La prima guerra mondiale e il dopoguerra

Materie:Riassunto
Categoria:Storia

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Testo

PRIMA GUERRA MONDIALE
Dall’attentato di Sarajevo alla guerra Europea
Il 28 giugno 1914 uno studente serbo-bosniaco, Gavrilo Princip, uccise l’erede al trono d’Austria Francesco Ferdinando e sua moglie, mentre attraversavano in auto scoperta per le vie di Sarajevo, capitale della Bosnia.
L’attentatore faceva parte di un’organizzazione irredentista che aveva la sua base in Serbia.
Questo bastò per suscitare la reazione del governo e dei circoli dirigenti austriaci, convinti da tempo di dover impartire una dura lezione alla Serbia.
Un attentato terroristico si trasformò in un caso internazionale e mise in atto una catena di reazioni e controreazioni che fecero precipitare l’Europa in un enorme conflitto.
Nell’Europa del 1914 esistevano tutti i presupposti per una guerra: rapporti tesi tra le grandi potenze (Austria contro Russia, Francia contro Germania, Germania contro Inghilterra), divisione in blocchi contrapposti, corsa agli armamenti, spinte belliche all’interno dei singoli paesi.
Queste premesse comunque non avevano come sbocco obbligato il conflitto europeo. Ma fu l’attentato di Sarajevo a far esplodere le tensioni; furono le decisioni dei capi militari a trasformare una crisi locale in una guerra generale.
L’Austria, il 23 luglio, inviò un durissimo ultimatum alla Serbia, mentre la Russia assicurava il proprio sostegno alla Serbia, che era sua principale alleata.
Con il forte appoggio della Russia la Serbia accettò solo in parte l’ultimatum, respingendo la clausola che prevedeva la partecipazione di funzionari austriaci alle indagini dell’attentato.
L’Austria giudicò la risposta insufficiente e le dichiarò guerra. Il giorno successivo, la Russia ordinò la mobilitazione delle forze armate. Questa mobilitazione – che i generali russi volevano estendere all’intero confine occidentale per prevenire un possibile attacco da parte della Germania – fu interpretata dai tedeschi come un atto di ostilità, così inviò un ultimatum alla Russia intimandole la sospensione dei preparativi bellici: l’ultimatum non ottenne risposta e fu seguito dalla dichiarazione di guerra alla Francia. Fu quindi il governo tedesco a far precipitare le cose. Bisogna ricordare che la Germania soffriva di un complesso di accerchiamento, ritenendosi soffocata nelle sue ambizioni internazionali.
La strategia dei tedeschi si basava sulla rapidità e sulla sorpresa, non voleva lasciare la possibilità di iniziativa in mano agli avversari.
Il piano di guerra tedesca prevedeva in primo luogo un attacco alla Francia, che doveva essere messa fuori gioco in due settimane. Dopodichè il grosso doveva essere impiegato contro la Russia.
Per riuscire nel tentativo essenziale era la rapidità dell’attacco alla Francia; a questo scopo i tedeschi passarono attraverso il Belgio, la cui neutralità era garantita da un trattato internazionale.
Il 4 agosto i tedeschi invasero il Belgio per attaccare la Francia da nord-est.
La violazione della neutralità belga scosse l’opinione pubblica europea e determinò l’intervento dell’Inghilterra nel conflitto, già preoccupata di un eventuale vittoria della Germania.
Così l’Inghilterra dichiarò guerra alla Germania il 5 agosto.
Tutti i governi sottovalutarono la gravità dello scontro che si stava preparando. Fra i politici era diffusa la convinzione che una guerra avrebbe contribuito a soffocare i contrasti sociali e a rafforzare i governi e la classe dirigente. Ma questo si rivelò sbagliato. Le forze pacifiste non trovarono appoggio nell’opinione pubblica che sosteneva la causa nazionale e riconosceva le buone ragioni del paese.
Nemmeno i partiti socialisti, che avevano fatto del pacifismo e dell’internazionalismo come loro ideali, seppero o vollero sottrarsi a questo clima di unione sacra.
I capi della socialdemocrazia tedesca votarono in Parlamento a favore dei crediti di guerra. I socialisti francesi, quando fu ucciso il loro leader Jean Jaurès in un attentato da un fanatico nazionalista, rinunciarono a ogni manifestazione di protesta ed entrarono a far parte del governo. Stessa cosa fecero i laburisti inglesi. La Seconda Internazionale cessò di esistere.
Dalla guerra di movimento alla guerra di usura
La leva militare obbligatoria e i mezzi di trasporto divennero sempre più moderni, e consentirono ai belligeranti la possibilità di disporre di eserciti sempre più grandi.
Nell’agosto del ’14 la Germania mandò al fronte un milione e mezzo di uomini, la Francia più di un milione, così pure gli inglesi e i belgi. Non solo uomini ma anche armi più potenti.
La novità più importante fu la mitragliatrice automatica capace di sparare centinaia di colpi al minuto.
? le potenze belligeranti non portarono alcun cambiamento nelle strategie della guerra, continuarono con la cosiddetta guerra di movimento, con cui i tedeschi all’inizio ottennero una serie di successi lungo la Marna con la Francia, il cui governo si affrettò a lasciare la capitale con i russi nelle battaglie di Tannemberg e dei Laghi Masuri. Ma la Francia lanciò un improvviso contrattacco e i tedeschi furono costretti a rientrare.
Con questo arresto dell’offensiva sulla Marna il progetto di guerra tedesco poteva dirsi fallito.
Da qui cominciò una guerra di nuovo tipo, quella di logoramento. Due schieramenti immobili che si affrontavano in una serie di sanguinosi attacchi, seguiti da lunghi periodi di stasi.
In una guerra così non importava più una superiorità militare.
La Gran Bretagna per esempio poté contare su un impero coloniale e la superiorità navale. Come pure la Russia.
Cambiò anche l’atteggiamento degli altri paesi che fino a quel momento non avevano partecipato al conflitto. Da qui, la tendenza ad all’allargarsi del conflitto.
Infatti nell’agosto del 14 il Giappone dichiarò guerra alla Germania per prendersi le proprietà dei tedeschi in Estremo Oriente.
L’Italia dalla neutralità all’intervento
A guerra appena iniziata il governo di Salandra aveva dichiarato la neutralità dell’Italia, giustificata col carattere difensivo della Triplice Alleanza, (l’Austria non era stata attaccata, né aveva consultato l’Italia prima di attaccare la Serbia) che trovava concordi in tutte le forze politiche.
Ma si fece più viva l’eventualità di una guerra contro l’Austria, che avrebbe consentito all’Italia di portare a termine il processo di riunione con Trento e Trieste. Portavoce di questa linea interventista furono gruppi e partiti della sinistra democratica: i repubblicani, i radicali, i socialriformisti, e ovviamente gli irredentisti. A questi si aggiunsero esponenti estreme del movimento operaio che appoggiarono la causa della “guerra rivoluzionaria”: guerra destinata a rovesciare gli equilibri dei paesi coinvolti.
I nazionalisti volevano che l’Italia si affermasse come potenza imperialista. Mentre più calmi erano i liberal-conservatori che avevano i loro punti di riferimento nel presidente Salandra e nel ministro Sonnino che temevano il compromesso dell’Italia nella sua posizione internazionale in caso di mancata partecipazione al conflitto.
L’ala più consistente dello schieramento liberale, facente capo a Giolitti, era quella schierata per la neutralità. Infatti Giolitti riteneva il paese pronto per affrontare la guerra ed era convinto che gli imperi centrali, per la sua neutralità, gli avrebbero concesso parti dei territori rivendicati.
Decisamente ostile alla guerra era il mondo cattolico. Papa Benedetto XV assunse un atteggiamento pacifista.
Sempre contrari alla guerra furono il Psi e la Cgl, mentre Benito Mussolini si schierava per l’intervento; espulso dal partito, fonde un nuovo giornale “il popolo d’Italia” a favore dell’interventismo di sinistra.
Nonostante i pacifisti erano in maggioranza, gli interventisti seppero mobilitarsi e impadronirsi del dominio delle piazze. Interventisti furono anche personaggi come: Einaudi, Salvemini, e D’Annunzio.
Ma ciò che decise l’esito dello scontro tra pacifisti e interventisti fu l’atteggiamento del capo del governo, del ministro degli esteri e del re, ovvero a chi spettava il potere di decidere il destino del paese per quanto riguarda le alleanze internazionali.
Il 26 aprile 1915 Salandra e Sonnino decisero di accettare le proposte dell’Intesa firmando il “patto di Londra”, con Francia, Inghilterra e Russia.
Le clausole principali prevedevano che l’Italia avrebbe ottenuto in caso di vittoria, il Trentino, il Sud Tirolo fino al confine con il Brennero, la Venezia Giulia, l’intera penisola istriana (tranne la città di Fiume), una parte della Dalmazia con le isole adriatiche.
Bisognava superare l’opposizione della maggioranza neutralista della Camera, cui spettava la ratifica del trattato.
Quando, Giolitti, ancora prima di essere al corrente del patto si Londra si pronunciò per la continuazione delle trattative con l’Austria, molti lo appoggiarono, inducendo Salandra a dare le dimissioni. Ma la volontà neutralista fu scavalcata, da una parte il re respinse le dimissioni di Salandra, dall’altra le manifestazioni di piazza che si fecero sempre più imponenti.
Il 20 maggio 1915 per evitare una crisi istituzionale la Camera approvò la decisione del re e dichiarò guerra all’Austria.
I socialisti riuscirono ad organizzare un’opposizione efficace.
La grande strage (1915-1916)
Sul confine orientale le forze austro-ungariche si attestarono lungo il corso dell’Isonzo e sul Carso. Contro questo gruppo, il comandante Luigi Cadorna sferrò 4 offensive senza aver nessun successo.
Dopo aver perso 250.000 uomini, alla fine dell’anno, l’esercito italiano si trovava a combattere sulle stesse posizioni su cui si era schierata all’inizio.
Situazione analoga si era creata sul fronte francese. Anche qui gli schieramenti rimasero immobili per tutto il 1915.
In quegli anni gli unici successi furono ottenuti dagli austro-tedeschi: prima contro i russi che furono costretti ad abbandonare buona parte della Polonia; poi contro la Serbia.
All’inizio del 1916 i tedeschi sferrarono un attacco contro la piazzaforte francese di Verdon. La battaglia si risolse in un inutile carneficina e il massacrò continuò con gli inglesi che tentarono una controffensiva sul fiume Somme.
Sul fronte italiano, nel 1918, l’esercito austriaco tentò di penetrare dal Trentino, gli italiani furono colti di sorpresa dall’offensiva chiamata “strafexpedition” (spedizione punitiva contro l’antico alleato ritenuto colpevole di tradimento), ma riuscirono ad arrestarla.
Il governo Salandra fu costretto alle dimissioni e sostituito da un ministero di coalizione nazionale presieduto da Paolo Borselli.
Sul fronte orientale furono i russi a prendere l’iniziativa lanciando un’offensiva per recuperare i territori persi l’anno prima. A seguito dei successi russi, la Romania si schierò a fianco dell’intesa ma subì la stessa sorte della Serbia.
Ma gli imperi centrali (Germania, Austro-Ungarico) restavano sempre inferiori all’intesa e subivano le conseguenze del ferreo blocco navale attuato dagli inglesi nel mare del nord.
La guerra nelle trincee
Vera protagonista di questa guerra fu la trincea cioè un fossato scavato nella terra per mettere i soldati al riparo del fuoco nemico. Le trincee divennero la sede permanente dei reparti di 1 linea.
Col passare del tempo le trincee furono allargate, dotate di sipari, protette da reticolati di filo spinato e da nidi di mitragliatrici. La vita nelle trincee logorava i combattenti nel morale oltre che nel fisico e li gettavano in uno stato di apatia e torpore mentale. Vivevano in condizioni igieniche deplorevoli, senza potersi né lavare né cambiare.
Pochi mesi di guerra nelle trincee furono sufficienti a far svanire l’entusiasmo sui motivi per cui si combatteva la guerra e la consideravano una specie di flagello. La visione eroica e avventurosa della guerra restò una prerogativa di alcune minoranze come le truppe d’assalto tedesche e gli arditi italiani. Per tutti gli altri la guerra era una dura necessità.
Molte persone non avendo più un reale motivo per partecipare alla guerra praticava l’autolesionismo, consistente nell’infliggersi volontariamente ferite e mutilazioni per essere dispensati dal servizio. Meno frequenti erano i casi di ribellione collettiva “scioperi militari” che raggiunsero l’apice nel 1917.
La nuova tecnologia
Un ruolo decisivo nei combattenti ebbero le artiglierie pesanti, i fucili a ripetizione e le mitragliatrici. Ci fu l’introduzione di nuovi mezzi d’offesa come le armi chimiche, gas che provocavano la morte. La guerra sollecitò lo sviluppo automobilistico, l’aeronautica e la radiofonia.
Ci fu anche l’impiego dei mezzi motorizzati. Dal 1903 due ingegneri americani i fratelli Orville e Wright, costruivano gli aerei. Nel corso della guerra la produzione di aerei conobbe un enorme incremento sia di aerei di ricognizione che di caccia.
Nel 900 nacque anche il carro armato, i primi corazzati, le autoblindo erano molto limitati nel loro impiego. I carri armati furono usati per lo più dagli inglesi. Fra le nuove macchine belliche sperimentate in quest’anni ci fu il sottomarino, il quale fu usato soprattutto da i tedeschi che lo usarono per attaccare le navi da guerra nemiche, sia per affondare senza preavviso le navi mercantili. La guerra sottomarina si rivelò subito un arma molto efficace. Nel maggio 1915 un sottomarino tedesco affondò il transatlantico inglese lusitania; gli Stati uniti protestarono e i tedeschi sospesero la guerra sottomarina indiscriminata.
La mobilitazione totale e il fronte interno
Durante la prima guerra mondiale i mutamenti più vistosi interessarono il mondo dell’economia e il settore industriale. Le industri siderurgiche, meccaniche e chimiche conobbero uno sviluppo imponente. Ci fu una riorganizzazione dell’apparato produttivo e una continua dilatazione dell’intervento statale. I settori dell’industria furono posti sotto il controllo dei poteri pubblici. In Germania si parlò di socialismo di guerra anche se il sistema era gestito da organismi composti da militari e da industriali. Con l’economia si trasformarono anche gli apparati statali. I governi furono investiti di nuove attribuzioni e dovettero farvi fronte con l’aumento della burocrazia. Il potere esecutivo si rafforzò a spese degli organismi rappresentativi.
I poteri dei governi erano a loro volta insidiati dall’invadenza dei militari. In Germania il potere si concentrò nelle mani di Hidenburg e Ludendorff. In Francia regnava la dittatura giacobina di George Clemenceau e in Gran Bretagna il gabinetto di guerra di David Lloyd Gorge.
Strumento fondamentale per la mobilitazione dei cittadini fu la propaganda, rivolta non solo alle truppe ma anche alla popolazione civile. In Svizzera nel settembre del 1915 e nell’aprile de3l 1916 si tennero due conferenze socialiste internazionali che si conclusero con l’approvazione di documenti in cui si rinnovava la condanna della guerra e richiedeva una pace “senza annessioni e senza indennità”. Parteciparono alle conferenze delegazioni dei partiti socialisti dei paesi neutrali e di quelli che avevano fin dall’inizio rifiutato l’adesione alla guerra, nonché rappresentanti delle minoranze pacifiste. Vennero rafforzandosi i gruppi socialisti contrari alla guerra, fra cui gli spartachisti tedeschi e i bolscevichi russi.
La svolta del 1917
Nel marzo del 1917, uno sciopero generale degli operai di Pietrogrado si trasformò in un imponente manifestazione politica contro il regime zarista. Lo zar abdicò e fu arrestato con l’intera famiglia reale. Il 6 aprile gli Stati Uniti entrarono in guerra contro la Germania che aveva ripreso la guerra sottomarina infliggendo un colpo mortale alle economie dei paesi nemici. L’intervento americano risultò decisivo sia sul piano militare che su quello economico. Ci fu l’uscita di scena dalla Russia.
Con il crollo del regime zarista ci fu la disgregazione dell’esercito. Molti soldati contadini abbandonarono il fronte e tornarono ai loro villaggi per partecipare alla spartizione della terra dei signori. Da allora la Russia cessò di fornire contributo militare agli alleati. Per le potenze dell’Intesa i mesi fra la primavera e l’autunno del 17 furono i più difficili.
Alle difficoltà militari si aggiunsero quelle politiche-psicologiche. Si manifestarono segni d’insofferenza popolare contro la guerra, scioperi operai e ammutinamenti dei reparti combattenti. Si moltiplicarono i segni di stanchezza.
Nell’impero austro-ungarico la guerra ridiede forza alle aspirazioni indipendentiste delle nazionalità oppresse.
Consapevole del periodo di disgregazione dell’Impero, Carlo I avviò negoziati segreti in vista di una pace separata. Le proposte furono respinte dall’Intesa, come fu la proposta di Benedetto XV che invitò i governi a porre fine all’inutile strage.. Fu in questo periodo di malessere che colpì anche l’Italia, che le truppe austro-tedesche inflissero un colpo decisivo all’Italia.
Il 24 ottobre 1917 un’armata austriaca attaccò le linee italiane e le sfondò nei pressi di Caporetto. Gli schieramenti italiani ormai disfatti indietreggiarono e attestarono una nuova linea difensiva del Piave. Il generale Cadorna gettò le colpe della disfatta sui suoi stessi soldati, ma questa in realtà era stata determinata dagli errori dei comandi.
La disfatta di Caporetto portò ripercussioni positive sull’andamento della guerra italiana. Il senso di patriottismo aumentò e con il nuovo governo di coalizione nazionale presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, le forze politiche parvero trovare una maggiore concordia. Il nuovo capo di stato maggiore rispetto a Cadorna, era più interessato alle esigenze dei soldati che all’uso di mezzi repressivi.
L’ultimo anno di guerra
Fra il 6 e il 7 novembre 1917 i bolscevichi presero il potere in Russia. Il governo rivoluzionario presieduto da Lenin decise di porre fine alla guerra con una pace senza annessioni e indennità firmando l’armistizio con gli imperi centrali.
Il 3 marzo 1918 fu stipulato il contratto di pace nella città di Brest-Litovsk dove la Russia dovette accettare le durissime condizioni imposte dai tedeschi. Con la pace Lenin riuscì a salvare il nuovo stato socialista e a dimostrare al mondo che la trasformazione della guerra imperialista in rivoluzione era realmente attivabile. Gli Stati dell’Intesa a loro volta accentuarono il carattere ideologico della guerra, presentandola come una crociata della democrazia contro l’autoritarismo. Difesa della libertà dei popoli contro i disegni egemonici dell’imperialismo tedesco.
Interprete di questa concezione fu il presidente americano Woodrow Wilson, il quale precisò le linee ispiratrici della sua politica in un programma di pace in “14 punti”. Invocava l’abolizione della diplomazia segreta, il ripristini della libertà di navigazione, l’abbassamento delle barriere doganali, la riduzione degli armamenti; e nuove proposte riguardante il nuovo assetto europeo = reintegrazione del Belgio, della Serbia e della Romania, restituzione alla Francia dell’Alsazia - Lorena. Istituzione di un nuovo organismo internazionale, la Società delle Nazioni, per assicurare il rispetto delle norme di convivenza fra i popoli. I 14 punti rappresentavano un’autentica rivoluzione rispetto ai principi di base della diplomazia prebellica. Questo fu accolto come una sorte di nuovo vangelo capace di assicurare un’era di pace e di benessere. I governanti dell’Intesa dovettero accettarlo anche se non di buon grado.
La Germania tentò la sua ultima carta. In giugno l’esercito di Hindenburg era di nuovo sulla Marna e Parigi era sotto il tiro dei cannoni tedeschi.
Anche gli Austriaci tentarono di sferrare un colpo decisivo all’Italia attaccando sul Piave ma essi furono respinti.
Alla fine di luglio le forze dell’Intesa passarono al contrattacco. Fra l’8 e l’11 agosto nella grande battaglia di Amiens i tedeschi subirono una grave sconfitta sul fronte occidentale. Le truppe segnate dalla stanchezza dovettero arretrare e i generali capirono di aver perso la guerra. Il compito di aprire le trattative toccò a un nuovo governo di coalizione democratico formatosi ai primi di ottobre.
Mentre la Germania tentava invano una soluzione di compromesso, i suoi alleati crollarono militarmente o si disgregarono.
La prima a cadere fu la Bulgaria; l’imperatrice chiese l’armistizio.
Il 24 ottobre gli italiani sconfissero gli austriaci nella battaglia Veneto. Il 3 novembre firmarono l’armistizio a Villa Giusti.
La situazione precipitò anche i Germania. I marinari di Kiel dov’era concentrato il grosso della flotta tedesca, si ammutinarono e diedero vita insieme agli operai, a consigli rivoluzionari ispirati all’esempio russo. Il moto si propagò e vi parteciparono anche i socialdemocratici.
Friedrich Ebert fu proclamato capo del governo mentre il Kaiser fuggì in Olanda, subito imitato dall’imperatore Carlo I.
La Germania perse una guerra che lei stessa aveva contribuito a far scoppiare e nella quale morirono 8 milioni e mezzo di uomini e 20 milioni di feriti gravi.
I trattati di pace
I trattati di pace si aprirono il 18 gennaio 1919 nella reggia di Versailles presso Parigi e si protrassero per oltre 1 anno e mezzo. Gli obiettivi erano quelli di ridisegnare la carta politica del vecchio continente, ricostruire l’equilibrio europeo ovviamente tenendo conto di quei principi di democrazia e di giustizia internazionale.
I capi riuniti erano: l’americano Wilson, il francese Clemenceau, l’inglese Lloyd George e l’italiano Orlando. Ci fu il contrasto fra l’ideale di una pace democratica e l’obiettivo di una pace punitiva.
Il trattato fu firmato a Versailles il 28 giugno 1915 (Diktat).
Dal punto di vista territoriale il trattato prevedeva la restituzione dell’Alsazia-Lorena alla Francia, passaggio alla Polonia dell’alta Slesia, la Posnania e una striscia della Pomerania. La Germania perse le sue colonie, spartite tra la Francia, la Gran Bretagna, Giappone. Alla Germania vennero imposte clausole economiche e militari. Dovette rifondere ai vincitori i danni subiti; fu costretta ad abolire il servizio di leva, a rinunciare alla marina da guerra e a ridurre l’esercito. L’intera valle del Reno sarebbe stata presidiata per un anno da truppe inglesi, francesi e belghe. Queste condizioni ferirono la Germania nel suo orgoglio oltre che nel suo interesse. La nuova Repubblica d’Austria si trovò ridotta notevolmente e la sua indipendenza sarebbe stata affidata alla tutela della costituente Società delle Nazioni. L’Ungheria (repubblica nel 1918) perse non solo tutte le regioni slave ma anche altri territori.
Con il crollo dell’impero Asburgico nacque la nuova Polonia, la repubblica di Cecoslovacchia e del regno di Iugoslavia (Serbia, Slovenia e Croazia).
Gli stati vincitori non riconobbero alla Russia la Repubblica socialista e fecero di tutto per abbatterla. Furono riconosciute e protette la Finlandia, l’Estonia, la Lettonia e la Lituania. Nel 1921 nacque lo stato libero d’Irlanda alla quale la Gran Bretagna concesse un regime di semi indipendenza (tranne Ukter).
Per assicurare il rispetto dei trattati e la salvaguardia della pace nacque la Società delle nazioni proposto da Wilson nei 14 punti.
Il nuovo organismo prevedeva la rinuncia da parte degli Stati membri alla guerra come strumento di soluzione dei contrasti.
IL DOPOGUERRA IN EUROPA
Le trasformazioni
Le conseguenze della prima guerra mondiale non furono solo la morte di vite umane e lo sconvolgimento dei confini fra gli Stati, ma poiché essa era stata la più grande esperienza di massa, aveva agito come acceleratore dei fenomeni sociali. Le persone inviate a combattere per difendere la propria Patria si erano trovati inseriti in una comunità organizzata gerarchicamente e si erano abituati a vivere in gruppo, a obbedire, a comandare ma soprattutto a maneggiare armi.
Tornati alla vita civile, i combattenti hanno trovato una realtà molto diversa. Le donne ora lavoravano nei campi, nelle fabbriche e negli uffici. Molti lavoratori si spostavano dalle campagne alle città. Ovviamente con il distacco così repentino dal nucleo familiare da parte di molti giovani, con l’allargamento del lavoro femminile, l’assenza dei padri, la famiglia entrò in crisi e molte furono le modifiche che subì. Le donne diventavano più indipendenti, c’era minor rispetto delle regole, l’abbigliamento più libero e disinvolto. I giovani cercavano nuove fonti di divertimento e lo trovavano nei cinema o nella musica.
Il primo problema che le classi dirigenti si posero fu quello del reinserimento dei reduci di guerra. Era ovvio che chi aveva rischiato la vita sui campi di battaglia tornava a casa con una nuova coscienza dei propri diritti e con la convinzione di aver maturato un credito nei confronti della società. La guerra aveva dimostrato l’importanza del principio di organizzazione applicato alla massa. I cittadini avevano capito che per far valer i propri diritti e affermare le proprie rivendicazioni era necessario associarsi in gruppi il più possibile numerosi… da qui la massificazione della politica. Partiti e sindacati videro aumentare il numero degli iscritti e i loro apparati divennero sempre più complessi e centralizzati. Persero importanza le forme tradizionali dell’attività politica nei regimi liberali, mentre acquistavano peso le manifestazioni pubbliche basate sulla partecipazione diretta dei cittadini. L’aspirazione a un ordine nuovo era comune alla maggioranza degli europei.
Le conseguenze economiche
Possiamo affermare che tutti i paesi, tranne gli Stati Uniti uscirono dal conflitto in condizioni di gravissimo dissesto economico. I governi avevano sopperito al fabbisogno di denaro stampando carta moneta in eccedenza e mettendo in moto il processo inflazionistico che distrusse posizioni economiche solidissime ed erodeva i risparmi dei ceti medi. Gli operai dell’industrie riuscirono a difendere le loro retribuzioni reali meglio degli impiegati. Tutto ciò creava molte tensioni e non contribuiva al raggiungimento della pace sociale. I governi europei dovettero affrontare i problemi legati al passaggio dall’economia di guerra a quella di pace.
Gli Stati Uniti e il Giappone aumentarono l’esportazioni, l’Argentina e il Brasile, il Canada e l’Australia svilupparono una propria produzione industriale mentre la Gran Bretagna e la Francia persero molti partner commerciali. Nel dopoguerra ci fu una ripresa del nazionalismo economico e di protezionismo doganale, soprattutto fu adottato dagli stati che volevano sviluppare una propria economia. L’industria europea riuscì in un primo piano a mantenere e incrementare i livelli produttivi degli anni di guerra. Questa espansione artificiale, si accompagnò a una stagione di intense lotte sociali e fu seguita da una fase depressiva.
Il biennio rosso
Tra il 1918 e il 1920 il movimento operaio europeo, fu protagonista di un impetuosa avanzata politica che assunse l’aspetto di una ventata rivoluzionaria.
I partiti socialisti registrarono numerosi incrementi elettorali. I lavoratori diedero vita a un imponente ondata di agitazione che consentì agli operai dell’industria di difendere o migliorare i livelli reali delle loro retribuzioni e di ottenere la riduzione dell’orario di lavoro a 8 ore a parità di salario.
Le grandi ondate di lotte operaie del biennio rosso, favorirono la formazione di consigli operai che scavalcavano le organizzazioni tradizionali dei lavoratori e si proponevano come rappresentanze dirette del proletariato. L’ondata rossa del 19-20 si manifestò in molti paesi. In Francia e Gran Bretagna le classi dirigenti contennero la pressione del movimento operaio. In Germania, Austria e Ungheria ci furono veri e propri tentativi rivoluzionari, ma che furono stroncati quasi rapidamente.
La rivoluzione d’ottobre in Russia, aveva accentuato la frattura fra le avanguardie e il movimento operaio. Il contrasto fu sancito nel 19 con la costituzione dell’Internazionale comunista e con la fondazione in Europa di partiti ispirati al modello bolscevico.
La rivoluzione nell’Europa centrale
Già al momento della firma dell’armistizio lo stato tedesco si trovava in una situazione rivoluzionaria. L’esercito si disgregò e i soldati si riversarono nel paese. Il governo era esercitato da un consiglio dei commissari del popolo presieduto dal social democratico Ebert. Nelle città i veri padroni della situazione erano i consigli degli operai e dei soldati, che occupavano aziende e sedi di giornali, requisivano viveri da distribuire alla popolazione, dettavano le loro condizioni agli industriali. I leader socialdemocratici erano contrari a una rivoluzione di tipo sovietico e favorevoli a una democratizzazione del sistema politico. La linea del partito socialdemocratico portava allo scontro con le correnti radicali del movimento operaio tedesco; i rivoluzionari della lega di spartaco si opponevano alla convocazione della Costituente.
Il 5-6 gennaio del 1919 i berlinesi scesero in piazza per protestare contro la destituzione di un esponente della sinistra. I dirigenti spartachisti e alcuni leader “indipendenti” diffusero un comunicato in cui si incitavano i lavoratori a rovesciare il governo. La rivolta fu fronteggiata dal Commissario della Difesa Gustav Noske. Le squadre volontarie schiacciarono l’insurrezione. I leader del movimento furono arrestati e trucidati.
Il 19 gennaio si tennero le elezioni per l’Assemblea Costituente. I socialdemocratici, si affermarono come il partito più forte, ma essi non raggiunsero la maggioranza assoluta e quindi non potevano esercitare da soli, ma dovevano cercare l’accordo con almeno una parte dei gruppi “borghesi”.
In questo caso i cattolici del centro. L’accordo fra socialisti, cattolici e democratici rese possibile l’elezione di Friedrich Ebert alla presidenza della Repubblica, la formazione di un governo di coalizione a direzione socialdemocratica e il varo della nuova costituzione repubblicana detta Costituzione di Weinar. Questa costituzione democratica, prevedeva il mantenimento della struttura federale dello Stato, il suffragio universale maschile e femminile, un governo responsabile di fronte al Parlamento e un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo.
E’ questo il periodo durante il quale alcuni generali diffusero la leggenda della pugnalata alla schiena: quella secondo cui l’esercito tedesco sarebbe stato ancora in grado di vincere se non fosse stato tradito da una parte del paese.
Nelle elezioni del 1920 la Spd subì una netta sconfitta e la guida del governo passò nelle mani dei cattolici.
Una situazione simile per alcuni versi fu quella dell’Austria. I socialdemocratici governarono il paese nella difficile fase del trapasso di regime. Nel 1920, le elezioni videro prevalere il voto clericale e conservatore delle campagne e a maggioranza assoluta andò al Partito cristiano sociale. Breve fu la vita della Repubblica democratica in Ungheria dove Miklos Horthy instaurò un regime autoritario sorretto dalla Chiesa e dai grandi proprietari terrieri.
La crisi del dopoguerra e il in Italia
L’economia italiana postguerra presentava i tratti tipici della crisi postbellica: sviluppo enorme di alcuni settori industriali, sconvolgimento dei flussi commerciali, deficit gravissimo, inflazione galoppante. La classe operaia chiedeva miglioramenti economici, maggior potere in fabbrica e manifestava tendenze rivoluzionarie. I contadini del Centro Sud tornavano dal fronte con una accresciuta consapevolezza dei loro diritti. I ceti medi coinvolti, colpiti dalle conseguenze economiche, tendevano a organizzarsi e a mobilitarsi per difendere i loro interessi e i loro ideali patriottici.
La classe dirigente liberale, contestata e isolata, non si mostrò in grado di dominare i fenomeni di mobilitazione di massa, mentre maggior importanza assunsero le forze socialiste e cattoliche che interpretavano meglio le nuove dimensioni assunte dalla lotta politica.
I cattolici nel 1919 crearono il Partito Popolare Italiano. Il suo primo segretario, Don Luigi Sturzo, presentò un programma d’impostazione democratica, ispirandosi alla dottrina cattolica.
In realtà il Ppi era molto legato alle strutture organizzative del mondo cattolico.
Nello stesso periodo ci fu la crescita del Partito socialista, la cui maggioranza era di sinistra, chiamata massimalista.
Il loro leader era Giacinto Menotti Serrati, il quale aveva come obbiettivo l’instaurazione della Repubblica socialista fondata sulla dittatura del proletariato.
L’Italia uscì dalla guerra nettamente rafforzata. Aveva raggiunto i suoi confini naturali e aveva visto scomparire dalle sue frontiere il nemico tradizionale, l’impero Asburgico.
Z il patto di Londra stabiliva anche che la Dalmazia fosse annessa all’Italia e che la città di Fiume restasse all’impero Austro-ungarico. La conferenza fu capeggiata dal presidente del consiglio Orlando e dal ministro degli esteri Sonnino, i quali chiesero l’annessione di Fiume in base al principio di nazionalità, ma tali proposte furono rifiutate. Si parlò allora di vittoria mutilata = espressione coniata da D’Annunzio. Nel 1919 ci fu una manifestazione clamorosa a cui facevano parte reparti militari e gruppi di volontari sotto il comando di D’Annunzio e occupando la città di Fiume fu istituita una reggenza provvisoria.
Fra il 1919 e il 1920 l’Italia attraversò una fase di agitazioni sociali, legate all’aumento dei prezzi al consumo. Le principali città furono teatro di una serie di violenti tumulti contro il caro-viveri.
Il settore dei servizi pubblici fu sconvolto da una lunga serie di scioperi che crearono disagio nell’opinione pubblica e provocarono reazioni contro la “scioperomania”. Intense furono le lotte dei lavoratori agricoli che si verificarono nella Bassa Padana, dove le leghe rosse avevano il monopolio della rappresentanza sindacale, e in alcune aree del centro nord = zone in cui dominavano la mezzadria e la piccola proprietà e in cui erano attive le leghe bianche cattoliche.
Tra l’estate e l’autunno del ’19 si sviluppò l’occupazione di terre incolte e latifondi da parte di contadini poveri.
Le elezioni si tennero nel novembre del 1919 e furono tenute con il metodo della rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista = metodo che prevedeva il confronto tra liste di partito e che assicurava alle varie liste un numero di seggi proporzionale ai voti ottenuti e favoriva i gruppi organizzati su base nazionale. I socialisti si affermarono come il partito più forte. Ci fu l’accordo tra popolari e liberal-democratici.
Nel giugno 1920 cadde il governo Nitti e salì al potere Giolitti. Ottenne molti risultati in politica estera, firmando nel 1920, il trattato di Rapallo, con la Jugoslavia. L’Italia conservò Trieste, Gorizia e tutta l’Istria. Fiume fu dichiarata città libera.
Giolitti riscontrò molti problemi in politica interna = ci fu l’occupazione delle fabbriche, 1920. La vertenza si concluse con un accordo che accoglieva le rivendicazioni sindacali.
Nonostante l’accordo, e passata la grande paura, i ceti borghesi erano irritati dal governo per aver dimostrato debolezza e i lavoratori erano delusi.
Nel 1921 si tenne a Livorno il congresso del Comintern, dove la minoranza di sinistra abbandonò il Partito socialista per formare il Partito comunista che aveva un programma rigorosamente leninista.
Nascita e avvento del Fascismo
L’occupazione delle fabbriche e la scissione di Livorno segnarono in Italia la fine del biennio rosso. La classe operaia continuava ad accusare i colpi della crisi recessiva che stava investendo l’economia italiana e che portò ad un aumento della disoccupazione e alla perdita di potere contrattuale per i lavoratori. E’ in questo clima che si sviluppò il fascismo.
Il movimento fascista era nato a Milano nel 1919 a cui capo vi era Benito Mussolini che aveva fondato i fasci di combattimento.
Questo movimento chiedeva riforme politiche e sociali audaci, e ostentava un acceso nazionalismo e una feroce avversione nei confronti dei socialisti.
All’inizio del ’21 il movimento subì una mutazione e si fondò su strutture paramilitari (squadre d’azione) e puntò le sue carte su una lotta spietata contro i socialisti.
Nelle campagne padane si sviluppò il fascismo agrario; queste avevano ottenuto notevoli miglioramenti salariali e controllavano il mercato del lavoro. I socialisti disponevano di una fitta rete di cooperative e avevano in buona parte delle amministrazioni comunali.
Ma dentro c’erano dei contrasti, come il contrasto fra le strategie delle organizzazioni socialiste e gli interessi delle categorie intermedie.
Il 21 novembre 1920 a Bologna, i fascisti si mobilitarono per impedire la cerimonia d’insediamento della nuova amministrazione comunale socialista. I socialisti incaricati di difendere il Palazzo d’Accursio, sede del Comune, spararono sulla folla, composta dai loro stessi sostenitori. Da ciò i fascisti trassero il pretesto per scatenare una serie di ritorsioni antisocialiste, e i socialisti non furono in grado di contrattaccare. I proprietari terrieri scoprirono nei fasci lo strumento per abbattere il potere delle leghe e cominciarono a sovvenzionarli. Il movimento fascista vide affluire così numerose reclute. Il fenomeno dello squadrismo dilagò.
Le squadra si spostavano dalla città in camion verso le campagne. Obbiettivo era incendiare e devastare le camere del lavoro, i municipi ecc. Buona parte delle amministrazioni “rosse” della Valle Padana si dimisero. Giolitti, dal canto suo, appoggiava i fascisti perché pensava di potersene servire.
Nel 1921 ci furono nuovamente le elezioni dove parteciparono anche candidati fascisti nei cosiddetti blocchi nazionali. I risultati delle urne delusero. I socialisti subirono una lieve flessione, i popolari si rafforzarono e i liberal-democratici migliorarono le loro posizioni.
In definitiva la novità fu costituita dall’ingresso alla Camera di 35 deputati fascisti.
Quando il governo di Giolitti cadde, il suo successore fu l’ex socialista Ivanoe Bonomi, che tentò di far uscire il paese dalla guerra civile favorendo una tregua d’armi fra le due parti in lotta. La tregua fu conclusa nell’agosto del 1921 con il patto di pacificazione tra socialisti e fascisti. Ma questo accordo venne fronteggiato dai ras (fascisti intransigenti) e non ebbe vita lunga. Mussolini con i ras creò il Partito nazionale fascista.
Nel 1922 il ministero Bonomi cadde e al suo posto salì al potere Facta, ma la sua scarsa autorità politica diede ulteriore spazio alla violenza squadrista. Il fascismo si rese protagonista di operazioni sempre più clamorose a cui i socialisti non seppero opporsi.
Il 1 agosto ’22 ci fu uno sciopero generale legalitario indifesa delle libertà costituzionali. I fascisti lanciarono una nuova e più violenta offensiva contro il movimento operaio.
Ai primi d’ottobre del 1922 in un congresso tenuto a Roma, i riformisti guidati da Turati abbandonarono il Psi per fondare il nuovo Partito socialista unitario.
Con il controllo della piazza, e avendo sbaragliato il movimento operaio, il movimento fascista doveva solo conquistare lo Stato.
A questo punto Mussolini giocò le sue carte. Da un lato intrecciò trattative con tutti i più autorevoli esponenti liberali; rassicurò la monarchia e si guadagnò il favore degli industriali. Dall’altro iniziò il progetto di una marcia su Roma con obbiettivo la conquista del potere centrale.
Il 27-28 ottobre 1922 iniziò la mobilitazione delle squadra fasciste, ma il re rifiutò di firmare il decreto per la proclamazione dello Stato d’assedio. Il rifiuto del re aprì alle camicie nere la strada di Roma e al loro capo la via del potere. Mussolini chiese e ottenne di essere chiamato lui stesso a presiedere il governo. La mattina del 30 ottobre Mussolini fu ricevuto dal re. Del nuovo gabinetto fecero parte, oltre a 5 fascisti, i liberali giolittiani, democratici e popolari.
La stabilizzazione moderata in Francia e in Gran Bretagna
Francia e Gran Bretagna raggiunsero l’obbiettivo della stabilizzazione, almeno sul piano della politica interna. In Francia la maggioranza di centro-destra, che controllò il governo dal ’19 in poi, attuò una politica conservatrice. Solo nel ’24 i radicali uniti ai socialisti in una coalizione elettorale riuscirono a prendersi la maggioranza e a portare alla presidenza Edouard Herriot. Ma il governo durò poco siccome non seppe affrontare la grave crisi finanziaria.
Nel ’26 la guida del governo fu assunta leader dei moderati Raymond Poincaré; riuscì a stabilizzare il corso della moneta e a risanare il bilancio statale. In questi anni la Francia ebbe un vero boom economico incrementando la produzione in settori come il chimico e il meccanico.
Più difficile era la situazione dell’economia britannica. In questa situazione, trovando sempre più difficoltà nel mantenere le responsabilità relative al suo ruolo di nazione “imperiale”, allentò i vincoli politici con i territori oltremare.
Nel ’26 i dominions bianchi (Canada, Australia, Sudafrica, che già erano indipendenti) furono associati al Commonwealth britannico, libera federazione di Stati che sarebbe servita a mantenere una serie di legami economici e istituzionali tra Gran Bretagna e le sue colonie.
Anche qui furono le forze moderate a guidare il paese nel dopoguerra. La grande novità di questi anni fu il ridimensionamento dei liberali, che consentì ai laburisti di prendersi il ruolo di principali antagonisti dei conservatori e al sistema politico inglese di riprendere la tradizionale forma bipartitica.
I governi conservatori portarono avanti una politica di austerità finanziaria e contenimento dei salari che li portò a scontrarsi con i sindacati. L’episodio peggiore fu, con uno sciopero di minatori che chiedevano un aumento del salario; il governo non cedette e non ottennero nulla.
Il governo conservatore cercò di approfittare di questa situazione generale per minare alle basi dell’opposizione laburista: furono vietati gli scioperi di solidarietà e fu dichiarata illegale la pratica in base alla quale chi aderiva alle Trade Unions era iscritto al Labour Party. I laburisti accusarono il colpo, che videro diminuire nettamente i propri iscritti, ma riuscirono a risalire e ad affermarsi nelle elezione del ’29. Si forma così un nuovo governo liberal-laburista con a capo Mac Donald, anche se durò poco.
La Repubblica di Weimar
La repubblica nata dalla Costituente di Weimar rappresentò in Europa un modello di democrazia parlamentare aperta e avanzata, anche se molti fattori indebolivano il sistema repubblicano. Il più evidente motivo di debolezza era nella frammentazione dei gruppi politici, che rendeva instabili governi e maggioranze.
L’unica forza in grado di aspirare alla guida del paese era la socialdemocrazia. Grazie al sostegno datogli dalla maggioranza di una classe operaia, la Spd rimase il partito più forte e fece sempre sentire il suo peso nella vita politica tedesca.
Le classi medie si riconoscevano un po’ nel Centro cattolico, un po’ nel Partito tedesco-nazionale e nel Partito tedesco-popolare. Il Partito democratico tedesco accoglieva le adesioni degli intellettuali, dei borghesi e dei progressisti.
Ulteriore elemento di debolezza era la diffidenza nei confronti del sistema democratico; agli occhi della gente la Repubblica era associata alla sconfitta, all’umiliazione di Versailles e quella causata dal problema nazionale delle riparazioni. Queste riparazioni risultarono pari a 132 miliardi e l’annuncio provocò molte proteste. I gruppi dell’estrema destra nazionalista (dove si metteva in luce anche il piccolo partito nazionalsocialista guidata da Adolf Hitler) scatenarono una vera offensiva terroristica contro la classe dirigente repubblicana, accusata di tradimento per essersi piegata alle imposizioni dei vincitori. I governi di coalizione che si succedettero tra il ’21 e il ’23 si impegnarono comunque a pagare le prime rate delle riparazioni, ma evitarono interventi drastici sulle tasse e sulla spesa pubblica, quindi furono costretti a aumentare la stampa di carta-moneta. Il risultato fu l’inizio di un processo inflazionistico.
Nel 1923 la Francia e il Belgio inviarono truppe sul bacino del Ruhr. Impossibilitato a reagire il governo tedesco incoraggiò la resistenza passiva: imprenditori e operai del Ruhr abbandonarono le fabbriche rifiutando ogni collaborazione con gli occupanti. Questa occupazione rappresentò il definitivo tracollo finanziario, in quanto privava il paese di una parte delle sue risorse produttive e costringeva il governo a nuove spese per finanziare la resistenza passiva con sussidi alle imprese e ai lavoratori sul Ruhr.
Il potere d’acquisto del marco fu praticamente annullato; le conseguenze furono sconvolgenti.
Lo Stato stampava sempre più banconote con valore nominale sempre più alto. Chi riceveva in pagamento denaro svalutato cercava di liberarsene subito, alimentando così l’inflazione. Chi aveva titoli di Stato o risparmi in denaro perse tutto. Furono invece avvantaggiati chi possedeva beni reali (agricoltori, commercianti) e tutti quelli che avevano dei debiti.
Nel momento più drammatico però la classe dirigente reagì. Si formò un governo di “grande coalizione” composto da tutti i gruppo “costituzionali” e presieduto da Gustav Stresemann, leader del partito tedesco-popolare. Era convinto che la rinascita tedesca sarebbe avvenuta soltanto mediante accordi con le potenze vincitrici, ordinò la fine della resistenza passiva e riallacciò contatti con la Francia. Decretò lo stato d’emergenza.
A Monaco, nella notte tra l’8 e il 9 novembre ’23 molti aderenti al Partito nazionalsocialista cercarono di organizzare un’insurrezione contro il governo centrale. Ma il complotto non ottenne l’appoggio dei militari e fu represso. Hitler fu condannato al carcere e la sua carriera politica sembrò conclusa.
Ristabilita l’autorità dello Stato, il governo cercò di rimediare alla crisi economica. Fu emesso un nuovo marco il cui valore era garantito dal patrimonio agricolo e industriale: Lo stato si comportava come un privato che impegna i suoi avere per garantirsi un credito. Nel frattempo fu avviata una politica deflazionistica che costò sacrifici ma consentì un graduale ritorno alla normalità.
Una vera stabilizzazione fu garantita dall’accordo sulle riparazioni raggiunto sulla base di un piano elaborato dallo statunitense Charles G. Dawes; questo diceva che la Germania avrebbe potuto far fronte ai suoi impegni solo se fosse stata messa in grado di far funzionare al meglio la sua forza produttiva, e prevedeva che la finanza internazionale sovvenzionasse lo stato tedesco con prestiti a lunga scadenza. La Germania ottenne così un grande aiuto per la ripresa economica.
Si stabilizzò anche la politica: i partiti di centro e centro-destra mantennero il potere fino al 1928 quando i socialdemocratici ottennero la guida del governo. Stresemann continuò la sua linea di collaborazione con le potenze vincitrici.
La ricerca della distensione in Europa
Il superamento della crisi tedesca segnò una svolta anche per l’intero assetto europeo uscito dai trattati di pace. Si inaugurò una fase di distensione e collaborazione tra Francia e Germania. Il risultato più importante di questa intesa fu rappresentato dagli accordi di Locarno nel 1925 che consistevano nel riconoscimento da parte di Francia, Belgio e Germania delle frontiere comuni tracciate a Versailles e nell’impegno di Gran Bretagna e Italia di farsi garanti di eventuali violazioni. Una anno dopo la firma del patto, la Germania fu ammessa alla Società delle Nazioni.
Nel 1929 un nuovo piano ridusse ulteriormente l’entità delle riparazioni e ne graduò il pagamento in 60anni.
Il graduale superamento del contrasto franco-tedesco parve aprire nuove prospettive di pace per l’Europa e per il resto del mondo. Ma tutto ciò si interruppe bruscamente in coincidenza della crisi economica mondiale. La Francia nel ’30 dava il via alla costruzione di imponenti fortificazioni difensive lungo la frontiera con la Germania. Lo spirito di Locarno andava esaurendosi.

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