Il dibattito sulla questione meridionale

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Testo

LA QUESTIONE MERIDIONALE

Il dibattito sulla questione meridionale ebbe inizio nel 1873, quando un deputato al Parlamento di Roma, usò per la prima volta questo termine. Per il Nord, ed in particolare per i Piemontesi, era difficile capire quale era la dimensione globale del problema del Mezzogiorno e ritenevano anzi, che si trattasse di un malessere di dimensioni locali, causato dai briganti, dallo schiavismo dei bambini, dai latifondisti, dalla fame, dalla mancanza di acqua e dalla disperazione sociale delle città. Al momento dell’Unità d’Italia però si scopriva che essa era comunque divisa in due parti che non avevano i presupposti per integrarsi spontaneamente: il Sud era essenzialmente agricolo e non aveva prodotti che interessassero al Nord, che nell’età giolittiana aveva sviluppato l’industria siderurgica, idroelettrica e meccanica. Inoltre, il Sud, non poteva fornire neanche i suoi prodotti agricoli, perché il Nord aveva un’agricoltura ancora più sviluppata. Se nel settore provato il Sud tentò di sviluppare culture pregiate come viti, olivi ed agrumi, il Nord era da tempo anche dedito all’allevamento bovino. Investire nel Mezzogiorno, in un’economia precaria come quella del neonato Stato Italiano, avrebbe dunque significato, una scelta politica lungimirante ma senza immediato “ritorno” economico. Stante il sistema elettorale, la situazione politica non poteva che fotografare le differenze tra il “paese legale” ed il “paese reale”, senza capacità di intervenirvi, dato che la classe politica era in buona parte espressione degli interessi di un ceto sostanzialmente omogeneo in cui i latifondisti del Sud e gli agrari del Nord tendevano a mantenere i propri privilegi, non certamente a migliorare la situazione dei contadini e dei braccianti. Gli stessi partiti di opposizione, infine, erano espressione della classe operaia, nata al Nord con il nascere dell’industria moderna e dei braccianti padani, assai differenti per situazione culturale e sociale da quelli meridionali.
La “questione meridionale”, trovò comunque, nel periodo giolittiano un parziale sfogo, sia con qualche tentativo, ma poco organico, di investimenti per lo sviluppo dell’industria, sia grazie all’aumento dell’occupazione nella burocrazia che dava spazio ai giovani in possesso di qualche titolo di studio. Come conseguenza, nello stesso Mezzogiorno, si allargava la distanza tra la disperazione dei contadini, che avevano come unica prospettiva l’emigrazione e l’assorbimento del vecchio notabilato nel pubblico impiego e nelle professioni. Il Sud dava all’Italia, figure di intellettuali (Verga, Pirandello ecc..) ed migranti, assieme ad un contributo fiscale proporzionalmente superiore a quello del ricco Nord: un patrimonio immenso di cui ben poco sarebbe ritornato all’origine. Nell’Italia di fine Ottocento la “questione sociale” non era dunque una espressione della storiografia, ma aveva significati molto concreti: fame, mortalità infantile, analfabetismo, emigrazione, accattonaggio, vita di stenti, in cui la dignità veniva continuamente calpestata. Nel 1884 per quanto riguarda le malattie, il colera uccise 80 mila persone. Nel 1883, venne istituita la Cassa Nazionale di Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, in base a contributi valutari, lasciando però intatto il principio che l’imprenditore non aveva nessuna responsabilità verso la sicurezza dei suoi salariati; mentre il cottimo nell’industria tessile lasciava una scia di mutilati alle dita ed alle mani e nell’edilizia, i manovali lavoravano su ponteggi senza protezione né ripari e mentre nelle solfare l’attività si svolgeva in totale assenza di prevenzione degli incidenti ed in condizioni igienico-sanitarie subumane.
Nel 1886, fu emanata la prima regolamentazione del lavoro infantile, che li sottraeva, almeno sulla carta, allo schiavismo puro e semplice: i bambini sotto i dodici anni, non potevano lavorare più di otto ore, quelli minori di nove anni non potevano essere impiegati nell’industria e quelli minori di dieci anni non potevano lavorare in miniera. Nelle campagne, tanto padane quanto meridionali, il sistema di produzione agricola vedeva pochi grandi proprietari o latifondisti contro decine di migliaia di contadini o braccianti, pesantemente colpiti dall’imposizione della tassa sul macinato, mentre le “migliorie” tecniche all’agricoltura di montagna portarono a disboscare 2 milioni di ettari, condannando alla fame, una popolazione che spesso dipendeva dal bosco per l’alimentazione. La confisca e la successiva vendita dei beni ecclesiastici, intervenne poi a distruggere un’economia di sussistenza legata a miseri diritti tradizionalmente riconosciuti dalla Chiesa alle comunità rurali, di prelevare la legna caduta, raccogliere i frutti del bosco e fare pascolare le pecore.
In questo contesto, gli investimenti dello Stato nell’agricoltura, erano praticamente inesistenti: la politica di pareggio del bilancio e di ammodernamento del paese, fece sì che gli unici impegni finanziari pubblici fossero quelli per le ferrovie e per il rafforzamento dell’esercito. Qualcuno sostenne che: “L’Italia politica ha saccheggiato quella agricola”. Solo il tempo e l’evolvere delle vicende storiche avrebbero in seguito indotto cambiamenti nel modo di governare, facendo nascere tra i lavoratori, nuove e più coscienti lotte per l’affermazione dei propri diritti.

LA QUESTIONE MERIDIONALE ED IL BRIGANTAGGIO IL DIVARIO TRA NORD E SUD

Il distacco tra Nord e Sud si era già manifestato in forma gravissima sin dai primi giorni dell’Unità, con un fenomeno che investì l’intero Meridione tra il 1861 ed il 1865 : il brigantaggio.
Le sue cause erano antiche e profonde, ma la delusione creata dal passaggio garibaldino prima e dall’accentramento amministrativo poi erano i motivi più recenti di questo fenomeno.
La situazione si aggravò subito dopo la vendita all’asta dei beni demaniali ed ecclesiastici. I compratori appartenevano prevalentemente alla nuova borghesia rurale che si stava rivelando ancora più avara e tirannica dei vecchi padroni. L’aggravarsi delle condizioni dei contadini causò la ripresa dei disordini che in pochi mesi assunsero le proporzioni di una vera e propria guerriglia.
In Calabria, Puglia, Campania, Basilicata, bande armate di briganti iniziarono nell’estate del 1861 a rapinare, uccidere, sequestrare, incendiare le proprietà dei nuovi ricchi. Si rifugiavano sulle montagne ed erano protetti e nascosti dai contadini poveri; ma ricevettero aiuto anche dal clero e dagli antichi proprietari di terre che tentavano, per mezzo del brigantaggio, di sollevare le campagne e far tornare i Borboni.
Ma chi erano i briganti e per che cosa combattevano? Il grosso delle bande era costituito da braccianti, cioè contadini salariati esasperati dalla miseria; accanto ad essi lottarono anche ex garibaldini sbandati, ex soldati borbonici e numerose donne,
audaci e spietate come gli uomini. All’inizio essi combatterono per due scopi l’uno in contrasto con l’altro:
- ottenere la riforma agraria che Garibaldi non aveva concesso deludendole loro speranze;
- impedire la realizzazione dell’Unità d’Italia per far tornare i Borboni, cioè proprio quei Re che avevano sempre protetto i latifondi delle nobiltà e della Chiesa, negando ogni riforma.

A creare questa confusione agivano numerosi fattori, tutti comprensibili:

- l’odio per i nuovi proprietari, sfruttatori di manodopera come e più dei precedenti e per giunta venuti dal basso e quindi ancora più inaccettabili dell’aristocrazia, “voluta dal destino e da Dio”;
- l’incomprensione per le leggi del nuovo Stato, che apparivano non “italiane”, come dicevano i garibaldini, ma “piemontesi”, cioè altrettanto straniere quanto lo erano apparse quelle austriache ai Lombardi;
- la protezione concessa da ecclesiastici e aristocratici, necessaria i briganti per sopravvivere, ma condizionata dalla fedeltà al Re di Napoli in esilio;
- infine l’equivoco che lo Stato Italiano “laico e liberale”, fosse in realtà uno stato ateo, cioè uno stato senza-dio, pronto a distruggere le chiese e a eliminare i preti offendendo la profonda religiosità delle masse contadine meridionali.
I briganti, quindi, non furono “criminali comuni”, come pensò la maggioranza degli italiani, ma un esercito di ribelli che, all’infuori
della violenza privata, non conoscevano altra forma di lotta. Tenuti per secoli nell’ignoranza e nella miseria, i contadini meridionali non avevano ancora maturato una conoscenza politica dei loro diritti e non riuscivano ad immaginare alcuna prospettiva di cambiamento attraverso i mezzi legali.
Questa sfiducia in ogni forma di protesta e di lotta organizzata fu il nucleo della vera “Questione Meridionale”.
L’esteso fenomeno del brigantaggio ne fu solo una drammatica conseguenza.
Lo Stato Italiano rispose con una vera e propria guerra a questa rivolta sociale che, nelle sue manifestazioni ampie, durò oltre quattro anni: alle truppe già stanziate nel Sud al comando del generale Cialdini, il governo ne aggiunse altre, cosicché nel 1863 ben 120.000 soldati erano impegnati nella lotta al brigantaggio: quasi la metà dell’esercito italiano.
Nello stesso anno venne dichiarata la legge marziale: processi sommari, fucilazioni, incendi e saccheggi furono gli strumenti impiegati da Cialdini nell’opera di repressione, non solo contro i briganti, ma contro tutti i loro fiancheggiatori. Migliaia di morti in scontri armati e altrettante pene capitali o alla prigione a vita furono il tragico bilancio finale.
Nel 1865 il brigantaggio era stato praticamente sconfitto. Lo Stato aveva vinto la sua guerra, ma compiendo proprio gli errori che Cavour aveva cercato di scongiurare. Dopo la repressione e la legge marziale, la frattura tra il Sud ed il resto dell’Italia non fece che approfondirsi.
Le classi povere, soprattutto contadine, immaginarono spesso i briganti come degli eroi popolari e anche nella stampa dell’epoca furono proposte figure di briganti “buoni”.

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