Il dopoguerra in Europa

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Categoria:Storia

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Testo

IL DOPOGUERRA IN EUROPA
Gli effetti del primo conflitto mondiale non finirono in una distruzione di vite umane, e nello sconvolgimento tra gli stati. La guerra era stata la più grande esperienza di massa mai vissuta fino ad allora, e aveva agito come acceleratore dei fenomeni sociali. Infatti finita la guerra, le donne avevano preso i posti dell’uomo nelle fabbriche, nel lavoro dei campi, negli uffici, e questo fu una cosa molto insolita davanti agli occhi delle persone che erano andate in guerra. L’abbigliamento si fece più libero e disinvolto: abiti più sportivi per gli uomini, più corti e più leggeri per le donne. Ma il primo problema che si pose con urgenza alle classi dirigenti di tutti i paesi fu il reinserimento dei reduci. Per far valere i propri diritti e per affermare le proprie rivendicazioni sembrava necessario associarsi e organizzarsi in gruppi il più possibili numerosi. Da qui si ebbe la massificazione della politica. (partiti e sindacati si videro aumentare ovunque il loro numero di iscritti).
Con la sola eccezione degli Stato Uniti, tutti i paesi belligeranti uscirono dal conflitto in condizioni di gravissimo dissesto economico. Per rimediare a questo i governi avevano sopperito al fabbisogno di denaro stampando carta moneta in eccedenza e mettendo in moto un rapido processo inflazionistico. Se la guerra aveva creato fortune improvvise soprattutto fra gli industriali e gli speculatori ( detti anche pescecani), l’inflazione distruggeva posizioni economiche solidissime ed erodeva i risparmi dei ceti medi. Gli Stati Uniti e il Giappone avevano aumentato le esportazioni, sostituendosi ai mercati già esistenti come quelli dell’Asia e del Sud America. Invece della piena libertà degli scambi auspicata da Wilson, si ebbe nel dopoguerra una ripresa del nazionalismo economico e di protezionismo doganale, soprattutto da parte dei nuovi Stati che volevano sviluppare una propria industria.
Tra la fine del 1918 e l’estate del 1920, il movimento operaio europeo, uscito dalla forzata compressione degli anni di guerra, fu protagonista di un’impetuosa avanzata politica cha assunse a tratti l’aspetto di una grande ventata rivoluzionaria. I partiti socialisti registrarono quasi ovunque notevoli incrementi elettorali. I lavoratori organizzati dai sindacati diedero vita ad un’imponente ondata di agitazioni che consentì agli operai dell’industria di difendere o migliorare i livelli reali delle loro retribuzioni e di ottenere fra l’altro la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore giornaliere a parità di salario. La grande ondata di lotte operaie del biennio rosso non si esaurì nelle rivendicazioni sindacali. Alimentate dalle vicende russe, si manifestavano aspirazioni più radicali, che investivano direttamente il potere nelle fabbriche e nello Stato.
Già alla firma dell’armistizio, lo Stato tedesco si trovava in una situazione tipicamente rivoluzionaria. L’esercito si disgregò completamente e centinaia di migliaia di soldati si riversarono nel paese, spesso portando con se le proprie armi. Il governo legale era esercitato da un Consiglio dei commissari del popolo presieduto dal socialdemocratico Ebert e composto esclusivamente da socialisti. Ma nelle città i veri padroni della situazione erano i consigli degli operai e dei soldati, che occupavano aziende e sedi di giornali, requisivano viveri da distribuire alla popolazione, dettavano le loro condizioni agli industriali e ai rappresentanti dei poteri legali. Il 5-6 gennaio 1919, centinaia di migliaia di berlinesi scesero in piazza per protestare contro la destituzione di un esponente della sinistra dalla carica di capo della polizia capitale. I dirigenti spartachisti e alcuni leader < indipendenti > diffusero allora un comunicato in cui si incitavano i lavoratori a rovesciare il governo. Durissima fu la reazione del governo socialdemocratico che affidò l’incarico di fronteggiare la rivolta al commissario della difesa Gustav Noske. I leader del movimento spartachista furono arrestati e trucidati da ufficiali dei corpi franchi. Il 9 gennaio, poco dopo la rivolta spartachista, si tennero le elezioni per l’Assemblea Costituente. I socialdemocratici si affermarono come il partito più forte, ma non riuscirono a raggiungere la maggioranza assoluta. Quindi per esercitare il loro potere furono costretti ad allearsi con i cattolici e i democratici. Fu eletto Friederich Ebert alla presidenza della Repubblica, la formazione di un governo di coalizione a direzione socialdemocratica e, cosa più importante, il varo della nuova costituzione di Weimar. Una costituzione indiscutibilmente democratica, che prevedeva il mantenimento della struttura federale dello Stato, il suffragio maschile e femminile. Si diffuse la leggenda della pugnalata alla schiena: quella secondo cui l’esercito tedesco sarebbe stato ancora in grado di vincere se non fosse stato tradito da una parte del paese.
Con la vittoria l’Italia aveva superato la prova più impegnativa della sua storia unitaria, ma restava alle prese con i mille problemi che la grande guerra aveva ovunque lasciato dietro di sé. L’economia ne risentì in quasi tutti i suoi campi (industriali, inflazione, commerciali). La classe operaia, non solo chiedeva miglioramento economico, ma reclamava maggior potere in fabbrica e manifestava, almeno in alcune frange, tendenze rivoluzionarie. Di fronte a questi problemi, la classe dirigente liberale si trovò sempre più contestata e isolata e finì col perdere l’egemonia indiscussa di cui aveva goduto fin allora. I cattolici portarono il primo e più importante fattore di novità, dando vite nel gennaio 1919 al nuovo Partito popolare italiano, con a capo don Luigi Sturzo.
L’occupazione delle fabbriche e la scissione di Livorno segnarono in Italia la fine del biennio rosso. In gran parte dell’Europa in questo periodo si inserì un fenomeno molto strano: lo sviluppo improvviso del fascismo. Il movimento fascista era nato a Milano nel marzo ’19, quando Benito Mussolini aveva fondato i Fasci di combattimento. Il nuovo movimento chiedeva audaci riforme politiche e sociali, ma nel contempo ostentava un accesso nazionalismo e una feroce avversione nei confronti dei socialisti. Per un tragico errore, i socialisti incaricati di difendere il Palazzo d’Acursio, sede del Comune, spararono sulla folla, composta in gran parte dai loro stessi sostenitori, provocando una decina di morti. Da ciò i fascisti trassero pretesto per scatenare una serie di ritorsioni antisocialiste in tutta la provincia.

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