L'Italia dopo la Prima Guerra Mondiale

Materie:Appunti
Categoria:Storia
Download:1761
Data:09.02.2001
Numero di pagine:55
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
italia-dopo-prima-guerra-mondiale_1.zip (Dimensione: 52.13 Kb)
readme.txt     59 Bytes
trucheck.it_l-italia-dopo-la-prima-guerra-mondiale.doc     163 Kb


Testo

Dopo la Guerra
I
l 28 giugno 1914 l’uccisione a Sarajevo dell’erede al trono austro-ungarico e di sua moglie, fu la scintilla che fecce scoppiare la Prima Guerra Mondiale. Essa durò più di quattro anni (dal 1914 al 1918), coinvolse tutte le grandi potenze e causò milioni di morti. Le tappe fondamentali del conflitto:
==> 1914: L’Austria dichiara guerra alla Serbia; alleate dell’Impero austro-ungarico sono la Germania, insieme alla quale formava i cosiddetti Imperi Centrali, ai quali si unì prima la Turchia e, in seguito, la Bulgaria;
==> 1915: Con il Patto di Londra, l’Italia entra in guerra a fianco dell’Intesa con la promessa dell’ottenimento di Trento, Trieste, ancora facenti parte dell’Impero austro-ungarico, dell’Istria e della Dalmazia, una base in Albania;
==> 1917: Gli Stati Uniti, entrano in guerra a fianco dell’Intesa, dopo l’affondamento delle navi americane, che rifornivano di viveri e armi i paesi dell’Intesa, da parte della Germania. La Russia, dopo una rivoluzione interna contro il regime zarista, chiede l’armistizio e, firmando il trattato di Brest-Litvosk, esce dalla guerra;
==> 1918: In questo anno gli italiani lanciano la controffensiva giungendo fino a Vittorio Veneto. Il 3 novembre dello stesso anno, l’Austria firma l’armistizio di Villa Giusti, mentre i soldati italiani entrano a Trento e a Trieste.
La guerra si concluse pochi giorni dopo, quando, essendo ormai chiara anche la disfatta dell’esercito tedesco; il Kaiser Guglielmo II fu cacciato dalla Germania, che proclamò la repubblica e l’11 novembre firma l’armistizio di Rethondes.
1. I 14 punti di Wilson
I dopoguerra non sono meno importanti delle guerre. Quando i cannoni non sparano più e i soldati tornano a casa, è il momento di tirare le somme, di fare bilanci, di pensare al futuro. Si contano i morti, i feriti, gli invalidi, si calcolano i danni materiali, si studiano nuovi equilibri. I vincitori cercano di trarre il massimo dalla vittoria, i vinti di limitare i danni della sconfitta.
La Conferenza di pace si tenne a Parigi dal gennaio al giugno del 1919. Vi presero parte i rappresentanti dei cinque “grandi” (Inghilterra, Francia, Italia, Stati Uniti, Giappone) e dei loro alleati: in tutto una trentina di paesi. Non era presenta nessuna delegazione degli stati sconfitti (che furono chiamati in un secondo tempo a sottoscrivere i relativi trattati), ne furono inviati i rappresentanti della giovane repubblica sovietica sorta dalla rivoluzione del 1917.
Il presidente americano Wilson svolse un ruolo dominante e gran parte del dibattito ruotò intorno a un suo piano, articolato in 14 punti.
Tale piano prevedeva, tra l’altro:
l’abolizione della diplomazia segreta e la piena pubblicità degli accordi e delle alleanze internazionali;
libertà dei mari e libertà commerciale;
la riduzione degli armamenti “all’estremo limite per consentire la sicurezza interna del paese”;
la trattativa pacifica sulla spartizione delle colonie;
l’autodeterminazione dei popoli, cioè il diritto delle singole nazionalità a decidere il proprio destino autonomamente (a cominciare dai popoli dell’Impero austro-ungarico e dell’Impero ottomano);
la creazione di una “Società delle Nazioni” per regolare i rapporti tra gli stati.
Questo piano suscitò entusiasmo in quanti vi vedevano la proposta di eliminare la violenza e la sopraffazione nei rapporti tra i popoli, sostituendo la guerra con il dialogo e rispettando il desiderio di libertà dei singoli popoli; vi vedevano, insomma, la speranza di una pace duratura.
2. Le Critiche a Wilson
Altri invece si allarmarono: i 14 punti di Wilson - dicevano - miravano a rafforzare la supremazia di quella che era ormai la maggiore potenza mondiale, gli Stati Uniti. Princìpi come la piena libertà commerciale e la rinuncia all’uso della forza avrebbero infatti favorito inevitabilmente chi già si trovava a essere il più forte. Chi avrebbe più potuto, in futuro, mettere in discussione questa superiorità?
Alcuni osservavano inoltre che le nobili idee di Wilson erano a senso unico: il principio della “autodeterminazione dei popoli”, per esempio, valeva per l’Impero austro-ungarico e per quello ottomano, che avevano perso la guerra, ma non per l’Impero Inglese ( che continuava a negare l’indipendenza all’Irlanda).
Quanto alla “Società delle Nazioni” immaginata dal presidente Wilson, essa avrebbe dovuto occuparsi di tutti i rapporti internazionali , ma non delle vicende dell’intero continente americano, su cui gli Stati Uniti volevano che nessuno mettesse bocca.
La storia, come al solito, non è mai troppo semplice e tutte e due le opinioni coglievano una parte di verità: Wilson credeva, sinceramente, come ci credevano tanti altri, nelle idee di democrazia, libertà e giustizia che proclamava: ma è anche vero che questi ideali andavano a coincidere con gli interessi materiali degli Stati Uniti, e che di essi si proponeva un’applicazione parziale.
3. La Spartizione dei Territori
Alla Conferenza di Parigi i contrasti emersero anche su problemi più immediati e concreti, come la spartizione dei territori nemici.
L’Inghilterra, appagata dall’eliminazione della Germania dai mercati internaziona- li, dalla distruzione della sua flotta militare e dall’annessione della maggior parte delle colonie tedesche, cominciò a ostacolare apertamente le pretese della Francia, di cui temeva un eccessivo rafforzamento.
L’Italia si vide trattata come una potenza di secondo rango (quale in effetti era) ed emarginata dai grandi giochi tra le potenze. Gli Stati Uniti dichiararono di non riconoscere la validità del patto di Londra, che in cambio dell’entrata in guerra aveva assegnato all’Italia un vasto tratto della costa dalmata, oltre al Trentino e all’Alto Adige. Wilson sosteneva che il suo paese non aveva sottoscritto quell’accordo e che l’Italia non poteva vantare aspirazioni sulla Dalmazia, dal momento che non c’erano consistenti gruppi di Italiani in quella regione. Inghilterra e Francia, venendo meno agli impegni assunti, accettarono questo punto di vista.
Il nostro presidente del consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, abbandonò per protesta la Conferenza di Parigi. Fu un grave errore, perché gli Alleati furono liberi di decidere a loro piacimento: quando la delegazione italiana fece ritorno a Parigi, i giochi erano già fatti.

4. I Trattati di Pace
Il 28 giugno 1919, nella stessa reggia di Versailles dove cinquant’anni prima i Prussiani avevano proclamato l’Impero germanico e umiliato i Francesi, fu firmata la pace con la Germania.
Con il Trattato di Versailles la Germania fu obbligata:
a ridurre le forze armate a soli 100.000 uomini, a rinunciare al possesso di una flotta militare e a smilitarizzare la zona del Reno;
a consegnare tutte le colonie (che furono spartite tra Inghilterra, Francia e Giappone, ignorando del tutto le promesse fatte all’Italia) rinunciando ad acquisirne altre;
a cedere l’Alsazia e la Lorena alla Francia e altri territori alla Polonia e alla Danimarca;
come indennizzo economico, a consegnare gran parte della flotta commerciale, a fornire grandi quantità di carbone per dieci anni, a consegnare alla Francia e al Belgio migliaia di capi di bestiame e a pagare ingenti somme, come indennità di guerra.
Come garanzia per il rispetto di queste condizioni, fu decisa l’occupazione militare, per quindici anni, di tutta la riva sinistra del Reno (le spese per il mantenimento di queste truppe furono messe a carico della Germania).
Erano condizioni troppo pesanti, che umiliavano la Germania e ne strangolavano l’economia. I Tedeschi furono costretti ad accettarle, ma negli anni seguenti avrebbero continuato a covare un rancore che sarebbe stato fonte di nuove sciagure.
Ancora più pesanti furono le condizioni imposte all’Austria-Ungheria, ritenuta la principale responsabile del conflitto. Con la Pace di Saint-Germain, firmata il 10 settembre 1919 nei pressi di Parigi, l’Impero austro-ungarico fu smembrato e ne nacquero nuovi stati: la Cecoslovacchia, la Polonia, la Jugoslavia (che inglobava anche i territori della Serbia). All’Italia furono concessi il Trentino, l’Alto Adige fino al Brennero, l’Istria (ma non la costa dalmata). L’Ungheria e l’Austria furono separate e ridotte a due stati piccoli e deboli.
Altri trattati penalizzarono gli alleati minori dell’Austria e della Germania: la Bulgaria cedette territori alla Grecia, alla Romania, alla Jugoslavia; la Turchia perse il controllo dell’Iraq e della Palestina (affidate all’Inghilterra), della Siria (affidata alla Francia), della Tracia (annessa alla Grecia). Lo stretto dei Dardanelli fu aperto a tutte le navi, sotto il controllo inglese. La Transgiordania, l’Arabia, lo Yemen ebbero l’indipendenza.

5. La Società delle Nazioni
Tutti questi trattati mostrarono che, alla resa dei conti, le potenze vincitrici si erano lasciate guidare unicamente dall’egoismo e dal desiderio di punire l’avversario. Gli ideali di pace e la ricerca di un accordo che garantisse un futuro senza guerre erano passati in secondo piano.
Lo stesso accadde per la Società delle Nazioni, che Wilson aveva inventato come organismo supremo per disciplinare i rapporti tra i popoli e che fu istituita nell’aprile del 1919. Priva di mezzi concreti e di reali possibilità di intervento, la Società non riuscì nel suo scopo e divenne un organismo dove si discutevano questioni di principio che nessuno avrebbe mai applicato. Il suo organismo direttivo era inoltre in mano alle grandi potenze, mentre tutti gli altri popoli svolgevano il ruolo di comparse. Per giunta non ne facevano parte né la Germania, né l’Unione Sovietica e, cosa ancor più sorprendente, nemmeno il paese promotore. Il Parlamento americano votò infatti nel 1920 contro l’ingresso nella Società, nel timore che questa limitasse la libertà d’azione degli Stati Uniti.

6. Contare i Morti
Così, tra rancori e minacce, tra nobili ideali e molto meno nobili comportamenti, la grandi potenze ritenevano di aver costruito un solido equilibrio. Ma la guerra aveva aperto in Europa una crisi enorme, in tutti i settori della vita sociale ed economica. A risolverla non bastavano le manovre di pochi uomini di governo riuniti intorno a un tavolo.
Per valutare la gravità della ferita apertasi in Europa bastava cominciare col fare un calcolo drammatico ma non troppo difficile: quello dei morti, dei feriti e dei mutilati.
Francia: 1.400.000 morti, 4 milioni di feriti, invalidi e mutilati; Germania: 1.800.000 morti, 5 milioni di feriti, invalidi, mutilati; Austria-Ungheria: 1.400.000 morti; Russia: 1.700.000 morti; Gran Bretagna: 750.000 morti (un milione se si contano i soldati reclutati nell’Impero); Italia: 750.000 morti; Serbia: 365.000; Stati Uniti: 115.000. Totale: più di otto milioni di morti.
Se ai decessi provocati dalle battaglie aggiungiamo quelli provocati dalle malattie e dagli stenti, queste cifre diventano ancore più spaventose. Basta pensare che nel solo anno 1918 un’epidemia d’influenza chiamata “spagnola” fu la causa della morte di 187.000 persone in Germania, 112.000 in Gran Bretagna, 91.000 in Francia, 270.000 in Italia. La pericolosità del contagio era enormemente accresciuta dalle condizioni miserevoli delle popolazioni, denutrite e logorate da anni di sofferenze e di stenti.
Il crollo della popolazione fu accentuato dal fatto che i caduti in guerra erano quasi esclusivamente uomini tra 20 e 40 anni: individui nel pieno delle loro energie fisiche, che si sarebbero sposati e avrebbero messo al mondo dei figli. Nei calcoli del danno demografico inferto dalla guerra all’Europa non bisogna quindi tener conto solo dei morti, ma anche dei bambini non nati.

7. Il Disastro Economico
Accanto alle perdite umane, quelle economiche. Le regioni dove effettivamente si era svolta la guerra avevano subìto distruzioni spaventose. Nella Francia settentrionale e orientale, nel Belgio, nell’Italia nord-orientale, in Russia e in tante altre zone, centinaia di migliaia di case erano andate distrutte, milioni di ettari di terra coltivata erano stati devastati e sconvolti, il bestiame era stato decimato. Ferrovie, strade, ponti, canali, avevano patito la stessa sorte. Le flotte mercantili (soprattutto quella tedesca e inglese) avevano perso una parte considerevole delle loro imbarcazioni.
Il territorio tedesco non aveva subìto gravi danni (la guerra sul fronte occidentale si era svolta in Francia e in Belgio), ma la perdita delle ricche ragioni minerarie consegnate alla Francia provocarono la caduta della produzione di carbone da 190 milioni di tonnellate a 108. Considerando l’Europa nel suo complesso, si può calcolare che la produzione agricola si ridusse del 30%, quella industriale del 40%.
Per far fronte allo smisurato impegno militare, gli Alleati erano stati costretti a contrarre debiti ingentissimi, soprattutto con gli Stati Uniti. Negli anni seguenti la guerra si trovarono nell’angoscioso obbligo di pagare quei debiti e, contemporaneamente, furono costretti, per finanziare la ricostruzione interna, a contrarre nuovi prestiti. Inoltre essi avevano fatto anche ricorso al debito pubblico, chiedendo prestiti ai cittadini. La restituzione di queste somme provocò gravi problemi. Per pagarle, i governi europei non riuscirono a fare altro che stampare carta moneta, provocando in questo modo una violenta inflazione e un forte aumento dei prezzi.

8. Il Declino dell’Europa
L’Europa impoverì se stessa, ma arricchì gli altri. Nel 1914 il Vecchio continente dominava il mondo economicamente, politicamente, culturalmente. I suoi capitali erano investiti, con grandi profitti, in tutto il pianeta, dalla Cina all’Africa, all’America del Sud. La sua industria pesante raggiungeva l’80% dell’intera produzione mondiale. Le grandi linee di trasporto e di comunicazione (per esempio i cavi sottomarini) erano controllate dagli Europei.
Nel 1919, conclusa la Prima guerra mondiale, questa situazione risultava completamente modificata. Non erano più le banche europee a finanziare il mondo, ma erano le banche americane a finanziare l’Europa.
Gli Stati Uniti e il Giappone trassero enormi vantaggi dalla guerra: le loro industrie avevano lavorato a pieno ritmo per rifornire gli Alleati, si erano riammodernate, erano penetrate su nuovi mercati. Mentre le potenze europee si combattevano all’ultimo sangue, gli Stati Uniti intensificavano la loro penetrazione commerciale nell’America del Sud, sbaragliando la concorrenza europea, e lo stesso faceva il Giappone in Estremo Oriente (soprattutto nel settore tessile). Sia gli Stati Uniti sia il Giappone, inoltre, non avevano subito alcuna distruzione: sui loro territori non era caduta nemmeno una bomba.
L’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917 segnò una svolta nella storia. Il peso decisivo che la loro superiorità industriale ebbe sulle sorti del conflitto dimostrò che l’Europa non era più l’unico centro del mondo, né dal punto di vista economico né da quello politico, e che anzi essa non era più nemmeno in grado di risolvere da sola i suoi problemi.
Alla fine dell’Ottocento il Vecchio continente era ancora il perno della politica mondiale: i suoi uomini di governo disegnavano a tavolino la carta politica di immense regioni, dell’Africa come dell’Asia. Il sistema delle alleanze e delle rivalità tra le potenze europee aveva una proiezione mondiale: il globo era lo specchio di quanto accadeva in Europa. Qui si stabilivano le regole del gioco, si elaboravano le idee politiche e i modelli di governo che le colonie subivano e tutti gli altri stati del mondo cercavano di imitare. Dopo la Prima guerra mondiale tutto questo non fu più vero.

La Russia Sovietica
Ecco in breve le cause e gli effetti delle rivoluzioni in Russia
I
ntanto, nel 1917, la Russia fu protagonista di una rivoluzione che mutò profondamente gli equilibri tra gli stati europei: la Rivoluzione sovietica.
In questo paese, governato dallo zar Nicola II e costituito per l’85% da contadini in miseria, le prime avvisaglie rivoluzionarie si erano manifestate con i moti del 1905, guidati dal Partito socialdemocratico russo (ispirato al marxismo), diviso in due fazioni: menscevichi e bolscevichi. I rivoluzionari ottennero la Duma (un parlamento dai poteri molto limitati) ma alla fine i moti furono repressi nel sangue.
I problemi si aggravarono con la partecipazione della Russia alla Prima guerra mondiale. Nel febbraio 1917 la rivolta dilagò in tutto il paese; lo zar fu costretto ad abdicare e al suo posto si installò un governo provvisorio, guidato da Kerenski, in cui menscevichi e socialrivoluzionari collaboravano insieme con esponenti della borghesia.
Di fronte all’incapacità mostrata da questo governo di operare le riforme attese dal popolo russo, i bolscevichi, organizzati nei soviet e guidati da Lenin, rovesciarono Kerenski e si impadronirono del potere nella notte tra il 24 e il 25 ottobre 1917. Questo evento, al quale fu dato il nome di Rivoluzione d’ottobre, segnò la nascita del primo stato socialista del mondo.
Il nuovo governo sovietico concluse la pace con la Germania, che segnò l’uscita della Russia dalla guerra, distribuì le terre ai soviet dei contadini e varò numerose altre riforme decisive. Il partito bolscevico assumeva intanto il nome di partito comunista.
Tra il 1918 e il 1920 esso affrontò e vinse la guerra civile scatenata dai controrivoluzionari. In questi anni di terrore (Terrore bianco contro Terrore rosso) fu decisa anche la condanna a morte dello zar e della sua famiglia.

1. La Nuova Politica Economica
Superata questa fase drammatica, il governo sovietico ebbe il difficile compito di ricostruire un’economia dissestata: i contadini, provati dalle requisizioni e dalle carestie, cominciavano a ribellarsi; la produzione industriale era appena il 13% rispetto all’anteguerra; le miniere erano state distrutte; il materiale ferroviario era quasi inservibile. Le città mancavano di tutto - viveri, vestiti, medicine - e i loro abitanti cercavano rifugio nelle campagne.
Il brigantaggio e la criminalità comune crescevano in modo inquietante. Un’epide- mia di tifo dilagata nel 1921 causò milioni di morti.
Per fronteggiare la crisi Lenin varò la Nuova politica economica (Nep), che si basava sulla distinzione tra un settore socializzato, sotto il controllo dello stato, che comprendeva i trasporti, le banche, la grande industria e il commercio estero, e un settore libero, lasciato all’iniziativa privata (commercio interno, piccola industria, agricoltura). Questo programma economico cercava soprattutto di stimolare il consenso dei contadini, che vennero incoraggiati a produrre sempre di più grazie alla riapertura del libero mercato e alla fine delle requisizioni forzate.
I risultati della Nep furono ampiamente positivi: in pochi anni la produzione agricola e quella industriale raggiunsero infatti i livelli dell’anteguerra.
La boccata d’ossigeno in campo economico permise di rimettere in moto il meccanismo delle riforme politiche. Nel 1922 la Russia divenne Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss): una federazione all’interno della quale era garantita l’autonomia linguistica e la parità di diritti a tutte le nazionalità.

2. L’Industrializzazione a Tappe Forzate
Benché stimolasse l’industria leggera (vestiario, utensili, attrezzi agricoli ecc.), la Nep non era certo adatta a favorire un rapido sviluppo dell’industria pesante (trasporti, petrolio, elettricità, macchinari, armamenti ecc.), che necessitava di grandi risorse, al fine di trasformare l’Urss in una potenza capace di competere con i paesi capitalistici.
Questo era però l’obiettivo che si erano posti i capi sovietici, e per raggiungerlo non vi era altra via che quella di pianificare rigorosamente le risorse in modo da destinare allo sviluppo industriale una quota quanto più alta possibile della ricchezza prodotta dall’agricoltura. Fare cioè in pochi anni quello che in Occidente era avvenuto nel corso di decenni, se non addirittura di secoli.
Si trattò di una vera e propria rivoluzione dall’alto, che trasformò in modo radicale il tessuto sociale ed economico del paese. Essa si svolse in due momenti strettamente connessi: collettivizzazione forzata dell’agricoltura e rapida industrializzazione.

3. La Collettivizzazione dell’Agricoltura
Come abbiamo visto i contadini, una volta ottenute le loro terre, non erano disposti a cederle allo stato, né a consegnare i raccolti. Per placare il loro malcontento la Nep aveva rinunciato alla collettivizzazione delle terre e aveva liberalizzato il commercio. Si erano così formate numerosissime aziende familiari, spesso di piccole dimensioni, condotte con criteri antiquati, ma si erano anche formate aziende più grandi, nelle mani di contadini ricchi, chiamati kulaki. Il governo comunista ritenne indispensabile collettivizzare tutte queste aziende: i campi avrebbero prodotto di più e senza squilibri sociali se, una volta diventati di proprietà dello stato, fossero stati coltivati da cooperative di contadini, amministrate da funzionari statali dotate di tecnologie moderne.
I contadini, con i kulaki in prima fila, opposero però una resistenza accanita alla collettivizzazione: nascondevano i raccolti e abbattevano il bestiame piuttosto che portarlo nelle fattorie collettive. Per piegarli si usò il terrore: migliaia di kulaki furono giustiziati, milioni furono deportati in Siberia e in Asia Centrale e gran parte morì per gli stenti. La collettivizzazione poté così procedere con ritmo intenso.
4. Il Piano Economico Quinquennale
Nel 1928 venne lanciato il primo piano economico quinquennale (1928-33) che, come anche quelli successivi, tutto sacrificava al rapido sviluppo dell’industria pesante. In questo settore i risultati furono grandiosi. Alla fine del 1933 (nel frattempo lo stato aveva preso il completo controllo anche del commercio e della piccola industria) la produzione industriale risultò quadruplicata rispetto al 1913. La crescita proseguì impetuosa anche col secondo piano quinquennale (1933-37), mentre la realizzazione del terzo fu bruscamente interrotta, nel 1939, dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.
L’obiettivo che la pianificazione si prefiggeva era comunque già stato raggiunto: l’Urss era divenuta una grande potenza industriale, al secondo posto nel mondo per la produzione di petrolio e al terzo per quella di acciaio. Al tempo stesso era stato creato un efficiente sistema sanitario e l’analfabetismo era stato debellato. L’istruzione superiore e le università si aprirono ai giovani di origine contadina e operaia, che prima erano confinati nella miseria e nell’ignoranza.
Il successo fu dunque imponente. Ma per raggiungerlo anche le città, non soltanto le campagne, erano state sottoposte a privazioni e vessazioni di ogni genere. Soltanto nel 1935 fu abolito il razionamento alimentare, decretato nel 1930 a seguito della spaventosa carestia causata dalla collettivizzazione forzata dell’agricoltura. La produzione di beni di consumo restò sempre compressa al massimo.
La popolazione era costretta in una condizione di povertà generalizzata, ai limiti della miseria, che molti però accettavano con entusiasmo nella prospettiva esaltante della costruzione di una società nuova e più giusta, socialista.
5. Da Lenin a Stalin
Il passaggio dalla Nep (1921-27) all’industrializzazione accelerata fu accompagnato da aspri conflitti personali e politici fra i massimi dirigenti comunisti.
Gravemente ammalato da alcuni anni, Lenin morì nel 1924. La sua persona diventò subito oggetto di un vero e proprio culto: la salma venne imbalsamata ed esposta in un mausoleo nella Piazza Rossa di Mosca, il nome di Pietrogrado (la città da cui era partita la rivoluzione) fu cambiato in Leningrado.
Due uomini se ne contesero la successione: Trotzki, principale collaboratore di Lenin e individuo di grande cultura, era il prestigioso capo dell’Armata rossa; Stalin era una figura molto più opaca, ma la carica di segretario generale del partito gli conferiva un potere enorme. Trotzki e Stalin si detestavano a vicenda sul piano personale, ed inoltre proponevano linee politiche opposte su questioni essenziali.
Nessuno dei due metteva in discussione la dittatura comunista né la necessità di procedere a tappe forzate sulla via dell’industrializzazione. Li divideva però una profonda avversione personale, la diversa concezione del partito (di cui Trotzki denunciava le “degenerazioni burocratiche” e Stalin esaltava il “monolitismo”) e la strategia da seguire per consolidare l’Urss: secondo Trotzki ciò era possibile solo espandendo la rivoluzione in tutto il mondo, mentre per Stalin era necessario avviare la costruzione del “socialismo in un paese solo”.
La lotta per il potere, di cui alla base del partito giungevano soltanto lontani echi, durò circa tre anni. Gli schieramenti mutarono più volte, ma Stalin seppe sempre giocare l’uno contro l’altro i capi del partito. Trotzki fu sconfitto, estromesso dal governo, espulso dal partito e, nel 1929, anche dall’Urss.
Eliminato il principale avversario, dispersi e perseguitati i suoi seguaci, Stalin mise da parte uno dopo l’altro i grandi dirigenti della Rivoluzione d’ottobre. Più tardi, fra il ’34 e il ’38, furono tutti fucilati dopo essere stati sottoposti a tragici processi-farsa e costretti a confessare di essere “agenti al soldo dell’imperialismo”.
Nel 1940 anche Trotzki fu ucciso da un sicario in Messico, dove si era rifugiato.

6. Lo Stalinismo
Dal 1934 in poi i sistemi terroristici che erano stati usati contro i kulaki divennero strumento ordinario di governo. Il potere del partito e degli organi di polizia crebbe a dismisura. Le “purghe” (ovvero epurazioni) si abbatterono su funzionari di partito, intellettuali, semplici contadini, tecnici e dirigenti delle industrie e delle fattorie collettive accusati di boicottare i piani di sviluppo. Almeno mezzo milione di persone furono fisicamente eliminate, milioni furono inviati al lavoro coatto in Siberia.
Il terrore non risparmiò neppure l’Armata rossa, la cui efficienza fu indebolita, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, dalla fucilazione di numerosi generali e di migliaia di ufficiali.
La società - stretta nella morsa dell’arbitrio e del sospetto reciproco - soffocava nel conformismo. Sulla vita intellettuale, che negli anni ’20 era stata assai vivace, scese la cappa del cosiddetto “realismo socialista”, e le sue opere false e convenzionali furono le sole consentite dal regime.
Il ciclo si era ormai concluso: si era consolidata una nuova autocrazia, egualmente burocratizzata ma ancora più intollerante e spietata di quella che l’aveva preceduta. A essa è stato dato il nome di stalinismo.

L’Italia Fascista
1. La Vittoria Mutilata
L
a vittoria nella Prima guerra mondiale fu amara per gli Italiani. Alle difficoltà che il dopoguerra presentò in tutte le nazioni europee si aggiunse, nel nostro paese, il rancore per la “vittoria mutilata”: un’espressione che si riferiva al mancato rispetto, da parte degli Alleati, degli impegni presi con l’Italia. Il risentimento raggiunse la massima tensione durante la crisi di Fiume. Questa città, abitata in prevalenza da Italiani ma situata in territorio completamente slavo, era stata occupata dal nostro esercito nel corso della guerra. Il trattato di Versailles l’aveva però tolta all’Italia e assegnata alla Jugoslavia.
Nel 1919, al momento di evacuare la città, una parte delle nostre truppe rifiutò di obbedire e a sostenere questa ribellione accorsero prontamente i “legionari” fiumani, un corpo di volontari guidato da Gabriele d’Annunzio, poeta e acceso nazionalista. L’opinione pubblica si schierò dalla loro parte e il presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti, accusato di condurre una politica rinunciataria, fu costretto alle dimissioni. Il suo posto fu preso dall’ottantenne Giolitti, che restava ancora l’uomo politico italiano più autorevole.
Giolitti risolse brillantemente la questione fiumana. Nel 1920 concluse con la Jugoslavia il trattato di Rapallo: Fiume divenne uno stato indipendente, l’Italia ottenne l’Istria e la città di Zara, mentre la Jugoslavia vide riconosciuti i suoi diritti sulla Dalmazia. Quando, infine, i legionari di d’Annunzio rifiutarono malgrado tutto di lasciare la città, Giolitti li fece prendere a cannonate obbligandoli al rispetto dell’accordo.
2. L’amarezza dei Reduci
Ma il malessere, nell’Italia del dopoguerra, era soprattutto un malessere sociale. Ai contadini, nei giorni più difficili del conflitto (per esempio dopo la drammatica sconfitta di Caporetto) era stata fatta balenare la speranza della distribuzione delle terre. Passato il pericolo, le promesse erano state dimenticate e nessuno intendeva rispettarle. Quanto agli operai, essi trovarono condizioni di vita molto più dure di quelle che avevano lasciato partendo per il fronte: aumento dei prezzi, abbassamento dei salari, fame, disoccupazione.
La crisi economica colpì anche la piccola e media borghesia. Da questi ceti erano stati reclutati gli ufficiali e i sottufficiali, individui che nella guerra avevano avuto un ruolo di primo piano e che nell’esercizio del comando avevano trovato prestigio e autorità. Tornati a casa, essi erano costretti a riadattarsi a una vita grigia e monotona, fatta di magri stipendi e sacrifici. Dove erano finite - si chiedevano i reduci - le illusioni dei giorni di guerra ?

3. I Socialisti
In questa situazione di diffuso malessere i socialisti mostravano una certa capacità d’iniziativa. Il Partito socialista poteva contare sulla forza della confederazione sindacale “rossa” la Cgl, che nel 1919 aveva ben due milioni di iscritti. Esso aveva inoltre lottato - unico partito in Italia - contro l’entrata in guerra e questo risultava un merito non trascurabile agli occhi di chi la giudicava ormai un tragico errore. Il Partito socialista traeva infine vantaggio dalle notizie provenienti dalla Russia: molti lavoratori correvano a ingrossare le sue file nella speranza di scatenare, anche in Italia, una rivoluzione vittoriosa. Le elezioni del 1919 furono un grande successo per i socialisti, che divennero il gruppo più forte del Parlamento.
Ma questa forza apparente celava una grande debolezza. Il Partito socialista era infatti in partito diviso tra il gruppo dei riformisti, che proponevano una politica di riforme graduali, e i massimalisti, che ritenevano ormai giunta la fine del capitalismo e volevano realizzare il programma “massimo” della rivoluzione socialista. Un terzo orientamento era rappresentato dal gruppo che faceva capo alla rivista Ordine nuovo, fondata nel 1919 da Antonio Gramsci, e ai suoi collaboratori Palmiro Togliatti, Angelo Tasca, Umberto Terracini. Essi si distaccavano tanto dai massimalisti, giudicati rivoluzionari solo a parole, quanto dai riformisti, e sostenevano la necessità di organizzare subito e concretamente la rivoluzione seguendo l’esempio sovietico.

4. I Cattolici
Per evitare che la guida delle grandi masse lavoratrici restasse nelle mani dei socialisti, il Vaticano prese una decisione storica e permise - cosa che fino a quel tempo aveva categoricamente vietato - la formazione di un partito dei cattolici. Questo partito, sorto nel 1918 sotto la guida del sacerdote Luigi Sturzo, si chiamò Partito popolare italiano. Oltre alla difesa dei valori tipicamente cattolici (la famiglia, la libertà della Chiesa) i popolari sostenevano una politica di riforme sociali, soprattutto in difesa dei contadini (per i quali chiedevano la divisione dei latifondi), ma si contrapponevano tanto ai socialisti, di cui criticavano l’atteggiamento ostile alla religione e l’incitamento alla lotta di classe, quanto ai liberali, che rappresentavano la vecchia tradizione risorgimentale ostile alla Chiesa. Il partito popolare si attestava quindi su posizioni interclassiste: sostenevano cioè la necessità dell’incontro e della collaborazione tra le varie classi sociali.
5. L’Occupazione delle Fabbriche
Il malcontento popolare esplose nel 1919 con scioperi, agitazioni, occupazioni di terre in tutta la penisola, cui si accompagnarono anche violenze e saccheggi. La situazione si aggravò l’anno seguente, quando gli industriali metallurgici rifiutarono di concedere agli operai quegli aumenti salariali che apparivano indispensabili per fronteggiare il forte aumento dei prezzi. Gli operai del settore entrarono in sciopero, gli industriali risposero con la (cioè con la chiusura degli stabilimenti); gli operai, a loro volta, decisero l’occupazione delle fabbriche, pronti a difenderle, se occorreva, anche con l’uso delle armi. Non soltanto nel , e soprattutto a Torino ribattezzata la , ma ovunque vi fosse un’acciaieria o una fonderia - da Firenze a Roma, da Napoli a Palermo - le officine divennero fortilizi operai presidiati dai lavoratori in armi.
L’immagine di lavoratori che imbracciando fucili e sventolando bandiere rosse occupavano le industrie e ne organizzavano la produzione seminò il panico in tutta la borghesia. Molti temevano che si finisse come in Russia, con i bolscevichi al potere, la dittatura del proletariato, la fine del capitalismo.
Ma le divisioni all’interno del partito socialista provocarono il fallimento dell’occupazione delle fabbriche: i massimalisti videro in quell’episodio l’inizio della rivoluzione che avrebbe abbattuto il sistema borghese, ma non si decisero a organizzare la lotta armata; i riformisti lo interpretarono invece come un momento di mobilitazione per ottenere soltanto miglioramenti salariali. Privi di una guida efficace e disorientati, gli operai furono costretti ad abbandonare la lotta ed ad accontentarsi delle promesse di Giolitti (che non furono mantenute).

6. Nascita del Partito Comunista
Questa esperienza aprì una grave crisi all’interno del Partito socialista. Il gruppo di estrema sinistra, capeggiato da Antonio Gramsci e Amedeo Bordiga, uscì dal partito nel gennaio 1921 e fondò il Partito comunista d’Italia, che si proponeva di guidare il popolo alla rivoluzione.
Nei mesi seguenti ritornò ossessivo, negli ambienti borghesi e militari e sulla stampa moderata e di destra, il motivo del : l’assalto dei alla proprietà privata, la loro lotta contro la religione e la Chiesa, la loro ostilità ai supremi ideali della e della nazione. Si cominciò a invocare insistentemente un governo forte, che reprimesse con fermezza le agitazioni popolari, restituisse dignità alla patria e garantisse l’ordine sociale, duramente provato dall’occupazione delle fabbriche.

7. Le Origini del Fascismo
In questa atmosfera intrisa di paura e di disordine, di nazionalismo e di miseria dilagante si affermò un movimento destinato a stravolgere il sistema politico italiano e a segnare più di vent’anni della nostra storia: il fascismo.
Nel marzo del 1919 Benito Mussolini - un giornalista che aveva militato nel partito socialista fino a diventare direttore del quotidiano del partito, L’avanti, e che ne era stato espulso per la sua posizione favorevole all’intervento in guerra - fondò a Milano i Fasci italiani di combattimento. Il nome Fasci esprimeva un movimento extraparlamentare (cioè non rappresentato da suoi deputati in Parlamento), estraneo e ostile al gioco dei partiti, che raccoglieva, appunto come in un fascio, uomini uniti da un fine comune.
Il fine comune dei Fasci fondati da Mussolini era l’antisocialismo e il patriottismo. Per il resto il loro programma era molto vago e piuttosto ambiguo:

.

Queste parole esprimevano molto bene, del resto, il carattere dello stesso capo del movimento. Estremamente abile nel cogliere le debolezze degli avversari e nello scegliere il momento opportuno per l’azione, paziente nell’attesa e rapido nelle decisioni, Mussolini era un politico spregiudicato: per lui la politica era soprattutto un mezzo di affermazione individuale.
Il movimento dei Fasci raccolse inizialmente consensi soprattutto tra gli ex-ufficiali, che non sapevano ritrovare nella vita quotidiana una collocazione adeguata al ruolo acquisito durante la guerra, tra la piccola e media borghesia impoverita dall’inflazione e ostile all’ascesa del proletariato, tra gli studenti, attratti dal culto della forza fisica e dell’azione, e anche tra i disoccupati, cui i fascisti promettevano un lavoro e un pezzo di terra. Ma su questo movimento non tardò a riversarsi anche l’appoggio, decisivo, della grande industria e dei proprietari terrieri, che gli garantirono i finanziamenti. Una minoranza in origine molto ristretta riuscì dunque ad attirare intorno a sé forze consistenti, anche se di diversa provenienza.

8. La Violenza Fascista
Piaceva, nel fascismo, il modo violento e sbrigativo di mettere a tacere il proletariato e i suoi rappresentanti: organizzati in e vestiti in uniforme (le ), i fascisti assalivano armati le sedi dei sindacati, del partito socialista, dei giornali di sinistra, le distruggevano e le davano alle fiamme. I - come venivano chiamati i socialisti e in genere tutti gli oppositori dei fascisti - venivano aggrediti, bastonati, umiliati in vario modo. In molti casi si arrivò all’assassinio.
Per comprendere l’entità del fenomeno basta riflettere su alcuni dati: nella sola provincia di Ferrara, nei primi mesi del 1921, furono effettuate 130 spedizioni punitive con migliaia di feriti e otto morti, decine di sezioni socialiste distrutte, 17 amministrazioni comunali socialiste disciolte. Si calcola che nei primi due anni di attività delle squadre fasciste i contadini e gli operai uccisi furono circa 1500. >.
Le squadre fasciste intervenivano anche per impedire agli operai e ai braccianti agricoli di scioperare, e ciò suscitava l’appoggio degli industriali e dei proprietari terrieri: in seguito alle violenze fasciste, tra il 1920 e il 1921, gli scioperi nell’agricoltura scesero da 189 a 89, nell’industria da 1881 a 1045.
Le imprese delle squadre fasciste si svolgevano solitamente sotto la protezione della polizia, dell’esercito, della magistratura. Questa tolleranza era raccomandata dal governo. La vecchia classe dirigente liberale guidata da Giolitti fece un calcolo sbagliato: per mettere a tacere l’opposizione socialista e frenare il pensò di utilizzare i fascisti, per poi farli rientrare nella legalità. La prima parte del progetto ebbe successo, la seconda si rivelò un’illusione.
I Fasci, che si trasformarono in Partito nazionale fascista alla fine del 1921, nelle elezioni di quello stesso anno erano entrati in Parlamento con 35 deputati: un piccolo drappello, rispetto ai 122 socialisti e ai 16 comunisti, ai 107 popolari e ai 240 deputati dei partiti moderati. Ma si trattava di un drappello compatto e ben organizzato: . I fatti avrebbero dimostrato la drammatica verità di queste parole.

9. La Marcia su Roma
La crisi economica e le violenze continuavano a imperversare, affrettando la crisi del vecchio regime. Al governo Giolitti successero in rapida sequenza altri governi, uno più debole, dell’altro, mentre i fascisti intensificavano le spedizioni punitive. Il movimento socialista, confuso e impreparato a difendersi dalla violenza, incassava un colpo dopo l’altro.
Mussolini ritenne che i tempi fossero maturi per la presa del potere: . Alla fine dell’ottobre 1922 le camicie nere di tutta Italia marciarono sulla capitale, dove entrarono indisturbate. Il re affidò a Mussolini l’incarico di formare il governo.
I fascisti sostennero sempre che la marcia su Roma era stata una rivoluzione. Ma non si trattò di una rivoluzione. Se il re avesse voluto, sarebbe bastato un solo reparto dell’esercito per disperdere quei fascisti male armati che giungevano alla spicciolata, in un chiassoso disordine. Sarebbe bastato bloccare le ferrovie e le vie principali.
Il re non volle farlo perché sapeva che il fascismo aveva ormai l’appoggio di tutti i più importanti gruppi di potere del paese: i grandi industriali, i proprietari terrieri, l’esercito, gli ambienti di corte. La marcia su Roma non fu quindi un evento rivoluzionario partito dal basso, ma il risultato di qualcosa che era già accaduto: la decisione del grande potere economico e del potere militare di togliere l’appoggio al vecchio regime liberale e di trasferirlo sul fascismo, forza giovane e prorompente, in gradi di bloccare l’avanzata del proletariato.

10. Le Elezioni del ’24
Diventato capo di un governo di cui facevano parte anche rappresentanti dei liberali e dei popolari, Mussolini fece subito approvare una serie di leggi che favorivano il grande capitale e diminuivano stipendi e salari; la giornata lavorativa di otto ore fu in pratica abolita e nelle campagne si tornò ai ritmi di lavoro di 10-12 e persino 14 ore.
Mussolini fece poi approvare una nuova legge elettorale (la Legge Acerbo) che attribuiva i due terzi dei deputati al partito, o alla coalizione dei partiti, che avesse raggiunto la maggioranza relativa. Le elezioni del 1924 si tennero all’insegna della paura e degli imbrogli:

.

Alle elezioni i fascisti si presentarono in una lista che comprendeva molti esponenti liberali (il cosiddetto ) e che ottenne circa il 65% dei voti; i popolari ottennero il 9%, le sinistre (socialisti e comunisti) il 15%: il Parlamento era ormai in mano ai fascisti.
Quando la Camera si riunì per convalidare i risultati delle elezioni, il deputato socialista Giacomo Matteotti denunciò tutte le illegalità, le intimidazioni e gli abusi che si erano verificati durante le elezioni. La sua requisitoria, dura e documentata, fece scalpore. Il giorno dopo il quotidiano fascista Il popolo d’Italia scrisse: . Queste parole suonarono come una condanna: Matteotti fu rapito da una banda di fascisti che da tempo effettuava spedizioni punitive per conto del Ministero degli Interni, e ucciso. Il ritrovamento del cadavere, due mesi più tardi, suscitò un’ondata di indignazione in tutto il paese e anche negli ambienti che fino che fino a quel momento avevano sostenuto Mussolini.
Le condanne del governo si moltiplicavano, la marea dello sdegno saliva di giorno in giorno e il nuovo regime cominciò a vacillare. Ma due elementi giocarono a suo favore: la politica maldestra dell’opposizione e la debolezza del re.
Tutti i deputati dell’opposizione, guidati la liberale Giovanni Amendola, abbandonarono le aule parlamentari per protesta, volendo in questo modo dimostrare che il governo, avendo agito fuori della illegalità, si trovava completamente isolato. In riferimento alle antiche secessioni della plebe romana, che abbandonava la città per protesta contro gli abusi dei patrizi, l’episodio prese il nome di . Questa decisione, tuttavia, si rivelò un errore gravissimo: tirandosi fuori dai luoghi della politica ufficiale, gli oppositori ridiedero fiato al governo, dando quasi l’impressione di escludersi dalla lotta e di autoemarginarsi. Essi avevano inoltre sperato in un intervento del re, che avrebbe dovuto costringere Mussolini alle dimissioni; ma il re, debole e timoroso, si schierò ancora una volta dalla parte del fascismo.
Mussolini era un politico troppo abile per non cogliere al volo l’occasione: fece inscenare alcuni processi-burla nei confronti degli squadristi implicati nel delitto, dimostrando così che il governo era in grado di difendere la legalità, ma al tempo stesso diede ordine alle squadre fasciste di intimorire gli avversari - sia socialisti e comunisti, sia cattolici - in tutto il paese. Quando infine nuovi indizi fecero sospettare la complicità di Mussolini nell’uccisione del deputato socialista, egli se ne assunse pubblicamente la responsabilità in un discorso quale le aule parlamentari italiane non avevano mai sentito:

.

11. Il Regime Fascista
Il discorso di Mussolini segnò una svolta. A partire dal 1926, i giornali di opposizione furono chiusi, tutti i partiti tranne quello fascista disciolti, centinaia di oppositori arrestati, i deputati dell’Aventino espulsi dal Parlamento: furono istituiti un Tribunale speciale per la difesa dello Stato, una polizia politica (Ovra, Organizzazione per la vigilanza e la repressione dell’antifascismo), la pena di morte per i reati politici. I sindaci, di nomina elettiva, furono sostituiti dai podestà, di nomina governativa. Al capo del governo furono attribuiti poteri straordinari: poteva nominare i ministri a suo piacimento e decidere di che cosa dovesse discutere il Parlamento, comandava le forze armate e rispondeva del suo operato solo al re. I rapporti tra il partito e il governo erano regolati dal Gran Consiglio del Fascismo, che raccoglieva i maggiori esponenti del movimento fascista. L’Italia era ormai diventata una dittatura.
Il fascismo è stato definito regime reazionario di massa: perché esso mirò sempre a favorire il potere economico e sociale della grande borghesia terriera e industriale a svantaggio delle classi lavoratrici. Il fascismo abolì infatti il diritto di sciopero, e le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori furono subordinate a organismi superiori, le Corporazioni, che dirigevano - nel quadro delle attività del Ministero delle Corporazioni - i rapporti di lavoro. Qualsiasi controversia veniva così regolata dall’alto, in base al principio della e ai . Queste parole altisonanti significavano in pratica la totale subordinazione degli interessi dei lavoratori a quelli dei datori di lavoro.
Grazie alla soppressione della libertà sindacale e allo scioglimento dei sindacati liberi, il regime poté imporre una fortissima riduzione dei salari: tra il 1927 e il 1934 gli operai dell’industria persero mediamente il 40% circa del loro salario, quelli dell’agricoltura circa il 60%. Ai grandi capitali furono invece concesse esenzioni fiscali, crediti, agevolazioni.

12. La Politica Economica
La politica economica del regime fascista fu caratterizzata da un crescente , cioè dall’intervento dello stato nella vita economica del paese.
La grave crisi che nel 1929 colpì l’economia statunitense, ebbe gravi ripercussioni anche in Italia: crollo della produzione in conseguenza della chiusura dei mercati esteri, disoccupazione, perdita di valore dei salari. Intanto veniva meno - soprattutto a causa delle restrizioni imposte dal governo statunitense - la valvola di sfogo dell’emigrazione, che aveva eliminato la manodopera eccedente e garantiva, grazie al denaro inviato dagli emigranti alle famiglie, un costante afflusso di valuta pregiata.
Per contrastare la crisi e la disoccupazione, il governo fascista avviò un vasto programma di lavori pubblici: fu ampliata la rete stradale e ferroviaria, fu portato a termine l’acquedotto pugliese, furono costruiti nuovi edifici pubblici. Ma l’impresa più impegnativa fu la bonifica delle Paludi pontine, che trasformò in terreno agricolo circa 60.000 ettari di zone malsane, infestate dalla malaria, e portò alla fondazione di nuove cittadine come Littoria (chiamata poi Latina) e Sabaudia.
Oltre che attraverso l’abolizione del diritto di sciopero, il fascismo protesse le grandi industrie con una legge che le metteva al sicuro dalla concorrenza vietando la nascita di nuovi impianti industriali senza la preventiva autorizzazione del governo. Le grandi industrie italiane, dalla Fiat all’Ansaldo, alla Breda, all’Edison, alla Montecatini, ne trassero grande beneficio. Nel 1933 fu costituito l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), un ente statale che si assunse il compito di salvare banche e industrie in difficoltà, assumendone il controllo. Nel giro di pochi anni l’Iri estese la sua influenza, e quindi l’intervento dello stato, su tutti i settori dell’economia nazionale.

13. Il Fascismo e le Masse
Abbiamo visto perché il fascismo fu un regime reazionario. Vediamo ora perché fu un regime reazionario .
Imposto con la violenza il proprio ordine, eliminate le opposizioni, messa a tacere qualsiasi critica, il nuovo regime cercò un ampio consenso nel paese. a questo scopo, oltre alla stampa, utilizzò in modo capillare, come nessun regime al mondo aveva ancora fatto, i nuovi mezzi d’informazione: la radio e il cinema diffondevano i temi trionfalistici della propaganda governativa, esaltavano la figura del (così si faceva chiamare Mussolini), celebravano la nuova era apertasi per il popolo italiano.
In un regime nato dalla violenza e che esaltava la violenza, il culto della forza fisica era uno dei temi più frequenti di questa propaganda. Mussolini e i gerarchi amavano farsi fotografare mentre eseguivano spericolati esercizi ginnici, mentre si tuffavano dentro anelli di fuoco o scavalcavano muri altissimi, mentre tiravano di scherma o correvano in motocicletta. Il fascismo amava anche le adunate oceaniche, in cui le masse accompagnavano con boati di approvazione le parole d’ordine urlate dal duce e dai gerarchi che lo imitavano. Mussolini inventò uno stile oratorio fatto di discorsi fintamente improvvisati, ma in realtà preparati con cura, scanditi da frasi a effetto come: .
Mussolini si proponeva come il severo e paterno, duro e rassicurante, uomo forte fisicamente e moralmente, dotato di una volontà sovrumana. Molti, in un’Italia avvilita dal complesso di non essere una grande potenza, si lasciarono incantare dai suoi discorsi in cui si proclamava la superiorità del popolo italiano, la vastità delle sue ambizioni, la grandezza del suo passato, la gloria del suo avvenire.
Il fascismo mirava a coinvolgere il popolo intero, a irregimentarlo fin dalla più tenera età nelle organizzazioni di partito: l’Opera Nazionale Balilla inquadrava i ragazzi e li addestrava militarmente; gli studenti universitari facevano parte dei Gruppi Universitari Fascisti (Guf). Il regime pretese anche d’inquadrare il tempo libero degli Italiani e a questo scopo istituì l’Opera Nazionale Dopolavoro. Organizzava inoltre colonie estive al mare o in montagna, gare ginniche e sportive.
L’iscrizione al Partito fascista divenne indispensabile per accedere a un impiego statale. Il partito unico divenne in questo modo una potente cinghia di trasmissione tra la popolazione e lo stato.
Tutti questi elementi facevano del fascismo un regime , che sembrò raggiungere da un certo momento in poi un ampio e incontrastato popolare, ma si trattava evidentemente di una partecipazione guidata dall’alto, manipolata dalla propaganda e alla quale non esistevano alternative.

14. I Patti Lateranensi
Nella ricerca del consenso, il più vistoso successo del regime fu la tra stato italiano e Santa Sede. Con i Patti Lateranensi (11 febbraio 1929), l’Italia riconobbe la Città del Vaticano come stato indipendente, pagò un’indennità per i beni ecclesiastici confiscati dopo l’Unità, riconobbe la validità civile del matrimonio religioso, s’impegnò a impartire l’insegnamento della religione nelle scuole.
Il Concordato (così si chiamò questo accordo) pose fine a quel lungo antagonismo tra la Chiesa e il Regno d’Italia che era stato un’inevitabile conseguenza del Risorgimento e che aveva spesso fatto guardare ai cattolici come a dei potenziali nemici della stabilità dello stato. Fino a quel momento il papa si era considerato prigioniero in Vaticano, ora diventava un prezioso interlocutore dello stato.
Il fascismo ottenne così l’importante appoggio della Chiesa e si avvicinò alle grandi masse cattoliche.

15. L’Antifascismo
Il regime poliziesco impiantato dal fascismo fu duro. Tra il 1927 e il 1943 circa 5000 persone furono condannate alla prigione o al , come veniva chiamato l’esilio in un’isola o in una località sperduta. Le condanne a morte pronunciate dal Tribunale speciale furono 29, di cui solo tre eseguite. Ma molti oppositori morirono per le bastonate degli squadristi: tra le vittime più illustri si possono ricordare i liberali Giovanni Amendola e Piero Gobetti. Molti uomini politici (socialisti, comunisti cattolici) furono costretti all’esilio: Nitti, Turati, Sturzo, Togliatti e tanti altri. Il segretario del partito comunista, Antonio Gramsci, morì per le privazioni patite durante dieci anni di carcere duro.
Stroncata in Italia, l’attività antifascista, si spostò all’estero e soprattutto a Parigi. I nostri esuli politici svolgevano un compito prezioso: in un momento in cui la stampa internazionale esaltava in Mussolini l’eroe dell’anticomunismo, essi testimoniavano, con la loro stessa presenza, la fine della libertà nel loro paese.

La Crisi del ’29 e il New Deal
1. L’Industria Automobilistica
D
opo il primo conflitto mondiale, vincitori e vinti avevano problemi diversi, ma uno fu comune a tutti: riconvertire le industrie di guerra in industrie di pace. Durante il conflitto l’intero apparato produttivo era stato finalizzato a rifornire il fronte, in viveri, armi, materiali. Ma ora era necessario ricostruire, ridare fiato al commercio, rimettere in moto il sistema economico.
La grande protagonista del sistema industriale del dopoguerra fu l’automobile, prodotta in serie secondo criteri nuovi.
I primi esemplari di automobile risalgono al 1890, ma questa macchina restò a lungo soltanto un giocattolo costoso, difficile a usarsi e costruito su misura per clienti ricchi, che potevano permettersi la spesa iniziale, gli elevati costi di manutenzione e di esercizio, il salario dell’autista. Le prime automobili si guastavano in continuazione, perché i motori erano fragili, i pneumatici non resistevano alle strade in cattivo stato, le sospensioni si rompevano facilmente. Mancavano le officine, i pezzi di ricambio, le pompe di benzina.
L’idea di fare dell’automobile un prodotto di grande diffusione fu di un industriale statunitense, Henry Ford: era un’idea rivoluzionaria che avrebbe ben presto modificato non solo la qualità dei trasporti, ma anche il modo stesso di concepire la produzione industriale. Fu lui a impiantare le prime fabbriche automobilistiche che producevano in serie, utilizzando la catena di montaggio dove gli operai, con l’aiuto delle macchine utensili, lavoravano con ritmi serrati e precisa coordinazione. Queste fabbriche iniziarono a produrre nel 1905 il , un veicolo goffo e sbuffante, ma con l’enorme pregio di avere un prezzo accessibile, alla portata di molte famiglie americane. Il successo fu travolgente: nel 1915 ne circolava un milione di esemplari, nel 1924 dieci milioni.
Negli Stati Uniti l’esempio di Ford fu subito imitato. Sorsero nuove fabbriche, nuove marche, si produssero nuovi modelli; le automobili abbandonarono il colore nero che ricordava le vecchie carrozze a cavalli e si ricoprirono delle tinte più smaglianti, si perfezionarono nella meccanica, divennero più sicure e veloci. Nel 1927 fu stabilito il record di velocità con 325 km/h: appena vent’anni prima una corsa automobilistica era stata vinta alla media di 25 km orari!
I fabbricanti europei continuarono ancora per qualche tempo a produrre automobili con criteri artigianali, esemplari pregiata dalle rifiniture di lusso e dal prezzo proibitivo, ma finirono presto per adeguarsi ai nuovi metodi americani. Dopo la guerra, industrie come la Morris inglese, la Citroen e la Renault francesi, la Dailmer-Benz (Mercedes) tedesca, la Fiat italiana riempirono anche il vecchio continente di automobili relativamente a buon mercato.
. Questa profezia si è avverata: poche altre invenzioni hanno infatti trasformato la nostra vita come l’automobile. Con l’automobile si accorciava i tempi e le distanze, si poteva conoscere meglio il mondo.

2. Città e Industrie che cambiano
Cambiò anche l’aspetto delle città: la rapidità degli spostamenti fece crescere le periferie e i sobborghi perché ora era possibile raggiungere in pochi minuti il centro cittadino, la fabbrica, l’ufficio. Ma questo provocò anche ingorghi, l’inquinamento dei gas di scarico, un aumento del rumore. Nelle antiche città europee, le vie strette e tortuose divennero veri e propri inferni per gli abitanti.
La crescita dell’industria automobilistica ebbe tuttavia effetti positivi sull’intero sistema economico. Essa svolse infatti un ruolo analogo a quella della ferrovia verso la metà dell’Ottocento. Consumava su vasta scala prodotti semilavorati (acciaio laminato, legno, vetro, vernici), componenti (pneumatici, lampadine, batterie, ecc.); richiedeva migliaia di addetti per le riparazioni e la manutenzione; dava un impulso fortissimo agli investimenti dello stato in strade, ponti, gallerie. Essa poneva continuamente nuovi problemi alla metallurgia, alla chimica, all’ingegneria e ciò aveva riflessi importanti anche su altri tipi di industrie.

3. Il americano
Nel dopoguerra gli Stati Uniti conobbero un boom, cioè una crescita economica senza precedenti: in soli sette anni, tra il 1922 e il 1929, la produzione industriale aumentò del 64%. Le masse correvano ad acquistare i nuovi prodotti che le industrie producevano a ritmi vertiginosi: automobili, elettrodomestici, apparecchi radio, grammofoni e tanti altri oggetti che fino a qualche tempo prima la maggioranza della popolazione considerava solo un lusso e che ora apparivano una necessità.
Per riuscire a vendere i loro prodotti, le industrie e i negozianti concedevano pagamenti dilazionati (le cosiddette ) che mettevano alla portata di molti acquirenti merci che altrimenti sarebbero state troppo care, e lanciavano campagne pubblicitarie che suggestionavano il pubblico spingendolo a spendere. Le banche offrivano denaro in prestito con molta facilità e a interessi assai convenienti.
Sembrava che questo benessere e questa corsa ai consumi non dovessero aver mai fine e che il avrebbe garantito sempre nuova felicità.
Eppure il sistema era minato all’interno da un grave squilibrio: mentre aumentava a dismisura la quantità delle merci prodotte, non aumentava nella stessa misura il potere d’acquisto della gente: i salari dei lavoratori, infatti, restavano stabili, mentre esistevano ancora grandi masse di disoccupati che non guadagnavano nulla.
Gravi sintomi di crisi cominciò a manifestare anche l’agricoltura. I contadini americani avevano realizzato notevoli guadagni rifornendo l’Europa durante gli anni di guerra e del primo dopoguerra. Man mano che l’agricoltura europea si riprendeva e cominciava a produrre quello che prima era necessario importare, gli agricoltori americani incontravano crescenti difficoltà nella vendita dei loro raccolti, che si accumulavano nei magazzini. Essi furono quindi costretti ad abbassare i prezzi (fino a 2/3 in meno rispetto ai prezzi del periodo di guerra) e questo significò un crollo dei loro guadagni. Guadagnando meno, i contadini avevano anche meno denaro da spendere per l’acquisto dei prodotti industriali. Negli anni del boom gli agricoltori avevano contratto debiti con le banche per l’acquisto di macchinari; la crisi rendeva inutili le macchine, e impossibile la restituzione dei debiti. Molte banche si trovarono in grave difficoltà, molte fallirono.
Il sistema economico americano cominciò a scricchiolare sotto il peso di queste difficoltà, ma l’ottimismo era duro a morire: tutti erano convinti che si trattasse di una crisi passeggera e che non vi sarebbe stata nessuna catastrofe.

4. La Crisi del ’29
La catastrofe esplose invece nel 1929 e in una forma talmente violenta che ancora oggi gli storici e gli economisti la considerano la più grave crisi mai verificatasi nel mondo capitalistico.
L’allarme partì dalla Borsa. Si chiama così il luogo dove si comprano e si vendono i titoli azionari, detti comunemente azioni. Le azioni sono quote del capitale delle industrie e delle altre imprese che vengono offerte in vendita a privati cittadini: un piccolo risparmiatore potrà possedere anche una sola azione, un grande affarista diverse migliaia. Mettendo in vendita le azioni le imprese ottengono denaro fresco dai finanziatori. Alla fine di ogni anno le aziende calcolano il totale dei loro guadagni e li distribuiscono tra i vari azionisti (così si chiamano i proprietari delle azioni), in proporzione al numero delle azioni che ciascuno possiede.
Le azioni hanno anche un valore di mercato: se io compro un milione di lire di azioni di una piccola azienda e questa ultima ottiene notevoli successi, fino a diventare florida e ricca, il valore delle mie azioni aumenterà in proporzione alla crescita dell’azienda; le mie azioni varranno, per esempio, un milione e mezzo di lire. Se invece le cose vanno male e gli affari dell’azienda diminuiscono, anche le mie azioni diminuiranno e non varranno più un milione, ma meno.
Negli anni del boom molti Americani comprarono azioni, sicuri di realizzare rapidamente lauti guadagni: tutto filava liscio, il valore delle azioni aumentava, le aziende andavano a gonfie vele e molti risparmiatori si arricchirono facilmente.
La gente, di conseguenza, era disposta a comprare azioni a qualsiasi prezzo, nella convinzione che fosse un buon affare (in economia anche i fattori psicologici ed emotivi hanno il loro peso). A un certo punto, però, il valore delle azioni, salito molto in alto, non corrispondeva più al valore reale delle imprese che le avevano emesse.
Fin tanto che l’economia si espandeva, nessuno si accorse della gravità del fenomeno, ma appena si cominciò a capire che la crisi si avvicinava e che le imprese incontravano difficoltà crescenti, tutti vollero rapidamente disfarsi delle loro azioni, nel timore che il loro valore crollasse. A Wall Street, la Borsa di New York, il 24 ottobre 1929 tredici milioni di azioni furono messe in vendita nello stesso giorno, mentre il panico si diffondeva in tutti gli ambienti finanziari: azioni che fino a qualche giorno prima erano quotate centinaia di dollari venivano vendute anche a dieci volte meno. Migliaia di risparmiatori furono rovinati, le banche avevano partecipato alla corsa all’acquisto delle azioni fallirono, le industrie si ritrovarono senza più finanziamenti e molte dovettero chiudere. I disoccupati raggiunsero la cifra record di 14 milioni. nelle città, che avevano perso lo smalto e l’allegria degli anni del boom, file interminabili di cittadini facevano la coda per ottenere una minestra presso i centri di assistenza, nelle campagne i raccolti venivano lasciati marcire perché non avevano acquirenti.
Questa tremenda crisi fu dagli Stati Uniti in Europa: i rapporti commerciali ed economici tra l’Europa e l’America erano ormai troppo stretti perché gli effetti non si risentissero anche in Francia, in Inghilterra, in Germania, in Italia. Venuti meno i finanziamenti americani e crollata la possibilità di esportare prodotti negli Stati Uniti, anche l’industria e l’agricoltura europee furono travolte dalla crisi: anche qui disoccupazione e miseria divennero parole all’ordine del giorno.
In Russia e altrove i marxisti interpretarono questa crisi come il segno del crollo imminente del capitalismo mondiale, preludio all’espansione e al trionfo del socialismo su tutto il pianeta. Ma le cose andarono diversamente.

5. La Ripresa
L a crisi dilagò fino al 1932. Quell’anno il presidente americano Franklin Delano Roosevelt, da poco eletto, varò un (New Deal), che prevedeva il massiccio intervento dello stato nell’economia nazionale. Fino a quel momento la regola ferrea del capitalismo americano era stata la piena libertà dell’iniziativa economica individuale, la quasi totale mancanza di vincoli all’attività dei cittadini in campo commerciale e finanziario. Ma dopo la catastrofe era necessario cambiare rotta: il governo prese le redini della situazione e divenne l’unico arbitro dell’economia americana.
Roosevelt fece subito approvare alcuni provvedimenti molto efficaci: lanciò un vasto programma di lavori pubblici finanziati dallo stato, nei quali trovarono impiego milioni di disoccupati; i salari furono aumentati e l’orario di lavoro nelle fabbriche fu diminuito per consentire l’assunzione di nuovi operai; il sistema bancario e la Borsa furono messi sotto controllo; furono fissati i prezzi minimi dei prodotti agricoli per impedire l’ulteriore abbassamento del tenore di vita degli agricoltori.
Il New deal ebbe un clamoroso successo. Gradualmente i cittadini furono sottratti allo spettro della fame e si rimise in moto il meccanismo produttivo, i negozi furono riaperti, l’agricoltura tornò a essere un’attività redditizia. Restava la piaga della disoccupazione (7 milioni di disoccupati nel 1937), ma nelle sue forme più gravi la crisi poteva dirsi superata.

6. Il Proibizionismo
Il benessere diffusosi negli Stati Uniti dopo la guerra portò con se una corsa ai divertimenti, ai piaceri dell’esistenza, e comportamenti più liberi. L’opinione pubblica vide in questo fenomeno un pericoloso segnale di amoralità. Alcuni attribuirono la rilassatezza dei costumi all’eccessivo consumo di alcool e chiesero a gran voce la proibizione della vendita di bevande alcoliche su tutto il territorio nazionale. Cosa che il governo fece con una legge del 1920, che inaugurò l’età del proibizionismo.
La proibizione dell’alcool mirava in primo luogo a colpire i negri e gli immigrati, accusati di essere i maggiori consumatori di liquori e di inquinare con il loro comportamento sregolato la morale del popolo americano; ma essa si rivolgeva anche contro tutti quegli Americani che si abbandonavano ai piaceri dell’esistenza quotidiana, dimenticando le tradizioni che avevano reso grande gli Stati Uniti.
C’è appena bisogno di dire che l’alcool non era certo responsabile di tali trasformazioni sociali. Abbiamo già altre volte incontrato fenomeni del genere: le paure collettive della gente si concentrano su singoli gruppi di persone che vengono indicati come responsabili di ogni male. Quando gli uomini perdono il controllo sulla realtà che li circonda, quando essa diventa quasi all’improvviso incomprensibile e quindi inaccettabile, la reazione si abbatte sul primo che capita e che diventa il simbolo su cui riversare ogni aggressività.
La campagna contro l’alcool rivelava in effetti una profonda lacerazione all’interno della società americana. Essa fu lanciata dai rappresentanti della , conservatori in politica e ostili ai cambiamenti sociali, che esprimevano i sentimenti dell’America provinciale dei villaggi e delle fattorie. Costoro si opponevano all’America delle grandi città, dinamica, aperta al nuovo, sensibile a un modello di vita più libero e spregiudicato.
I risultati del proibizionismo furono disastrosi. Mentre una parte del paese si mobilitava contro l’alcool, i contrabbandieri facevano affari d’oro e il mercato nero dilagava. L’enorme giro di denaro creatosi intorno a questo commercio clandestino diffuse la corruzione: poliziotti, magistrati, pubblici funzionari, uomini politici vennero corrotti per chiudere un occhio sui traffici illeciti. Le distillerie clandestine sorgevano come funghi: producevano bevande prive di qualsiasi garanzia igienica, che provocarono in media 5.000 morti all’anno, oltre a migliaia di casi di cecità e paralisi.
Il contrabbando alimentava la ricchezza e il potere dei gangster, criminali che controllavano spesso veri e propri imperi economici basati anche sulle rapine, sul gioco d’azzardo, sulle estorsioni, sulla droga, sulla prostituzione. Gangster come Al Capone avevano un potere immenso, con profonde modificazioni nei vertici del mondo politico.
Ma il proibizionismo ebbe anche un altro effetto, che i suoi sostenitori non avrebbero mai immaginato: fece aumentare notevolmente il consumo di alcolici. Un sorso di whisky o un boccale di birra, che prima erano considerati piaceri piccoli e banali, erano diventati all’improvviso avvenimenti eccitanti. La proibizione ne accresceva il fascino.
In una società fondata sul mito del denaro, i ricchi erano inoltre gli idoli da imitare. Il cinema, la radio, i giornali raccontavano al popolo la loro vita dorata, che faceva sognare l’americano medio. E i ricchi bevevano. La battaglia contro l’alcool era dunque perduta in partenza: ben presto anche quello stesso mondo da cui era partita la crociata si lasciò conquistare dal nuovo modello di vita. Quando nel 1933 il proibizionismo fu abrogato, furono in pochi a protestare.

La Germania Nazista e l’Europa verso la Guerra
1. Un Governo Debole
In Germania, nazione sconfitta nel conflitto mondiale, il dopoguerra fu più drammatico che altrove. La disfatta militare provocò infatti il crollo dell’Impero e il sorgere della repubblica, detta Repubblica di Weimar dal nome della città dove nel 1919 si riunì l’Assemblea Costituente.
La Repubblica di Weimar, sostenuta dai partiti borghesi (cattolici e liberali) e dal partito socialdemocratico, diede alla Germania una Costituzione democratica, ma si dimostrò estremamente debole nel governare un paese in preda al caos, gravato dagli enormi debiti di guerra, frustrato dalla convinzione di essere stato umiliato dal Trattato di Versailles, sconvolto dalla crisi economica.
Avversavano la repubblica innanzitutto i conservatori e i militari. Sebbene proprio loro fossero i veri responsabili della sconfitta, essi accusavano i liberali e i socialdemocratici (che avevano firmato l’armistizio) di aver tradito la Germania consegnandola ai nemici pur avendo ancora essa concrete possibilità di vincere il conflitto; si trattava di un’affermazione completamente falsa, ma a molti Tedeschi piaceva sentirsi ripetere di non essere stati battuti sul campo di battaglia, ma a tavolino, per le oscure manovre dei politici.
Le avversavano anche i comunisti, che ritenevano giunto il momento di scatenare la rivoluzione sull’esempio sovietico. Nel 1919 essi tentarono una sollevazione armata, che fu però repressa nel sangue (sia a Berlino sia in Baviera) dal governo provvisorio socialdemocratico; in questa occasione furono uccisi anche due personaggi di grande rilievo nel movimento comunista internazionale, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Questo episodio rivelò la profonda divisione della sinistra tedesca tra comunisti e socialdemocratici, una grave divisione che non fu mai più ricomposta.

2. Una Nazione Umiliata
Le condizioni economiche del paese si facevano intanto di giorno in giorno sempre più gravi: la disoccupazione dilagava (e colpiva soprattutto i reduci di guerra), il disordine economico e monetario provocava un’inflazione galoppante (nel 1919 occorrevano 70 marchi per acquistare un dollaro, nel 1923 il dollaro valeva più di 4 miliardi di marchi) che mandò in miseria milioni di Tedeschi.
La ripresa economica era infatti paralizzata dalle clausole del Trattato di pace di Versailles, che imponevano alla Germania il pagamento dei danni di guerra in misura del tutto sproporzionata alle sue possibilità. I vincitori li avevano stabiliti obbedendo più a un irrazionale desiderio di vendetta che non per un lucido calcolo politico. , disse in quegli anni un politico inglese.
Per il governo tedesco, pagare i debiti di guerra significava avviare il popolo alla miseria; non pagarli significava il rischio di un’occupazione militare da parte della Francia, che schierava le sue truppe alla frontiera.
La Repubblica di Weimar scelse la prima strada e questo fece crollare ulteriormente la sua popolarità: l’opinione pubblica considerava infatti umilianti e persecutorie le condizioni di pace e riteneva che il pagamento dei danni di guerra fosse un’offesa alla dignità della patria, oltre che un intollerabile ricatto economico.
All’angoscia del popolo tedesco e dei suoi governanti la Francia rispose con gesti sprezzanti e provocatori: nel 1923, quando la Germania chiese il rinvio del pagamento, l’esercito francese varcò il confine e occupò militarmente la zona mineraria della Ruhr, che era vitale per il funzionamento delle industrie tedesche.
Questa iniziativa fu un errore gigantesco perché aggravò in modo intollerabile la crisi economica in Germania (nel 1923, come si è detto, il marco non valeva ormai più nulla, tanto che le massaie andavano a fare la spesa con ceste o addirittura carriole piene di banconote) e sollevò nel paese un’ondata nazionalistica senza pari: il rancore contro la spietatezza dei vincitori e il desiderio di rivincita divennero il sentimento più diffuso tra i Tedeschi.

3. Adolf Hitler
In questo clima giunsero al culmine le tensioni sociali e politiche: scioperi, attentati terroristici, tentativi di colpo di stato sconvolsero la Germania. Il trattato di pace aveva imposto anche lo scioglimento dell’esercito del Kaiser, che era stato ridotto a poche unità, e molti ufficiali, privati della divisa, cominciarono a formare gruppi estremisti di destra, che si facevano portavoce del sentimento nazionalistico tedesco e che, con toni sempre più duri, accusavano il governo democratico di Weimar di debolezza contro il nemico.
In questa situazione nacque e crebbe rapidamente il Partito nazionalsocialista (detto più brevemente nazista) guidato da Adolf Hitler (1889-1945), austriaco di nascita, imbianchino di professione, reduce dalla guerra come ex caporale.
Nel suo libro Mein Kampf (), scritto in carcere nel 1924 dopo un fallito tentativo di rovesciare il governo noto con il nome di Putsch di Monaco (1923), Hitler formulò un nuovo programma politico, che si proponeva di realizzare il riscatto della Germania partendo dalla teoria razzista della superiorità della razza ariana.
Per Hitler, infatti, la razza era l’elemento fondamentale nella storia umana e il popolo tedesco, di razza ariana e quindi superiore a tutti gli altri popoli, doveva tornare a essere protagonista sulla scena mondiale.
Bisognava quindi, in primo luogo, cancellare con un colpo di spugna il Trattato di Versailles, e cioè rifiutarsi di pagare i danni di guerra e riarmare un esercito capace di difendere le frontiere nazionali. Inoltre - sosteneva Hitler - la Germania aveva diritto di ridiventare una grande potenza; a questo scopo occorreva riunificare in una patria comune tutti i Tedeschi sparsi nei diversi paesi del Centro - Europa e occupare tutti i territori che fossero necessari al suo pieni sviluppo. Alla prima teoria Hitler diede il nome di pangermanesimo; alla seconda quello di spazio vitale. Questi territori venivano indicati a est (dove risiedevano forti comunità tedesche, come in Polonia e in Cecoslovacchia), fino agli immensi spazi dell’Europa orientale e della Russia. Qui, del resto, abitavano gli Slavi, una , destinata, secondo Hitler, a diventare schiava dei Tedeschi e a lavorare per la futura grandezza del Reich germanico.
Per realizzare questo programma, che avrebbe ridato alla Germania il suo ruolo di grande potenza, occorreva quindi modificare totalmente la vita politica interna della Germania. Il popolo tedesco doveva cioè ritrovare la sua unità intorno ad un capo - il Führer -, eliminare il regime parlamentare, che Hitler giudicava imbelle e corrotto, infine spazzare via la minaccia comunista che predicava l’odio di classe e divideva il popolo.

4. Il Razzismo
I vari punti del programma nazista convergevano da ultimo verso un tema prioritario al quale Hitler attribuiva un’importanza fondamentale: la lotta contro gli ebrei. Perché gli ebrei? Anzitutto perché essi erano la più importante e numerosa minoranza etnica vivente in Germania (come del resto in Europa), semiti e non ariani, quindi diversi per e cultura della popolazione tedesca, da sempre costretti a vivere in spazi autonomi e segregati (i ghetti), periodicamente vittime di manifestazioni della violenza collettiva.
Tutta la storia del continente europeo, dal Medioevo in poi, è segnata dalle ricorrenti aggressioni alle comunità ebraiche; durante un’epidemia di peste, una carestia, un’esplosione di terrore collettivo, essi diventavano le vittime innocenti su cui masse di gente esasperata potevano sfogare il proprio malessere, senza rischiare né reazioni né punizioni. Nei paesi slavi questi periodici bagni di sangue avevano anche un nome preciso: pogrom.
In questo senso, dunque, il razzismo nazista non inventò nulla di nuovo; nuovo fu invece il carattere sistematico che Hitler diede alle persecuzioni e il fatto che esse furono presentate, per la prima volta, come l’obiettivo politico dichiarato del programma di un partito di massa.
Gli ebrei, gridava Hitler nelle pubbliche piazze, erano i nemici della Germania e i responsabili principali di tutti i suoi mali, la lebbra che infettava la nazione germanica e minacciava i suoi gloriosi destini. Essi, proseguiva, avevano tradito l’esercito al fronte durante la Prima guerra mondiale; erano rivoluzionari e sovversivi e alimentavano la lotta di classe per incrinare la compattezza del popolo tedesco (Marx era ebreo, come Trotzki e molti dirigenti del bolscevismo sovietico); ma erano anche capitalisti, avidi, sfruttatori e affamatori del popolo (la finanza internazionale era dominata dagli ebrei, e veniva identificato con l’ebreo l’usuraio che prestava soldi a interessi altissimi al cittadino impoverito dall’inflazione).
Con questi argomenti Hitler andava creando il mito della cospirazione ebraico - capitalistico - bolscevica, ostile alla Germania e al popolo tedesco. Si trattava di un mito pazzesco e infondato, ma esso ebbe una presa immediata sulla maggioranza dei Tedeschi: un popolo in preda all’angoscia e lacerato dalle divisioni ritrovò la sua unità creandosi un nemico immaginario e facendone l’oggetto concreto del suo odio. Ora la sconfitta ,militare, l’umiliazione dell’esercito, la spietatezza del trattato, la disoccupazione, la fame potevano finalmente avere un volto e un nome: quello del commerciante, del medico, del vicino di casa, membro di una che congiurava contro il popolo ariano per togliergli il suo primato.

5. La Politica dell’Angoscia
Anche su temi più particolari il programma politico del nazismo, così come quello del fascismo italiano, si rivolgeva direttamente a tutto il popolo tedesco, e non a questa o a quella classe sociale: essa era volutamente vago e approssimativo, così che ogni categoria vi poté trovare qualcosa diretto a risolvere la sua principale preoccupazione del momento.
I contadini venivano attirati con la speranza di sussidi statali e con l’esaltazione del ruolo fondamentale nella storia tedesca; gli operai con la promessa di eliminare la disoccupazione e difendere il livello dei salari; la piccola borghesia si sentiva rassicurata dalla protezione che i nazisti assicuravano nei confronti dei ricchi e degli ebrei; la grande borghesia, allarmata per il rilassamento dei costumi provocato dalla guerra, approvava le proposte di ripristinare la moralità e di confinare le donne tra le pareti domestiche; i grandi capitalisti industriali e agrari vedevano con piacere l’ostilità nazista verso i comunisti; i militari e gli ex - combattenti apprezzavano l’esaltazione della forza e della guerra.
Per tutti c’erano infine le potenti lusinghe del nazionalismo: l’esaltazione del primato tedesco sugli altri popoli e la speranza di restituire alla Germania l’antica grandezza militare.
Ognuno riceveva dunque parole di speranza. Ogni settore della popolazione si limitava ad ascoltare il particolare messaggio che gli veniva rivolto, trascurando il resto. In una società dominata dalla paura del futuro tutti infatti non aspettavano altro che essere rassicurati. I nazisti compresero molto bene tutto questo e misero in atto con grande abilità una politica dell’angoscia: sfruttarono cioè l’angoscia della gente per conquistare il potere.

6. La Presa del Potere
Dopo un primo periodo di lotta clandestina, il Partito nazista scelse la via della e in breve tempo realizzò una fortissima crescita elettorale: 800.000 voti nel 1928, 6 milioni e mezzo nel 1932. In mezzo a queste due date sta la grande crisi del ’29, che ebbe ripercussioni gravissime anche sull’economia e sulla società tedesche.
Dopo i drammatici momenti dell’occupazione francese della Ruhr (che era durata dal 1923 al 1925), era venuto un periodo di maggiore distensione e di relativa serenità. I Francesi si erano ritirati e gli Stati Uniti avevano fornito alla Germania aiuti economici che avevano messo in moto la ripresa: sembrava davvero che il paese stesse finalmente uscendo dal tunnel. Ma improvvisamente, in seguito alla crisi del ’29, la situazione precipitò: in tre anni la produzione industriale crollò della metà, i disoccupati salirono a 6 milioni, ritornò lo spettro della fame.
La gente cominciò a reclamare un ordine qualunque, purché fosse un vero ordine, e vide nel Partito nazista l’unico partito forte, in grado di risolvere finalmente i problemi che nessuno aveva saputo risolvere. I nazisti si mostravano sempre più decisi e le loro squadre paramilitari, sull’esempio di quelle fasciste, seminavano ovunque la violenza, aggredendo e uccidendo gli avversari politici. La polizia e la magistratura proteggeva le loro imprese. Gli industriali le finanziavano.
Nel gennaio 1933 il presidente della repubblica Heindemburg, debole e desideroso di conservare la sua carica in mezzo alla tempesta politica che scuoteva il paese, nominò Hitler capo del governo.
Soltanto gli illusi potevano sperare che i nazisti, una volta raggiunto il potere, accettassero le regole del gioco parlamentare. Hitler infatti non perse tempo: fece sciogliere il parlamento e indire nuove elezioni. Durante la campagna elettorale, i nazisti fecero segretamente incendiare il grande palazzo del Reichstag, la prestigiosa sede del Parlamento, e la colpa fu fatta ricadere sui comunisti.
Fu il pretesto per un’ondata di leggi eccezionali, che abolirono le libertà civili e infine attribuirono i pieni poteri ad Hitler il quale - divenuto Führer (capo) della Germania - proclamò nel 1934 l’avvento del Terzo Reich (dopo il Sacro Romano Impero del Medioevo e quello creato da Bismark nel 1871).

7. Il Terrore Nazista
Tra il 1933 e il 1934 Hitler trasformò il suo governo in una spietata dittatura, servendosi in particolare di due fedelissimi corpi di polizia composti di soli nazisti: le SS (Schutz - Staffeln, ), sorte come guardia personale di Hitler, e la GESTAPO, la polizia segreta di stato. Chiunque avversasse il nazismo fu dichiarato nemico dello stato e del popolo tedesco.
I liberi sindacati furono sciolti; le donne private di diritto di voto; furono soppressi tutti i partiti; la stampa, la radio, il sistema scolastico vennero posti sotto un ferreo controllo; ragazzi e ragazze furono irreggimentati nei movimenti giovanili hitleriani; nelle piazze si fecero roghi di libri scritti da autori condannati dal regime (soprattutto ebrei e comunisti); intellettuali e artisti furono perseguitati e costretti a emigrare; uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi, il fisico Albert Einstein (premio Nobel nel 1921), ebreo tedesco, fu definito e la sua teoria della relatività giudicata come il prodotto di una mente malata.
Il terrore si sparse in Germania. Dapprima fu la volta degli avversari politici: comunisti, socialdemocratici, liberali, cattolici - tutti quelli che non si piegavano al nuovo regime - sparivano da un giorno all’altro senza che se ne sapesse più nulla. Un clima di sospetto prese a dominare su tutta la società tedesca: i vicini si accusavano a vicenda, i figli denunziavano i padri. Si diceva che gli scomparsi venissero inviati nei Lager, , per essere , ma nessuno di essi tornava a casa.
Il terrore si rivolse in particolare verso gli ebrei, contro i quali iniziò una persecuzione che divenne sempre più ossessiva fino alla decisione dello sterminio finale, presa nel 1942, quando ormai già infuriava la guerra.
Ma sin dal 1935, con le cosiddette leggi di Norimberga, gli ebrei furono chiamati : obbligati ad assumere nomi che indicassero chiaramente la loro provenienza razziale (gli uomini Israele, le donne Sarah), furono espulsi dalle scuole e privati della patente di guida; inoltre fu loro vietato l’ingresso nei locali pubblici. A migliaia furono cacciati dai posti di lavoro, furono chiusi i loro negozi e le loro aziende, fu proibito il matrimonio tra ebrei e non ebrei. Una parte riuscì ad abbandonare la Germania in tempo, gli altri sarebbero stati ben presto avviati nei campi di concentramento, dove furono sterminati in massa.
Il delirio hitleriano si scatenò quindi contro tutti i , che dovevano essere eliminati per non contaminare la razza ariana: il progetto di sterminio si rivolse infatti anche contro gli zingari, gli omosessuali e i malati di mente, strage quest’ultima che fu evitata per l’opposizione della Chiesa. Ma questa reazione fu un caso abbastanza isolato; di fronte ai crimini nazisti molti, in Germania e all’estero, finsero infatti di non vedere e di non capire; la paura rendeva complici.

8. Il Riarmo Tedesco
Il nazismo riuscì a imporsi anche perché l’economia della Germania stava dando notevoli segni di ripresa. Una delle ragioni era il positivo andamento dell’economia mondiale, che stava uscendo dalla terribile crisi iniziata nel 1929; all’interno, poi, i prestiti governativi e le esenzioni fiscali concessi da Hitler ai gruppi industriali e una vasta politica di lavori pubblici contribuirono a favorire la crescita della produzione industriale e assorbirono velocemente la disoccupazione.
Determinante, per la ripresa dell’attività economica, fu la politica di riarmo, che divenne il principale obiettivo dei programmi del nazismo: nel 1939 (ancora in tempo di pace) le spese militari arrivarono a impegnare il 58% del bilancio statale.
L’altissimo potenziale tecnologico che la Germania possedeva fin dall’Ottocento fu messo al servizio della produzione di armi, carri armati, aerei, sottomarini, in modo da dotare il paese di una potente , strumento indispensabile per affermare la potenza della razza ariana nel mondo. Il ritorno alla piena occupazione guadagnò molti consensi al regime nazista, anche tra la classe operaia.
Nel contempo Hitler - forte del nuovo potenziale militare tedesco - sfidò vittoriosamente le potenze occidentali ordinando nel 1936 all’esercito di riprendere posizione in Renania, al confine della Francia, atto che era vietato dal Trattato di Versailles.
L’assenza di reazioni da parte di Francia e Inghilterra, che preferirono intervenire per desiderio di pace, diede ulteriore prestigio ad Hitler e in Germania, e confermò nel dittatore l’idea della validità di una politica aggressiva contro le imbelli democrazie capitalistiche.

9. La Guerra d’Etiopia
Mentre la Germania hitleriana riacquistava rapidamente la sua antica potenza industriale e militare, l’Italia mussoliniana attraversava crescenti difficoltà.
L’emigrazione, che nei decenni precedenti aveva rappresentato una potente valvola di sfogo, era stata bloccata dal regime fascista per motivi di prestigio: l’Italia doveva allevare i suoi dentro i propri confini, non spedirli all’estero per ricoprire mansioni umili e subordinate. Il nostro governo aveva contemporaneamente lanciato una campagna per lo sviluppo demografico, con premi incentivi alle famiglie numerose. Mussolini era infatti convinto che soltanto una nazione molto popolosa sarebbe stata militarmente forte e temuta in campo internazionale. Il risultato fu il sovrappopolamento, la disoccupazione e un ulteriore abbassamento del livello di vita.
Per alleggerire la situazione e ridare smalto al potere, il duce decise di lanciarsi in un’avventura coloniale: del resto, un regime che esaltava da tanti anni la guerra, prima o poi doveva farla sul serio. La vittima prescelta fu l’Etiopia, che confinava con le colonie italiane di Somalia ed Eritrea: un paese povero, privo di risorse, con un’economia pastorale e con strutture politiche di tipo feudale. Lo governava il negus Hailé Selassié, con cui il nostro paese aveva da tempo ottimi rapporti.
I soldati italiani invasero l’Etiopia nell’ottobre del 1935 e in sei mesi di guerra brutale, condotta anche con bombardamenti aerei e con l’uso di gas asfissianti, ebbero ragione di un nemico debolissimo. Ora il duce poteva proclamare alla folla esultante che l’impero rinasceva sui .
Questa nuova guerra coloniale ebbe però nel contempo l’effetto di provocare un mutamento degli equilibri internazionali, e in particolare della posizione dell’Italia nei confronti del mondo.
L’Etiopia, infatti, faceva parte, come l’Italia, della Società delle Nazioni, l’organizzazione fondata dopo la Prima guerra mondiale per tutelare la pace. Su iniziativa della Gran Bretagna, che non tollerava l’espansione delle colonie italiane a ridosso dei suoi possedimenti africani, la Società delle Nazioni decretò con il nostro paese l’attuazione di sanzioni economiche che proibivano le forniture all’Italia di alcune materie prime e di altri beni di importanza fondamentale.
Le sanzioni non furono mai applicate, ma la stampa controllata dal regime fece credere agli Italiani il contrario. In questo modo Mussolini cementò un consenso più ampio intorno a sé e diffuse nel paese un sussulto di orgoglio nazionalistico. Il suo prestigio non fu mai tanto alto come in quel momento.
L’ostilità della Gran Bretagna ebbe però l’effetto di isolare l’Italia e di gettare Mussolini tra le braccia di Hitler, che aveva aiutato economicamente il nostro paese durante le . I due regimi, accomunati da troppe cose, ora condividevano anche l’ostilità verso le democrazie capitalistiche, che ostacolavano i desideri di affermazione dei Tedeschi e degli Italiani.

10. La Guerra Civile in Spagna
Negli anni Trenta, la Spagna viveva un periodo di profonda crisi: non aveva partecipato alla Prima guerra mondiale (come non parteciperà alla Seconda), perché già spossata dalla guerra contro gli USA del 1898, che le era costata la perdita degli ultimi residui del vecchio impero coloniale.
Le sue risorse erano molto limitate. Ancora scarsamente industrializzato, il Paese era abitato in maggioranza da contadini poverissimi che non avevano proprietà; ma non mancava una combattiva minoranza di minatori e operai. Le terre erano per la maggior parte in mano ai latifondisti e alla Chiesa cattolica. Proprietari terrieri, Chiesa ed esercito di fatto controllavano lo Stato.
Dopo un periodo di dittatura militare, le elezioni del 1931 diedero la vittoria ai partiti che volevano porre fine alla monarchia e sostituirla con una repubblica. Il re Alfonso XIII abbandonò il Paese.
Le timide riforme del nuovo governo repubblicano allarmarono i proprietari terrieri e la Chiesa. Col loro aiuto, le destre riconquistarono il potere nelle elezioni del 1933, e subito smantellarono tutte le riforme in corso. Quello stesso anno veniva fondato un partito di ispirazione fascista, la Falange.
Il forte malcontento determino nel 1936 una nuova e più esaltante vittoria elettorale delle sinistre, unite nel Fronte popolare a cui partecipavano democratici borghesi, socialisti, comunisti e anarchici. Specialmente questi ultimi, molto forti nel Paese, pensarono che la vittoria fosse l’inizio di una rivoluzione sociale. L’odio per i proprietari terrieri esplose in gravi episodi di violenza, che spesso erano rivolti verso il clero. La Falange, a sua volta, scatenò un terrore di segno opposto.
Di questa situazione approfittò l’esercito, che attaccò il governo repubblicano, e sotto la guida di Francisco Franco (1892-1975), un generale che appoggiava la Falange, occupò la parte occidentale della Spagna, dando vita a un governo dittatoriale.
Il Paese era così diviso in due: tra la Spagna repubblicana e la Spagna falangista iniziò una guerra civile sanguinosissima, che durò tre anni, dal 1936 al 1939.
Il governo repubblicano contava sull’appoggio della Francia, retta anch’essa da un Fronte popolare. Questo invece, nella speranza di evitare un sostegno massiccio dei ribelli spagnoli da parte degli Stati fascisti, propose alle potenze europee di non intervenire in Spagna. All’inizio aderirono Inghilterra, Germania e Italia. Per la Spagna repubblicana l’accordo si rivelò tragico.
Mentre infatti Inghilterra e Francia non intervennero, Germania e Italia inviarono aerei, cannoni, armi e uomini a sostegno di Franco. Il solo Mussolini inviò oltre 50.000 uomini. Sul fronte repubblicano praticamente gli unici aiuti, ma di modesta entità e solo indiretti, vennero dal Messico e dall’Unione Sovietica. Questa favorì la formazione delle Brigate internazionali, che raccoglievano operai e intellettuali di molti Paesi, che si battevano perché il Fascismo non si affermasse anche in Spagna. Gli Italiani furono numerosi: ricordiamo tra gli altri i fratelli Carlo e Nello Rosselli, Pietro Nenni, Luigi Longo.
La superiorità militare dei franchisti rimase però schiacciante, mentre nelle file repubblicane nascevano gravi contrasti politici. Le forze della Falange conquistarono così l’intero Paese: nel 1939 entravano vittoriose in Madrid.
Il risultato della guerra fu tragico: un milione di morti e un Paese distrutto sul quale la dittatura di Franco sarebbe durata fino al 1975 (anno della sua morte).

11. L’Espansionismo Hitleriano e l’Europa verso la Guerra
La guerra d’Etiopia dimostrò a Hitler e Mussolini che avrebbero potuto impunemente proseguire le loro aggressioni.
Hitler, infatti, nel marzo 1936 invase militarmente la prospera Renania, che il Trattato di Versailles aveva dichiarato zona smilitarizzata.
La collaborazione tra Italia e Germania diveniva sempre più stretta. Nello stesso 1936 le due nazioni stabilivano un patto di alleanza contro il (cioè contro l’URSS e i comunisti), il cosiddetto Asse Roma - Berlino.
L’anno successivo l’alleanza si estendeva al Giappone (Asse Roma - Berlino - Tokyo): i Giapponesi si sentirono abbastanza forti da scatenare una guerra in Cina, dove nel frattempo il Partito comunista, guidato da Mao Tse-tung, era diventata la forza più organizzata.
Anche in Europa l’aggressione nazifascista si scatenò. Dichiarando di voler unificare sotto il suo dominio tutti i Tedeschi, nel marzo 1938 Hitler fece invadere l’Austria e ne proclamò l’annessione. Quindi dichiarò di voler invadere i Sudeti, una regione della Cecoslovacchia, col pretesto che la popolazione era di lingua tedesca. La Cecoslovacchia si preparò a resistere.
A questo punto intervenne Mussolini, invitato da Chamberlain a fare da mediatore alla Conferenza di Monaco (settembre 1938) tra Francia, Inghilterra e Germania. Sfruttando la debolezza e il timore della guerra delle prime due, Mussolini fece loro accettare l’occupazione tedesca dei Sudeti, in cambio dell’impegno della Germania a non avanzare altre richieste.
Ma pochi mesi dopo i Tedeschi occupavano tutta la Cecoslovacchia, e gli Italiani sbarcavano in Albania, cacciandone il re e conferendone la corona a Vittorio Emanuele III. Mussolini e Hitler stringevano una nuova alleanza, il Patto d’acciaio (maggio 1939), che impegnava l’Italia a combattere a fianco della Germania in caso di guerra. Ma l’Italia, come Mussolini ben sapeva, non era pronta per affrontare un nuovo conflitto.
Intanto l’espansione nazista in Europa continuava: Hitler decise di occupare i territori polacchi intorno a Danzica, che separavano dal resto della Germania la Prussia orientale. Ma l’Inghilterra si oppose, e si alleò alla Polonia.
Hitler cercò di garantirsi la neutralità dell’URSS, sfruttando il suo risentimento nei confronti di Francia e Inghilterra per essere stata esclusa dalla Conferenza di Monaco. Stalin aveva sospettato che l’accordo di Monaco fosse rivolto contro l’URSS, e si sentiva accerchiato da potenze ostili.
Così nell’agosto del 1939 fu firmato un patto decennale di non aggressione tra Germania e URSS, le cui clausole segrete prevedevano la spartizione della Polonia tra le due potenze.

Lavoro eseguito da
Malagò GianLuca
cl. 3 A
a.s. 1997-1998

Tratto dai libri:
1) Dentro la storia 3
Arnoldo Mondadori per la Scuola
V. Calvani - A. Giardina
2) Tuttostoria 3
Petrini Editore
G. Gliozzi - A. Ruata Piazza

28
1

Esempio