La rivoluzione industriale inglese

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LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE INGLESE

Gli storici hanno raccolto sotto il nome di “rivoluzione industriale” l’insieme dei mutamenti di carattere economico e sociale avvenuti in Inghilterra nell’arco di tempo compreso tra gli ultimi decenni del Settecento e la prima metà dell’Ottocento.
Ci troviamo di fronte a partire dal 1780 a un momento di decollo dell’economia europea, cui segue un processo cumulativo di crescita.
Si trattò di una trasformazione qualitativa, che si basò sull’introduzione di nuovi fattori di produzione e su un modo nuovo di combinarli.
La crescita quantitativa e le trasformazioni qualitative, non vanno mai separati quando si parla di rivoluzione industriale. Nel giro di un secolo, tra il 1750 e il 1850, il prodotto nazionale della Gran Bretagna aumentò di sette volte, quello procapite raddoppiò, la popolazione triplicò, le importazioni aumentarono di dieci volte, le esportazioni di quattordici.
Mentre nel 1770 quasi la metà del prodotto nazionale proveniva dall’agricoltura, nel 1846 questa percentuale si era ridotta a un quarto; al contrario, il contributo delle attività industriali era quasi raddoppiato. Lo stesso fenomeno può essere letto nella struttura dell’occupazione, con la caduta verticale degli addetti all’agricoltura sul totale della forza-lavoro.
In poche parole, nell’Inghilterra di metà Ottocento l’industria ha ormai soppiantato l’agricoltura nella formazione di reddito nazionale, gli operai hanno in gran parte sostituito i contadini. Possiamo dire di non trovarci più in una società agricola ma in una società industriale.
Alla metà del Settecento, il livello di reddito dell’economia inglese era analogo a quello francese e olandese; dal punto di vista del potenziale economico complessivo, la Gran Bretagna era superata dalla Francia, che godeva di un territorio più esteso e di una popolazione tre volte superiore. Dopo cento anni, la graduatoria vedeva la Gran Bretagna con un ampio margine di vantaggio sulle dirette inseguitrici, essa era diventata esportatrice netta di merci e capitali.
La ricerca storica ha messo in evidenza che non è possibile né opportuno isolare una causa unica o assolutamente preponderante del fenomeno: conviene analizzare le condizioni che resero possibile il fenomeno del decollo europeo e mettere in luce le iterazioni tra i diversi fattori condizionanti. Perché questo avvenisse vi era il bisogno di:
a) capitali da investire;
b) materie prime e fonti di energie;
c) domanda crescente di manufatti industriali;
d) adeguate vie di comunicazione e sistemi di trasporto;
e) abbondante forza lavoro a basso costo;
f) innovazioni tecnologiche rapidamente applicabili al processo produttivo.
L’economia inglese della seconda metà del Settecento, disponeva di tutte queste condizioni contemporaneamente.
Un ruolo decisivo, ebbero la “rivoluzione agricola” e il primato dell’Inghilterra nei commerci internazionali.con le trasformazioni dell’agricoltura si formò un surplus di risorse che favorì il decollo industriale, sia perché disponibili capitali per l’investimento, sia perché permise di mantenere basso il livello dei salari operai, agevolando la formazione del profitto industriale. Inoltre, la rapida dissoluzione dell’agricoltura comunitaria di villaggio, accompagnata dalla crescita demografica, liberò progressivamente forza-lavoro dalla terra, garantendo alla nascente industria inglese manodopera a basso costo.
Il commercio internazionale giocò un ruolo importante per più ragioni: per la formazione di capitali di investimento; perché garantì il rifornimento di materie prime, come il cotone greggio;perché aprì ampi mercati internazionali ai manufatti inglesi.
Quanto alle risorse naturali, la Gran Bretagna era ben dotata di carbone e di ferro, due fattori produttivi destinati a rivelarsi strategici.
Tuttavia, tali risorse furono rese realmente disponibili sol grazie alle innovazioni tecnologiche, e ai miglioramenti nel sistema interno dei trasporti.
Il paese conobbe un grande miglioramento in questo settore, con la costruzione di una fitta rete di nuove strade e soprattutto, di canali navigabili. Il primo grande canale inglese , che collegava le miniere di carbone di Worsley con Manchester e Liverpool, ridusse a un sesto i costi di trasporto del carbone. Ben prima della ferrovia, furono dunque strade e canali a rendere possibile il decollo industriale, collegando miniere, fabbriche e mercati anche lontani.
La presenza di questo insieme di condizioni non implicava il loro utilizzo combinato e finalizzato allo sviluppo. Questo accade sotto lo stimolo di una strozzatura nell’organizzazione tradizionale della produzione industriale, che rese vantaggiosa la ricerca di nuove vie.
In altri termini il sistema dell’industria domestica, evidenziò i propri limiti di fronte all’aumento della domanda. Il putting out sistem, era flessibile quando si trattava di contrarre la produzione, assai meno quando si trattava di aumentarla. L’imprenditore che volesse fare questo, doveva estendere la rete dei lavoranti su un territori più ampio, perché i contadini non accettavano di lavorare oltre un certo limite: ciò comportava un aumento dei costi di trasporto e di organizzazione. Inoltre il grado di controllo della forza lavoro era basso, la qualità desiderata difficilmente ottenibile. La superiorità del nuovo sistema che concentrava lavoratori e macchine in una stessa unità produttiva condusse rapidamente ad una crisi dell’industria domestica: ciò diede un ulteriore impulso allo sgretolamento dell’economia familiare agricola e al trasferimento di forza-lavoro dalle campagne alle fabbriche.
Il fattore dell’innovazione tecnologica può essere chiarito descrivendo concretamente il “meccanismo” della rivoluzione industriale. Adesso prendiamo in considerazione i tre settori fondamentali: tessile, siderurgico, estrattivo, dalla cui iterazione si è sviluppato l’intero processo. Partiamo dal settore tessile, all’interno del quale l’industria più importante, prima della rivoluzione industriale, era quella della lana favorita dall’ampia disponibilità di materia prima grezza. I cambiamenti rivoluzionari, posero in primo piano la lavorazione del cotone. Il cotone presentava caratteristiche più favorevoli a un processo di industrializzazione: esso rispondeva a un bisogno primario, quello di vestirsi, a costi molto inferiori rispetto a quelli della lana, e godeva perciò di una domanda potenziale ben più ampia; mentre la lana doveva essere filata a mano per ottenere un prodotto di buona qualità, il cotone più resistente, si prestava assai meglio alla meccanizzazione della filatura. Nel 1773 John Kay aveva introdotto nella tessitura della lana la “navetta volante”, che permetteva di quadruplicarne la produzione, ma questa innovazione si era diffusa con estrema lentezza nell’industria laniera. Quando nel 1750-60 venne applicata al cotone, si mise in evidenza la lentezza delle operazioni di foratura. Questa strozzatura incentivò una serie di innovazioni tecniche: il filatoio meccanico intermittente di Hargreaves ( jenny); il filatoio idraulico di Arkwright; il filatoio di Crompton, detto mule, che riusciva a produrre un filato ritorto forte e fine al tempo stesso.
La meccanizzazione della filatura portò con sé un sensibile aumento della produttività per ora lavorata e, nonostante l’aumento dell’investimento di capitale, una forte diminuizione di costi di produzione e dei prezzi. Di qui un’ulteriore stimolo alla domanda, interna ed estera, e uno sviluppo delle esportazioni: in capo al 1816 il cotone lavorato costituiva il quaranta per cento delle esportazioni inglesi e aveva soppiantato definitivamente le cotonate indiane sui mercati internazionali. A valle del processo produttivo, la tessitura divenne inadeguata a fronteggiare l’enorme aumento di produzione dei filati. Fu il telaio meccanico di Cartwright a risolvere questa strozzatura, anche se in tempi piuttosto lunghi. Il telaio meccanico faticò a imporsi sia perché ebbe bisogno di aggiustamenti e perfezionamenti per divenire realmente competitivo con quello a mano, sia per le resistenze degli artigiani tessitori indipendenti, che ingaggiarono una dura lotta contro la nuova macchina e il sistema di fabbrica che essa portava con sé. Solo negli anni ’30-40 i tessitori si arresero al telaio.
Un analogo andamento, in cui la situazione di un problema tecnologico crea squilibrio, si ebbe nel settore siderurgico e, in particolare, in quel rapporto ferro-carbone che costituì il centro della rivoluzione industriale inglese. Benché non fosse povera di miniere di ferro, l’Inghilterra per buona parte del Settecento, fu costretta a importare ghisa a barre della Svezia. La fusione avveniva in altiforni alimentati a carbone di legna: ma il rapido esaurimento delle riserve di legname, l’alto costo dei trasporti e la scarsa purezza della ghisa prodotta rendevano poco economica la siderurgia nazionale. Fin dal 1709 Abraham Darby, nella sua fonderia di Coalbrookdale, aveva individuato un procedimento per utilizzare come combustibile di fusione il coke, carbon fossile sottoposto a una speciale cottura che ne riduceva le impurità. Ma solo nel 1784 Henry Cort mise a punto una tecnica che permetteva di produrre ghisa di buona qualità in altiforni a coke. La siderurgia inglese si metteva così in condizione di rispondere alla crescente domanda di prodotti ferrosi riuscendo a raddoppiare la produzione di lingotti di ghisa. Si venne a creare un circolo economicamente propulsivo fra il carbone e il ferro, la rete era adeguata a sopportare questo sviluppo.
Tuttavia si presentò una nuova strozzatura: per soddisfare la crescente domanda di carbon fossile la profondità dei pozzi venne aumentata fino al punto in cui l’acqua impediva di proseguire. Bisognava trovare un modo per prosciugare l’acqua dai pozzi.
La soluzione fu trovata da James Watt, che nel 1775 brevettò una macchina che consentiva di azionare pompe capaci di prosciugare i pozzi in profondità. La macchina a vapore, feca molto di più che permettere lo sfruttamento su scala gigantesca del carbone e, quindi, l’ascesa verticale della produzione di ghisa. Essa fornì all’industria una forza motrice molto più potente, costante e flessibile di quella umana o idraulica: l’intero processo di meccanizzazione ne ricevette un’enorme impulso. Anche la macchina a vapore, per gli alti costi e i difetti di funzionamento iniziali, impiegò tempo per affermarsi: ma quando ciò avvenne, il ciclo pionieristico delle rivoluzione industriale poté dirsi concluso. La rivoluzione industriale può essere suddivisa in tre fasi: la prima va dal 1760-90, caratterizzata da meccanizzazione della filatura e dall’introduzione dei nuovi metodi in siderurgia.
La seconda fase dal 1790 al 1820-30, in cui si assiste all’esplosione della tessitura meccanica e della macchina a vapore; e infine una terza fase, sino al 1850, dominata dalla ferrovia.
Fu certamente la ferrovia la più straordinaria applicazione della macchina a vapore, sin dal 1814, quando il minatore Gorge Stephenson costruì la prima locomotiva montandone una su un carrello da miniera.
Con la ferrovia, l’economia inglese trovò non solo un mezzo che abbatteva in modo drastico tempi e costi di trasporto, ma un nuovo potente stimolo alla domanda interna, capace di sostituirsi rapidamente al settore tessile come settore trainante dell’economia.

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