Tasso e La Gerusallemme liberata

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Testo

Nato a Sorrento l'undici marzo 1544 da Bernardo, un cortigiano e letterato e da una nobildonna la cui famiglia era originaria di Pistoia, Torquato Tasso passò i primi anni della sua vita in varie città italiane, ma fu soprattutto Urbino il teatro della sua formazione letteraria, scientifica e cavalleresca.
Dopo la morte della madre, avvenuta nel 1556, nel '59 si trasferì a Venezia per studiare legge, secondo la volontà paterna. Ben presto, però, concentrò i suoi interessi sulla filosofia e sull'eloquenza e compose il primo libro della "Gerusalemme liberata".
Nel 1561 compose dei versi d'amore per la ferrarese Lucrezia Bendidio con i quali mise in risalto la sua maestria nel rinnovare dall'interno il grande modello tematico e formale del Petrarca.
Nel 1561 iniziò a scrivere il poema cavalleresco "Rinaldo", che diede alle stampe l'anno dopo. In quest'ultima opera veniva messa in atto la teoria "romanzesca" secondo la quale (in polemica col Furioso) l'unità di questo genere letterario sarebbe stata garantita solo dalla presenza di un unico protagonista.
Nel 1562 fu a Bologna, vi continuò gli studi e vi affinò la sua tecnica lirica; nel '65 entrò al servizio del cardinale Luigi D'Este e prese a frequentare la corte di Ferrara; nei primi mesi del 1572 divenne uno stipendiato del duca Alfonso II e come suo cortigiano compose la favola "Aminta", che venne rappresentata nel 1573; nel '75 partì per Roma dove chiese ad alcuni letterati di rivedere la sua "Gerusalemme liberata", un'opera che per molto tempo aveva abbandonata: fu proprio a causa di questa revisione, snervante, moralistica e minuziosa, che l'ipersensibilità del Tasso sfociò in uno stato di squilibrio psichico.
La sua condizione mentale non migliorò neanche quando venne assolto dal tribunale dell'Inquisizione, e quindi, dopo poco, venne rinchiuso dal duca di Ferrara.
Riuscito a fuggire, fu in seguito segregato di nuovo fino al 1586, quando il principe Vincenzo Gonzaga lo liberò, ma non riuscì a difenderlo dalle continue polemiche che imperversavano intorno alla sua opera.
Morì a Roma il 25 aprile 1595, prima di poter essere incoronato poeta in Campidoglio
indispensabile, per comprendere appieno i criteri che guidano il Tasso nella composizione della Gerusalemme liberata, è la conoscenza di una sua opera, I discorsi dell’arte poetica, nella quale sono raccolti spunti di riflessione critica e teorica sul genere letterario che più lo interessava: il poema. Innanzitutto, appariva fondamentale al Tasso salvaguardare il principio di poetica aristotelica dell’unità, che non doveva però essere concepito in modo rigido, ma in chiave più moderna, conciliando l’unità con la molteplicità. Infatti nella Gerusalemme liberata la materia è varia perché è indispensabile al “diletto”, ma l’azione è unica, la riconquista del Santo Sepolcro, e unico è il personaggio, Goffredo, anche se nella vicenda compaiono molte altre figure.
La poesia inoltre deve fondarsi sul vero storico, dunque occorre ancorare l’argomento del poema alla verità, anche se nella visione del Tasso la verità coincide con gli elementi religiosi della storia stessa. La scelta dell’argomento è bene poi che cada su avvenimenti storici abbastanza vicini nel tempo, per rendere tutto più veritiero e interessante, ma anche abbastanza lontani in modo da lasciare all’autore qualche possibilità di introdurre elementi fantastici. La prima crociata sembra così l’argomento più adatto, anche perché proprio nel 1571, l’Europa cristiana combatteva un’ultima battaglia contro i Turchi a Lepanto. Inoltre tale scelta è anche espressione di un ossequio formale ai precetti della Controriforma e, nel contempo, convinta adesione alla fede cattolica. Scegliendo di trattare questo tema, infatti, il Tasso auspicava di divenire poeta del mondo cristiano, anzi cattolico, nel momento in cui questo combatteva la sua battaglia contro i Turchi in Oriente e contro i Protestanti in Occidente.
La poesia deve fondarsi, sì, sul vero storico, ma occorre aggiungere al vero, come egli stesso dice, nel Proemio della Gerusalemme, dei “fregi”, per cui non mancano, nell’opera, episodi di fantasia, che però debbono essere verosimili, che cioè non sono accaduti ma che sarebbero potuti o potrebbero accadere. Reinterpretando la poetica aristotelica, Tasso così ricava un supporto teorico per mantenere il difficile equilibrio tra reale e ideale, tra storia e fantasia, tra vero e invenzione. Il ricorso alla finzione è giustificato dal desiderio di procurare “diletto” al lettore.
Nelle intenzioni del Tasso, il suo poema doveva essere concepito come poema eroico che, sciolto da ogni legame con il romanzo cavalleresco, si ricollegasse al poema epico greco-romano, e fosse un’imitazione “d’azione illustre” narrata al fine di muovere negli animi la “meraviglia”, e di insegnare, comunicare un messaggio, un valore.
Al fondo del poema è il motivo religioso, seguono poi quello della guerra, dell’eroismo, della gloria, dell’amore, della fortuna.
La religiosità che traspare dal poema appare ora come sfoggio esteriore e conformismo, che trovavano la loro spiegazione nell’Italia della Controriforma; ora come autentico sentimento, angoscia del peccato, bisogno di purezza. Una religiosità quest’ultima, che trova la sua altissima espressione nell’episodio in cui Rinaldo sale sul Monte Oliveto e vince gli incanti demoniaci, potendo così godere, con purezza di cuore, l’alba che sta per nascere.
La guerra non è più vista come un’avventura alla quale il cavaliere andava incontro per perfezionare e adulare se stesso, ma come una necessità dolorosa e inevitabile che il guerriero, cristiano o pagano che sia, affronta con dignità e serietà, come un dovere in fondo al quale vi è la morte propria o di altri. Così appaiono le morti di Clorinda e di Argante.
Il motivo dell’amore si articola in episodi diversi per svolgimenti e soluzioni. Al fondo delle varie storie d’amore, di Erminia e Tancredi, Rinaldo e Armida, Tancredi e Clorinda, Sofronia e Olindo, vi sono, pur nella diversità, alcune caratteristiche comuni: amore come spasimo, corsa affannosa dietro un uomo o una donna, più insomma uno struggimento, un dolore, che una certezza e un piacere.
Ovunque diffuso è poi il motivo della Fortuna, del Fato, della vanità di tutte le cose, un motivo questo che era stato al centro della speculazione politica del Machiavelli. In Tasso questo motivo non è tanto un problema teorico da risolversi, quanto un modo per rendere grave, solenne, il suo verso, quando si avvicinano grandi momenti di sventure o di morte: “Ma ecco ormai l’ora fatale è giunta che ‘l viver di Clorinda al suo fin deve….”.
Tutto, nel poema, dalle avventure, agli amori, al desiderio di gloria trova una dimensione pacata, verso la fine, quando tutti sono più somiglianti tra loro, tutti accomunati in Dio.
Per il confluire nell’opera di tanti motivi legati strettamente all’animo del Tasso, la Gerusalemme liberata, che doveva essere poema eroico è, in realtà, prepotentemente lirico, ed è il capolavoro in assoluto proprio perché in esso l’autore riversò tutto se stesso con le sue contrastanti passioni.
Il rapporto che lega Torquato Tasso al suo poema è completo, totalizzante, forse più che in ogni altro autore. Parafrasando la celebre frase dello scrittore francese Flaubert che, a proposito del suo capolavoro, diceva: «Madame Bovary c’est moi», potremmo attribuire al Tasso la frase: «La Gerusalemme Liberata sono io». E' infatti assoluta l'identità tra poesia e vita, tra l’opera e l’anima che in essa viene messa a nudo, nei suoi aspetti più reconditi.
Tutti i motivi trattati nella Gerusalemme esprimono, in ultima analisi, una verità: la vanità di ogni operazione umana intesa a mettere ordine nelle vicende della Storia. E la contraddizione tra questa esigenza di ordine e di razionalizzazione e la precarietà delle cose umane, non è altro che la proiezione del conflitto interiore che caratterizzò e tormentò tutta la vita del poeta fino ai risvolti drammatici che tutti conosciamo. La nevrosi tassiana era proprio dovuta a quella aspirazione a un mondo di ideale perfezione, inconciliabile, perché in contrasto, con la realtà concreta.
Allo stesso modo, anche i personaggi vivono questo lacerante contrasto, compreso il pio Goffredo di Buglione: il suo ideale di perfetto cavaliere cristiano è sempre messo in crisi dagli imprevedibili tranelli della sorte e dagli ostacoli rappresentati dalle pulsioni terrene e passionali che egli vorrebbe allontanare da sé. Contrariamente a quanto molti hanno pensato, l’autore si identifica proprio in questo personaggio e non nella giovinezza “dolcemente feroce” di Rinaldo, o nell’irruenza di Tancredi. Ciò che accomuna Torquato a Goffredo è infatti l’animo pensoso dell’eroe, la sua angosciosa sensazione di insufficienza, il frustrante fallimento del suo nobile progetto di costruire una comunità di uomini forti, generosi e leali alla quale si contrappone una realtà fatta di meschinità, di ambizione, di ricerca del piacere.
Questa dualità, questo contrasto sempre presente in Tasso, è un aspetto del cosiddetto “bifrontismo tassiano”. Figlio dell’Umanesimo e del Classicismo, Tasso è però un figlio insicuro, problematico. Lo spaventa l’autonomia umana prospettata dal pensiero laico, perché sente in sé un bisogno di superiori certezze.Vive così in pieno questo travaglio epocale, con totale coinvolgimento e grande tormento interiore, perchè non sa rinunciare completamente all’orizzonte umanistico ma non sa nemmeno approdare completamente a quello post-rinascimentale.

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