Storia dell'arte: rinascimento medio

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Testo

LEON BATTISTA ALBERTI

Leon Battista Alberti, nato esule a Genova nel 1404 (solo nel 1428 poté vedere la sua Firenze), morì a Roma nel 1472. Architetto e teorico, è il codificatore delle teorie umanistiche, alle quali cerca di dare forza storica con l’autorevole sostegno degli antichi (Vitruvio) e delle loro opere che inizia a studiare quando, dal 1431 al 1434, si trova a Roma.
Nel 1436 Alberti pubblica il suo primo importante trattato sulle arti visive, il De pictura (1), con cui affronta alcuni dei problemi fondamentali del 1400: la prospettiva (intesa come piramide visiva il cui vertice è l’occhio dell’osservatore. La superficie dipinta è un piano d’intersezione della piramide attraverso cui noi vediamo come “se fusse di vetro tralucente”), il disegno (è circumscriptione, ossia linea contorno che individua, definisce e razionalizza l’oggetto; mezzo intellettuale per comprendere la realtà), la composizione (è la ragione equilibratrice, coordinatrice delle cose viste sottoposte a legge umana), la luce (gradazione chiaroscurale creatrice dei volumi).
Nel 1452 scrive il De re aedificatoria (2), con cui definisce le tipologie costruttive in relazione alle varie funzioni dei singoli edifici. La casa non è più fortezza, ma nucleo del consorzio civile, organizzata in funzione della comunità della famiglia. La chiesa invece deriva dall’antica basilica civile romana la sua forma, il teatro è a ferro di cavallo e nell’ospedale le corsie per le varie malattie sono separate. L’edificio deve in definitiva possedere utilitas (funzionalità, a misura d’uomo), firmitas (maestosità, eternità) e venustas (bellezza definita come unione concorde di parti diverse). Affronta anche problemi di urbanistica, immaginando per la città, entro cui vivono persone in rapporto reciproco tra loro, strade ampie e dritte per le città grandi e, per le piccole, vie tortuose perché, non vedendosene il termine, l’abitato appaia maggiore di quello che è. Alla base dell’architettura albertiana sono il numero (concetto di “finitio”, delimitazione) e la collocazione (collocatio). Vi è inoltre una qualità risultante dalla connessione di questi elementi: la concinnitas che ha il compito di ordinare secondo leggi precise ed universali le parti che, altrimenti, sarebbero distanti.
Solo tra il 1448 ed il 1450 egli ha la possibilità di provare una realizzazione concreta delle sue teorie: viene infatti incaricato da Sigismondo Pandolfo Malatesta di progettare il rifacimento esterno dell’antica chiesa gotica di San Francesco a Rimini. Il nuovo edificio, non casualmente denominato Tempio Malatestiano (3), nella volontà del committente, doveva fungere da tomba monumentale per i dotti della sua corte, per se stesso e per l’amata Isotta. È coerente con lo spirito del rinascimento italiano l’idea di legare il proprio nome ad un monumento, non soltanto per mera ambizione, ma soprattutto per una nuova coscienza della transitorietà dell’uomo, della brevità della vita e della necessità di lasciare scritte, nelle pietre, le proprie idee. Un’idea approssimativa di come avrebbe dovuto essere il Tempio, possiamo formarcela attraverso una rinvenuta medaglia celebrativa. E’ facile riscontrare derivazioni dell’architettura romana. L’arco centrale incassato tra pilastri, ornato in alto da due ghirlande, ricorda il vicino Arco di Augusto a Rimini. Anche la porta, dal timpano fortemente aggettato e incorniciata da stipiti e architrave con più listelli, è d’intonazione romana, così come l’idea di dividere la fronte in due piani ponendo le paraste sopra le semicolonne inferiori, come ordini sovrapposti. Le fiancate poi, con le grandi arcate incassate, hanno fatto pensare alla serie curvilinea degli acquedotti romani. La cupola emisferica infine sarebbe derivata dal Pantheon. Sono però molteplici le differenze: il rapporto fra larghezza e altezza nell’arco centrale della facciata è minore rispetto a quello dell’Arco di Augusto. Inoltre l’alto basamento che corre intorno al tempio, quasi sostenendolo, annulla sia il riferimento agli archi trionfali, sia agli acquedotti. La facciata, nel suo insieme, dà un senso di disorganicità soprattutto a causa della troppo vasta superficie contenuta entro le arcate laterali che risultano appiattite. Le due arcate sulle fiancate laterali, compiute probabilmente secondo il progetto albertiano, sono la parte migliore dell’edificio. Queste, intervallate da pilastri, creano un ritmo solenne e pacato per l’equilibrato contrapporsi di zone sulle quali la luce scorre serena (i pilastri) a zone nelle quali domina l’ombra (l’interno degli archi). Al centro delle arcate si collocano le tombe dei letterati, semplificate e volumetriche. Ma il Tempio pullulava di opere pagane: il Malatesta venne scomunicato da Pio II, che lo definì “infedele del Demonio”; solo il motivo decorativo SI (Sigismondo – Isotta) compare, nell’interno, 500 volte.
La facciata del Palazzo Rucellai (4) di Firenze, primo grande palazzo civile italiano, si divide in tre piani mediante cornici orizzontali (da ricordare che nei palazzi fiorentini il piano terra era adibito a depositi, stalle, dispense, con un grande cortile al centro; il primo piano era abitato dalla famiglia mentre il secondo dai servitori). Ma l’Alberti la spartisce anche verticalmente in settori, mediante semipilastri, ricordo dell’opus reticulatum romano. Tutto viene utilizzato per meglio misurare la facciata: il palazzo è infatti la casa della famiglia e deve rispondere alle caratteristiche di funzionalità, eleganza e bellezza eterna descritte nel De re aedificatoria. Importante l’utilizzo del bugnato, cioè del paramento murario costituito da pietre lisce e regolari.
Nella chiesa di Santa Maria Novella (5) Alberti divide nettamente le due parti della facciata (quella gotica inferiore da quella rinascimentale superiore) con una doppia cornice contenente un motivo geometrico a quadrati ripetuto per tutta la larghezza. Al di sopra indica l’altezza della navata centrale con una zona saliente, ritmata da quattro lesene sporgenti, e coronata da un frontone. Le tarsìe dìcrome chiarificano le superfici, dividendole in zone geometriche regolari. Due grandi volute raccordano, nella facciata, l’altezza della navata centrale a quella delle navate laterali. La facciata si completa con l’arco d’ingresso sostenuto da pilastri classici e affiancato da due semicolonne.
Per Mantova l’Alberti progetta S.Andrea (6), una basilica a croce latina e navata unica. Fondamentale è la proporzione: l’elemento modulare è il quadrato moltiplicato o diviso, con cui si raggiunge la perfetta correlazione di tutte le parti, l’equilibrato commisurarsi delle tre dimensioni, il dominio razionale degli spazi da parte dell’uomo. Sulla navata si affacciano cappelle maggiori e, mediante piccole porte, cappelle minori che intervallano il movimento maestoso delle grandi arcate laterali. I bracci della chiesa sono voltati a botte. La facciata è più piccola della Chiesa ed è spostata in avanti.

PIERO DELLA FRANCESCA

Piero della Francesca nasce ad Arezzo nel 1415 e vi muore nel 1492. E’ il pittore che riesce nella sintesi delle principali esperienze fin qui compiute a Firenze, avendo lavorato in bottega con il maestro Domenico Veneziani.
Nella pala d’altare in cui S.Giovanni battezza Cristo (7), il paesaggio di sfondo parla, in un linguaggio prospettico strutturato con vera profondità. Si può parlare di cristallina essenzialità, di staticità e di immobilità: è raggiunta la perfezione, mediante la ragione e senza coinvolgere i sentimenti. Significative le tre Grazie, che si tengono per mano come gli angeli, simbolo della conciliazione (nel 1439 Firenze è sede del Concilio tra la Chiesa d’Occidente e quella d’Oriente). La Madonna della Misericordia (8), di dimensioni maggiori rispetto ai fedeli, li accoglie allargando le braccia: da notare l’abito rosso, il mantello blu e la fronte rasata con i capelli raccolti, secondo la moda del tempo.
La tavola con la Flagellazione di Cristo (9) è quella che meglio chiarisce l’arte di Piero della Francesca. La flagellazione si svolge entro un’architettura classica, più greca che latina perché colonne scanalate, dal capitello composito, sostengono architravi. La rettilineità delle membrature architettoniche permette, nel complesso, la totale realizzazione dell’impianto prospettico (è dunque razionale, comprensibile) secondo linee convergenti nel punto di fuga. Il pavimento esterno è così diviso, da strisce in marmo bianco, in grandi quadrati, ciascuno dei quali, a sua volta, è diviso in quadrati di cotto. Troviamo poi la decorazione a cassettoni e la divisione in quadrati del soffitto della sala e, nel pavimento interno, un altro tipo di scacchiera. Nel quadrato centrale, dove è posta la colonna della tortura, si iscrive invece una circonferenza. Ad evitare che si verifichi, nella parte alta, l’effetto ottico di sovrapposizione al piano di fondo, Piero pone, sul capitello, una statua, la cui testa e il braccio alzato sono compresi entro la faccia anteriore dell’architrave che divide il quadrato centrale del soffitto da quello più lontano. Davanti alla colonna sta Cristo, colonnare anch’esso nella tornitura del corpo e nel chiaro colore che lo imparenta alle architetture. Egli è indifferente a ciò che accade; persino i flagellatori (tra loro Pilato), disposti intorno, non imprimono impeto ai loro gesti. Non parlano neppure i tre uomini in primo piano, probabilmente il signore di Urbino e due suoi ministri, con indosso il mazzocchio, tipico cappello fiorentino e le pantabrache: ciascuno è immobile e assorto nel proprio mondo, con gli occhi rivolti verso un punto che egli solo vede. Questa assoluta immobilità è l’elemento fondamentale in Piero, perché equivale alla perfezione ideale degli oggetti, immodificabile, matematica, raggiungibile tramite la prospettiva. La luce, chiara e diffusa, individua ogni oggetto, evidenziandone forma e posizione e razionalizza l’uomo, esaltandone le facoltà intellettuali. Il colore, già implicito nell’oggetto, è solo il mezzo con cui la luce chiarifica l’oggetto-idea. La linea circonda i colori e li arresta nel chiarore della luce, costruendo le geometrie dei volumi.
Con il grande ciclo delle Storie della Croce (10) di Arezzo, l'Alberti riveste le pareti della tribuna della chiesa di San Francesco. Egli non segue scrupolosamente l’ordine cronologico della narrazione: impagina gli affreschi seguendo la logica compositiva. Tutte le scene maggiori sono divise verticalmente in due settori: quelle in alto, contenute entro i lunettoni archiacuti, da alberi; quelle mediane hanno a sinistra uno spazio aperto e a destra uno delimitato; in basso le due battaglie presentano a destra i vinti e a sinistra i vincitori. A Piero interessa il coordinamento razionale che esprime profondità di sentimenti. La storia e il mito sono quelli cristiani: Adamo, morente, invia il figlio a chiedere all’arcangelo Michele l’olio della salvazione; l’arcangelo dà invece tre semi tratti dall’albero del bene e del male perché li ponga in bocca al padre al momento del trapasso; da questi semi e dal corpo di Adamo crescerà un albero rigoglioso che fornirà il legno per la croce di Cristo e quindi per la resurrezione dell’uomo. La regina di Saba, recandosi a Gerusalemme per visitare Salomone, si inginocchia davanti al ponte ligneo fatto con il legno sacro cresciuto da Adamo. Costantino la notte precedente la battaglia vittoriosa di Ponte Milvio ha in sogno la rivelazione della sua vittoria nel segno della croce. Ma poiché, in seguito, si è perduta la traccia del luogo in cui si trova seppellita la Croce, la madre di Costantino, Elena, fa torturare un ebreo che conosce il luogo. Dopo il ritrovamento l’imperatore Eraclio sconfigge il re persiano che aveva profanato la Croce e la riporta a Gerusalemme.
Nell’Incontro della regina di Saba con Salomone (11) anche gli scudieri che attendono reggendo i cavalli mentre la regina è inginocchiata al ponte, sono trasfigurati dal rigore della costruzione. I personaggi sono vestiti secondo la moda del 1400; è da aggiungere che nella parte destra del dipinto una stesa donna è raffigurata secondo tre angolazioni diverse.
Nel Sogno di Costantino (12) Piero rappresenta il campo del futuro imperatore la notte precedente la battaglia. Sullo sfondo si scorgono le cime delle tende dietro quella del generale, a forma di cilindro sormontato da cono e aperta sul davanti. Davanti al palo giace Costantino dormiente, vegliato da uno scudiero, seduto sul cassone che attornia il letto e da alcune sentinelle in armi. Dall’alto piomba verso il basso l’angelo; attraverso la luce che lo accompagna Piero crea spazio. Su tutto domina un alto silenzio e un senso di incomunicabilità tra i personaggi: tutto è eterno.
Nel dipinto della Battaglia tra Costantino e Massenzio (13), Costantino ha in mano una croce; neanche in guerra sfugge la nitidezza e la fermezza, seppur in una scena dinamica, del complesso.
Nella Resurrezione del Cristo (14) Cristo, bianchissimo, sta uscendo dal sepolcro con in mano il vessillo della redenzione, mentre i soldati sono addormentati.
Del duca Federico di Montefeltro (15) e di sua moglie, Battista Sforza, egli dipinge, in un dittico di due facce, i ritratti: sul recto sono le effigi dei coniugi, sul verso i trionfi. I duchi sono rappresentati di profilo, con taglio a ½ busto con paesaggio per sfondo, in modo tale che i profili siano circoscritti nettamente dalla linea. Il pallido viso di Battista, tondeggiante, ha superfici levigate, esaltate dalla luce e dalla ricca acconciatura. In Federico invece il rosso dell’abito dimostra, mediante la quantità di luce che riflette o assorbe, le diverse posizioni dei piani entro lo spazio e dà risalto al colore grigiastro del volto. Piero raggiunge un alto senso di trasfigurazione pur non trascurando alcun elemento reale: i dettagli sono anzi molto realistici; dai disegni della manica della duchessa allo splendore dei suoi gioielli, dalle sue rughe alle maniche staccate dal vestito e alla gorgerina intorno al collo. Da notare nel ritratto del duca il vezzo igienico del colletto bianco e il suo collo corto. Tutto per Piero va rigorosamente controllato e deve essere perciò inserito nella piramide visiva: da qui la rappresentazione di spazi privi di atmosfera, apparentemente reali, ma di fatto superiori al reale (si pensi alla miriade di riflessi dell’acqua dello sfondo del duca). Piero conferisce a due personaggi reali una certa superiorità morale, simbolo di eternità ideale.
Da ricordare anche la malinconica Madonna di Senigallia (16) che, con il bambino in braccio, indossa al collo un ramo di corallo. Da notare i particolari come i bottoncini e il velo della Madonna.
La summa delle esperienze pierfrancescane è rappresentata nella Pala di Brera – Madonna col Bambino (17). I santi e gli angeli si raggruppano intorno alla Madonna a semicerchio. E’ presente anche Federico di Montefeltro e la Madonna è forse da intendersi come moglie dello stesso Federico, la quale aveva appena dato alla luce un bambinio. La figura geometrica dominante è il cerchio in un complesso e calcolato rapporto di linee curve. L’uovo (simbolo della creazione) appeso al soffitto assume anch’esso il significato della perfezione geometrica e polarizza la nostra attenzione come fulcro dello spazio architettonico.

SANDRO BOTTICELLI

Botticelli opera nell’ambito della cultura neoplatonica che si sviluppa a Firenze all’Accademia neoplatonica della Firenze medicea: insieme a Ficino si riunivano Alberti, Pico della Mirandola e Poliziano. Lavora prima nella bottega del fratello Antonio e in quella di Filippo Lippi, poi in quella del Verrocchio finchè nel 1470 apre una propria bottega chiamata “Fortezza” in cui avrà come allievo Filippino, figlio di Filippo Lippi. Nel 1482, per il matrimonio di Lorenzo de’ Medici, realizza la Primavera (18) e Pallade che doma il centauro (19). Intelletto e amore, temi cardine della filosofica ficiniana, sono fortemente presenti anche in Botticelli. Mentre Pallade è la ragione che doma gli istinti, Venere, madre di tutte le cose e dea della fecondità, è l’amore: nella bellezza ideale che l’intelletto riesce a concepire, solo l’amore ci conduce a Dio. La linea serve a Botticelli per idealizzare le immagini; non è perciò costruttiva, ma è un segno, inesistente in natura che, contornando gli oggetti, li estranea dalla realtà e li restituisce come li concepiamo mentalmente. La Primavera necessita di una lettura in ordine logico, da destra a sinistra: Zefiro, il vento fecondatore della natura, insegue la ninfa Cloris, che diventerà Flora, in un bellissimo giardino; dalla loro unione nasce la Primavera che avanza spargendo fiori; al centro Venere è sormontata da Cupido bendato; a sinistra le tre Grazie (Castitas, Pulcritudo e Voluptas), intrecciando le dita, danzano armoniosamente la carola dell’amore e Mercurio, simbolo di prosperità, dissipa le nuvole. Cupido scocca una freccia contro Castitas che, dovendo scegliere tra l’amore platonico e quello terreno, opta per quest’ultimo facendo uno sgarbo agli dei. Le figure sono strettamente coordinate tra loro secondo un andamento lineare. Venere è arretrata rispetto alle altre figure ma rientra ugualmente nella trama disegnativa d’insieme e appare addirittura dominatrice. Perciò anche il bell’aranceto (le arance arrivarono nel 1438 in Italia) che funge da sfondo si sviluppa, più che in profondità, in latitudine, come piano d’appoggio (il prato non viene toccato) per accogliere ed esaltare Venere. Botticelli parte da un’attenta osservazione del reale, ma questa realtà è trasfigurata e idealizzata attraverso il particolare concetto di linea, la ricerca di bellezza suprema e il rigore con cui ogni componente rientra nella trama d’insieme. Botticelli realizza il tutto con una tinta bruna che fa risaltare alcuni elementi, come i fiori (i botanici ne hanno contati 500 tipi diversi), le arance e le vesti e contribuisce a dare spazialità allo sfondo mediante l’azzurro del cielo. Botticelli esprime sempre una fondamentale tristezza, forse per la coscienza della fragilità della stessa bellezza, dello stesso amore. Nella Nascita di Venere (20) la diafana Venere è centro della composizione, all’interno della conchiglia della nascita, e verso lei convergono le linee arcuate dei venti e dell’Ora. Nel nudo, classicamente ponderato, si realizza la musicalità intima botticelliana: tutto il corpo è circondato da una linea ininterrotta, sottile ma evidente. La testa, piccola e reclinata, si inserisce nel lungo collo sottile dal quale nasce spontaneamente la doppia inclinazione delle spalle, con l’allargarsi graduale lungo i fianchi e il restringersi, affusolandosi, nelle gambe. La grande massa dei capelli biondi accompagna morbidamente la forma del corpo. Ed è ancora il disegno che delinea le varie parti: le sopracciglia, gli occhi, il naso, la bocca, il seno, togliendo al nudo la carnalità, in un ideale supremo di bellezza platonica. La malinconia botticelliana si accentua: negli occhi di Venere, nel suo ripiegarsi su se stessa, nelle espressioni dei venti. Non è la nascita trionfale della divinità dell’amore; è la coscienza della caducità delle cose.
In Venere e Marte (21), Marte è nudo e intorno a lui i satiri con il corpo di capra si burlano di lui. Venere stessa è nuda: lo scopo è ancora quello di raggiungere l'ideale del concetto di perfezione.
Nello stendardo dell’Adorazione dei magi (22) si possono notare Giuseppe, Maria e il bambino dentro il rudere, posti a piramide al di fuori dell’iconografia tradizionale, e i Medici in corteo con vestiti tipici del Quattrocento.
In Giuditta e Oloferne (23), viene esaltata la forza e la virtù della donna, l'ebrea Giuditta, la quale riesce ad uccidere Oloferne che stava assediando Gerusalemme con il suo esercito, fingendo di esserne sedotta. Nel dipinto Giuditta ha in mano l’ulivo, il corpo è abbastanza statico e i suoi veli si avviluppano.
Nel Ritratto con medaglia (24), rispetto a Piero della Francesca, imposta la figura, forse del fratello Antonio, di ¾. E’ mantenuto invece il paesaggio come sfondo.
Dal 1494 Firenze è scossa dalla predicazione “della vanità” del Savonarola, che prima di finire sul rogo, toccò anche Botticelli. Di questo periodo di crisi fa parte la classica Calunnia (25). Il re Mida, raffigurato, come il peggiore dei giudici, con le orecchie da asino sta condannato un calunniato. Il Sospetto e l'Ignoranza stanno mal consigliando il re mentre la Frode, il Livore, l'Insidia e la Calunnia trascinano il malcapitato. Solo il Rimorso chiede conforto alla nuda Verità, la quale indica in alto la Giustizia divina. La scena è ambientata in un edificio classico con archi a botte, nicchie con statue e bassorilievi; è importante notare come la drammatica espressione dei contenuti nasca dal continuo frantumarsi della linea.
Di questo periodo fa parte anche La deposizione di Cristo (26), in cui le linee sono altamente drammatiche e lasciano intravedere la trasparenza dell’emozione di Maria, sul cui viso è presente il tema della morte.
La Natività mistica (27) invece è la negazione completa dei precedenti botticelliani e di una tradizione artistica andata consolidandosi negli ultimi due secoli. Botticelli, disturbato dall'attesa dell'arrivo dell'Anticristo, dipinge una descrizione delirante e allucinata del presepio: davanti alla capanna ci sono coppie di angeli che si abbracciano e diavoli che escono dalla terra. La linea è ondulata e fine a sé stessa, fatta a pennello con colore bruno. Vi è inoltre un’immobilità profonda all’interno dell’agitarsi dei veli e dei gesti. L’immagine è il tramite con cui si conosce la sapienza e la pittura diviene così contemplazione mentale, anche quando il suo oggetto diventa pura follia.
Dopo il suo ritorno a Firenze dipinge la Madonna del magnificat (28), tavola non ancora ad olio in cui la Madonna, che tiene in braccio il Bambino, viene presentata come donna incolta ma capace di scrivere e leggere guidata dagli angeli.

LEONARDO DA VINCI

La personalità di Leonardo (Firenze 1452 – Amboise, Francia 1519) sfiora il mito. Sicuramente grazie alla sua infinita varietà di interessi, si presta ad apparire assolutamente straordinario: è pittore, scultore, architetto, progettista (anche macchine da guerra presentate a Lorenzo), orafo, urbanista, musico, scienziato (anche se la Chiesa lo vietava, introdusse la dissezione dei cadaveri) ed inventore. Per capirlo interamente, è però necessario spogliarlo del mito ed inserirlo entro il suo contesto storico. Il suo atteggiamento universalistico è proprio del rinascimento: per dominare razionalmente la realtà si deve conoscerla in tutti i suoi aspetti, senza limitazioni specialistiche. L’importanza dei suoi studi sta poi nel capovolgimento totale del metodo di ricerca: Leonardo non accetta acriticamente i dogmi scientifici dell’antichità, ma sottopone tutto a verifica; non accetta l’affermazione che la scienza sia solo legge astratta mentre è solo l’esperienza “madre di tutte le certezze”. Anche la pittura, così come le leggi che regolano la realtà, è mentale poiché dallo studio delle esperienze si può giungere a comprenderla. Importante il ricorso, nelle sue opere, alla figura femminile: Leonardo non ebbe mai una famiglia e fu amato soltanto dal nonno paterno e dalla seconda moglie del padre; sentiva dunque l’esigenza di avvicinarsi, almeno nei suoi dipinti, alla figura di madre, Caterina, mai avuta. Di lui potremmo dire ancora molto: basti aggiungere che scriveva sempre da destra verso sinistra e corredava i suoi scritti con disegni e schizzi.
Nel 1469 il padre si trasferisce a Firenze con la famiglia e Leonardo diviene allievo nella bottega del Verrocchio, una delle più importanti per la possibilità di incontri e per l’ampiezza degli studi. La prima testionianza che possediamo di lui è un celebre disegno, datato 1473 (29), rappresentante un paesaggio con una roccia a destra, un castello a sinistra e una pianura sul fondo. Si osservi l’utilizzo totalmente nuovo della linea: a piccoli tratti, retti o curvi, accenna, evoca, suggerisce la presenza degli alberi, dei monti, degli edifici, delle acque, dei campi, senza descriverli e infine rende la vastità spaziale, confondendo il tutto intriso di atmosfera.
Sappiamo anche che, giovane, aiutò il Verrocchio nel suo celebre Battesimo di Cristo (30). Si dice che quando Verrocchio vide il viso dolcissimo e soave dell’angelo dipinto da Leonardo, invidioso, smise di dipingere.
Intorno al 1475 si data l’Annunciazione (31) degli Uffizi. Comune alla tradizione fiorentina è la collocazione dell’angelo a sinistra e della Vergine a destra. È completamente diversa però l’ambientazione in un giardino fiorito di una villa del tardo Quattrocento, aperto verso il fondo in un vasto paesaggio di un mondo pacificato dalla superiorità della ragione sulla forza, secondo l’ideale umanistico. Per dare riservatezza, ci si limita a porre la Madonna in un angolo dell’edificio che è alle sue spalle, facendone intravedere la camera da letto attraverso la porta, e a cingere il giardino con un muretto, tuttavia aperto. Il significato è chiaro: il miracolo che si sta svolgendo diviene un fatto che trascende la persona di Maria, per investire il mondo, redento della nascita del figlio. Leonardo interpreta dunque più profondamente la narrazione evangelica, parlando all’intelletto: la pittura espone chiare idee che, passando attraverso gli occhi, possono essere capite solo dalla mente. Il prato è ricco di piante e fiori reali per la precisione con cui il nostro occhio può percepire gli oggetti vicini e per la cura con cui la ragione deve, non superficialmente, osservare la realtà. La Madonna appoggia sul libro la destra per impedire che si richiuda e alza la sinistra per la propria consapevole accettazione: è la poetica leonardiana degli affetti per cui ogni personaggio deve esprimere il proprio pensiero. La luce non è piena, ma attenuata, in un’ora vicina al crepuscolo, così da ammorbidire i tratti. La prospettiva della zona anteriore è quella tradizionale: l’edificio sulla destra, il marciapiede ammattonato, il basamento del leggìo e l’apertura del muretto indicano la convergenza verso il punto di fuga collocato al centro. Leonardo scopre, oltre a questa prospettiva lineare, quella cromatica e quella aerea: i colori diminuiscono di intensità ed i volumi di precisione, via via che si allontanano perché tra noi e loro si interpone l’aria in spessore sempre maggiore.
L’Adorazione dei magi (32) ha forma pressoché quadrata, permettendo a Leonardo di organizzare meglio la pittura, in superficie e in profondità. Il punto d’incontro delle diagonali coincide con la testa della Madonna che, arretrata rispetto ai Magi inginocchiati, costituisce il vertice di una piramide.
Nella pala d'altare della Vergine delle rocce (33) sono rappresentati, davanti ad un panorama roccioso, seduti ai bordi di un piccolo specchio d’acqua, la Madonna che tiene una mano sul piccolo San Giovanni, un angelo e il Bambino Gesù. Le quattro figure si dispongono agli estremi delle diagonali interne di un rombo, da cui si alza una piramide il cui vertice è la testa della Vergine. Affinché la vastità spaziale sia protagonista, si viene eliminando la linea di contorno; l’ombra, invece di accentuare il rilievo, lo addolcisce per il delicato trapasso dal chiaro allo scuro, trasformandosi in sfumato.
Nell’Ultima Cena (34) il momento rappresentato è quello immediatamente seguente all’annuncio di Cristo agli apostoli del prossimo tradimento. Leonardo riesce a mettere in luce l’agitazione, lo sconcerto, il dubbio tra gli apostoli su chi sia il traditore ed i sentimenti di tutti evitando ripetizioni. I dodici apostoli si dividono in quattro gruppi di tre ciascuno: fra essi è Giuda, un gomito appoggiato sul tavolo, rivolto verso Cristo, parzialmente in ombra e turbato perché colpevole. I quattro gruppi formano altrettante piramidi concatenate tra loro; è piramidale anche Gesù con le braccia allargate in segno di dedizione, a rappresentare la consapevolezza della solitudine dell’uomo. La sala è rappresentata con prospettiva lineare: il pittore definisce la profondità mediante la convergenza delle linee verso il punto di fuga, indicate dai lati della tavola e dai riquadri a cassettoni del soffitto. Al di là delle finestre aperte, torna la distesa profonda degli spazi, nella luce rosata del tramonto.
La Gioconda (35), del periodo 1513-1515, è il quadro più famoso al mondo. Si è detto di tutto del quadro, persino che la Gioconda fosse la madre, un efebo o addirittura Leonardo stesso. Nei 3/4 della rotazione Leonardo coglie la mobilità della vita dell'uomo. Il lieve trapasso dalla luce all’ombra, lo sfumato e la leggerissima sfocatura dell’immagine esprimono questa palpitazione. La Gioconda siede davanti ad un parapetto sopra cui si intravedono, ai lati, due colonnine sagomate, come se fosse collocata in una terrazza a loggia, all’interno di un palazzo. Al di là del parapetto c’è lo spazio naturale, reso più ampio dalla digradazione cromatica e dall’incertezza dello sfumato che allontana gli oggetti abbracciandoli in una densa atmosfera. Si ottiene dunque una così vasta spazialità che il microcosmo rappresentato, unitario nei suoi soggetti, appena una piccola proporzione del mondo, finisce con il trasformarsi in macrocosmo.
Si osservi Sant’Anna, la Madonna e il Bambino con un agnello (36): il sorriso della Madonna esprime qui la sintesi di Leonardo, il rapporto d’amore tra persona umana e natura, non ostile perché studiata e dunque posseduta.
Nel 1503 venne affidato a Leonardo l’incarico di dipingere, su una parete della Sala del Gran Consiglio in Palazzo Vecchio a Firenze, la Battaglia di Anghiari (37), mentre su un’altra parete Michelangelo avrebbe dovuto rappresentare la Battaglia di Cascina. Leonardo sospese i lavori a causa della sperimentazione infelice della tecnica a encausto, fissata a fuoco. Leonardo aveva realizzato la sola zona centrale della battaglia, riservandosi di dipingere successivamente i pannelli laterali. Per quello che si può capire dai disegni autografi, il pittore doveva aver reso il senso vorticoso, il moto, la precarietà della lotta.
Dal 1506 in avanti Leonardo si reca spesso a Milano, da dove compie importanti studi geologici e idrografici nelle valli lombarde e prepara i piani di canalizzazione dell’Adda.
Il Ritratto di dama con ermellino (38), forse Cecilia Gallerani, personaggio di rilievo della corte di Ludovico il Moro, si basa sulla raffigurazione piramidale del busto lievemente rotante.
L'ultimo quadro di Leonardo, S. Giovanni Battista (39), nell'alternanza di toni bruni e dorati, ripete il trapassare quasi inavvertibile della luce, abolendo il disegno e il contorno e rappresentando S. Giovanni quasi come un dio.

MICHELANGELO BUONARROTI

Secondo la definizione del Vasari, Michelangelo è il “divinissimo” mandato in terra da Dio per mostrare la perfezione dell’arte in tutti i suoi aspetti. Michelangelo appartiene a una famiglia di piccola nobiltà e compie i primi studi artistici nella bottega del Ghirlandaio, ma più importante è il periodo che passa presso il circolo intellettuale neoplatonico di Lorenzo il Magnifico, il “giardino di San Marco”, frequentato da personaggi del calibro di Ficino, Poliziano e Pico della Mirandola. Nel giardino i giovani avevano davanti a loro antichi modelli pittorici e si esercitavano a copiarli: proprio dalla copiatura nasce la poetica michelangiolesca: Michelangelo considera ciò che scolpisce come già esistente, come la riproduzione di ciò che già vive nel marmo. Per Michelangelo la mano è lo strumento che esegue meccanicamente la volontà dell’intelletto, il quale non può avere nessuna idea, in sé eterna, che già non preesista all’interno del marmo. L’artista ha il compito dunque di liberarla dalla materia, lottando con essa. E’ il motivo costante della sua arte, già dai primi disegni copiati da Giotto e Masaccio: la lotta dell’uomo, imprigionato, oppresso, sconfitto, per raggiungere una meta, verso la quale dobbiamo tendere per salvaguardare la nostra dignità.
La sua prima scultura è la Madonna della scala (40): la Madonna, posta di profilo, occupa l’altezza totale della lastra, il bordo inferiore funge da piano d’appoggio per i piedi mentre quello superiore comprime la testa aureolata e il Bambino, succhiando il latte, è schiacciato dal seno materno.
Nella Battaglia dei Centauri (41) il soggetto, riferito all'antico mito classico, sembra sia stato suggerito da Poliziano. La scena è dominata dal giovane Apollo, in alto al centro, che si volge da un lato sollevando il braccio destro; il gesto sembra imprimere movimento all’intera composizione, in verticale ed in orizzontale. Un altro elemento tipicamente michelangiolesco è la mancanza di prospettiva geometrica. Lo spazio è liberamente creato dal diverso emergere dei volumi dalla lastra marmorea, cosicché possiamo enumerare molteplici piani con le figure in gran parte ancora contenute all’interno del marmo. La liberazione dell'idea tramite la trasformazione in forma avviene secondo un procedimento progressivo per cui, quando alcune parti già emergono libere, altre sono ancora imprigionate. Di qui il diverso trattamento della materia: appena scalpellata nella cornice, sbozzata nei piani più interni, via via più lavorata sulle superfici esterne.
Nella Pietà di San Pietro (42), il classicismo assume un significato ben diverso dalla banale imitazione del tema della pietà, ossia della Vergine che raccoglie in grembo e contempla il figlio morto, ma porta alla completa idealizzazione della forma. L’arte per Michelangelo non è narrativa, ma speculativa: la Pietà non narra così il dolore della madre, non mostra lo strazio del corpo martoriato di Cristo; al contrario, la vita e la morte, riunite insieme, raggiungono la perfezione divina. Si spiega così la forma piramidale che conduce al vertice, all’unità, della testa della Vergine. Lo spessore relativamente esiguo, rispetto all’altezza e alla larghezza, significa che lo spettatore è costretto a percepire il gruppo statuario come un rilievo addossato a un piano ideale di fondo da cui emerge. Le sovrabbondanti pieghe della veste risaltano maggiormente, per contrasto, la bellezza e la finezza alessandrina del corpo nudo, che a sua volta esprime la sublimazione del suo sacrificio. La purezza e l’incorruttibilità spirituale sono così espresse mediante l’incorruttibilità della carne del Cristo.
Nel David (43) è palese il significato della coscienza dell’uomo e della calma sovrana che gli deriva dalla consapevolezza della superiorità della virtus, la forza morale che è dentro di lui. Non dunque l’uomo in assoluto, perfetto, secondo la concezione greca, bensì l’uomo moderno del quale si evidenziano le qualità interiori. Anche se l’impianto è classico secondo la ponderazione policletea, infatti, vi è un crescendo di interesse plastico, dal basso verso l’alto, in relazione alla differente importanza delle varie parti del corpo. Dalle gambe lisce si passa al busto con i possenti rilievi anatomici, per giungere alla testa, fulcro della composizione perché sede del pensiero, con la fronte corrugata (concentrazione dell’intelletto), e lo sguardo intenso (percezione della realtà). A rendere ancora più importante la testa è l’attacco saldo al busto mediante i fieri muscoli sternocleidomastoidei. Le mani hanno una grandezza maggiore rispetto alla norma, perché strumento della ragione, ed entrambe sono di straordinaria potenza. L’eroe è gigantesco perché la grandezza materiale simboleggia quella morale ed è nudo perché armato soltanto della propria virtù.
Come Leonardo, anche Michelangelo riceve l’incarico di affrescare la Sala del Gran Consiglio in Palazzo Vecchio: deve dipingere la Battaglia di Cascina (44). Durante questa battaglia, avvenuta nel 1364 contro i pisani, i soldati fiorentini si erano spogliati delle armi e si erano tuffati nell’Arno, ma un cavaliere, resosi conto del pericolo, aveva dato l’allarme, richiamando tutti al proprio dovere e permettendo al proprio esercito di vincere. Michelangelo voleva ritrarre l’episodio in cui i soldati fiorentini si rivestono frettolosamente ma non iniziò mai la realizzazione pittorica sulla parete.
Nel 1518 Michelangelo firma il contratto per la realizzazione della facciata della Basilica di San Lorenzo (45), progettata dal Brunelleschi. Del progetto di Michelangelo possediamo solo un disegno ed un plastico in legno che non rispecchiano le forme reali della basilica: la presenza delle tre navate e la sopraelevazione della maggiore sono soltanto accennate nel progetto. Michelangelo aveva pensato invece ad un corpo rettangolare, suddiviso verticalmente in settori aggettanti o rientranti e, orizzontalmente, in più piani mediante cornici. La facciata si sarebbe poi vitalizzata con l’addossamento di colonne e pilastri, altorilievi e grandi statue. Ne sarebbe risultato un insieme plastico, come una vasta superficie marmorea scolpita. Nel 1520 il contratto viene sciolto e lui inizia a lavorare alla realizzazione di una cappella annessa alla Basilica, che sorse accanto al transetto destro, in corrispondenza della Sagrestia Vecchia di Brunelleschi; fu detta anch’essa Sagrestia, la Sagrestia Nuova (46). Questa rispecchia, nell’interno, alcune caratteristiche brunelleschiane come le strutture architettoniche in pietra contro il fondo chiaro. Ma se in Brunelleschi la pietra serena definisce geometricamente la forma e lo spazio mediante la prospettiva lineare, in Michelangelo il grigio della pietra determina il risalto contro il piano d’appoggio. Anche le pareti, invece che superfici neutre di materiale povero come in Brunelleschi, sono mosse, e le inferiori sono costituite da materiale nobile e duraturo, il marmo di Carrara. La scultura non è subordinata all’architettura, come nel medioevo, e non vive autonomamente, come nel primo rinascimento. In Michelangelo l’una e l’altra hanno una sola matrice: sono idee, perché forme, individuate dall’artista. Il punto di vista è il centro del vano architettonico, entro cui l’osservatore è inserito, diventando attore, mentre le sculture di Michelangelo muovono verso di lui. I sepolcri sono costituiti da sarcofagi sui cui coperchi giacciono figure nude semisdraiate, mentre le statue dei defunti seduti sono parzialmente contenute entro nicchie sovrastanti. I sepolcri con la stessa forma sono due: quelli dedicati a Giuliano duca di Nemours e a Lorenzo d’Urbino. Il monumento di Lorenzo il Magnifico non venne realizzato, ma forse sarebbe stato uguale. Sul sarcofago di Lorenzo d’Urbino giacciono l’Aurora e il Crepuscolo, su quello di Giuliano il Giorno e la Notte. Queste quattro figure esprimono, senza speranza, l’inutilità dell’azione, poiché ogni azione è impedita dalla sapienza che conosce la finitezza dell'uomo, la sua transitorietà; l’Aurora si desta lentamente alla fatica della giornata, contraendo la fronte e schiudendo amaramente le labbra, il Crepuscolo si ripiega su se stesso, la Notte dorme un sonno pesante, liberatorio e il Giorno giace per sapienza. Per questo i due protagonisti, Giuliano e Lorenzo, sono ambedue pensosi, riflettendo del destino della vita umana.
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  1. rosalba

    rinascimento medio storia dell'arte