L'Europa nel Medioevo

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Testo

Situazione Storica dopo la Morte di Carlo Magno in Europa

Alla morte di Carlo Magno (814) l'impero carolingio era rimasto unito nelle mani del figlio Ludovico il Pio (814-40), ma già i suoi eredi, Lotario, Calvo il Calvo e Ludovico il Germanico si erano scontrati tra loro per il dominio personale di una frazione dell'impero. Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, che governavano rispettivamente la Francia e la Germania, si erano accordati a Strasburgo (842) giurandosi fedeltà reciproca nella lingua volgare dei loro eserciti -atto questo che testimoniava già il differenziarsi delle varie nazionalità all'interno dell'impero- e con la pace di Verdun dell'843 avevano lasciato a Lotario il titolo imperiale, il dominio dell'Italia e quello della cosiddetta Lotaringia, una fascia di territori che andava dalle Alpi occidentali al Mare del Nord. Pur continuando a esistere nel diritto, di fatto dunque l'impero aveva cominciato a frantumarsi in regni divisi, retti ciascuno dal proprio sovrano. Una serie di circostanze aveva riportato l'unità sotto Carlo il Grosso (881-87), ma alla sua morte la discendenza diretta di Carlo Magno si era spenta e una serie di lotte tra le maggiori casate di conti e marchesi aveva aperto il periodo dell'anarchia feudale, protrattosi fino al 962, quando Ottone I di Sassonia aveva dato vita al Sacro Romano Impero germanico.
L'anarchia feudale in Francia diede luogo a un secolo esatto di contrasti e guerre fino a quando, nel 987, Ugo Capeto, duca della regione parigina, riuscì a farsi eleggere re di Francia e diede inizio alla dinastia reale capetingia, che si protrasse per ben otto secoli fino alla Rivoluzione francese del 1789. A lui succedettero, seppur con potere in gran parte nominale, Roberto il Pio (996-1031), Enrico I (1031-60) e Filippo I (1060-1108) finché Luigi VI il Grosso (1108-37) riportò ordine tra i grandi vassalli imponendo su tutti il proprio potere.
Il regno d'Italia (il territorio centro-settentrionale) dall'888 al 961 rimase libero dal dominio straniero; l’elezione dei re avveniva tramite i grandi feudatari italiani e il potere passò di mano in mano tra i rappresentanti di sei grandi casate: i marchesi del Friuli, di Ivrea e di Toscana; i duchi longobardi di Spoleto; i re di Provenza e di Borgogna, tutti fortemente legati alla grande nobiltà italiana. Nell'888 era stato eletto re d’Italia Berengario I marchese del Friuli, presto sostituito da Guido di Spoleto che nell'891 ottenne la corona imperiale, grazie all’appoggio di papa Formoso (891-96), e associò al potere il figlio Lamberto. Alla morte di Guido, papa Formoso contrappose a Lamberto il re di Germania Arnolfo di Carinzia (896), ma il nuovo papa Stefano VI (896-97) restituì la corona a Lamberto. Dopo la morte di StefanoVI e di Lamberto (898) il potere tornò nelle mani di Berengario I che regnò per 25 anni fino a quando, nel 922, egli fu deposto da Rodolfo di Borgogna. Quando questi partì dall'Italia ci fu una fase di anarchia feudale che vide primeggiare i conti di Tuscolo, potente casata capeggiata dal senatore romano Teofilatto. Sua figlia Marozia, donna decisa e senza scrupoli, sposò nel 926 Ugo di Provenza, nuovo pretendente al regno d'Italia e nuovo imperatore, mentre a Roma una rivolta della nobiltà metteva la città nelle mani di Alberico di Toscana, figlio di Marozia, che fino al 954 governò col titolo di Senator et princeps Romanorum. Dopo Ugo di Provenza, altri due re cinsero la corona d'Italia: il figlio di lui Lotario (946-50), che già nel 946 aveva ricevuto la reggenza insieme al padre, e Berengario II marchese d'Ivrea (950-64) eletto dai grandi feudatari. Nel 951 scese in Italia Ottone I che obbligò Berengario II a ritirarsi e riconoscersi suo vassallo: il regno d'Italia diventava così feudo della corona germanica.
Come era avvenuto in Francia e in Italia, anche il regno di Germania aveva conosciuto una serie di turbolenze feudali tra i signori di quattro potenti ducati: di Sassonia, di Franconia, di Svevia e di Baviera. La dignità regia era stata in un primo tempo elettiva, ma successivamente era divenuta appannaggio di una dinastia. La prima fu quella di Sassonia, iniziata con Enrico I l'Uccellatore (919-36), al quale succedette il figlio Ottone I. Egli allargò il proprio dominio lungo le coste del Mar Baltico e prima di scendere in Italia contro Berengario II sconfisse gli ungari nella battaglia sul fiume Lech (955); nello stesso anno presso il Recknitz furono sottomessi e cristianizzati anche gli slavi. Nel 962 Ottone tornò in Italia e si fece incoronare imperatore a Roma da papa Giovanni XII, dando in tal modo vita al "Sacro Romano Impero germanico". Con la promulgazione del Privilegium Othonis egli obbligò il papa a giurare fedeltà all’imperatore e a riconoscere a quest’ultimo il diritto di elezione dei pontefici. Nella sua terza discesa in Italia (966-72) Ottone I indusse i duchi di Benevento e di Capua a sottomettersi all'autorità imperiale e, attraverso il matrimonio di suo figlio Ottone II con la principessa bizantina Teofane, ottenne da Bisanzio il riconoscimento del Sacro Romano Impero germanico (972).
L'anno successivo Ottone II succedette al padre e diresse le proprie mire alle terre dell'Italia meridionale; nel 980 conquistò Taranto ma nel 982 fu sconfitto dagli arabi a Stilo, in Calabria. Morì l'anno seguente, dopo aver ottenuto la successione per il figlio Ottone III, un bambino di appena tre anni che fino al 995 fu posto sotto la tutela della madre Teofane e della nonna Adelaide di Borgogna. Quando ebbe raggiunto la maggiore età (14 anni) Ottone III assunse direttamente le responsabilità di governo: fissata la sede a Roma promosse, con l'appoggio di papa Silvestro II (Gerberto di Aurillac), una Renovatio Imperii Romanorum, ossia la restaurazione dell'antico impero dei Cesari e dell’impero cristiano di Costantino.
Ottone III morì senza eredi nel 1002 e i grandi vassalli di Germania assegnarono la corona al cugino Enrico II (1002-24). In Italia i grandi feudatari scelsero come re Arduino marchese d'Ivrea, il quale tuttavia nel 1004 fu eliminato da Enrico II che lo sconfisse alle Chiuse di Valsugana e si fece riconoscere re a Pavia. Non appena egli riprese la via della Germania, allo scopo di difendere le frontiere minacciate dai polacchi, la grande feudalità italiana tornò ad agitarsi nel tentativo di costituire un regno indipendente. Enrico II riuscì a farsi incoronare imperatore a Roma nel 1014, anche se la sua autorità non sovrastò mai i potentati locali, né in Italia né nel resto dell'impero. Con la morte di Enrico II si esaurì la dinastia di Sassonia, sostituita sul trono imperiale dalla casa di Franconia nella persona di Corrado II il Salico (1024-39). Dopo l’annessione del regno di Borgogna all'impero germanico (1033), anche Corrado II dovette affrontare l’opposizione dei grandi feudatari e per questo egli si appoggiò ai feudatari ecclesiastici, come il potente e bellicoso Ariberto d'Intimiano, arcivescovo di Milano. Anche Ariberto, come i maggiori feudatari laici di Lombardia, si trovava però alle prese con la nobiltà minore, unita in una lega di resistenza (La Motta) che reclamava più ampi e più diretti benefici. Corrado II approfittò di questa discordia “interna” prendendo le parti dei valvassori e, per meglio legarli a sé, sancì con la Constitutio de feudis (1037) l'ereditarietà dei feudi minori, privilegio che i grandi feudatari possedevano da più di un secolo. Alla morte di Corrado II salì al trono Enrico III (1039-56); dopo aver ridotto la Boemia (1041) e l'Ungheria (1044) a feudi imperiali egli si diresse in Italia dove a Roma tre papi, tutti accusati di simonia, si contendevano contemporaneamente il soglio. Convocato un concilio a Sutri (1046) Enrico III depose i tre papi ed eliminando le ingerenze della nobiltà nell’elezione del pontefice designò al pontificato un prelato tedesco di sua fiducia, Clemente II (1046-47). Si fece inoltre conferire dai romani il titolo di Patricius Romanorum, che gli dava il diritto di essere il primo (princeps) a proporre al clero e al popolo romano il nome del futuro papa (principatus in electione papae). I pontefici da lui proposti avrebbero avuto lo stesso ufficio dei grandi feudatari ecclesiastici e principalmente il compito di tutelare l'ordine nell'Italia meridionale, dove cominciava a farsi sentire la rapacità dei Normanni.
La grandiosa opera di assestamento compiuta dagli imperatori sassoni e salici produsse i suoi effetti anche in altri settori: emblematico in merito l’allargamento del cristianesimo e della civiltà a nuovi popoli che emersero dalla barbarie per darsi regolari ordinamenti politici. Accadde in Oriente, dove gli ungari cessarono le proprie scorrerie, presero stabile dimora tra il Tibisco e il Danubio e si convertirono al cristianesimo per opera di re Stefano il Santo (977-1038). Lo stesso processo di trasformazione coinvolse i popoli slavi come i moravi, assorbiti nel nuovo regno di Boemia che Enrico III ridusse a vassallo dell’impero; oppure come i polacchi contro cui lottarono assiduamente Enrico II ed Enrico III. Analogamente a Settentrione si convertirono alla cristianità i popoli scandinavi che si divisero nei tre rami tradizionali: norvegesi, svedesi e danesi, mentre in Bretagna il cristianesimo si rafforzò, sia pure con gravi difficoltà, nei regni locali del Wessex, dell’Essex, del Northumberland, riuniti alla fine del secolo IX dal geniale sovrano del Wessex Alfredo il Grande. Merito dell’incivilimento dell’Europa ebbero anche gli imperatori bizantini. Basilio I (867-86) bloccò l'avanzata dei bulgari costringendoli a fissarsi al suolo e a riconoscere la supremazia politica e religiosa di Bisanzio; lo stesso fece Basilio II (976-1025) con i serbi, mentre i russi, dopo aver ricevuto i primi ordinamenti politici dagli avventurieri variaghi, diedero origine dapprima al principato nazionale di Novgorod e poi di Kiev, avvicinandosi al cristianesimo di fede ortodossa bizantina.
Nel 1056 a Enrico III succedette il figlio bambino Enrico IV (1056-1106), mentre al soglio pontificio saliva il cluniacense Niccolò II (1058-61). Con l’intenzione di operare un drastico cambiamento nella disciplina ecclesiastica, soprattutto in merito all’elezione dei vescovi e del papa, Niccolò II convocò nel 1059 il Sinodo del Laterano, nel quale decretò il divieto per i laici (e quindi per l’imperatore) di prendere parte alla nomina dei vescovi, impedendo a chiunque di ricevere cariche ecclesiastiche dalla mano di laici, e stabilì che l’elezione del papa fosse affidata al collegio dei cardinali (come avviene ancora oggi); egli condannò inoltre la simonia e ribadì l’obbligo del celibato del clero. Le decisioni del sinodo, tutte ispirate al movimento riformatore partito da Cluny, portavano a conseguenze profondamente rivoluzionarie nella vita del papato e della Chiesa: svincolavano questa dalla tutela degli imperatori germanici sancita dal Privilegium Othonis ; proponevano una costituzione interna della Chiesa sempre più centralizzata attorno al papa, ponendo fine in questo modo alle autonomie locali; infine estromettevano i laici dal governo della Chiesa, accentuando con il celibato ecclesiastico le differenze tra questi e il clero.

Era prevedibile che le conclusioni del Sinodo lateranense, ribadite con forza dai successori di Niccolò II -papa Alessandro II (1061-73) e Gregorio VII (1073-85) - non sarebbero passate senza suscitare gravi reazioni sia a Oriente che a Occidente. A Bisanzio, dove da tempo si osteggiava il primato rivendicato dalla sede romana su tutti gli altri vescovi, il patriarca Michele Cerulario (ca. 1000-1058), che già nel 1054 aveva rotto definitivamente ogni rapporto con la Chiesa latina, portò alle estreme conseguenze la scissione morale e materiale tra Oriente e Occidente. Non era pensabile infatti che l’impero si lasciasse spogliare dell’elemento più forte del proprio potere (i vescovi-conti) senza dare segni di reazione. Enrico IV al momento non era in grado di reagire, sia per la minore età, sia perché impegnato a domare una ribellione in Sassonia, ma quando Gregorio VII, al secolo Ildebrando di Soana, con il Dictatus papae (1075) proclamò la superiorità del papa su ogni altra autorità terrena (e il diritto del pontefice di deporre gli imperatori), l’urto tra Chiesa e impero fu inevitabile. Enrico IV, ormai maggiorenne, convocò un sinodo a Worms (1076), dove gli episcopati germanici dichiarano decaduto Gregorio VII.
La lotta entrava ora nella fase più acuta e drammatica. Alla deposizione dichiarata da Enrico IV a Worms, Gregorio VII rispose immediatamente con la scomunica che minacciò di sfasciare l’impero. Se infatti Gregorio VII, forte del suo immenso prestigio spirituale, non risentì della fittizia deposizione di Worms, l’imperatore si trovò in una situazione gravissima perché la scomunica scioglieva tutti i vassalli dal giuramento di fedeltà e tutti i sudditi dall’obbligo di obbedienza: la feudalità laica avrebbe colto al volo il pretesto per sciogliersi dal vincolo di sudditanza. Per scongiurare questo rischio -e la minaccia della nomina di un altro imperatore- Enrico IV doveva a ogni costo riconciliarsi col papa. Quasi in incognito si recò allora a Canossa, dove il papa si era ritirato sotto la protezione della contessa Matilde di Toscana, e per tre giorni, nel rigidissimo gennaio 1077, implorò l’assoluzione in veste di penitente. Tuttavia, una volta ottenuta la revoca dalla scomunica, Enrico IV domò la rivolta dei suoi feudatari e riprese la lotta per la supremazia, che gli costò una nuova scomunica nel 1080. Questa volta Enrico IV lasciò da parte il saio e prese le armi, assediando il papa in Castel Sant’Angelo da dove il pontefice fu liberato grazie all’intervento dei Normanni di Roberto il Guiscardo. Gregorio VII si spense nel 1085, ma la contesa tra papato e impero continuò anche con il suo successore, il francese Urbano II (1088-99), che riprese il programma di riforma ecclesiastica, sostenuto anche dall'ardente rinascita religiosa che proprio in quegli anni trovò una delle sue manifestazioni più travolgenti nella grandiosa impresa delle crociate.
Morto Enrico IV (1106) la contesa tra impero e papato continuò con il successore Enrico V (1106-25) e fu aggravata dalla controversia sorta a proposito della contessa Matilde. Quest’ultima infatti aveva lasciato alla Chiesa non soltanto il proprio patrimonio privato (beni allodiali), ma anche gli estesissimi beni feudali che dovevano tornare all’imperatore. Solo il successore di Urbano II, papa Callisto II (1119-24), giunse a un compromesso con Enrico V mediante il Concordato di Worms del 1122: Enrico V riconobbe al papa il potere di concedere l’investitura episcopale, alla quale l’imperatore era libero di aggiungere quella feudale; in Germania, se il papa lo riteneva opportuno, l’investitura feudale avrebbe preceduto la consacrazione episcopale. La questione dell’eredità matildea fu lasciata in sospeso. Più che di una pacificazione si trattava quindi di una tregua, che se da un lato registrava un compromesso sulla questione delle investiture, dall’altro lasciava insoluto il problema fondamentale, il principio che Gregorio VII aveva voluto affermare: la subordinazione al papa di ogni autorità terrena.
A partire dal Sinodo del Laterano del 1059 si erano susseguiti eventi di portata rivoluzionaria per le sorti dell’Europa. Sotto il regno di Enrico IV e di Enrico V il papato si era levato contro l’autorità imperiale rivendicando a sé la funzione di estrema guida dell’Europa cristiana, ma soprattutto aveva appoggiato la nascita di un’entità statale autonoma al di fuori di ogni investitura imperiale, il regno dei Normanni. L’impero come istituzione universale alla guida della cristianità -così come lo avevano concepito Carlo Magno e poi Ottone I - cominciava a entrare in crisi e la situazione peggiorò decisamente alla morte di Enrico V. Con gli imperatori della casa di Sassonia e di Franconia il principio dell’ereditarietà della corona sembrava essersi affermato su quello barbarico dell’elezione dei sovrani; ora al contrario quest’ultimo risorse con il formarsi in seno alla nobiltà germanica di due partiti, ognuno dei quali presentò un proprio candidato: il partito capeggiato dai duchi di Baviera (i Welfen, da cui “guelfo”), che durante la lotta per le investiture aveva appoggiato il papa, e il partito guidato dalla casa di Hoenstaufen, duchi di Svevia e originari del castello di Weiblingen (da cui “ghibellino”), che nella lotta aveva preso le parti dell’imperatore. Il trionfo dei ghibellini, che nel 1138 aveva portato sul trono Corrado III di Svevia, non restituì prestigio all’impero né ristabilì la concordia; Corrado partì per la II crociata e si allontanò in tal modo dalla confusa situazione interna dell’impero. Alla sua morte (1152) l’ascesa al trono del nipote Federico I detto “Barbarossa” appianò i contrasti tra le due fazioni.

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