretazione al cento per cento definitiva non sarebbe comunque possibile. In realtà però, sulla base delle differenze tra le copie, dobbiamo mettere in conto la possibilità che il dipinto murale realizzato da Leonardo non fosse ancora pronto nella parte contenutisticamente decisiva e che si differenziasse dal cartone nella raffigurazione dei particolari del terzo e quarto cavaliere. Secondo la mia spiegazione, in una prima fase progettuale, si sarebbe pensato ad una contrapposizione di Marte e Minerva, come compariva anche in simili e più antiche decorazioni pittoriche dei Palazzi Comunali di Siena e Perugia. Questa prima idea trovò espressione nel cartone di Leonardo. In un secondo momento si sarebbe poi aggiunta la rappresentazione del drago legata all’iconografia minerviana e decisiva per l’iconografia di Alessandro. Questo stadio prese forma, per la prima volta dopo il completamento del cartone, nella realizzazione del dipinto murale, almeno in alcune sue parti. In questo senso si spiegherebbero del resto anche le differenze tra le diverse copie.
C’è tuttavia ancora una seconda risposta: ogni critica è altrettanto valida quanto le interpretazioni alternative da essa evidenziate, e l’alternativa più immediata sarebbe in questo caso la concezione finora comunemente accettata secondo cui sia nella rappresentazione di Leonardo che di Michelangelo si sarebbe trattato ogni volta di esempi di sfoggio in attuazione di idee puramente artistiche. Il resto sarebbe dovuto al caso. Questo punto di vista non è accettabile poiché il carattere politico dell’intera decorazione della Sala Maggiore del Consiglio suggerisce plausibilmente l’esistenza di un significato politico di tutti e due i dipinti. Il significato politico era veicolabile per prima cosa per mezzo di quegli attributi sopra citati, i quali non sono difficilmente interpretabili come riferimenti simbolici a Marte da una parte e Minerva dall’altra. Inoltre l’antitesi tematizzata nella Sala del Consiglio di Firenze tra Marte e Minerva corrisponde precisamente alla tipologia dell’iconografia profana come era stata già formulata nel Palazzo Comunale di Siena e di Perugia.
Una seconda obiezione alla mia interpretazione potrebbe essere la seguente: perché l’antitesi - già prefigurata nella iconografia profana e spiegabile sulla base delle fonti note - tra i mercenari combattenti in nome di Marte da una parte ed i Fiorentini che procedono con prudenza dall’altra è potuta rimanere sconosciuta per circa 500 anni? Come hanno potuto essere trascurati così in toto tutti quegli attributi presenti in maniera così massiccia ed il loro possibile significato? Almeno una risposta ci è già stata suggerita dalla storia della ricezione antica: anche un dipinto politico serviva al godimento della vista, come quando Vasari si deliziava del virtuosismo di Michelangelo, ammirava la maestria dei suoi nudi o si inebriava della capacità artistica di Leonardo nel rappresentare il terrore fisico. Al contrario prestava poca attenzione al contenuto del dipinto. L’autore di biografie di artisti, che avrebbe invece dovuto conoscere la differenza, confondeva addirittura i due partiti politici del dipinto della battaglia di Leonardo: prese i Fiorentini per Milanesi e al contrario i Milanesi per Fiorentini. Questa trascuratezza nei confronti di un significato contenutistico del tutto riconoscibile rappresentava tuttavia più la regola che non l’eccezione. Ricordo qui solo ancora due esempi: La Primavera di Botticelli , già agli inizi del 16° secolo, era stata a malapena compresa. Fu lasciata aperta la questione del vero significato del dipinto, in cui si videro semplicemente belle rappresentazioni di donne seminude, una Venere, il Giardino delle Esperidi o il Giardino di Atlante. Un destino simile spettò al David di Michelangelo ; solo la ricerca più recente ha infatti voluto precisare il significato, del tutto determinabile, della scultura nello spirito della politica militare fiorentina, mentre ai contemporanei fu da subito indifferente. Lo stesso avvenne per la Battaglia di Anghiari.
Nella sua rappresentazione l’occhio stupito di Vasari scorse la bellezza dello ‘spaventoso’ senza ricordarsi della realtà di guerra contro la quale il dipinto effettivamente si rivolgeva. Sopraffatto dalla maestria artistica del dipinto, lodò giusto le emozioni sfrenate dei nemici della sua patria d’adozione. Il furor di eventi incontrollabili e la forza scatenata di guerrieri considerati a priori negativamente esercitavano su di lui il massimo fascino. Con le sue osservazioni sull’arte, che spesso erano un meravigliarsi privo di sensi, si inebriò di un’opera che doveva propagandare la prudenza. L’opera d’arte agiva dunque non in virtù del richiamo alla prudenza ma per mezzo della rappresentazione della forza fisica sfrenata. Evidentemente lo scatenarsi del male fattosi immagine era più vicino al piacere sensoriale di quanto lo fosse la prudenza, a paragone innocua. Se seguissimo questa logica vasariana della recezione, allora Minerva potrebbe non essere più la dea delle arti e Marte dovrebbe subentrare al suo posto. Una idea terribile, oppure, ciò nonostante, spaventosamente bella?
Sitografia
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http://www.anghiari.it/italiano/s0/s0b.htm
http://www.uni-leipzig.de/~kuge/neu/zoellner/
http://www.bibliotecaleonardiana.it/letture.htm
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http://www.girando.it/anghiari/
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http://www.provincia.arezzo.it/Biblioteche/anghiari/index.html
http://www.cronologia.it/battaglie/batta49.htm
http:// it.wikipedia.org/wiki/La_battaglia_di_Anghiari
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