Guerre d'egemonia europee

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Testo

1.1 L’ASSOLUTISMO DI LUIGI XIV
Nel 1661, dopo la morte di Mazzarino, Luigi XIV prese tutto il potere nelle sue mani, dominando l’intera scena europea per oltre 54 anni. Non fu un periodo di pace, non fu un periodo di benessere per il popolo, ma fu un periodo di gloria, legata alle gesta militari, che rafforzò la monarchia e ispirò molte iniziative del sovrano. Luigi XIV riuscì a consolidare l’egemonia continentale della Francia e si impose come modello a tutti gli altri sovrani assoluti. (il francese si impose anche come lingua parlata scritta di tutta la nobiltà dell’Europa centro-orientale).
Luigi XIV si avvalse dell’aiuto di ministri: controllore generale delle finanze (Jean-Baptiste Colbert 1619-1683 fu il principale collaboratore del re e l’ispiratore della politica economica) e gli intendenti (funzionari di origine borghese e di recente nobilitazione). Terminò anche la vendita-acquisizione e l’ereditarietà delle cariche pubbliche (venalità delle cariche).
Il «capolavoro» dell’assolutismo di Luigi XIV fu la reggia di Versailles, sia perché vi fu concentrato tutto il potere, sia per la «rappresentazione» del potere che vi si svolgeva. Il fatto che la reggia sorgesse fuori da Parigi, sottrasse la monarchia agli eventuali pericoli di sommosse cittadine. La vita a corte fu regolata da rigide regole e da un complesso cerimoniale: l’etichetta che fu la rappresentazione simbolica della nuova gerarchia del potere e della «distanza» fra il re e la nobiltà.
Per accrescere il prestigio della Francia e del suo re (che si faceva chiamare Re Sole), va inserito il patrocinio delle arti e delle scienza promosso dal re stesso e da Colbert.
Il giansenismo (ispirato da Cornelio Giansenio) fu il principale movimento di dissidenza cattolica del ‘600 e del ‘700. Riprendeva le posizioni di Sant’Agostino sostenendo che la grazia costituiva un dono divino concesso indipendentemente dai meriti. Divenuto un attivissimo centro culturale e di opposizione politica, Port-Royal fu soppresso nel 1709.
La Francia poggiava sulla lunga tradizione delle «libertà gallicane». Il gallicanesimo fu ribadito da Luigi XIV nel 1682. Luigi XIV decise di riportare il paese all’unità in materia di fede.
Nel 1685 si volle far credere che l’eresia della religione «cosiddetta riformata» fosse ormai interamente scomparsa per giustificare la revoca dell’Editto di Nantes.
1.2 MERCANTILISMO E POLITICA ESTERA FRANCESE
Luigi XIV intervenne anche in molti settori dell’economia, estendendo il suo controllo soprattutto alle attività manifatturiere e mercantili. Colbert fu l’ispiratore e l’artefice principale di questo intervento che da lui prese il nome di colbertismo che fu la più completa realizzazione del mercantilismo.
Il mercantilismo fu al tempo stesso una teoria e una politica economica con l’obiettivo di perseguire una politica commerciale che faccia «entrare» in un paese più moneta di quanta ne esca in modo che il saldo sia attivo; favorendo le esportazioni e penalizzando le importazioni. Il protezionismo (la protezione dei prodotti nazionali a scapito di quelli stranieri) servì a favorire questo risultato.
In realtà il colbertismo si rivelò un fallimento. Le compagnie commerciali fondate non furono in grado di reggere senza l’appoggio dello Stato.
Contemporaneamente ci fu il rafforzamento dell’esercito: realizzato con un’amministrazione interamente centralizzata, con il potenziamento delle strutture organizzative e l’apertura del corpo degli ufficiali ai cadetti di origine borghese.
Dal 1672 al 1678 ci fu la guerra contro le Province Unite: dopo un rivolgimento interno che portò al potere Guglielmo III d’Orange, le Province Unite volsero a loro favore le sorti del conflitto e con la pace di Nimega (1678) ottennero l’abolizione della tariffa protezionista sulle importazioni imposta dalla Francia.
1.3 LA SECONDA RIVOLUZIONE INGLESE E LA MONARCHIA COSTITUZIONALE
In Inghilterra per oltre un decennio, i poteri del re e del Parlamento rimasero in sostanziale equilibrio, ma nei primi anni ’70, cominciarono ad emergere motivi di contrasto. Carlo II appariva troppo succube di Luigi XIV che era divenuto il suo modello politico e dal quale riceveva cospicui finanziamenti.
Un altro grande problema della monarchia inglese era quello della successione Giacomo, erede designato, si era convertito al cattolicesimo. Il Test Act del 1673 stabilì l’esclusione di tutti i non anglicani dalle cariche pubbliche.
Di difficile soluzione fu quindi il problema della successione. Partigiani ad ogni costo della monarchia e avversari della successione cattolica, diedero origine a due opposti schieramenti politici, rispettivamente dei tories e dei whigs (i due «partiti» saranno destinati ad avere lunga fortuna col significato di conservatori e di liberali).
I tories erano legati alla Chiesa anglicana e alla difesa del mondo rurale; i whigs erano invece gli interpreti degli interessi commerciali e fautori della libertà religiosa, e avevano anche l’appoggio delle minoranze non conformate. Nel 1681 i tories ebbero la meglio sui whigs che avevano proposto l’esclusione di Giacomo Stuart alla successione. Alla morte di Carlo II, nel 1685, Giacomo II poté salire al trono senza difficoltà.
Nel 1688 i whigs, appoggiati dai tories, si rivolsero a Guglielmo d’Orange, perché intervenisse in difesa del protestantesimo inglese. Lo sbarco olandese in Inghilterra e la fuga di Giacomo II consentirono al Parlamento di offrire la corona inglese congiuntamente a Guglielmo e Maria.
La seconda rivoluzione inglese, vide l’installarsi (1689) di una monarchia costituzionale di nomina parlamentare, che trovò nel Bill of Rights (Legge sui diritti) il suo testo fondamentale.
Alla fine del ‘600 l’Inghilterra conobbe un’altra rivoluzione di decisiva importanza per la trasformazione del paese: la cosiddetta rivoluzione finanziaria che ebbe nella fondazione della Banca d’Inghilterra, nel 1694, il suo momento centrale. La Banca d’Inghilterra ebbe dal Parlamento la facoltà di emettere cartamoneta e di svolgere funzioni di tesoreria per lo Stato. Ma divenne soprattutto il canale privilegiato di raccolta della ricchezza privata, consentendo al governo di trovare i capitali necessari per finanziare le guerre all’estero. Guerre che avranno sempre più obiettivi commerciali; guerre che impegneranno l’Inghilterra contro la Francia per la supremazia mondiale.
1.4 LA GUERRA DI SUCCESSIONE SPAGNOLA E IL NUOVO ASSETTO ITALIANO
Dopo la guerra combattuta dalla Francia contro la Lega d’Augusta, un conflitto di ben più vasta portata era destinato ad aprirsi in relazione al problema della successione spagnola. Carlo II d’Asburgo-Spagna, era in pessime condizioni di salute e non aveva eredi. Nel 1698 Olanda, Inghilterra e Francia, trovarono un accordo sulla spartizione del grande Impero spagnolo tra i possibili eredi.
Nel 1700, luigi XIV scoprì con sorpresa che il nipote Filippo d’Angiò era stato nominato erede universale con la clausola che in caso di accettazione de due monarchie, di Francia e di Spagna, rimanessero separate. Il nuovo re, col nome di Filippo V, si insediò a Madrid (un re francese in Spagna).
Ebbe così inizio la guerra di successione spagnola (1702-1713) che oppose Francia, Spagna e Baviera a impero asburgico, Inghilterra, Olanda e altri Stati, tra cui il ducato di Savoia.
Con le paci di Utrecht (1713) e Rastatt (1714), l’Inghilterra ottenne alcuni privilegi commerciali dalla Spagna e il riconoscimento delle conquiste di Gibilterra e Minorca e di alcuni territori francesi dell’America settentrionale. I maggiori vantaggi territoriali spettarono all’Austria a spese della Spagna: i Paesi Bassi spagnoli divennero austriaci, ma fu soprattutto l’assetto della penisola italiana ad essere profondamente modificato con la fine del dominio spagnolo durato oltre un secolo e mezzo. Gli Asburgo ottennero infatti la Lombardia e Mantova, il Regno di Napoli, la Sardegna.
I Savoia videro premiata la loro politica opportunistica con l’acquisto del Monferrato e della Lomellina, ma soprattutto della Sicilia. L’abilità di Vittorio Amedeo II consentì allo Stato sabaudo di uscire dalla sudditanza francese e di affermarsi come una «piccola» potenza, decisiva per le sorti future dell’Italia.
1.5 LA FORMAZIONE DELLA PRUSSIA E IL PROBLEMA DEL BALTICO
In Germania l’ascesa della Prussia presenta qualche analogia con la vicenda dello Stato sabaudo.
Il nucleo originario della Prussia era costituito dalla Marca del Brandeburgo, concessa a Federico VI di Hohenzollern. Solo nel 1618 la Prussia era entrata a far parte dei domini dell’elettore di Brandeburgo, Alberto di Hohenzollern. Gli Hohenzollern avevano altri possessi nella Germania occidentale e nel Basso Reno, e con la pace di Vestfalia avevano ottenuto anche parte della Pomerania. Alla metà del ‘600 la frammentazione territoriale appariva come la principale caratteristica del principato elettorale, evidenziata soprattutto dalla distanza e diversità fra il Brandeburgo e la Prussia che poneva grossi problemi di accentramento e di uniformità. Federico Guglielmo il Grande Elettore tentò la soluzione di questi problemi iniziando con la formazione di un esercito permanente. Per rafforzare questo esercito fu necessario garantirsi entrate regolari, organizzando un efficiente sistema fiscale. Ben presto il Brandeburgo-Prussia fu dotato di una capace burocrazia.
Gli Hohenzollern erano calvinisti dal 1613 e questo consentì a Federico Guglielmo di accogliere in gran numero i profughi ugonotti, che trasformarono con le loro attività manifatturiere la capitale Berlino.
In politica estera, la Prussia si inserì nel conflitto fra Svezia, Danimarca e Polonia per la supremazia sul baltico. Il rafforzamento della Prussia non modificò l’orientamento dell’espansionismo svedese in direzione del baltico. Negli ultimi decenni del ‘600 Carlo XI riuscì a trasformare la Svezia in uno stato assoluto di tipo francese, anche se, agli inizi del ‘700, dovette cedere alla nascente potenza russa l’egemonia sul grande mare interno.
1.6 LA RUSSIA DI PIETRO IL GRANDE
Nella seconda metà del XVII secolo si vennero accentuando alcuni tratti caratteristici dell’organizzazione sociale russa. Il Codice del 1649 divise la società in tre ceti fondamentali e definì il carattere permanente della servitù della gleba che diedero luogo a episodi di malcontento e a rivolte urbane e rurali, tutti duramente repressi fino a quando, sia nel ‘600 che nel ‘700, furono innescate dalle rivolte dei cosacchi delle regioni sud-orientali. Pur svolgendo compiti di difesa contro i turchi e i tartari, i cosacchi miravano a mantenere la loro libertà di razziare lungo le grandi vie fluviali del Volga e del Don.
Dalla fine del ‘600, con il regno di Pietro I il Grande, ebbe inizio un periodo decisivo per il rafforzamento dell’Impero russo sia sul piano interno che su quello internazionale. Il giovane zar, si veniva formando a contatto con gli occidentali che risiedevano a Mosca. Nel 1697 partì per un viaggio di studio nell’Europa occidentale. Fu in Germania, in Olanda, in Inghilterra, a Vienna.
Nel 1698, Pietro diede inizio al suo governo assoluto e autocratico senza più ostacoli e opposizioni di sorta: obiettivo primario dello zar fu la trasformazione della Russia in un organismo militare e statale in grado di confrontarsi con i paesi più progrediti.
La necessità del rinnovamento derivava da precise esigenze militari che resero necessarie riforme amministrative e fiscali. Del resto la dura sconfitta subita a Narva nel 1700, dimostrò che la soluzione del problema militare era ormai improrogabile. Fu migliorato l’armamento e ampliate le basi di reclutamento con il contributo di tutti i ceti. L’esercito non ebbe più un’organizzazione territoriale, ma nazionale; ricevette un nuovo addestramento ad opera soprattutto di ufficiali stranieri e in breve fu in grado di opporsi agli svedesi.
Pietro dotò la Russia anche di una marina da guerra, indispensabile per operare nel Baltico che rimase l’obiettivo principale della sua politica di espansione: la Russia era infatti priva di sbocchi su mari agevolmente navigabili. Questa direttrice fu confermata dalla fondazione nel 1703, della città di Pietroburgo (che in seguito diverrà la capitale dell’Impero) difesa sul lato del mare dalla fortezza di Kronstadt.
Ispirato dall’assolutismo svedese e dal sistema fiscale francese, Pietro trasformò l’organizzazione dello Stato e potenziò l’economia con interventi di tipo mercantilistico. Nei confronti della Chiesa, lo zar intervenne affidando a un sinodo la guida della vita spirituale e il controllo delle proprietà ecclesiastiche. Nel campo educativo, promosse l’istituzione di scuole militari e di navigazione. Infine istituì un’Accademia delle Scienze nel quadro di una riorganizzazione ufficiale della cultura e di una duratura europeizzazione delle élites.
Al crollo svedese, era seguita l’ascesa della Russia e non vi erano dubbi a che spettasse, da allora in poi, l’egemonia sul Baltico.
A partire dalla seconda metà del ‘600 vi era stato un tentativo, da parte dell’Impero ottomano, di riprendere una politica di espansione: ai nemici tradizionali dell’Impero, Venezia, Austria e Polonia, si aggiunse la Russia che contrastava gli ottomani sul Mar Nero e nel Caucaso. Alla fine del ‘700, oltre ad aver subìto gravi perdite territoriali, la Turchia fu costretta a riconoscere alla Russia e all’Austria la tutela dei sudditi cristiani dell’Impero. Trova così una prima sanzione formale quella che sarebbe stata in seguito chiamata la questione d’Oriente: l’insieme dei problemi relativi al destino dei territori e delle popolazioni balcaniche.
1.7 SISTEMA INTERNAZIONALE E RAPPORTI DI FORZA
Agli inizi del ‘700 era ormai emerso un conflitto su scala mondiale tra Inghilterra e Francia. La sconfitta francese e l’affermarsi dell’egemonia coloniale inglese, furono accompagnate dalla definitiva esclusione dei paesi iberici dalla competizione e dal loro stabile inserimento nel sistema commerciale britannico. Il Portogallo era divenuto dal 1703 largamente dipendente dall’Inghilterra la Spagna aveva dovuto cedere all’Inghilterra l’isola di Minorca nelle Baleari e soprattutto Gibilterra, la posizione chiave per il controllo del passaggio tra Atlantico e Mediterraneo.
Se la rivalità oltremare fra Francia e Inghilterra fu un elemento decisivo per tutta la successiva storia non solo europea, l’Inghilterra perseguì una politica europea mirante sostanzialmente a difendere la situazione consolidatasi dopo la guerra di successione spagnola e tutelò quindi il principio dell’equilibrio fra le potenze. La Francia invece, cercò soprattutto di mantenere e consolidare il suo ruolo di principale potenza continentale e si inserì in tutte le occasioni di conflitto.
Un arco di aree forti chiude a ovest, a nord e a est due grandi aree deboli, il bassopiano tedesco-polacco e la penisola italiana: deboli soprattutto perché segnate dia una notevole frammentazione o da realtà statali tutt’altro che solide. Quasi a cavallo di queste due aree deboli, l’Austria è profondamente legata a entrambe come nucleo più forte dell’Impero germanico e come potenza egemone in Italia. Essa, però, non sarà in grado di affermare il proprio controllo su queste due zone.
In stretto rapporto con gli insuccessi politici e militari degli Asburgo, furono le modifiche intervenute nelle due aree «deboli» nel corso del ‘700: modifiche che ridussero drasticamente le dimensioni dei domini austriaci in Italia e li trasformarono profondamente in Europa centrale.
1.8 INGHILTERRA E FRANCIA
In Inghilterra si attribuisce al partito whig, una sorta di rappresentanza diretta del mondo commerciale. I contemporanei insistettero su una contrapposizione tra i whigs e i tories. La contrapposizione era stata effettivamente tale all’epoca della seconda rivoluzione e nel venticinquennio successivo. Nessun gruppo o forza politica ostacolò lo sviluppo delle attività commerciali e finanziarie, né mise mai in discussione alcuni capisaldi del sistema inglese. Sia i tories che i whigs avevano una medesima origine nell’aristocrazia terriera che deteneva saldamente un ruolo sociale egemonico. Più che in un radicale contrasto sociale, le divergenze tra i due partiti stavano nelle differenti tradizioni politiche e religiose, e nella contrapposizione di fazioni parlamentari avverse.
Vincitori delle elezioni del 1715, i whigs erano soprattutto interpreti dei princìpi della «gloriosa rivoluzione», sostenitori della monarchia costituzionale e controllata dal Parlamento, e di un governo svincolato dagli arbìtri del sovrano.
La Camera dei Comuni contava 558 membri, di cui 45 scozzesi. In genere il diritto di voto era concesso ai proprietari terrieri con una rendita minima di 40 scellini. Clientele e vincoli di parentela, dominavano ai Comuni.
Nel 1720, quando la Compagnia dei Mari del Sud fallì e scoppiò un grave scandalo, solo la consumata abilità politica e parlamentare di Robert Walpole riuscì a salvare il governo e la corte: emerse così il leader dei whigs che si impose alla guida del paese per oltre vent’anni.
Walpole cominciò a presiedere le riunioni del comitato dei ministri e a riferirne al re. Si venne così gradatamente formando la tradizione di un governo di gabinetto. Era la prefigurazione di quel passaggio dalla monarchia costituzionale alla monarchia parlamentare.
Gli anni 1720-40 furono anni di stabilità e prosperità all’interno, di pace all’esterno. Walpole risanò le finanze, adotto una politica fiscale moderata, mirò ad un’intesa con la Francia, tenne l’Inghilterra fuori dalla guerra di successione polacca. Le pressioni di quanti sostenevano una politica di maggiore impegno internazionale imposero una ripresa delle ostilità nei confronti della Spagna, la partecipazione alla guerra di successione austriaca e le dimissioni di Walpole.
L’Inghilterra si votò interamente al rafforzamento dell’impero coloniale. Campione di questa politica fu un altro whig, William Pitt, che guidò il paese ai successi contro la Francia. Il 1759 fu un anno trionfale con gli inglesi vincitori nell’Atlantico, in India, in Canada, nelle Antille.
Pitt controllò la vita politica per un periodo relativamente breve perché già nel 1761 fu costretto a dimettersi. Salito al trono nel 1760, il re Giorgio III cercò d’imporre i propri uomini contro il vecchio gruppo dominante whig e sostenne una pace moderata con la Francia.
Nei cinquant’anni che seguirono la morte di Luigi XIV, la Francia collezionò invece una serie di insuccessi in politica estera. Se la Francia rimase la maggiore potenza continentale europea, gli obiettivi di dominio oltremare, sostenuti dalla vigorosa espansione commerciale realizzata nel ventennio di tregua con l’Inghilterra, furono nettamente sconfitti.
Nei primi anni della reggenza del duca Filippo di Orléans, l’impianto della monarchia assoluta sembrò entrare in crisi. Al di là della irresolutezza di Luigi XIV, il meccanismo decisionale della monarchia francese appariva bloccato: impossibile rafforzare ulteriormente le strutture dell’assolutismo per l’opposizione dei ceti privilegiati ed anche impossibile restituire loro interamente le antiche prerogative senza minare le basi della monarchia assoluta.
1.9 L’ESERCITO PRUSSIANO E LE FORME DELLA GUERRA
Federico II e la Prussia furono i grandi protagonisti delle guerre continentali dal 1740 al 1763. Già Federico Guglielmo il Grande Elettore disponeva di 45.000 soldati. Il padre di Federico II, Federico Guglielmo I, portò gli effettivi a 80.000.
Federico II non solo proseguì il rafforzamento dell’esercito, portandolo a 195.000 uomini, ma ampliò quella organizzazione burocratico-amministrativa che aveva come obiettivo principale il mantenimento della monarchia bellica: non uno Stato con un esercito, ma un esercito con uno Stato.
Tutti gli eserciti del tempo avevano raggiunto un livello di disciplina molto alto: erano costituiti da professionisti a tutti gli effetti, e per gran parte non erano volontari.
Disciplina e addestramento avevano raggiunto i maggiori risultati nell’esercito prussiano.
Il reclutamento e l’addestramento erano difficili e costosi. La coscrizione non era obbligatoria. Le popolazioni locali non erano arruolate di regola nell’esercito, ma nella milizia, che era impiegata solo all’interno e aveva un addestramento meno rigoroso e una ferma più breve. I disertori erano numerosissimi, talora superiori al 20% degli effettivi. Difficile immaginare per questa epoca un’adesione convinta dei soldati agli obiettivi di guerra.
L’ESPANSIONE EUROPEA
2.1 LA DIVERSITÀ EUROPEA: STRUTTURE ECONOMICHE, DIRITTI DI PROPRIETÀ E TECNOLOGIE
Nella storia della civiltà occidentale, l’Europa occupa un ruolo centrale che, nel XVII secolo, appare infinitamente più potente delle Americhe, ma forse inferiore ai grandi imperi asiatici.
Quell’egemonia e quella centralità europee alle quali ci ha abituato la storia del XVIII e XIX secolo e che sembrano «naturali» vanno spiegate e collocate storicamente. Già alla fine del ‘700 l’Europa era certamente il continente più potente e più ricco. Su scala mondiale il dominio europeo durò poco più di un secolo dagli inizi dell’800 alla prima guerra mondiale, e fu contrassegnato dall’egemonia di un secolo inglese e francese.
Nel ‘900 altre potenze non europee come Stati Uniti e Giappone o solo in parte europee come l’Unione Sovietica saranno protagoniste della scena internazionale. Il lascito più importante dell’Europa occidentale al resto del mondo – il sistema economico fondato sull’industria – caratterizzerà tutte le società avanzate e innanzitutto le nuove potenze mondiali del XX secolo.
In Europa mercanti e artigiani non furono ostacolati nelle loro attività. E solo l’Europa vide il sorgere dei liberi comuni. La tutela dei diritti di proprietà garantiva l’accumulo e la possibilità di godimento delle ricchezze, costituendo così un incentivo al risparmio e agli investimenti. La possibilità di esercitare una proprietà piena e assoluta sui beni mobili e immobili, era in stretto rapporto con lo sviluppo di un mercato libero e competitivo e con le strutture atte a operare in esso, come le banche e le compagnie commerciali.
La diversità dell’Europa rispetto al resto del mondo era molto evidente anche nel campo dello sviluppo tecnologico. Diversità, ma soprattutto superiorità: nello sfruttamento dell’energia dell’acqua e del vento con le ruote idrauliche e i mulini; negli armamenti e nell’impiego della polvere da sparo in grani; nell’arte della navigazione; nel settore dell’ottica: in realtà gli occhiali consentivano quasi di raddoppiare la vita lavorativa di chiunque svolgesse un’attività a distanza ravvicinata. Più significativo ancora fu il monopolio europeo nella fabbricazione degli orologi. È nota l’importanza dell’orologio meccanico. Per David S. Landes fu l’orologio a rendere «possibile la vita cittadina come la conosciamo, a promuovere nuove forme di organizzazione industriale e a consentire agli individui di organizzare la loro vita secondo noduli razionali, più produttivi. La fabbricazione degli orologi fu, inoltre, all’avanguardia nello sviluppo della tecnologia meccanica: chi era in grado di costruire i grandi orologi meccanici e in seguito i piccoli orologi portatili, sarebbe riuscito a costruire ogni altra cosa».
Il mondo orientale aveva espresso forme di civiltà autosufficienti e si considerava superiore ai «barbari» venuti dal lontano Ovest.
Il dinamismo del capitalismo commerciale europeo riuscì a far breccia nelle chiusure degli imperi asiatici e a creare una rete di relazioni commerciali che, progressivamente, si rafforzò proprio in virtù delle continue rivalità tra i paesi europei. Il consolidamento di questo intreccio di legami economici, consentirà ad alcuni Stati europei di trasformare, alla fine del ‘700, l’espansione commerciale in egemonia militare e territoriale.
2.2 INDIA, CINA E GIAPPONE
Tra il XV e il XVII secolo, i grandi paesi dell’Asia orientale, India, Cina e Giappone, subirono importanti trasformazioni politiche. Nuove dinastie si sostituirono alle precedenti. In India e in Cina, i nuovi detentori del potere furono stranieri, giunti attraverso frontiere deboli e praticamente non sorvegliate: quelle con l’Iran per l’India, quelle del Nord per la Cina.
Nel 1526 un esercito composto da tribù afgane guidate da Babur, detto il Conquistatore, invase il subcontinente indiano dando vita all’Impero moghul. Nel corso dei secoli il potere del Sultano di Delhi era tanto decaduto che Babur riuscì a sottomettere per intero l’India del Nord.
Il vero punto di forza dell’Impero moghul era tuttavia l’esercito, composto da circa 8000 ufficiali di nobili origini. Il ruolo riconosciuto ai militari faceva sì che in ogni villaggio fossero stanziati almeno due soldati; si garantiva così un efficiente controllo sia amministrativo che di polizia.
La struttura sociale dello Stato moghul era di tipo feudale. Le attività artigianali erano molto sviluppate, nonostante tecniche di lavorazione arretrate e un sistema di produzione particolarmente dispersivo.
L’arrivo dei nuovi dominatori musulmani aveva riproposto il grave problema della convivenza tra la cultura islamica e quella indiana. Le due religioni erano infatti diverse in tutte le più importanti regole di vita, dalle tradizioni matrimoniali a quelle alimentari e mentre per l’islamismo era fondamentale «conquistare» nuovi fedeli, per l’induismo si apparteneva ad una religione per nascita.
Dalla metà del XVI sec. fino alla metà del XVII i difficili rapporti fra le due culture furono sanati. Il processo di pacificazione interna venne però interrotto dalla politica intollerante di Aurangzeb, ultimo imperatore moghul, osservante fino al fanatismo, che revocò le leggi emanate in favore degli indù provocando la loro ribellione.
Nel corso della sua millenaria storia, la Cina conobbe diverse dominazioni straniere. Dal 907 al 1368 sul trono del «Celeste Impero» si succedettero ininterrottamente imperatori «barbari». Dopo il lungo periodo di dominazione straniera si affermò nel XIV secolo la dinastia nazionale Ming che governò indisturbata fino all’ultima invasione di nomadi, provenienti dalla Manciuria.
I mancesi erano una popolazione nord-orientale che creò un potente regno, guidato dalla dinastia Qing. La debolezza del potere Ming rese piuttosto agevole la penetrazione mancese nell’Impero cinese. Con la presa di Pechino e il suicidio dell’ultimo imperatore Ming, ebbe inizio il lungo regno della dinastia Qing, destinato a durare fino al 1912.
In un primo tempo il dominio dei Qing fu improntato ad un’aspra politica di repressione, ma ben presto si avviò un processo di integrazione nella cultura cinese, soprattutto per quel che riguarda le sue forme di governo.
Il gigantesco apparato burocratico venne mantenuto intatto e così pure il sistema di reclutamento degli alti funzionari, fondato sugli esami di Stato. Attraverso questo sistema qualunque giovane educato al confucianesimo che avesse istruzione e danaro a sufficienza, poteva aspirare a entrare nell’apparato burocratico.
Il sec. XVIII fu per la Cina un periodo di prosperità, come dimostra il grande sviluppo demografico del ‘700. Questo fenomeno fu favorito dall’estensione di particolari tecniche agricole, come quella del doppio raccolto per cui, grazie ad una fittissima rete idraulica e all’attenta selezione di tipi di riso a maturazione precoce, lo stesso terreno forniva due raccolti in un anno. Anche il commercio, prosperò grazie ai provvedimenti adottati dagli imperatori Qing per agevolare i traffici.
I gesuiti da tempo erano stati accolti presso la corte imperiale anche perché accettavano la «sinizzazione» di alcuni aspetti del cattolicesimo e tolleravano che molti nuovi cristiani continuassero a venerare Confucio, l’imperatore e gli antenati in genere. Quando la Santa Sede si pronunciò a favore di domenicani e francescani, fu revocata ogni concessione ai rappresentanti cattolici e fu così compromesso l’avvenire della Chiesa cinese.
Nel XVII e XVIII secolo i contatti con l’Europa avvennero anche attraverso intensi scambi commerciali: il grande Impero esportava in Occidente tè, sete, porcellane, carta e medicinali. La corte francese prima e poi quelle di tutta Europa amarono circondarsi di oggetti provenienti dalla Cina e la passione per la morale e la filosofia cinesi fu stimolata dagli affascinanti racconti di viaggi dei padri gesuiti.
Il Giappone del XVI sec. si componeva di piccoli domini all’interno dei quali il daimyo (signore) aveva un potere assoluto, mentre si andava indebolendo il potere del mikado (imperatore) e dello shogun (colui che esercitava il governo). La situazione cambiò verso la metà del ‘500 con l’introduzione delle armi da fuoco. Si innescò allora un processo di accentramento del potere che condusse all’unificazione del paese.
Uno dei protagonisti di questa trasformazione fu Tokugawa che ottenne dall’imperatore il titolo di shogun e il diritto di trasmetterlo in via ereditaria, dando vita alla dinastia dei Meiji. Scopo principale dei Tokugawa fu quello di assicurare una pace duratura e un sicuro ordine sociale. A questo fine si praticò una politica di rigoroso isolamento; fu ridimensionato il ruolo e il prestigio della casta guerriera dei samurai. Tutte queste misure ebbero l’effetto d’infrangere la vecchia struttura feudale e d’inaugurare un nuovo tipo di organizzazione economica basato su estese aziende agricole a conduzione familiare, sul lavoro salariato e sulla formazione di un vivace mercato interno.
Tipica del periodo Tokugawa fu l’elevata concentrazione urbana che diede luogo alla formazione di una specifica cultura urbana, protagonisti della quali furono in particolare i mercanti.
2.3 GLI EUROPEI IN ASIA
Fino al XIX secolo la presenza dell’Europa in Oriente fu soprattutto di carattere commerciale con piccole basi d’appoggio, depositi per le merci, scali fortificati disseminati lungo le coste e nei punti strategici delle rotte commerciali. Nell’Oceano Indiano il XVII e il XVIII secolo videro avvicendarsi l’egemonia commerciale prima dei portoghesi, poi degli olandesi e infine degli inglesi che rimasero i dominatori dei traffici orientali.
I portoghesi diedero vita ad un impero economico di notevoli dimensioni. La scarsità delle merci europee da scambiare li costrinse ad organizzare un traffico inter-asiatico. Con gli olandesi e gli inglesi i traffici divennero ulteriormente articolati.
Nello stesso periodo ebbero un notevole sviluppo le Compagnie privilegiate. Tra se più importanti la Compagnia olandese delle Indie orientali, sorta nel 1602; la inglese Compagnia delle Indie orientali, che soppiantò l’egemonia della Compagnia olandese.
In India, la Francia tentò, attraverso la Compagnia francese delle Indie, non solo di insediare basi commerciali, ma di fondare un vero e proprio dominio coloniale. L’Inghilterra si oppose con le armi all’iniziativa francese: lo scontro tra le due potenze durò per più di vent’anni. Sconfitta la Francia, l’Inghilterra assunse l’amministrazione del Bengala e del Bihar, trasformando così quello che fino ad allora era stato un dominio commerciale in un vero e proprio possedimento coloniale. Solo dopo la metà del secolo XIX la corona britannica avrebbe assunto il controllo diretto dell’India.
Alla fine del XVIII secolo, gli inglesi si stabilirono in alcune zone costiere dell’Australia che furono dapprima adibite a colonie di deportazione e più tardi divennero colonie di popolamento.
2.4 L’AMERICA SPAGNOLA E PORTOGHESE.
Primi a giungere in America, gli spagnoli furono anche i primi a consolidare il loro impero coloniale. Alla durata del loro dominio (oltre tre secoli) va attribuita l’impronta spagnola – nella lingua, nelle tradizioni, nei modi di vita – che ha caratterizzato e ancora caratterizza gran parte dell’America centrale e meridionale.
In questo immenso impero bisogna distinguere tra territori sede di un’intensa immigrazione spagnola, come il Messico e il Perù, e altri dove gli insediamenti erano più radi. Nel primo caso, l’ampio sfruttamento delle risorse minerarie giustificava un intenso e diffuso popolamento. Nel secondo, piccoli nuclei costieri controllavano vaste zone interne, talora sconosciute e inesplorate. L’America spagnola era divisa in vicereami e, quasi a mitraglia, furono istituite le audiencias, organismi collegiali con compiti giudiziari e amministrativi.
Più graduale e più tarda fu l’organizzazione amministrativa del Brasile portoghese. Il modello fu quello spagnolo, anche in conseguenza dell’unione delle monarchie, di Spagna e Portogallo, fra il 1580 e il 1640.
Nel 1640 il governatore generale del Brasile assunse la carica di viceré, ma il vicereame fu istituito solo nel 1714. Una maggiore autonomia fu concessa ai coloni brasiliani rispetto ai creoli e meno rigido fu il monopolio commerciale della madrepatria.
Nel ‘600 e nel ‘700 il Brasile dimostrò un notevole dinamismo. Ma l’aspetto forse più significativo della colonizzazione del Brasile è che i portoghesi misero in atto su quelle terre il sistema produttivo fondato sulle piantagioni di canna da zucchero e sul lavoro degli schiavi neri.
2.5 LO STATO CRISTIANO-SOCIALE DEI GESUITI
Su tutt’altro piano, una vicenda unica e irripetuta nella conquista dell’America fu la costruzione dei cosiddetti Stati missionari.
I più attivi e risoluti nel realizzare questo disegno furono i gesuiti. Nella regione del Paraguay tra il 1610 e il 1628 furono istituite tredici comunità o riduzioni nelle quali vivevano oltre 100.000 indios, in prevalenza guaranì. Le riduzioni erano organizzate sui princìpi dell’eguaglianza sociale e della comunità dei beni.
Passate alla storia come tentativo di dar vita a forme di collettivismo economico-sociale a base religiosa o come realizzazione di uno «Stato ideale della Controriforma», le riduzioni gesuite furono per oltre un secolo e mezzo un grandioso esperimento «culturale» e sociale. Un esperimento che mirava non solo a convertire al cristianesimo popolazioni primitive, ma a educarle al lavoro agricolo e artigianale e a una nuova organizzazione di vita.
Obiettivo e condizione di sopravvivenza delle riduzioni era tenerle lontane dalla «civiltà» e controllarne le relazioni umane e commerciali. Questo filtro e questa mediazione suscitarono presto l’ostilità dei coloni europei delle zone costiere, che vedevano ostacolati i propri metodi di impiego della manodopera e le proprie regole di mercato.
2.6 METALLI PREZIOSI, PIANTAGIONI E SCHIAVI
Nell’economia del Nuovo Mondo un ruolo decisivo aveva avuto fin dall’inizio lo sfruttamento delle risorse di metalli preziosi. Dapprima fu trovato l’oro nelle sabbie dei fiumi delle Antille; ancora oro e poi argento in Messico e Perù, nel bacino di Potosì.
Se l’esportazione dei metalli preziosi dominava i rapporti con la madrepatria, altre forme di organizzazione economica definirono in maniera più duratura il quadro produttivo e sociale dell’America latina.
In alcune regioni si venivano accentuando forme di specializzazione produttiva: più significativo ancora il diffondersi delle piantagioni nelle zone insulari o aperte verso l’Oceano Atlantico, dove si coltivavano canna da zucchero, cacao, caffè e tabacco, tutti prodotti destinati all’esportazione. Il sistema delle piantagioni approdò in America latina con l’inizio della coltivazione della canna da zucchero in Brasile.
Per la coltivazione della canna sono necessari un clima caldo-umido, energia idrica o animale, capitali per i mulini di spremitura e una larga disponibilità di manodopera da impiegare soprattutto nella raccolta. I portoghesi disponevano dei limitati capitali occorrenti per le macchine o potevano contare su anticipi dalla madrepatria; il Brasile forniva tutto il resto, ma non la manodopera.
Così cominciarono ad essere importati schiavi neri dall’Africa. Gli schiavi erano in primo luogo vittime delle guerre fra gli «Stati» africani o fra le tribù, conflitti ai quali si associavano spesso gli europei.
I portoghesi, che controllavano nel ‘500 questa realtà di scambio, imbarcavano schiavi in Africa, li vendevano in America e riportavano in Europa le navi cariche di zucchero o di melassa: così i traffici legati allo zucchero si configuravano come un commercio triangolare che sarebbe divenuto caratteristico dell’intero sistema mercantile atlantico.
L’economia delle piantagioni presto si diffuse dal Brasile ad altre zone dell’America: le Antille prima e in seguito l’America del Nord. La forzata immigrazione degli africani non solo produsse durature trasformazioni nelle strutture sociali ed economiche, ma diede luogo ad una vera e propria rivoluzione etnica e demografica. Quando fu possibile tracciare un quadro statistico della popolazione americana, risultò che i neri di origine africana erano il ceppo più numeroso in Brasile e di gran lunga maggioritario nelle Antille.
2.7 IL COMMERCIO ATLANTICO E LA SUPREMAZIA INGLESE
Lo sfruttamento monopolistico delle ricchezze del Nuovo Mondo prevedeva che le colonie spagnole in America potessero avere relazioni commerciali solo con la madrepatria. Questo sistema chiuso fu costantemente attaccato e aggirato dalla pirateria e dal contrabbando, praticati soprattutto da inglesi, olandesi e francesi. I guadagni elevatissimi del contrabbando consentivano di affrontarne tutti i rischi e di pagare le cospicue spese di corruzione. Le numerose isole delle Grandi e Piccole Antille costituivano punti di appoggio ideali per le azioni dei pirati e dei contrabbandieri e, dal momento che gli spagnoli riuscirono a controllare solo le più grandi fra esse, durante il ‘600 olandesi, inglesi e francesi si insediarono stabilmente in questa area.
I possessi inglesi e francesi in America settentrionale seguirono tempi ed itinerari diversi dal momento che, in quanto colonie di popolamento, non furono pienamente inseriti nelle stesso circuito e nella stessa dinamica commerciale. Dalla fine del ‘600 gli inglesi, rafforzarono la loro presenza a sud e a nord e unificarono i loro possedimenti, subentrando a svedesi e olandesi. Strettamente controllate dal governo centrale furono le colonie che la Francia possedeva nell’America del Nord, nei territori del Canada.
Agli inizi del ‘700 l’espansionismo commerciale e territoriale francese era destinato a scontrarsi con l’Inghilterra non solo in America ma nell’Atlantico e in India. L’ipotesi che l’esaurirsi della discendenza diretta del ramo spagnolo degli Asburgo portasse un re di origine francese sul trono di Spagna e che la Francia di Luigi XIV si impadronisse dell’immenso Impero spagnolo, minacciando gli interessi inglesi, aveva già definito i contorni del conflitto.
Le colonie inglesi del Nord America, inoltre, entrarono stabilmente nel sistema di commercio triangolare che caratterizzava l’Atlantico. Questa nuova presenza allargava l’area controllata dagli inglesi e rafforzava un predominio che aveva le sue origini non solo in un maggior dinamismo commerciale, ma anche in una potenza navale superiore a quella di ogni altro avversario e quindi in grado di prevalere in ogni occasione di conflitto. Tale predominio è evidente per gran parte del ‘700. In uno dei settori più importanti, quello del commercio degli schiavi, l’Inghilterra ottenne il monopolio della tratta verso le colonie spagnole e lo mantenne fino al 1750.
Ma l’Inghilterra era la prima potenza commerciale anche per molti altri prodotti coloniali di cui curava lo smercio in un’estesa attività di riesportazione.
Con i travolgenti successi sui francesi nella guerra dei Sette anni, l’egemonia inglese si definì e si convalidò. Con il trattato di Parigi l’Inghilterra otteneva dalla Francia tutto il Canada e i territori della Louisiana a est del Mississippi; la Florida dalla Spagna, che da parte sua riceveva in cambio la Louisiana a ovest del Mississippi con Nuova Orléans. L’Atlantico era ormai sempre più un mare inglese.
2.8 ESPANSIONE EUROPEA E IMPERIALISMO ECOLOGICO
È difficile non condividere l’entusiasmo degli uomini del ‘700 per tutto ciò che era legato ai successi delle attività mercantili europee: un entusiasmo e un interesse testimoniato dalle numerose opere contemporanee sul commercio della Gran Bretagna. Ma proprio nel corso del ‘700 prese l’avvio una nuova fase del dominio commerciale europea: accanto ai tradizionale generi di consumo voluttuario, l’Europa importerà sempre più materie prime destinate ad alimentare il nuovo slancio industriale.
Fu lo sviluppo economico fondato sull’industria a domicilio e quello fondato sulla fabbrica ad accentuare le differenze fra l’Europa e i grandi imperi asiatici. In confronto a un’Asia stazionaria nei redditi, l’Europa diventerà sempre più ricca.
Un aspetto meno noto e in genere trascurato del grande processo di espansione europea è quello relativo alla sua dimensione ecologica. La sua analisi consente di parlare di un vero e proprio imperialismo ecologico. Gli agenti di questo imperialismo furono in primo luogo i virus e i batteri delle malattie europee che si diffusero non solo dove il contatto con le popolazioni indigene era costante, ma anche dove fu più occasionale e limitato. L’affezione più letale fu il vaiolo, ma si rivelarono micidiali gran parte delle malattie infettive, anche quelle non mortali per gli europei come il morbillo.
Sempre dall’Europa provennero le cosiddette erbe infestanti caratterizzate da una straordinaria capacità di riprodursi. Nelle zone a clima temperato i semi portati dal vento crearono sterminate distese di trifoglio, piantaggine, gramigna, ecc. urono queste erbe che accompagnarono e alimentarono il moltiplicarsi senza limiti del bestiame europea. L’America, l’Australia e la Nuova Zelanda non conoscevano i cavalli, i bovini, le pecore, le capre e i maiali: tutte queste specie si diffusero a velocità crescente, soprattutto allo stato brado.
Fattori climatici e ambientali simili a quelli europei, uniti alla scarsità e debolezza delle popolazioni indigene, favorirono la dilagante emigrazione europea a partire dai primi decenni del XIX secolo nelle zone temperate a nord e a sud dei tropici.
SOCIETÀ ED ECONOMIA NELL’EUROPA PRE-INDUSTRIALE
3.1 DEMOGRAFIA, STRUTTURE FAMILIARI E MENTALITÀ
Col termine ancien régime si indica il sistema politico esistente in Francia prima della rivoluzione del 1789. L’espressione ancien régime è divenuta sinonimo di società tradizionale, pre-industriale, anteriore cioè a tutti i fenomeni di modernizzazione economica e politica determinati dalla rivoluzione industriale e dalla rivoluzione francese.
Considerata tendenzialmente immobile, la società di ancien régime subì in realtà nel corso del ‘700 alcune profonde trasformazioni. Il fenomeno più ampio e rilevante fu l’avvio di una crescita demografica che non si sarebbe più interrotta. Fra il 1700 e il 1800 in Europa la popolazione passò da 118 a 193 milioni di abitanti con un incremento del 66%. In molte regioni si ridusse la mortalità, in altre questa riduzione fu accompagnata dall’incremento della natalità.
Una lucida descrizione del rapporto risorse-popolazione fu offerta nel 1798 dal Saggio sul principio di popolazione dell’economista inglese Thomas Robert Malthus, che definì anche la «legge» secondo la quale la popolazione aumentava con una progressione geometrica, le risorse si sviluppavano invece con una progressione aritmetica.
Aumentando la popolazione, diminuivano le risorse alimentari disponibili, in quanto l’agricoltura non era in grado di soddisfare la crescita della domanda. L’impoverimento della dieta alimentare, aumentava la mortalità. Ciò riduceva naturalmente la popolazione che tornava così in equilibrio con le risorse disponibili.
Un altro motivo che sta alla base della crescita demografica del ‘700 è la progressiva scomparsa del cosiddetto matrimonio tardivo. Le popolazioni dell’ancien régime si erano adattare nel corso dei secoli alle difficoltà alimentari e ambientali.
È piuttosto problematico stabilire un nesso preciso tra lo sviluppo demografico e il miglioramento delle condizioni ambientali, igieniche, climatiche, ecc.
Non è affatto chiaro perché la peste cominciò ad allontanarsi dall’Europa nel ‘700. Nello stesso periodo, mentre la peste declinava, il vaiolo ebbe il primato di pericolosità, né si attenuarono le altre tradizionali malattie endemiche come il tifo, la dissenteria, e le varie forme influenzali. La maggiore organizzazione ospedaliera non ridusse la mortalità, probabilmente anzi la accrebbe, in quanto i luoghi di cura accentuavano le probabilità di infezione e contagio. Nel 1796, Edward Jenner, scoprì l’efficacia della vaccinazione contro il vaiolo effettuata con i germi del vaiolo vaccino.
Lo sviluppo demografico fu più intenso nelle città che nelle campagne, soprattutto le capitali e le città portuali. Londra, Parigi e Napoli erano, nell’ordine, le maggiori città europee.
L’aumento della popolazione, illumina soltanto un aspetto della struttura demografica. Vi sono altri aspetti che rendono particolarmente significativa la differenza fra la società di ancien régime e la realtà contemporanea, ad esempio quelli relativi alla composizione della famiglia. Nell’età pre-industriale si ha la famiglia estesa o allargata, in cui convivono tre generazioni, dopo la rivoluzione industriale si avrà la famiglia nucleare o coniugale, formata dai soli genitori e figli.
In un primo momento si era stabilita una connessione tra il fenomeno della contraccezione e la rivoluzione francese: una diffusa scristianizzazione legata alla politica anticlericale dei rivoluzionari e la circolazione culturale favorita dal servizio militare obbligatorio avrebbero agevolato il distacco dalla Chiesa e dalla morale religiosa, che, come è noto, si opponevano ad ogni forma di controllo delle nascite. Una maggiore attenzione alla salute della donna e alla necessità di preservarla dall’eccessivo numero di gravidanze si diffuse fra i ceti superiori insieme a una riconsiderazione degli affetti coniugali; l’acquisizione di un nuovo atteggiamento nei confronti dell’infanzia contribuì a distanziare le nascite; la tutela della proprietà; l’adozione infine di elementi di valutazione e di controllo razionale della vita affettiva e sessuale.
3.2 IL MONDO RURALE, FEUDALITÀ E RIVOLTE CONTADINE
La società di ancien régime era una società fondamentalmente agricola. Non solo l’agricoltura era la principale attività economica, ma la maggioranza della popolazione era formata da contadini. Gli strati superiori della società erano costituiti da proprietari terrieri, essenzialmente nobili ma anche borghesi; e la terra era la principale fonte di ricchezza e di possibile ascesa sociale.
La proprietà terriera era per molti versi ancora di tipo feudale: era sottoposta cioè a una serie di vincoli che ne limitavano l’uso e i redditi. Nel caso in cui il contadino avesse la facoltà di vendere o trasmettere in eredità la terra coltivata, questa non era in realtà detenuta in piena e libera proprietà: dovevano invece essere corrisposti al signore dei tributi ordinari per l’uso o straordinari nei casi di vendita o successione.
Su una parte delle terre feudali vigevano alcuni diritti collettivi della comunità contadina, come quelli di pascolo, di spigolatura, di raccolta della legna, ecc.
In Francia ai censi e ai vincoli posti sui possessi contadini si aggiungevano gli obblighi di lavoro gratuito (corvées) sulle terre signorili in occasione dell’aratura, della semina o del raccolto, nonché i severi divieti di caccia e di pesca. Va detto tuttavia che in molti casi le corvées erano state sostituite da corresponsioni in denaro. Ad accrescere i poteri di controllo feudale sul mondo contadino contribuiva inoltre l’amministrazione della bassa giustizia ancora detenuta dal signore e dai suoi delegati.
Ai prelievi feudali, si sommavano anche le tasse pagate allo Stato: imposte dirette, come la taglia sulle persone o sulle proprietà, e indirette come la gabella, l’odiata tassa sul sale. Altre corvées erano dovute per la costruzione e manutenzione delle strade. Infine in Francia, doveva essere versata la decima alla Chiesa: si trattava di una quota-parte del raccolto destinata in origine al mantenimento del parroco ma spesso passata nelle mani dell’alto clero.
I contadini servi, vincolati per i loro spostamenti all’autorizzazione del signore, erano ridotti a minoranza.
Non vi era servaggio in Inghilterra, dove il regime feudale era praticamente scomparso già nel XVII secolo. In declino il feudalesimo in Spagna, ma rimanevano egualmente dure le condizioni di vita dei contadini.
In Italia meridionale e in Sicilia, i prelievi in denaro e in natura e le prestazioni personali erano così ampi da far ritenere che il regime feudale fosse particolarmente vessatorio. In pieno vigore nel Lazio, la feudalità era generalmente scomparsa nel resto dell’Italia centrale e in quella settentrionale, pur con alcune presenze, rilevanti in Lombardia e Friuli, modeste in Piemonte. I contratti agrari prevalenti in queste regioni, l’affitto e la mezzadria, si collocavano al di fuori della rendita fondiaria di tipo feudale. Rapporti di fatto senza scadenza, come le enfiteusi e la colonìa perpetua, testimoniavano la sopravvivenza delle antiche consuetudini legate all’origine feudale e ribadivano gli ostacoli frapposti a una piena proprietà contadina della terra.
Nella Germania occidentale vigeva un sistema feudale molto simile a quello francese con qualche maggiore sopravvivenza della servitù. Qui il servo-contadino, doveva ottenere il permesso del signore non solo per spostarsi, ma anche per contrarre matrimonio. Il lavoro servile e le servitù personali dominarono l’Europa orientale fino al 1848.
3.3 NUOVA AGRICOLTURA, INDUSTRIA RURALE E MANIFATTURE
La società pre-industriale era una realtà statica, dominata dalle permanenze. Ma al suo interno vedeva emergere fattori di mutamento destinati a rovesciare l’assetto tradizionale.
L’Inghilterra fu il paese in cui le strutture agrarie cambiarono più profondamente fra ‘600 e ‘700. Le trasformazioni avvennero in seguito alle recinzioni dei campi aperti e delle terre comuni e all’introduzione di nuove tecniche e colture. Il sistema a campi aperti caratterizzava nel ‘600 oltre la metà delle campagne inglese: era costituito da appezzamenti non recintati, contigui, ma in proprietà individuale, non collettiva. Le consuetudini prevedevano che, dopo il raccolto, tutti gli abitanti del villaggio potessero spigolare o inviare gli animali al pascolo. Di proprietà collettiva erano invece le terre comuni destinate al pascolo, alla raccolta di legna, ecc. i diritti l’uso di queste terre non appartenevano a tutti indistintamente, ma a quanti avevano proprietà nel villaggio. Su di esse risiedevano, in modestissime capanne, i contadini poveri e privi di proprietà.
Le enclosures significarono recinzione e privatizzazione delle terre comuni. Le enclosures miravano a una più chiara definizione della proprietà e a una coltivazione più razionale. Richiedevano investimenti e quindi capitali per le opere di chiusura e per la riconversione colturale e favorirono progressivamente la diminuzione dei piccoli proprietari.
Altro fattore di trasformazione dell’agricoltura inglese fu il superamento della rotazione triennale con l’introduzione di piante da foraggio come il trifoglio e le rape, avvicendate con i cereali. Le colture foraggere avevano la proprietà di arricchire il terreno consentendo rotazioni più lunghe e una produttività più elevata. L’allevamento diveniva una componente fondamentale dell’azienda agricola: forniva concime naturale per la terra e carne e latte per il mercato.
Rotazioni complesse, integrazione di agricoltura e allevamento, produzione per il mercato non furono una prerogativa inglese: i nuovi sistemi si diffusero nella Francia settentrionale e nella Germania nord-occidentale. Ma questa agricoltura capitalistica rimaneva un settore marginale in lenta espansione. Le innovazioni convivevano talora con la vecchia struttura feudale, sia nell’Europa occidentale che in quella orientale.
I nuovi sistemi produttivi e le innovazioni colturali incontrarono molti ostacoli alla loro diffusione.
La patata, conosciuta nel ‘500, dovette attendere gli inizi del ‘700 per cominciare a diffondersi, vincendo diffidenze e ostilità di chi la considerava dannosa alla salute. Il mais ebbe diffusione più precoce, ma egualmente lenta.
Nel ‘700 si diffusero anche altre colture. Il riso nelle zone irrigue del Piemonte e della Lombardia; il tabacco un po’ ovunque, in Olanda, Belgio, Germania, Italia. Tè, caffè, cacao rimasero prodotti di importazione.
Le campagne del ’700 erano anche sede di un’importante attività di produzione industriale eseguita a domicilio dai contadini nelle pause del lavoro e durante la stagione morta. Questa industria rurale domestica era dedita prevalentemente alle principali operazioni tessili, filatura e tessitura.
Lo sviluppo dell’industria rurale si era accentuato progressivamente i rapporto all’irrigidirsi delle corporazioni e all’affermarsi della nuova figura del mercante imprenditore. Le corporazioni di mestiere avevano norme estremamente severe sull’organizzazione del lavoro e sul reclutamento della manodopera attraverso lunghi apprendistati.
Le corporazioni corrispondevano a fasi di specializzazione e a gerarchie produttive così rigorosamente definite da rendere impossibile la mobilità del lavoro. Infine, la tradizione corporativa manteneva elevati i costi di produzione. Le campagne offrivano invece una manodopera a basso costo, utilizzabile in modo elastico, ampliandone o riducendone le dimensioni in rapporto alla domanda del mercato. Il mercante imprenditore forniva la materia prima, ritirava il prodotto finito e provvedeva a smerciarlo.
Rispetto alla fase successiva della rivoluzione industriale è forse più corretto parlare per queste attività di proto-industria o proto-industrializzazione.
Nell’Europa pre-industriale si affermò il sistema della manifattura. La manifattura è l’organizzazione del lavoro in cui un imprenditore concentra in un unico laboratorio o officina più operai che svolgono tutte le fasi del processo produttivo. Caratteristiche dell’epoca furono quelle installate negli ospizi dei poveri e dei trovatelli o nei penitenziari. La manifattura non fu mai l’organizzazione dominante e non lo fu certamente nel settore tessile. In generale si può sostenere quindi che il passaggio al sistema della fabbrica, caratteristico della rivoluzione industriale, avvenne direttamente dall’industria a domicilio e non dalla manifattura.
3.4 SOCIETÀ PER CETI E FORME DI GOVERNO
Se per la società industriale il concetto impiegato usualmente è quello di classe, per la società di ancien régime va adottato quello di ceto. Una società per ceti: una realtà caratterizzata dal prevalere, nelle stratificazioni sociali, dell’appartenenza per nascita, da una sostanziale staticità e da una strutturale diseguaglianza giuridica. Chi nasceva nobile, rimaneva tale tutta la vita; e il contadino aveva pochissime probabilità di uscire dal suo status. Solo nel clero non si accedeva per nascita. L’appartenenza a un ceto comportava il godimento di certi diritti e l’esclusione da altri. Cambiare ceto era un evento eccezionale.
La società per ceti trovava sanzione ufficiale nell’ordinamento politico di molti Stati che mantenevano rappresentanze e assemblee per ceti, tali da determinare un vero e proprio dualismo di poteri. Il sistema più noto è quello dei tre ordini francesi: clero, nobiltà, Terzo stato.
In tutta Europa il ceto dominante era la nobiltà.
Anche le organizzazioni politiche repubblicane, l'Olanda o le repubbliche aristocratiche di Genova e Venezia e quella patrizia di Ginevra, avevano strutture di governo fondate sulla diversità dei ceti e non sull’uguaglianza dei diritti politici.
Nell’Europa settecentesca convivevano numerose forme di governo: da un lato, la monarchia costituzionale inglese; dall’altro, le monarchie assolute, le repubbliche oligarchiche e patrizie.
3.5 POVERTÀ E CONTROLLO SOCIALE
Nella società pre-industriale, una percentuale elevata della popolazione era costituita da poveri. Termine che indicava i mendicanti, i vagabondi e i senza lavoro, ma anche quanti non riuscivano sempre a raggiungere, con il loro lavoro, livelli minimi di sussistenza. La povertà era considerata non solo un valore in sé, una virtù, ma anche la testimonianza di una elezione divina.
Fra il 1520 e il 1530 si determinò una profonda trasformazione che ebbe fra le sue cause innanzitutto il vistoso aumento del pauperismo, legato all’incremento demografico. Cambiando le dimensioni quantitative del fenomeno, cambiò anche l’immagine del povero, sempre più spesso indicato come possibile elemento di disordine sociale.
La povertà entrò così in un quadro di valutazioni non più solo religiose, ma di natura economica e sociale. L’assistenza aveva un costo elevato e la presenza dei poveri nel tessuto urbano rappresentava un pericolo, un rischio. Questi elementi di «calcolo» si accompagnarono allo sviluppo di un’etica del lavoro che tendeva sempre meno ad accettare chi viveva di elemosina. Si delineò la necessità di distinguere fra poveri veri e falsi, buoni e cattivi, inabili e abili al lavoro. Si punirono gli accattoni e i vagabondi e apparve essenziale imporre l’obbligo del lavoro.
Nelle città delle Fiandre e della Germania, furono attuate le prime riforme, consistenti nella realizzazione di strutture accentrate per l’assistenza, nella repressione della mendicità e nel tentativo di impiegare i poveri nei lavori pubblici. Queste iniziative non si rivelarono sufficienti e la necessità di un controllo della mendicità: poveri, vagabondi, mendicanti cominciarono a essere internati e reclusi in ospizi e ospedali appositamente costituiti. I poveri furono considerati elementi asociali, equiparati ai pazzi e alle prostitute, e fatti oggetto di un’esplicita emarginazione. Tanto sul piano produttivo che su quello dell’efficacia dei «dispositivi di controllo», la «grande reclusione» si rivelò un fallimento. Fu inoltre duramente ostacolato da quanti difendevano, per motivi religiosi e umanitari, l’antico sistema di protezione dei poveri.
Nella seconda metà del ‘700 filantropia e analisi sociale convergeranno nel tentativo di individuare più correttamente una realtà che sarà progressivamente superata solo nel corso del XIX secolo con la graduale trasformazione dei poveri in proletariato industriale.
LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA
4.1 LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA
La scienza e le concezioni politiche moderne trovano origine nei vasti mutamenti che coinvolsero tutti i campi del sapere: si ridefinirono alcuni concetti essenziali come quello di natura e di scienza e si produsse quel complesso fenomeno che va sotto il nome di «rivoluzione scientifica». La natura era stata prevalentemente considerata come un insieme di eventi ordinati finalisticamente. Quel che muta nel ‘600 è innanzitutto la maniera in cui ci si pone il problema dei fenomeni naturali. Non ci si chiede più a qual fine si determini un dato evento, ma per qual causa, in qual modo. Come si vede è proprio il concetto di natura che si è modificato. Per gli uomini di scienza del ‘600 la natura è come una enorme macchina i cui movimenti sono dettati da norme di funzionamento così come avviene in un orologio.
Secondo Aristotele l’universo è finito e geocentrico, la terra cioè occupa il centro del sistema ed è immobile, mentre gli astri ruotano intorno ad essa.
Nel 1543 un astronomo polacco, Niccolò Copernico, propose la spiegazione eliocentrica per la quale il Sole occupa il centro dell’universo mentre i pianeti, compresa la Terra, sono in moto intorno ad esso.
Già nel Rinascimento le scienze matematiche avevano acquistato una dignità mai conosciuta prima, alimentando gli studi di trigonometria, prospettiva e meccanica, e stimolando la ricerca di un rigore e di una precisione maggiori nelle diverse discipline. L’esigenza di precisione divenne uno dei caratteri specifici della nuova scienza che aspirava a liberarsi dai dati inaffidabili dell’approssimazione e a realizzare quel passaggio fondamentale dal «mondo del pressappoco all’universo della precisione».
Tra coloro che si resero artefici e protagonisti della rivoluzione scientifica, va ricordato il tedesco Giovanni Keplero che enunciò le tre leggi sul moto dei pianeti e dimostrò che le loro orbite sono ellittiche. Venne così a cadere la tradizionale distinzione tra il mondo terrestre o sublunare e l’empireo.
Ma il contributo decisivo alla costruzione della nuova scienza fisica e della nuova cosmologia venne dal pisano Galileo Galilei, che possiamo considerare il primo scienziato nell’accezione moderna del termine. Egli costruì il primo telescopio, il cannocchiale e lo puntò verso il cielo: questo gesto fu la sua prima vera «scoperta». L’uso del cannocchiale consentì a Galilei, tra il 1609 e il 1610, quella verifica sperimentale della tesi copernicana che segnò la definitiva distruzione del cosmo aristotelico. I satelliti di Giove da lui scoperti, dimostravano l’esistenza di un sistema analogo a quello Terra-Luna; le fasi di Venere indussero Galilei a concludere che tutti i pianeti, privi di luce propria, dovevano derivarla dal Sole, girando intorno ad esso. La conferma del sistema copernicano costò a Galilei la persecuzione da parte del Sant’Uffizio e la prigionia: dalle vicende legate allo scontro con il tribunale dell’Inquisizione, emerse in tutta la sua drammaticità il problema dei rapporti tra scienza e fede. Galilei mise a punto i momenti essenziali del metodo sperimentale. La portata rivoluzionaria della scienza secentesca sta proprio nell’importanza assunta dall’esperimento come metodo di prova e dall’osservazione sistematica come momento privilegiato di conoscenza dei fenomeni naturali.
Comune divenne l’esigenza di trovare, e fondare, un nuovo metodo in grado di unificare tutte le scienze verificandone i presupposti teorici. L’inglese Francesco Bacone, introdusse un nuovo metodo di indagine della natura in contrapposizione alla vecchia logica aristotelica. A questa ricerca di una disciplina universale in grado di cogliere le radici comuni della varie scienze, il filosofo e scienziato francese Cartesio offrì il contributo più significativo individuando nella matematica il fondamento metodologico dell’indagine della natura.
Nuovi orizzonti di ricerca e più ampie possibilità di applicazione nel campo delle scienze matematiche furono aperti dalla scoperta del calcolo infinitesimale o integrale a cui giunsero separatamente, alla fine del secolo, il filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz e lo scienziato inglese Isaac Newton. Newton formulò la legge di gravitazione universale per cui i corpi tendono verso il Sole e i rispettivi pianeti.
4.2 LE SCIENZE E GLI STRUMENTI
Una intensa vivacità animò gli studi delle scienze applicate per tutto il ‘600 e, in particolare, la medicina. Un notevole impulso a questa disciplina era venuto dalla pratica detta dissezione dei cadaveri praticata già nel XVI secolo da parte di anatomisti e pittori interessati agli studi di anatomia. All’inglese William Harvey si attribuisce la scoperta della circolazione del sangue in termini meccanicistici. L’invenzione del microscopio rese possibili quelle scoperte che solo l’osservazione dell’infinitamente piccolo poteva permettere di realizzare. Francesco Redi analizzò la formazione dei parassiti dalle uova, dimostrando errata la tradizionale tesi della generazione spontanea; Marcello Malpighi, che può essere considerato il fondatore dell’anatomia microscopica, completò anche l’opera di Harvey, dimostrando l’esistenza dei vasi capillari tra le arterie e le vene. Vennero individuate le leggi del moto mentre la botanica e la zoologia cominciarono a trovare la loro classificazione moderna. L’irlandese Robert Boyle diede un impulso decisivo al superamento dell’alchimia rinascimentale e alla nascita della scienza chimica.
Parallelamente alla formulazione di nuove teorie scientifiche si registrò un rapidissimo sviluppo degli strumenti tecnici e se ne definì il campo di applicazione. Essi venivano incontro all’esigenza di disporre di apparecchi di misurazione spazio-temporale che rispondessero a criteri di precisione, attendibilità e controllabilità.
Il progressivo incremento dei traffici con il Nuovo Mondo e la costante ricerca di nuove rotte e basi commerciali dettero un notevole impulso alle moderne invenzioni. Comparvero così il cronometro e il sestante, e nacque la cartografia su basi scientifiche.
Un discorso a parte merita l’introduzione dell’orologio che, solo grazie a Huygens, che inventò il pendolo e la molla spirale, raggiunse un livello di precisione tale da costituire un vero evento nella storia della tecnica.
4.3 SCIENZA E SOCIETÀ
Nel 1616 il sistema copernicano fu ufficialmente condannato; nel 1633 Galilei fu processato e costretto all’abiura
Il tradizionale dibattito sulla superiorità della teologia nei confronti della filosofia, agli inizi del ‘600 cominciava a trovare nuove strade nella definizione dei limiti precisi dei due campi d’indagine e, all’interno dell’ambito religioso, si spostava sulla questione della tolleranza. Lo scontro con i teologi e con le gerarchie ecclesiastiche divenne un aspetto significativo del dibattito sulla tolleranza religiosa e sulla possibilità di coesistenza tra culture, nazioni, Stati diversi. Nazione rappresentativa del nuovo clima culturale del XVII secolo e l’Olanda che diventò il «crocevia» dell’Europa. La Repubblica delle Province Unite accolse e difese gli esiliati di ogni paese, lingua e religione, offrì ospitalità alle minoranze politiche e religiose. Qui nacque e visse il filosofo di origine ebraica Benedetto Spinoza, autore tra l’altro del Trattato teologico-politico in cui rivendicò la libertà di pensiero e le libertà civili. Qui fu attivo il giurista Ugo Grozio, che nel suo De jure belli ac pacis gettò le basi per il diritto dei popoli.
4.4 DIFFUSIONE DELLA CULTURA E ALFABETIZZAZIONE
Secondo Martin Lutero, tutti i credenti erano sacerdoti perché tutti avevano ricevuto il battesimo. Nei paesi in cui la Riforma protestante aveva vinto, la lettura della Bibbia stimolò la diffusione dell’alfabetizzazione. Gli effetti della spaccatura tra cultura protestante e cultura cattolica furono maggiormente visibili nelle Università: i riformati crearono generalmente Università più moderne di quelle gestite dai cattolici e, in particolare, dai gesuiti cui era affidata in gran parte l’organizzazione scolastica superiore controriformistica.
Ai nobili era riservata un’educazione privata, affidata a un precettore e legata ai valori di una cultura aristocratica ed elitaria. I nuovi orientamenti educativi puntarono alla formazione personale e all’acquisizione di una scienza che permettesse di conoscere la natura e di condursi nella vita e nella società.
Il nuovo indirizzo culturale si manifestò nell’ideale di un sapere enciclopedico in grado di abbracciare tutte le scienze e legato sia all’immagine dell’uomo dominatore dell’universo, sia all’interpretazione della natura in termini matematici. Comparvero le prime enciclopedie e l’apprendimento delle lingue fu considerato la chiave di accesso a tutte le scienze e a tutte le arti. Particolarmente significativa fu l’opera del francese Pierre Bayle. Egli pubblicò in francese il Dizionario storico-critico, capolavoro enciclopedico e insieme veicolo di diffusione del pensiero moderno. Mentre da più parti si manifestava la necessità di un’istruzione scolastica estesa anche alle donne, un’attenzione sempre maggiore venne rivolta alla didattica e ai metodi di insegnamento, con il pedagogista Comenio, il principio dell’educazione per tutti divenne prioritario insieme con l’esigenza di rendere più concreto e funzionale l’insegnamento di tutte le discipline.
Le accademie, associazioni di studiosi che si occupano di ricerca nel campo scientifico e letterario, costituirono un circuito indispensabile per lo scambio intellettuale internazionale e una sede privilegiata per la realizzazione di quella tanto auspicata fratellanza universale che solo le scienze ormai sembravano poter assicurare.
Un forte incremento si registrò nel campo dell’editoria e del mercato librario.
4.5 LE NUOVE CONCEZIONI POLITICHE
L’età moderna è caratterizzata dall’emergere e dal consolidarsi dell’istituzione-Stato come forma suprema della vita associata in cui tendenzialmente «non si riconosce più altro ordinamento giuridico che quello statale, e altra forma giuridica dell’ordinamento statale che la legge». Nel corso del ‘600 si manifestò il tentativo di porre dei limiti all’assolutismo monarchico in nome di un diritto di natura preesistente alla costituzione della società e quindi inalienabile.
Fu il giusnaturalismo che scardinò definitivamente le tradizionali teorie del potere per diritto divino derivate da una concezione gerarchica e immutabile del mondo. Il giusnaturalismo ricerca il fondamento della convivenza civile in ciò che è naturale all’uomo e che è identificato con la ragione, le cui norme sono universalmente valide e superiori a qualsiasi ordinamento e anche al più alto «legislatore».
Sulla condizione dell’uomo nello stato di natura, il pensiero dei giusnaturalisti diverge da quello del filosofo inglese Thomas Hobbes che concepì lo Stato assoluto come unica garanzia di pace e antidoto alla paura della morte e alla miseria. Hobbes muove dalla convinzione che solo la legge positiva stabilisca che cosa sia giusto e ingiusto.
La teoria dello Stato esposta dal filosofo inglese John Locke è invece fondata sulla critica dell’assolutismo e sull’inviolabilità dei diritti innati dell’uomo. Per Locke, il potere politico ha la funzione di garantire e assicurare la fruizione dei diritti personali, fra cui Locke inserisce quello alla proprietà privata. Con la teoria della limitazione e della distinzione dei poteri, col diritto di resistenza e di ribellione, nonché con l’attenzione al tema della tolleranza, Locke pose le basi del futuro liberalismo.
Il deismo contrapponeva la religione naturale o razionale alle religioni positive o storiche, ritenendo che si potesse parlare di Dio solo nei termini indicati dalla ragione. La considerazione della ragione come arbitra anche delle questioni religiose costituì una premessa per l’affermarsi delle tendenze razionalistiche e delle teorie liberali che si manifesteranno più chiaramente nell’Illuminismo.
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