Il rinascimento

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Testo

RINASCIMENTO

Movimento culturale e artistico che si sviluppò in Italia fra i secc. XV e XVIe che esercitò vasta e profonda influenza sulla civiltà europea anche nel secolo successivo.

Significato del termine e caratteri generali

Il concetto di rinascimento o rinascita, come “seconda nascita” dell'uomo, riacquisto di virtù e di valori temporaneamente dimenticati, ha un'origine religiosa. Nel Nuovo Testamento, in particolare nel Vangelo di san Giovanni e nelle Lettere di san Paolo, è corrente l'immagine della “nascita dell'uomo nuovo” dopo la venuta di Cristo, mentre nel medioevo il riferimento è diretto alla “seconda nascita” che si realizza nell'unione con Dio dopo la morte. Gli scrittori italiani dei secc. XIV e XV fanno ricorso a questo concetto di origine religiosa per esprimere la loro consapevolezza del contrasto fra la trascorsa media aetas, il medioevo, e il praesens tempus: rozza e puerile la prima, colto e maturo il secondo. Il medioevo appariva ormai irrimediabilmente come un'età di degrada
zione, nella quale lo spirito umano aveva sofferto un lungo offuscamento. L'idea che, a partire da un certo momento, fosse sbocciata una nuova primavera e sorta una nuova civiltà conobbe immediata fortuna nell'ambito della cultura letteraria e delle arti figurative. Già Boccaccio aveva ripreso il tema virgiliano del ritorno all'età dell'oro (Redeunt Saturnia regna), e negli scritti degli umanisti ricorrono con frequenza espressioni di compiacimento per “i tempi nostri”, nei quali hanno ricominciato a fiorire gli eloquentiae studia, dopo che la caduta dell'Impero romano aveva fatto precipitare l'Italia nei secoli bui, e dopo che nella penisola si erano stabiliti i Goti e i Longobardi, “i quali affatto quasi spensero ogni cognizione di lettere” (L. Bruni). Il senso della contrapposizione fra passato e presente è ancora più netto in chi prende a considerare le vicende delle arti figurative. Così per Filippo Villani, Giotto ha riportato la pittura ormai “decaduta e quasi morta ... alla sua antica dignità”. Lorenzo Ghiberti, dopo aver rimproverato al cristianesimo la manomissione e la distruzione del patrimonio artistico della classicità, spiega che la “rozzezza bizantina” è stata una conseguenza della scomparsa dei modelli di quell'epoca aurea e saluta in Giotto colui che dopo lunghi secoli ha ripreso la strada della vera arte. Questa linea interpretativa viene sviluppata dal Vasari e vale naturalmente anche per l'architettura: il Brunelleschi ha ridato a essa la forma, “già per centinaia d'anni smarrita”, e ha posto fine al predominio delle costruzioni gotiche, “maledizione di fabriche ... ch'hanno ammorbato il mondo”.
Con la fine del XVII sec. il termine Rinascimento aveva ormai cittadinanza ufficiale nel mondo degli studi, come si rileva fra l'altro dal Dizionario del Bayle. Nella periodizzazione di C. Keller il Rinascimento figura come momento iniziale della Historia nova, la quale è preceduta nell'ordine dalla Historia Medii Aevi e dalla Historia antiqua. La cristallizzazione del concetto entro i limiti della storia delle lettere e delle arti, e la conseguente identificazione del Rinascimento con la riscoperta di un canone atemporale di armonia e di bellezza, entrò in crisi nell'età dell'Illuminismo. Voltaire, Condorcet, Bolingbroke, Hume considerano in forma più o meno esplicita il periodo come fase iniziale del risveglio della ragione e punto di partenza di tutta la storia moderna. Per Hegel il Rinascimento è un momento necessario del processo dello spirito universale, caratterizzato dalla riaffermazione dell'autocoscienza dell'uomo in opposizione al trascendentismo medievale. Quando Michelet ripropose un'interpretazione analoga a quella hegeliana, era già uscita da venticinque anni (1860) la classica opera del Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, destinata a divenire un punto di riferimento obbligato per tutta la storiografia successiva. Il Rinascimento, attraverso la ricostruzione del maestro svizzero della Kulturgeschichte (“storiografia della civiltà”), divenne un'epoca dai connotati riccamente definiti, un momento della storia umana di irripetibile felicità, nel quale “il risveglio dell'antichità” accompagnò e promosse “la scoperta del mondo esterno e dell'uomo”. La crisi morale e politica coeva a tanto splendore venne collocata nello sfondo, come elemento secondario e non caratterizzante. A questo aspetto negativo fu naturalmente molto più sensibile la passione patriottica del De Sanctis, il quale fece, del resto, nella Storia della letteratura italiana, un uso molto cauto della categoria di “rinascimento”. Tuttavia nelle pagine dedicate al Machiavelli, dopo aver deprecato quell'Italia debole, corrotta e troppo dedita al “culto della forma”, il critico sottolineò in modo significativo la modernità filosofica e morale della penisola rispetto ai paesi della Riforma: “L'Italia aveva già valicato l'età teologica ... e doveva considerare Lutero e Calvino come dei nuovi scolastici. Perciò la Riforma non poté attecchire fra noi ... Il Machiavelli è la coscienza e il pensiero del secolo, la società che guarda in sé e si interroga e si conosce ... Il Lutero italiano fu Niccolò Machiavelli”. Sulla novità rivoluzionaria del pensiero politico di Machiavelli insistette particolarmente in seguito il Croce. L'accentuazione dell'originalità filosofica del Rinascimento fu il motivo conduttore delle ricerche di B. Spaventa e di G. Gentile e costituì anche la nota dominante di alcuni studi fondamentali del Dilthey e del Cassirer. Il tema della “scoperta del mondo esterno” implica anche l'esigenza di uno spostamento in avanti del terminus ad quem del Rinascimento, in modo che fra i personaggi rappresentativi dell'epoca, considerata culla del moderno immanentismo filosofico-scientifico, possano essere inclusi, oltre a Leonardo, almeno B. Telesio e G. Bruno.

Rapporti con il medioevo

Questo ampliamento dell'orizzonte interpretativo conserva tuttavia della concezione tradizionale il presupposto del Rinascimento come “età di rottura”, separato dal medioevo dallo stacco di una netta opposizione. Ma la storiografia di quest'ultimo secolo è stata dominata dal problema della continuità. Più che sottolineare e caratterizzare le differenze, essa ha cercato di individuare i points d'attache (come li ha chiamati E. Gebhart) con le epoche precedenti e successive. La revisione ha toccato anche altre categorie storiografiche tradizionali, come Illuminismo, Romanticismo, Risorgimento. Si osserva che la storia è un continuum e che la determinazione di epoche chiuse in se stesse e dotate di monadistica singolarità vale per lo più a generare entità fittizie e problemi insolubili. Non si ha per lo più difficoltà a riconoscere che il Burckhardt, dotato come tutti i veri storici di un particolare dono poetico-evocativo, ha offerto una presentazione efficace ed eloquente di più di due secoli di vita italiana e costruito un'immagine sostanzialmente fedele dell'idea che quell'epoca ebbe di sé. Ma i medievalisti hanno anche ampiamente dimostrato quanto fosse povera e lontana dalla realtà la nozione di un medioevo culturalmente sprovveduto, insensibile ai richiami del mondo e tutto proteso verso l'aldilà. Dietro il Rinascimento non c'è il vuoto: si sono individuate altre “rinascenze” (da quella carolingia a quella ottoniana, a quella francese del XII sec.) e si è avuto facile gioco a provare che il medioevo era stato un'epoca fervida e complessa, percorsa da travagli intellettuali e morali e turgida di succhi vitali. È stato affermato che con il XIII sec. tutto l'essenziale era già stato acquisito e che i successivi non sono da considerare come secoli di innovazioni e di scoperte, ma al più come una fase di elaborazione e di consolidamento di una rivoluzione spirituale già avvenuta.
Più radicalmente K. Burdach, con un'impostazione che, se schematizzata, si presta a essere presentata come l'esatto ribaltamento della tesi di Burckhardt, ha visto il Rinascimento come un prolungamento e una estenuazione finale del tema religioso-morale della renovatio, così vivo nell'Italia del Duecento. In Italia suscitarono aspri dibattiti le tesi di uno storico della letteratura, il Toffanin, secondo il quale la cultura veramente rivoluzionaria e “moderna” era stata quella degli scolastici dissidenti e degli eretici del XIII sec., mentre gli umanisti e gli intellettuali del Rinascimento furono, col loro disimpegno di letterati, alleati consapevoli del tradizionalismo e della repressione cattolica. Nei Quaderni di Gramsci questa visione riduttiva trova un parziale consenso, derivato da tutta l'interpretazione che Gramsci dava della storia italiana e della funzione svolta dagli intellettuali nella nostra società. Gramsci giudicò l'Umanesimo come “un fatto reazionario della cultura, perché tutta la società italiana stava diventando reazionaria”, e concluse: “La verità è che si trattò del primo fenomeno clericale nel senso moderno, una Controriforma in anticipo. Quanto al Rinascimento, ciò che esso ebbe di positivo e di innovatore operò di riflesso e più tardi in altre culture nazionali, non in Italia ... Il Rinascimento è vivo nelle coscienze dove ha creato correnti nuove di cultura e di vita ... dove non è stato soffocato senza residuo altro che retorico e verbale”. Taluni economisti dal canto loro hanno sottolineato la concomitanza cronologica della fioritura delle lettere e delle arti e della decadenza economica, nell'età rappresentata dal grande affresco di Burckhardt. Quando il Petrarca diede inizio alla rinascita intellettuale stava incominciando, dopo la straordinaria congiuntura del tardo medioevo, un periodo di recessione economica e di ristagno tecnologico (non a caso, ad es., tutte le proposte di Leonardo, alcune delle quali perfettamente compatibili col livello della tecnica del tempo, caddero nel vuoto). Anche le considerazioni ridimensionatrici di questa ispirazione rientrano dunque, almeno in parte, in quella che lo studioso canadese W. K. Ferguson, autore di un'opera fondamentale sulla storia della nozione di Rinascimento (Il Rinascimento nel pensiero storico, 1948), ha chiamato “la rivolta dei medievalisti”. Non solo l'amore della vita, la sensualità prorompente e il crescere rigoglioso della “pianta uomo” su radici ben affondate nella terra erano atteggiamenti e valori tutt'altro che sconosciuti alla civiltà medievale (Gilson, Huizinga); non solo la conoscenza dei classici latini e greci era nel medioevo tanto vasta e profonda che le scoperte dell'Umanesimo e del Rinascimento si riducono, a guardar bene, a molto poco; ma, di più, se c'è un periodo di fervore economico e politico e di libertà intellettuale, al quale un certo “mondo moderno” dovrebbe guardare con pietas filiale, questo è il medioevo dei liberi Comuni, dei mercanti avventurosi, dei rinnovatori della vita religiosa, dei filosofi spregiudicati e degli intellettuali eretici ed “epicurei”. Una delle conseguenze più ovvie della demolizione della nozione “trionfalistica” di Rinascimento è il declassamento di quest'ultimo a epoca di transizione fra il medioevo e l'età moderna propriamente detta. Questa tesi, accolta dal Ferguson, comporta necessariamente l'estensione cronologica dell'età rinascimentale fino all'epoca della rivoluzione industriale, del deismo, degli inizi del nazionalismo e del trionfo della scienza newtoniana, quando si può dire che l'età di transizione finisce e comincia il mondo moderno. Il Toynbee, che tende a relegare il Rinascimento in una “italistic age”, la quale sarebbe durata fino al 1875, ha portato all'estremo la dilatazione cronologica del Rinascimento, concepito peraltro in tale estensione come una delle grandi epoche individuabili dalla “scienza della storia”.
Che cosa si nasconda dietro queste dispute, quando esse non abbiano una rilevanza solo nominalistica e un'ispirazione puramente accademica, è stato dimostrato dal Cantimori, quando ha colto nella “rivolta dei medievalisti” un'ispirazione politica di natura conservatrice o addirittura reazionaria. Se poi la preoccupazione dei difensori della continuità è solo quella di criticare la cristallizzazione e l'irrigidimento dei caratteri di un'epoca, va però osservato che la cautela vale per tutte le periodizzazioni: anche “medioevo” o “antichità classica” sono costruzioni convenzionali. Quello che importa è che la convenzione non deformi la realtà, ma aiuti a capirla. Ora, la consapevolezza che ebbero gli uomini del Rinascimento di essere attori e spettatori di un'opera di recupero e di rinnovamento era tutt'altro che illusoria. Così, a titolo di esempio, non pare corretto non distinguere il “culto dei classici” dei dotti medievali da quello degli umanisti. Per i primi si trattava solo di utilizzare come repertorio di modelli formali e di exempla un patrimonio culturale non più inteso nel suo spirito e non colto nella sua prospettiva storica; per i secondi il mondo classico era da un lato il momento ideale della storia, nel quale l'uomo aveva dato la misura più alta di sé, e dall'altro una realtà da interpretare criticamente, attraverso il processo di storicizzazione operato dalla nuova filologia. Dice il Garin, a proposito della crisi della fisica di Aristotele e della cosmologia tolemaica: “Solo la conquista del senso dell'antico come senso della storia ... permise di valutare quelle teorie per ciò che esse erano davvero: pensamenti di uomini ... non oracoli della natura o di Dio, rivelati da Aristotele o da Averroè”. Analogamente c'è differenza di qualità fra il realismo del cronista medievale e il realismo dello storico rinascimentale: il primo accumula particolari pittoreschi spesso irrilevanti, il secondo trova, attraverso l'indagine interiore del personaggio e la ricostruzione obiettiva delle vicende, una spiegazione umana e mondana delle azioni e degli eventi. Quanto alla passionalità e “terrestrità” degli uomini del medioevo, resta fondamentale l'osservazione dello Chabod, che la questione non sta nel decidere se nel medioevo si siano amate le donne, apprezzati i beni della vita, operate scelte politiche realistiche e spregiudicate: che questo sia accaduto è pacifico. Ma l'uomo del medioevo (e qui sta la “rivoluzione” rinascimentale) “non ha mai osato esprimere come ideale di vita, come norma teorica, quel che Leon Battista Alberti esprimerà a mezzo il Quattrocento, ponendo come ideale la dolcezza del vivere”, così come non ha mai osato teorizzare l'azione politica con l'indipendenza spirituale del Machiavelli. E infine la polemica umanistica contro la logica scolastica non è affatto, almeno negli scrittori più consapevoli (Salutati, Nizolio, ecc.), una manifestazione di superficialità di “letterati”, ma include l'esigenza molto seria di elaborare una nuova tecnica del discorso persuasivo e forme di argomentazione più direttamente poggiate sulle cose, e tali dunque da garantire la possibilità dell'intervento attivo dell'uomo sulla natura e sulla realtà in generale, ovvero la possibilità della scienza.

Il pensiero scientifico

Fin qui non è parso necessario distinguere Umanesimo da Rinascimento. La convenzione cronologica tradizionale, che fa durare l'Umanesimo fin verso la metà del Quattrocento e pone il Rinascimento (da Lorenzo il Magnifico all'età di Paolo IV) come culmine di quella fase preparatoria, vale solo se si accettano certi presupposti di comodo, come quello del “secolo d'oro” delle arti figurative o quello del carattere prevalentemente letterario e imitativo della cultura umanistica. In realtà per molti grandi personaggi dell'epoca è impossibile (e anche ozioso) stabilire se essi appartengano all'Umanesimo o al Rinascimento. Ma se si guarda alla questione dal punto di vista della storia del pensiero scientifico la distinzione diventa necessaria. Già il Gentile aveva osservato, sulle orme dello Spaventa, che l'umanista “pare si restringa tutto nello studio e nella celebrazione di quello che è strettamente umano ..., laddove l'uomo del Rinascimento gira intorno lo sguardo fuori dell'uomo e abbraccia con l'intelletto la totalità del mondo ... Il punto di vista umano diventa punto di vista naturale o cosmico ...”. Il Gentile pensava soprattutto a Telesio, Bruno e Campanella. Ma il rapporto fra Rinascimento e origine della scienza moderna va visto anche nell'esplicito agganciarsi di uomini tanto diversi come Nicola da Cusa e Leonardo alla “via moderna” della tarda scolastica, per liberarsi dalla fisica aristotelica e abbozzare una prima impostazione empirico-problematica del metodo scientifico; nell'adesione a un aristotelismo filtrato attraverso Alessandro di Afrodisia e Averroè e divenuto così una filosofia rivoluzionaria; nell'assunzione, per altra via, di un platonismo “umanistico”, nel quale la natura divinizzata ha l'uomo come “suo ministro e interprete” (Ficino, Pico, ecc.).
Tuttavia, e questa considerazione è essenziale, la “modernità” del Rinascimento va caratterizzata nei suoi limiti storici, senza cedere alla tentazione di extrapolazioni arbitrarie e di analogie tendenziose. La scienza della natura è ancora “magia naturale”, ritrovamento fortunato di cause occulte nascoste nel fondo delle cose, e la tecnica della ricerca non è ancora guidata da una concezione corretta del nesso esperienza-ragione. Machiavelli non ricorre più, come il Villani, ai “peccati degli uomini” e alla “istigazione” del diavolo per spiegare l'inizio delle lotte intestine a Firenze, ma tuttavia anche a lui le vicende umane, considerate nei tempi lunghi, appaiono sottratte al potere dell'uomo e dominate da una fatalità naturale. La nozione di “fortuna” ha un'incidenza assai rilevante nella forma mentis rinascimentale.

Il pensiero religioso

I rapporti con la tradizione religiosa cristiana non possono essere posti in termini di esclusione o di superamento. L'insofferenza per le dispute scolastiche e per le superstizioni grossolane racchiudeva l'esigenza di una religiosità più conforme all'essenza evangelica del cristianesimo, e la cultura umanistico- rinascimentale contribuì, soprattutto attraverso la mediazione di Erasmo, a immettere i valori più genuinamente innovatori nell'impalcatura medievalizzante della Riforma. E infine il “rinnovamento” è pur sempre inteso come recupero e restaurazione di un momento della storia umana, che funge da modello e da norma. F. Chabod ha giustamente insistito sul carattere fondamentalmente religioso di un tale atteggiamento. È il mito del ritorno alle origini, comune ai moti pauperistici del medioevo, alla Riforma protestante e alla cultura dell'Umanesimo e del Rinascimento. E proprio per la rilevanza di questo motivo nella costituzione della mentalità umanistico-rinascimentale sembra molto persuasiva la tesi secondo la quale il Rinascimento si deve considerare conchiuso quando il mito della esemplarità del mondo antico entra in crisi, come è evidente nella polemica del Guicciardini col Machiavelli. Il primo, “nel rifiutare il valore dell'esempio storico, nell'affermare che si ingannano quelli che a ogni piè sospinto allegano l'esempio dei Romani, rappresenta la fine della mentalità non soltanto umanistica, nel senso ristretto del termine, ma anzi della mentalità del Rinascimento” (Chabod). Con il Bruno, con la conclusione della Polemica degli antichi e dei moderni, con gli albori dell'Illuminismo, alla nozione del modello da restaurare si sostituisce quella del progresso da realizzare con l'uso libero della ragione e l'impegno operoso. Attraverso l'esperienza dei nuovi mondi e delle culture esotiche derivata dalle scoperte geografiche si configura d'altra parte diversamente l'antitesi barbarie-civiltà: barbari ormai sono gli uomini che vivono fuori della “dritta ragione”, e civili (magari gli Incas o i Cinesi) quelli che rivelano all'europeo stupito ordinamenti politici e sociali di sorprendente razionalità, al cospetto dei quali la sapienza di Atene e la giustizia di Roma appaiono come valori tutt'altro che definitivi nella storia del genere umano.

Diffusione degli ideali rinascimentali in Europa

Le relazioni pacifiche e, non meno, i rapporti violenti determinati dalle guerre non tardarono a dare agli stranieri la coscienza della superiorità della civiltà italiana. Così, mentre il patrimonio della cultura umanistica e rinascimentale trovava i suoi propagatori in Erasmo da Rotterdam, in G. Budé, in J. Lefèvre d'Étaples, non meno efficace a far conoscere i prodotti delle lettere e delle arti italiane fu l'azione dei sovrani francesi, e in particolare di Francesco I, che fecero dell'Italia un territorio di conquista e un teatro di guerra. Conseguenza di quella politica aggressiva fu anche l'esodo di artisti e letterati italiani (basti ricordare la presenza di Leonardo da Vinci e di Luigi Alamanni alla corte di Francia), per opera dei quali si costituirono veri e propri centri di cultura italiana fuori dalla penisola. Testi fondamentali quali il Principe di Machiavelli e il Cortegiano di B. Castiglione incontrarono un successo enorme, e mentre dal primo si deducevano le norme di una moderna concezione politica, dal secondo (tradotto in castigliano da J. Boscán Almogáver nel 1534 e in inglese da sir Thomas Hoby nel 1561) derivò l'idea dell'uomo di mondo e del gentiluomo, che tanto a lungo influenzò il costume delle classi aristocratiche europee. Non minore successo ebbe la moda del petrarchismo del Bembo, accolta in Francia e in Spagna, e dalla Francia, attraverso Ronsard, J. du Bellay, Desportes, introdotta più tardi in Inghilterra. I debiti diretti o indiretti di un Rabelais verso il Folengo, dei tragediografi elisabettiani verso il teatro e la novellistica italiana del Cinquecento entrerebbero nel bilancio delle influenze che sono state ampiamente discusse dai comparatisti. Anche dell'azione di propagatori della cultura esercitata nel secondo Cinquecento dagli intellettuali costretti a lasciare l'Italia in seguito alla Controriforma occorre tenere conto. Ma, al di sopra di queste pur rilevanti ragioni della facile assimilazione del pensiero rinascimentale fuori dall'Italia, se ne pone una di ordine più generale. Fu propria della cultura italiana del Quattro e Cinquecento la difesa di valori universali fondati sul concetto della dignità dell'uomo, oltre che sull'interesse per la natura e per tutte le attività mondane. Tale concezione di vita poté agevolmente essere accolta, mancando dei requisiti che caratterizzano una cultura e una letteratura di tipo nazionale e popolare, strettamente legata all'ambiente che la esprime. Ci si spiega così anche perché scarsamente sensibili alla cultura rinascimentale restassero a lungo i paesi, come la Germania, travagliati dalla Riforma e dai suoi fermenti popolari e nazionali, e più aperti ad accoglierla fossero invece la Francia e la Spagna, e successivamente l'Inghilterra, una volta superata la fase più drammatica della sua riforma religiosa.
Per la storia particolareggiata della letteratura del Rinascimento in Italia e negli altri paesi si vedano le trattazioni relative alle singole voci.

L'arte

Una volta che si sia attribuito al termine Rinascimento il compito di indicare il periodo in cui, metodologicamente, vengono elaborate le premesse della moderna visione del mondo nelle arti figurative, la ricerca prospettica riassume in sé compiutamente il significato di un'evoluzione che si compie, esprimendo l'esigenza dell'uomo di situarsi in uno spazio razionale, misurabile matematicamente, rifiutando quello indefinito della civiltà medievale. All'interno di questa nuova concezione dello spazio vanno considerati alcuni fenomeni concomitanti, tra cui il recupero, non privo di interpretazioni fantasiose e di mitizzazioni, dell'antico, individuato come proprio precedente culturale.
Identificando nella prospettiva il dato caratterizzante del Rinascimento, si fissa ormai unanimemente in Toscana, a Firenze, nei primi decenni del XV sec., la sua genesi, pur tenendo presente che molti fermenti e tendenze in quel senso dovevano essere operanti fin dagli ultimi decenni del XIV sec., con la consapevolezza che ogni classificazione storica comporta irrimediabili forzature. Si è dunque ormai d'accordo nell'assegnare all'Italia il primato nell'elaborazione di questa nuova cultura. Più problematico è invece stabilire l'altro estremo cronologico: anche in questo campo le proposte variano col variare del concetto di Rinascimento. Oggi si tende a eliminare la tradizionale distinzione tra Umanesimo, Rinascimento e manierismo, e si preferisce parlare di primo, secondo e terzo Rinascimento, riconoscendo come unitari nella sostanza questi tre momenti. Si tende perciò a estendere il Rinascimento fino alle soglie dell'età barocca, poiché, in effetti, è solo con il XVII sec. che muta radicalmente l'orizzonte culturale, oltre che geografico, politico ed economico, dell'uomo e muta intimamente la sua concezione dello spazio, situandosi ora egli in un universo illimitato e non più definibile.
Italia. È più proficuo trattare l'arte del Rinascimento italiano attraverso l'esame, forzatamente rapido, dei diversi centri artistici che vennero in prosieguo di tempo toccati dalle innovazioni elaborate a Firenze, alle quali risposero in vario modo, a seconda delle proprie tradizioni artistiche e della loro situazione storica. Giova a questo proposito precisare, preliminarmente, che il Rinascimento, come ogni altro momento storico-artistico, conobbe al suo interno molteplici atteggiamenti e aspetti spesso contrastanti, tali da far parlare di un “antirinascimento”. Occorre tener presente da un lato che ogni centro, per non dire ogni artista, aderì alle nuove proposte con una tradizione alle spalle, che non scomparve del tutto e spesso lo portò a espressioni originali, e dall'altro che è ormai caduta la tradizionale immagine di un Rinascimento olimpico e sereno in tutte le sue manifestazioni, risiedendo altrove la sua peculiarità.
Con l'opera di Filippo Brunelleschi si fa cominciare la nuova arte: l'architetto fiorentino, la cui impresa più famosa fu l'esecuzione della cupola di Santa Maria del Fiore senza armature, influì profondamente sull'ambiente artistico fiorentino soprattutto attraverso le sue ricerche teoriche; infatti il rinnovamento nel campo della scultura, con Donatello, e in quello della pittura, con Masaccio, avvenne entro la sua orbita. Pure vicino al Brunelleschi, anzi uno dei primi che ne compresero il significato, fu Leon Battista Alberti, con cui si iniziò una sistemazione critica della nuova arte: con lui nacque la figura del trattatista, così tipica del secolo seguente, e nacquero concetti artistici che la critica moderna avrebbe fatto propri, come quello di genio, che veniva finalmente a riconoscere alle arti figurative una dignità culturale che il medioevo aveva ignorato. Le altre figure di artisti fiorentini gravitarono intorno a quelli menzionati: sono da ricordare, nel campo della pittura, l'Angelico, Filippo Lippi, Paolo Uccello, Andrea del Castagno, Domenico Veneziano, presso il quale avvenne la formazione di Piero della Francesca, forse il maggiore artefice della diffusione della visione prospettica nel resto d'Italia, con i suoi molteplici viaggi e incontri. Nel campo della scultura il vigoroso realismo di Donatello si stemperò nel raffinato calligrafismo dei Rossellino, di Agostino di Duccio, di Michelozzo, meglio noto come architetto, di Desiderio da Settignano e soprattutto di Luca Della Robbia. Quest'ultimo fu l'inventore della fortunata tecnica della terracotta monumentale invetriata, la cui delicatezza esprime bene il nuovo clima culturale e artistico formatosi a Firenze, nella seconda metà del secolo, sotto la signoria di Lorenzo il Magnifico, che vide fiorire artisti spesso piacevolmente illustrativi, come Cosimo Rosselli, Filippino Lippi, il Ghirlandaio, o di estrema eleganza, come il Pollaiolo, Verrocchio, Baldovinetti, Piero di Cosimo e soprattutto Sandro Botticelli, forse la figura più rappresentativa. Gli architetti Giuliano e Benedetto da Maiano, il Cronaca, Giuliano da Sangallo portarono avanti, alla ricerca di una spazialità meno astratta, la lezione brunelleschiana. Fuori di Firenze, la corte dei Montefeltro a Urbino fu uno dei primi centri a recepire la nuova arte, grazie ai soggiorni di Piero della Francesca: sotto la sua diretta influenza sorse il Palazzo Ducale, opera iniziata da Luciano Laurana e portata a termine da Francesco di Giorgio Martini, e toccati in diversa misura dalla sua arte furono gli altri artisti che vennero a contatto, più o meno direttamente, con il centro urbinate: Melozzo da Forlì, il giovane Bramante, Francesco Laurana e, assieme ad altre componenti, Perugino e l'ambiente umbro, Luca Signorelli e i camerinesi Giovanni di Piermatteo il Boccati e Girolamo di Giovanni. Oltre a Rimini, dove resta un affresco di Piero nel Tempio Malatestiano dell'Alberti, la presenza dell'artista toscano fu decisiva anche per le sorti artistiche del ducato di Ferrara, dove, con il duca Borso d'Este, fiorì l'architettura di Biagio Rossetti e la scuola pittorica, arricchita di elementi padovani e fiamminghi, di Cosmè Tura, Francesco del Cossa ed Ercole de' Roberti, questi ultimi partecipi della decorazione a fresco del palazzo Schifanoia, la più famosa impresa rinascimentale di questo ambiente. Il soggiorno di Donatello, insieme con quelli di Paolo Uccello e del Lippi, lasciò invece una profonda impronta a Padova dove, intorno alla singolare figura di Francesco Squarcione, fiorì una folta schiera di pittori, su cui spicca Andrea Mantegna, attivo soprattutto a Mantova, presso la corte dei Gonzaga dove, negli affreschi della Camera degli Sposi, nel Palazzo Ducale, lasciò il suo capolavoro. L'arte padovana venne raccolta, sia pure con molti mutamenti dovuti alla persistente tradizione gotica, in Lombardia, soprattutto da Vincenzo Foppa e dall'Amadeo, mentre a Venezia ispirò specialmente Giovanni Bellini, nella cui formazione, come in quella di Vittore Carpaccio, fu importante il contatto con Piero e, più tardi, con Antonello da Messina, l'unico artista di rilievo nell'Italia meridionale del tempo, anch'egli a conoscenza delle novità pierfrancescane.
Il secolo successivo, i cui primi decenni sono occupati dal cosiddetto Spieno Rinascimento”, vide il predominio artistico di Roma, che nel Quattrocento aveva avuto solo occasionali realizzazioni, come gli affreschi parietali della Cappella Sistina e quelli dell'appartamento papale. Se Leonardo svolse a Firenze e in Lombardia la sua attività più significativa, Donato Bramante, dopo un lungo soggiorno lombardo, lasciò a Roma le sue opere più mature e più fortunate, così come Raffaello e Michelangelo, sotto il pontificato di Giulio II e Leone X. Bramante diede l'avvio all'opera forse più rappresentativa del rilancio politico della Roma papale: la ricostruzione della basilica di San Pietro, che con l'intervento di numerosi artisti fu ultimata soltanto nel secolo successivo, e lasciò nel tempietto di San Pietro in Montorio un'opera in cui si esprime perfettamente la nuova concezione dello spazio che anima questo secolo, fatta propria dai numerosi architetti bramanteschi. Lo spazio è ora avvertito in termini di vita e non più di astratta geometria, ed esso si pone, nei confronti dell'uomo, in un rapporto dialettico. Lo stesso senso, naturalmente con esiti estetici autonomi, contiene lo sfumato leonardesco, o la pittura tonale inaugurata da Giorgione, e l'elaborazione di una nuova spazialità è uno dei meriti più alti di Raffaello. Le opere più famose dell'artista urbinate restano gli affreschi delle Stanze vaticane e della Farnesina, altro edificio estremamente rappresentativo della Roma rinascimentale, con le decorazioni di Sebastiano del Piombo e del Peruzzi. In Raffaello, e ancor più negli artisti della sua folta scuola, fu presente anche una seconda componente di grande portata; con il nuovo secolo mutò anche la considerazione della cultura classica che subì un profondo cambiamento: se il Quattrocento aveva manifestato nei suoi confronti un interesse per lo più erudito o umanistico, ora essa assolveva a una funzione fondamentalmente edonistica, offrendo lo spunto per raffinate evasioni. Tale edonismo, che si manifestava anche in un impiego sempre più illusionistico della prospettiva, conteneva già in sé i germi di una crisi che doveva travagliare quasi tutti gli artisti dei decenni successivi, in corrispondenza del declino economico e politico dell'Italia. Michelangelo fu uno degli interpreti più precoci e profondi di questa crisi, e con la sua lunga e tormentata opera fece da tramite all'ultima fase, e più problematica, del Rinascimento: il cosiddetto manierismo. Specialmente con le opere della maturità, come il Giudizio universale della Sistina, o nelle Tombe medicee fiorentine, si prospettano soluzioni ardite e inusitate che rivelano ormai il superamento dell'ideale prospettico rinascimentale. Furono soprattutto gli artisti fiorentini, come il Pontormo, il Rosso Fiorentino, il Bronzino, forse perché toccati più da vicino dalla decadenza economica della loro città, a manifestare con maggiore evidenza e consapevolezza i segni di questa crisi, in opere tormentate o di raffinato intellettualismo; ma un senso analogo esprimono anche realizzazioni architettoniche che tendono spesso a esitì astrusi, ricercati, o a freddi accademismi, come accadde talvolta a Vignola, Peruzzi, Ammannati, Ligorio e Vasari che in certo senso può considerarsi il teorico del manierismo, con il suo culto esclusivo per Michelangelo. Gli esempi di Michelangelo vennero ripresi e meditati anche dagli scultori, fino alle ricerche di estrema eleganza, ma non prive di raffinati intellettualismi, di Cellini e di Giambologna. Al di fuori dell'area fiorentino-romana che, a parte Venezia, predominò sul resto d'Italia per tutto il secolo, occorre ricordare, in Lombardia, l'attività architettonica del Tibaldi, e, in Emilia, la pittura del Correggio: i suoi affreschi di Parma che, con elementi mutuati da Leonardo e da Raffaello, derivano in ultima istanza dai suggerimenti prospettici contenuti nella ricerca prospettica del Mantegna, sono la premessa indispensabile della grande pittura monumentale barocca. Accanto al Correggio si svolse l'attività del Parmigianino, uno degli artisti più inquieti del secolo, e di Niccolò dell'Abate. In Lombardia, più che la schiera dei leonardeschi, merita un cenno la pittura complessa del Bramantino e soprattutto la scuola bresciana, con Romanino, Moretto e Savoldo, che, sviluppando la vocazione realistica propria della tradizione lombarda, pose le basi dell'arte di Caravaggio. Vicina, spiritualmente, alla pittura bresciana, ma arricchita da apporti veneti e romani, appare l'opera di Lorenzo Lotto, figura solitaria ma di grande rilievo. Dopo aver ricordato, a Genova, l'attività architettonica di Galeazzo Alessi, non resta che esaminare l'ambiente veneto, altro grande capitolo dell'arte rinascimentale. Venezia rimase per lungo tempo estranea, come avvenne nel campo politico, ai problemi dibattuti dagli artisti del resto d'Italia. La pittura tonale, inaugurata da Giorgione, che contiene in sé la nuova concezione spaziale comune agli altri artisti italiani, venne portata avanti da Tiziano, e da altri pittori di minor prestigio, senza evidenti incertezze né riserve. L'arrivo di Jacopo Sansovino, nel 1527, in seguito al sacco di Roma (e quello quasi contemporaneo di Giulio Romano a Mantova), non turbò lo svolgimento dell'arte veneta, anzi contribuì a rendere maggiormente presenti a quegli artisti gli ideali della classicità, di cui Palladio sarebbe stato uno degli interpreti più originali con il rinnovamento urbanistico di Vicenza e le numerose ville sparse nel territorio. Gli si può affiancare la pittura illustrativa e serena del Veronese, mentre con i Bassano e soprattutto con il violento chiaroscuro di Tintoretto sembra concludersi lo splendido isolamento artistico di Venezia nel Cinquecento. In questo ambiente, in questi anni, maturò l'arte allucinata del Greco, che poi doveva svolgersi in Spagna.
Fuori d'Italia. Quando si ponga in Italia il centro in cui nasce e fiorisce il Rinascimento, l'esame dell'arte rinascimentale europea coincide con lo studio della diffusione dell'arte italiana in Europa e del diverso modo con cui essa venne accolta da parte dei vari paesi. Comunque non si tratta tanto di stabilire a quale nazione spetti il ruolo di guida, quanto di analizzare gli elementi in base ai quali l'arte europea abbia ritrovato una certa unità dopo il periodo gotico, età in cui fondamentalmente unitarie apparivano le manifestazioni artistiche dei diversi paesi. Per questo, accanto ai soggiorni di artisti italiani all'estero, riveste una notevole importanza l'influenza della pittura fiamminga su quella italiana (Van der Weyden, Van der Goes, Giusto di Gand, ecc.), per il suo contributo alla formazione di un nuovo linguaggio unitario. Del resto occorre tener conto che la pittura fiamminga, a partire dai Van Eyck, esprimeva un'esigenza analoga a quella presente nell'arte italiana, reagendo, a suo modo, all'indefinitezza dello spazio gotico. Si può comunque affermare che, mentre in Italia sorse e maturò la nuova visione prospettica, il resto d'Europa proseguì ancora a lungo nella fase più fiorita dell'arte gotica, e senza seguito restarono i primi, ancora occasionali, contatti tra i due mondi: si pensi al viaggio di Masolino in Ungheria, a quello di Andrea Sansovino in Portogallo, o di Francesco Laurana nella Francia meridionale. La stessa opera di Dürer, con il suo profondo interesse per l'arte italiana e la non scarsa fortuna che egli godette in Italia, resta poco più di un episodio. Soltanto con le campagne militari straniere in Italia si intensificarono e si fecero più sistematici i contatti con la cultura italiana da parte del resto d'Europa. Un esempio di questi contatti è fornito dall'enorme richiesta di quadri a Tiziano da parte della corte spagnola, con Carlo V e Filippo II. A Madrid lavorarono inoltre Pellegrino Tibaldi e Leone e Pompeo Leoni. Ma il caso più famoso della diffusione dell'arte italiana in Europa, e anche il più importante, fu offerto dalla cosiddetta scuola di Fontainebleau, sorta intorno ai soggiorni di artisti italiani presso la corte di Francesco I, a partire dal 1530. Le opere e la presenza del Rosso Fiorentino, del Primaticcio, di Niccolò dell'Abate, di Sebastiano Serlio, di Benvenuto Cellini determinarono il sorgere di un gusto che, estendendosi alle arti decorative, si diffuse in tutta l'Europa. Nacque così un interesse sempre più vivo ed esteso per l'arte italiana: il fatto che questa si diffondesse nella sua fase manieristica e che venisse poi accolta e rielaborata negli aristocratici ambienti delle corti portò alla costituzione di uno stile ricco e decorativo, che solo impropriamente può essere definito rinascimentale, ma che assolse all'importante compito di fondare le premesse per una unità artistica europea nell'età barocca.

La musica

Nella storiografia musicale si fa rientrare nell'ambito del Rinascimento il periodo compreso tra gli ultimi anni del Quattrocento e gli ultimi anni del Cinquecento, delimitato da un lato dalle estreme propaggini del gotico, cui appartennero i primi rappresentanti della scuola fiamminga, dall'altro dalla nascita dello stile barocco. Lo stile musicale del Rinascimento venne caratterizzato dalla piena esplicitazione delle risorse connesse alla tecnica del contrappunto imitato, utilizzato, tuttavia, rispetto ai primi esponenti della scuola fiamminga (Ockeghem, Obrecht), con un nuovo senso di chiarezza, equilibrio, eufonia, espressività, sulla base di una prassi creativa regolata da chiari criteri sia sul piano tecnico (imitazione, trattamento delle dissonanze e dell'armonia) sia su quello contenutistico-espressivo. La nascita di ben configurate scuole nazionali favorì la creazione di forme profane peculiari ai singoli paesi europei, quali la frottola e il madrigale in Italia, il Lied polifonico in Germania, la chanson in Francia, il villancico in Spagna; anche la musica sacra, che sviluppò in particolare le forme fiamminghe del mottetto e della messa, toccò nel Rinascimento uno dei suoi vertici con Palestrina, Orlando di Lasso, William Byrd e Tomás Luis de Victoria. Il Rinascimento vide inoltre la prima grande fioritura della musica strumentale sia per strumenti singoli (liuto, organo) sia per complessi. Infine, il pensiero teorico, sostenuto dalla diffusione del metodo scientifico, pose le basi per il superamento della teoria modale e per la fondazione della moderna dottrina dell'armonia.

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