Dalle origini all'epilogo: secondo conflitto mondiale

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LA II GUERRA MONDIALE
ORIGINI E RESPONSABILITA’
Gli undici mesi che vanno dalla conferenza di Monaco del 1938 allo scoppio della seconda guerra mondiale, 1 settembre 1939, mostrarono come la “falsa pace” negoziata a Monaco fra Hitler e le potenze democratiche non fosse che il rinvio di uno scontro ormai inevitabile.
Mentre nell’estate del 1914 il conflitto europeo era stato occasionato da un singolo evento tragico e imprevedibile come l’attentato di Sarajevo, nell’estate di venticinque anni dopo si può dire che la guerra fosse nell’aria.
Per la seconda guerra mondiale la questione delle responsabilità e molto meno controversa di quanto non sia per la prima.
Non vi sono dubbi sul fatto che a provocare il conflitto fu la politica di conquista e di aggressione della Germania nazista. Anche se ciò non significa che le altre potenze fossero immuni da errori o colpe.
Le democrazie occidentali si erano illuse, a Monaco, di aver placato la voracità dalla Germania con la cessione dei Sudeti, monti che si trovano al confine tra Cecoslovacchia e Germania.
In realtà già nell’ottobre del 1938, Hitler aveva pronti i piani per l’occupazione della Boemia e della Moravia, ossia la parte più popolata e sviluppata della Cecoslovacchia. L’operazione vera e propria scattò solo nel marzo del 1939 e fu facilitata dal progressivo sfaldamento della compagine statale cecoslovacca, indebolita dalla perdita dei Sudeti e minata dalla lotta tra le diverse nazionalità. Mentre la Slovacchia si dichiarava indipendente con l’appoggio dei tedeschi, Hitler dava vita al protettorato di Boemia e Moravia, facente parte integrante del “Grande Reich”.
La distruzione dello stato cecoslovacco determinò una svolta nell’atteggiamento delle potenze occidentali. Fra il marzo e il maggio 1939 Gran Bretagna e Francia diedero vita ad una vera e propria offensiva diplomatica, volta a contenere l’aggressività delle potenze dell’Asse con una rete quanto più possibile estesa di alleanze. Patti di assistenza militare furono stipulati con Belgio, Olanda, Grecia, Romania e Turchia, ma più importante di tutti fu quello con la Polonia, che costituiva il primo obbiettivo delle mire espansionistiche tedesche, già in marzo infatti, Hitler aveva rivendicato il possesso di Danzica e il diritto di passaggio attraverso un “corridoio” che avrebbe unito la città al territorio tedesco.
L’alleanza fra Inghilterra, Francia e Polonia, conclusa fra marzo e aprile, costituiva una risposta a queste minacce e significava che le potenze occidentali erano disposte alla guerra pur di impedire che la Polonia facesse la fine della Cecoslovacchia. Il radicalizzarsi della contrapposizione fra la Germania e gli anglo-francesi tolse ogni residuo spazio di manovra all’Italia.
Mussolini cercò dapprima di contrapporre alle iniziative di Hitler una propria iniziativa unilaterale come l’occupazione del piccolo regno d’Albania nell’aprile del 1939 considerato una base per una possibile ulteriore penetrazione nei Balcani. L’operazione ebbe il solo e unico risultato di accrescere la tensione fra l’Italia e le democrazie occidentali.
IL PATTO D’ACCIAIO E IL PATTO RUSSO SOVIETICO

Nel maggio 1939, Mussolini, convinto che l’Italia non potesse restare neutrale nello scontro che si andava profilando e sicuro della superiorità della Germania nazista, decise di accettare le pressanti richieste tedesche di trasformare il generico vincolo dell’Asse Roma-Berlino in una vera e propria alleanza militare chiamata significativamente “patto d’acciaio”.
Il patto stabiliva che, se una delle sue parti si fosse trovata impegnata in un conflitto per una causa qualsiasi, perciò anche in veste di aggressore, l’altra sarebbe stata obbligata a scendere in campo a suo fianco.
La principale incognita era costituita a questo punto dall’atteggiamento della Russia. Un’adesione sovietica alla coalizione antitedesca avrebbe probabilmente bloccato i piani di Hitler.
I sovietici si convinsero che i governi occidentali non avevano intenzione di offrire nulla in cambio dell’aiuto russo e così cominciarono a prestare maggiore attenzione alle offerte di intesa che stavano intanto giungendo da parte di Hitler fino a che il 23 agosto del 1939 i ministri degli esteri tedesco e sovietico firmavano a Mosca un patto di non aggressione fra i due paesi.
L’annuncio dell’accordo fra i due regimi ideologicamente contrapposti rappresentò uno dei più grandi colpi di scena nella storia della diplomazia di ogni tempo e fu accolto in tutto il mondo con stupore e indignazione.
Si tratto in realtà di un gesto di spregiudicato realismo, che assicurava da ambo le parti considerevoli vantaggi.
l’URSS non solo allontanava temporaneamente la minaccia tedesca dai suoi confini, guadagnando tempo prezioso per la sua preparazione militare, ma otteneva anche mediante un “protocollo segreto” un riconoscimento delle sue aspirazioni territoriali nei confronti degli stati balcanici, della Romania e della Polonia di cui si di cui si prevedeva la spartizione.
Dal canto suo Hitler era costretto a modificare la sua strategia di fondo, rinviando lo scontro col nemico storico della Russia sovietica, ma intanto poteva risolvere la questione polacca, di cui nel maggio del 1939 erano già pronti i piani d’invasione, senza correre il rischio di una guerra su due fronti.
LO SCOPPIO DEL CONFLITTO
Il 1° settembre del 1939, le truppe tedesche attaccavano la Polonia. Il 3 settembre Gran Bretagna e Francia dichiaravano guerra alla Germania, mentre l’Italia, il giorno stesso dello scoppio delle ostilità dichiara la “non belligeranza”.
La seconda guerra mondiale cominciava così come una continuazione della prima.
Molto simili erano la posta in gioco le cause di fondo: il tentativo della Germania di affermare la propria egemonia sul continente europeo e la volontà di Gran Bretagna e Francia di impedire questa affermazione.
Simile era anche la tendenza del conflitto ad allargarsi fuori dai confini europei, ma questa volta l’estensione del teatro di guerra sarebbe stata ancora maggiore ed ancora più rivoluzionarie le conseguenze sugli equilibri internazionali.
Rispetto al primo conflitto mondiale, il secondo vide inoltre accentuarsi il carattere “totale” della guerra.
Lo scontro ideologico fra i due schieramenti fu il più aspro e radicale e dunque più ampia fu la mobilitazione dei cittadini con o senza uniforme.
Nuove tecniche di guerra e nuove armi furono impiegate anche fuori dai campi di battaglia e le conseguenze sulle popolazioni civili furono più tragiche che in qualsiasi guerra del passato.
Le prime settimane di guerra furono sufficienti alla Germania per sbarazzarsi della Polonia e per offrire al mondo un’impressionante dimostrazione di efficienza bellica.
L’offensiva tedesca, accompagnata da una serie di micidiali bombardamenti
aerei, ebbe facilmente ragione di un esercito antiquato e mal guidato.
Fu questa la prima applicazione della “guerra-lampo”, un nuovo metodo di guerra che si basava sull’uso congiunto dell’aviazione e delle forze corazzate affidando a queste ultime il peso principale dell’attacco.
L’impiego su vasta scala dei carri armati e delle autoblindo e il loro raggruppamento in speciali reparti meccanizzati rendevano possibile la “guerra di movimento”, e consentivano, in caso di successo di impadronirsi in pochi giorni di territori molto vasti, tagliando fuori gli eserciti nemici dalle loro fonti di rifornimento e così in breve tempo Varsavia e tutta la parte occidentale della Polonia capitolò sotto i duri colpì della Germania nazista, la parte rimanente della Polonia, quella orientale, venne in breve tempo, come da accordo occupata dai sovietici.
L’Europa visse, durante la guerra di Polonia, una fase di trepida attesa che certo non giovò alle truppe alleate, mentre consentì ai tedeschi di riorganizzare le forze prima dello scontro decisivo.
Mentre le armi tacevano sul fronte occidentale, il teatro di guerra spostava si spostava inaspettatamente nell’Europa del nord.
Questa volta fu l’URSS a prendere l’iniziativa, attaccando il 30 novembre la Finlandia colpevole di aver rifiutato alcune rettifiche di confine.
La campagna si rivelò però più difficile del previsto, i finlandesi resistettero per più di tre mesi infliggendo notevoli perdite agli aggressori.
Nel marzo del 1940 la Finlandia dovette cedere alle richieste sovietiche, conservando tuttavia la sua indipendenza.
A questo punto fu di nuovo la Germania a cogliere tutti di sorpresa e a prevenire ogni eventuale mossa anglo-francese nel Nord-Europa lanciando il 9 aprile 1940 un improvviso attacco alla Danimarca e alla Norvegia.
La Danimarca si arrese senza combattere, la Norvegia al contrario oppose una certa resistenza, aiutata anche da un tardivo sbarco alleato nel Nord.
Ma ancora una volta l’azione tedesca si rivelò incontenibile nonostante la relativa esiguità delle forze impiegate.
Nella primavera del 1940 Hitler controllava buona parte dell’Europa centrosettentrionale. I tempi erano maturi per scatenare l’attacco ad occidente.
L’INVASIONE DELLA FRANCIA
L’offensiva tedesca sul fronte occidentale ebbe inizio il 10 maggio del 1940 e si risolse nel giro di poche settimane in un nuovo travolgente successo, tale da far ritenere che il conflitto fosse prossimo a concludersi con la vittoria della Germania.
L’esercito francese, in particolare, era il più numeroso e il più armato d’Europa e disponeva di una forte aviazione e di ingenti forze corazzate.
A provocare la sconfitta degli alleati dunque non fu un’inferiorità di uomini o mezzi, ma furono gli errori dei comandanti francesi, ancora legati a una concezione statica della guerra e fin troppo fiduciosi nell’efficacia delle fortificazioni difensive costituite dalla famosa “Linea Maginot”, che fra l’altro copriva solo il fronte franco-tedesco, lasciando scoperto il confine con Belgio e Lussemburgo da dove in realtà veniva la minaccia più seria.
Infatti i tedeschi iniziarono l’attacco violando la neutralità dei piccoli stati confinanti quali Olanda, Belgio e Lussemburgo.
Fra il 12 e il 15 maggio, dopo aver attraversato rapidamente la foresta delle “Andrenne” ritenuta dai francesi invalicabile dai carri armati, i reparti corazzati tedeschi sfondarono le linee nemiche nei pressi di “Sedan”, poi dilagarono in pianura e puntarono verso il mare, chiudendo in una sacca molti reparti francesi e l’intero corpo di spedizione inglese, appena sbarcato sul continente.
Solo un momentaneo rallentamento dell’offensiva consentì alle poche rimanenti forze britanniche, assieme a circa 100.000 fra belgi e francesi, un difficile e drammatico reimbarco alla volta dell’Inghilterra.
La sosta tedesca era dovuta in parte all’esigenza di riorganizzare le forze in occasione del definitivo attacco alla Francia, in parte ad un calcolo politico di Hitler che voleva lasciarsi aperta la strada di un accordo con la Gran Bretagna.
Per gli inglesi la ritirata rappresentò comunque la salvezza, o almeno la possibilità di continuare la lotta.
Ma per la Francia, fiaccata nel morale oltre che nell’efficienza bellica, la sconfitta era ormai irreparabile.
Il 14 giugno i tedeschi entravano a Parigi, mentre interminabili colonne di profughi si riversavano verso sud, dove nel frattempo si era formata la repubblica di “Vichy”, uno stato filotedesco che comprendeva tutto il sud-ovest della Francia, guidato dal maresciallo Philippe Pètain, da tempo schierato su posizioni di destra.
Il crollo militare della Francia e l’avvento di Pètain segnarono anche la fine della terza repubblica, nata settanta anni prima da un’altra catastrofe bellica quella subita da Napoleone III a Sedan.
Il 9 luglio l’assemblea nazionale, riunita a Vichy (nuova capitale della repubblica), si spogliava dei suoi poteri, affidando al presidente del Consiglio il compito di promulgare la nuova costituzione che si basava sui principi Hitleriani.
Come molti dei suoi concittadini di parte conservatrice, Pètain attribuiva la responsabilità della sconfitta non agli errori dei comandi militari, ma alla classe dirigente repubblicane e al sistema democratico-parlamentare.
La “rivoluzione nazionale” promossa da Pètain col diffuso consenso dell’opinione pubblica passiva e smarrita, desiderosa soprattutto di tenersi fuori dalla guerra, si risolse così in un ritorno alle antiche tradizioni come colto dell’autorità, difesa della religione e della famiglia, esaltazione retorica della piccola proprietà e del lavoro nei campi, organizzazione sociale di stampo corporativo.
L’INTERVENTO ITALIANO
Nell’estate del 1939, l’Italia era stata colta di sorpresa dallo scoppio improvviso quanto inaspettato della guerra e così all’inizio delle ostilità non aveva potuto far altro che dichiarare la propria “non belligeranza”, giustificando l’inadempienza agli impegni del patto d’acciaio con l’impreparazione ad affrontare una guerra di lunga durata.
In effetti, l’equipaggiamento delle forze armate già scarso e antiquato, era stato ulteriormente impoverito dalle imprese in Etiopia e in Spagna.
Insufficienti erano anche le materie prime, per le quali l’Italia dipendeva cronicamente dalle importazioni estere.
Il crollo repentino della Francia valse però a spazzar via le ultime esitazioni di Mussolini che deciso a non consentire che l’Italia restasse spettatrice del conflitto e a vincere le resistenze di quei settori della classe dirigente che fini ad allora si erano mostrati meno favorevoli alla guerra come il re, i gerarchi, gli industriali e gli stessi vertici militari.
Anche l’opinione pubblica, prima avversa alla guerra e all’alleanza con Hitler, cambiò idea di fronte a una vittoria da ottenersi con pochissimo sforzo; lo stesso Mussolini, in privato parlò di qualche migliaio di morti da gettare sul tavolo della pace.
Il 10 giugno 1940, dal balcone di palazzo Venezia, il duce annunciava a una folla plaudente l’entrata in guerra dell’Italia contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’occidente.
L’offensiva delle alpi, la prima operazione di guerra italiana, sferrata il 21 giugno in condizioni di netta superiorità numerica contro un avversario praticamente già sconfitto, il 22 giugno la Francia firmò l’armistizio con la Germania, si risolse però in una grande prova di inefficienza: la penetrazione in territorio francese fu limitatissima e le perdite relativamente ingenti.
L’armistizio subito richiesto dalla Francia venne firmato il 24 giugno e prevedeva solo qualche minima rettifica di confine, oltre alla smilitarizzazione di una fascia di territorio francese profonda 50Km.
Le cose non andarono meglio contro gli Inglesi, nel Mediterraneo la flotta italiana subì, in luglio, due sconfitte da quella britannica sulle coste della Calabria e nei pressi di Creta.
In Africa settentrionale, l’attacco lanciato in settembre dal territorio libico contro l’Egitto dovette ben presto arrestarsi per mancanza di mezzi corazzati.
Un’offerta di aiuto da parte di Hitler fu respinta da Mussolini secondo il quale l’Italia doveva combattere una sua guerra, parallela a quella tedesca e non coincidente con essa.
Una guerra che le forze armate italiane non erano però in grado di combattere, come gli avvenimenti dei mesi successivi avrebbero dimostrato.
LA BATTAGLIA D’INGHILTERRA
Dal giugno del 1940, la Gran Bretagna era rimasta sola a combattere contro la Germania ed i suoi alleati.
A questo punto Hitler sarebbe stato disposto a trattare, a patto di vedersi riconosciute le conquiste, ma ogni ipotesi di tregua trovò ostacolo nella classe dirigente britannica e in particolare nel primo ministro Winston Churchill, insediatosi nel maggio ’40 e da sempre deciso fautore di una linea intransigente contro le pretese espansionistiche tedesche.
I sacrifici annunciati da Churchill in un celebre discorso nel quale rendeva consapevoli i concittadini che la vittoria avrebbe avuto un alto prezzo di “sangue, travagli, lacrime e sudore”, ben presto divennero una dura realtà.
All’inizio di luglio Hitler dette il via al progetto dell’invasione dell’Inghilterra, con l’operazione “Leone marino”, con la quale voleva sfruttare il più dotato contingente aereo per compensare l’inferiorità navale per colpire il nemico sul proprio territorio, per minarlo nelle capacità produttive e nel morale.
Per circa tre mesi la Luftwaffe effettuò continue incursioni, prima contro obbiettivi militari, poi contro i principali centri industriali, compresa Londra, che fu ripetutamente bombardata; gli attacchi furono però efficacemente contrastati dalla contraerea e dagli aerei da caccia della Royal Air Force (RAF), che si valeva tra l’altro di un innovativo sistema di avvistamento radar.
All’inizio dell’autunno apparve chiaro che, nonostante le perdite umane e le distruzioni materiali subite, l’Inghilterra non era stata piegata e così l’operazione Leone marino fu rinviata a tempo indefinito.
La tenace resistenza inglese aveva ottenuto un successo determinante, soprattutto dal punto di vista psicologico, imponendo alla Germania la prima battuta d’arresto dall’inizio del conflitto.
IL FALLIMENTO DELLA GUERRA ITALIANA
Nell’ottobre del 1940 l’Italia attacca la Grecia dall’Albania, per ragioni di concorrenza con la Germania, che aveva invaso la Romania, ma l’inadeguata preparazione, la carenza di mezzi e di equipaggiamento e la resistenza molto più dura del previsto, costrinse l’esercito a rientrare in Albania.
Il capo di stato maggiore Badoglio fu costretto a dimettersi e nel paese si diffuse una crisi di sfiducia, alimentata anche dai contemporanei insuccessi in Africa, dove gli Inglesi erano passati al contrattacco e grazie alla loro superiorità di mezzi corazzati avevano in pochi mesi conquistato la Cirenaica.
Mussolini fu così costretto ad accettare l’aiuto della Germania, i quali reparti erano equipaggiati con moderni mezzi corazzati e comandati da un brillante stratega della guerra di movimento, il generale Erwin Rommel.
L’Asse lanciò così una forte controffensiva che portò in breve tempo a riconquistare i territori sottratti.
Fu un altro durissimo colpo per il prestigio dell’Italia, ormai costretta a rinunciare ad ogni sogno di guerra parallela e ridotta ovunque a recitare il ruolo di alleato subalterno.
Anche nei Balcani i fallimenti italiani dovettero essere colmati dall’intervento tedesco e così nell’aprile 1941 la Yugoslavia e la Grecia, attaccate simultaneamente da truppe tedesche ed italiane, furono rapidamente travolte, mentre gli inglesi, che in marzo erano sbarcati nella penisola ellenica, furono costretti a ritirarsi.
A questo punto, restando aperta solo il fronte nordafricano, dove gli inglesi erano avvantaggiati solo nella superiorità navale, Hitler non aveva più rivali in Europa e poté così concentrare gli sforzi bellici verso l’obbiettivo più ambito, la conquista dello spazio vitale ad Est ai danni della Russia.
L’ATTACCO ALL’UNIONE SOVIETICA
L’attacco tedesco all’Unione Sovietica dell’inizio dell’estate 1941 ebbe come risvolto il riavvicinamento dell’URSS comunista alle democrazie occidentali, rompendo la politica di equidistanza con il nazismo fino ad allora messa in atto.
Stalin non si aspettava un così precoce attacco, per cui l’avvio dell’Operazione Barbarossa non trovò grande resistenza e le truppe tedesche, affiancate anche da un piccolo contingente italiano, l’ARMIR, mandato in tutta fretta da Mussolini, ansioso di partecipare attivamente alla crociata antibolscevica, raggiunsero in breve tempo le vicinanze di Mosca.
Ma l’attacco decisivo verso la capitale fu sferrato all’inizio di ottobre e fu bloccato a causa del sopraggiungere del maltempo, che rese impraticabile la maggior parte delle strade, rallentando il movimento degli automezzi e favorendo la disperata resistenza russa.
I russi poterono quindi riorganizzarsi e sferrare una potente controffensiva che costrinse i contingenti dell’Asse a ritirarsi nelle pianure conservando però vasti territori di grandissima importanza economica, quali l’Ucraina, la Russia Bianca e le regioni baltiche.
Hitler aveva mancato l’obbiettivo di mettere fuori causa l’URSS ed era costretto a tenere immobilizzato sulle sconfinate pianure russe buona parte del suo esercito a dover far fronte alla controffensiva russa sempre più aggressiva, guidata personalmente da Stalin che seppe mobilitare il sentimento patriottico del popolo russo e al freddo inverno russo ormai alle porte.
Attingendo ad in serbatoio umano che sembrava inesauribile e riorganizzando la produzione industriale nelle regioni ad Est del Volga, la Russia riuscì a compensare le spaventose perdite subite, circa tre milioni di uomini, 20.000 carri armati e 15.000 aerei nei primi tre mesi di guerra.
Così anche la guerra meccanizzata si trasformava in guerra di usura, in cui l’elemento decisivo era costituito dalla capacità di compensare più rapidamente la perdite.
In una guerra del genere, così come era accaduto nel primo conflitto mondiale la Germania era destinata a perdere il suo vantaggio iniziale, dovuto alla superiorità tecnica e strategica.
L’AGGRESSIONE GIAPPONESE E IL COINVOLGIMENTO DEGLI STATI UNITI
Allo scoppio del conflitto, gli Stati Uniti avevano ribadito la linea di non intervento negli affari europei mantenuta negli anni fra le due guerre.
Ma, una volta rieletto alla presidenza per la terza volta (caso unico negli USA) nel novembre 1940 Roosevelt si impegnò in una politica di sostegno della Gran Bretagna, rimasta sola a combattere contro la Germania.
Nel maggio 1941 gli Stati Uniti ruppero definitivamente le relazioni diplomatiche con le forze dell’Asse.
Gli USA mettevano a disposizione delle nazioni in contrapposizione alla Germania materiale bellico e con questa politica, che tendeva a fare degli Stati Uniti un arsenale delle democrazie, si poneva in rotta di collisione con le potenze dell’Asse. Il 14 giugno 1941 si incontrarono su una nave da guerra a largo delle coste di Terranova Roosevelt e Churchill che dettero vita alla famosa “Carta Atlantica”: un documento in otto punti, in cui i due stati ribadivano la condanna dei regimi nazifascisti e fissavano le linee di un nuovo ordine democratico da costruire a guerra finita.
Il coinvolgimento degli USA in un conflitto che stava diventando sempre di più antifascista sembrava già a questo punto inevitabile.
A trascinare gli Stati Uniti nel conflitto fu l’aggressione improvvisa subita nel pacifico da parte del Giappone, la maggiora potenza dell’emisfero orientale e il principale alleato di Italia e Germania, cui era legato dal settembre 1940 dal “Patto tripartito” e già impegnato dal 1937 in una guerra contro la Cina, il Giappone aveva profittato del conflitto europeo per allargare le sue mire espansionistiche a tutto il sud est asiatico.
Quando, nel luglio 1941, i giapponesi invasero l’Indocina francese, Stati Uniti e Gran Bretagna reagirono decretando il blocco delle esportazioni verso il Giappone, paese benché industrialmente sviluppato, privo di materie prime, che si trovò a questo punto di fronte ad una scelta: piegarsi alle richieste delle potenze occidentali che esigevano il ritiro delle truppe dai territori dell’Indocina e della Cina, o scatenare una nuova guerra per conquistare nuovi territori ricchi di materie prime.
Il governo giapponese, dominato dalle correnti belliciste, scelse la strada per la guerra.
Il 7 dicembre 1941, l’aviazione giapponese attaccò, senza previa dichiarazione di guerra, la flotta statunitense ancorata a “Pearl Harbor”, nelle Hawaii, distruggendone buona parte.
Nei mesi successivi, approfittando della temporanea superiorità navale conquistata nel Pacifico, i giapponesi raggiunsero di slancio tutti gli obbiettivi che si erano, nel maggio 1942 controllavano le Filippine, la Malesia, la Birmania, l’Indonesia ed erano in grado di minacciare l’Australia e l’India costringendo la Gran Bretagna a distogliere forze preziose dal medio oriente.
Pochi giorni dopo l’attacco a Pearl Harbor, anche la Germania e L’Italia dichiaravano guerra agli Stati Uniti fu così che il conflitto divenne veramente mondiale.
LA MASSIMA ESPANSIONE DELL’ASSE
Nella primavera-estate del 1942, le potenze del patto Tripartito raggiunsero la loro massima espansione territoriale.
Il Giappone dominava incontrastato su tutto il Sud-est asiatico, vaste zone della Cina e su molte isole del pacifico.
In Europa le forze dell’Asse di nuovo all’offensiva in Russia, controllavano, direttamente o indirettamente, un territorio di circa 6 milioni di chilometri quadrati con oltre 350 milioni di abitanti.
Attorno a Germania e Italia ruotavano alleati minori quali Ungheria, Romania, Bulgaria, Slovacchia, Serbia e la Francia di Vichy; in Olanda, in Norvegia e in Boemia governavano alti commissari tedeschi.
Ai due lati del blocco e al suo estremo settentrionale c’erano Spagna, Turchia e Svezia, formalmente neutrali ma di fatto incluse nella sfera politico economica dell’Asse.
Sia la Germania che il Giappone cercarono di costruire nelle zone sotto il loro controllo un “nuovo ordine” basato sulla supremazia della nazione eletta e sulla rigida subordinazione degli altri popoli alle esigenze dei dominatori.
Mentre però il Giappone si appoggiò più ai movimenti indipendentisti locali, la Germania non concesse nulla alle esigenze di indipendenza e di autogoverno dei popoli ad essa soggetti.
Un trattamento particolarmente duro e inumano fu riservato ai popoli slavi, considerati inferiori e destinati, secondo i progetti di Hitler, ad una condizione di schiavitù: tutta l’Europa orientale doveva diventare una colonia agricola del “Grande Reich”, ogni traccia di industrializzazione e di urbanizzazione doveva essere cancellata e ogni forma di istruzione superiore bandita.
Le élite dirigenti e gli intellettuali a cominciare da quelli appartenenti al partito comunista dovevano essere sterminati fisicamente.
Circa 6 milioni di civili sovietici e 2 milioni di polacchi, senza contare gli ebrei, morirono durante il conflitto per i maltrattamenti gli stenti e le esecuzioni di massa.
Ma la persecuzione più orribile e più spietata fu quella consumata contro gli ebrei, da sempre considerati da Hitler come il nemico principale.
In tutti i paesi occupati dai nazisti, in particolare in quelli dell’Europa Orientale dove le comunità israelitiche erano più numerose, gli ebrei vennero prima confinati nei ghetti e poi addirittura deportati nei compi di sterminio nazisti, i lager, situati per lo più in località della Polonia Occidentale e in Germania, dai nomi destinati a diventare tristemente famosi: Auschwitz, Buchenwald, Dachau e molte altre.
Qui i deportati ebrei venivano sfruttati fino alla consunzione fisica, usati talora come cavie per esperimenti medici e, se non erano in grado di lavorare, eliminati nelle camere a gas.
La soluzione finale del problema ebraico, progettata e avviata da Hitler a partire dal 1941 e affidata alle cure delle SS, prevedeva infatti la pura e semplice eliminazione degli ebrei.
Fra i 5 e i 6 milioni di israeliti, provenienti da ogni parte d’Europa, scomparvero così negli anni di guerra.
Il sistema di sfruttamento, di terrore e di sterminio pianificato costruita dai tedeschi nell’Europa occupata portò alla Germania notevoli vantaggi immediati: una riserva inesauribile di forza lavoro gratuita, un flusso continuo di materie prime, un enorme prelievo di ricchezza e di beni di consumo che permise ai cittadini tedeschi di mantenere, almeno fino al 1943, un livello di vita molto più elevato di quello degli altri popoli europei.
LA SVOLTA DELLA GUERRA
Fra il 1942 e il 1943 l’andamento della guerra subì una svolta definitiva su tutti i fronti. I primi segni di inversione di tendenza si ebbero nel Pacifico, dove la spinta offensiva dei giapponesi fu fermata dagli americani.
Tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, un mutamento nei rapporti di forza si verificò anche nell’Atlantico, dove i tedeschi avevano condotto fino ad allora un’efficace guerra sottomarina contro i convogli che trasportavano armi e approvvigionamenti dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna.
Gli alleati riuscirono a limitare notevolmente le perdite grazie soprattutto a nuove invenzioni tecniche e al perfezionamento di quelle già esistenti come il radar, le bombe di profondità, i razzi antisommergibili, e grazie ad una migliore organizzazione tattica, che consisteva nel concentrare le forze nella difesa dei convogli anziché disperderle in una ricerca casule, e spesso inutile, dei sommergibili nemici.
Ma l’episodio decisivo nella svolta del conflitto si verificò in Russia. In agosto i tedeschi iniziarono l’assedio di “Stalingrado”, sul punto nodale della difesa russa nel settore sud-est e città simbolo che portava il nome di Stalin. Nel novembre 1942 dopo mesi di durissimi combattimenti, strada per strada, casa per casa, i sovietici contrattaccarono efficacemente sui fianchi dello schieramento nemico di cui faceva parte anche la spedizione italiana ARMIR, e chiusero i tedeschi ed i loro alleati in una morsa mortale.
Anziché autorizzare la ritirata Hitler ordinò la resistenza ad oltranza, sacrificando così un’intera armata che all’inizio di febbraio , fu costretta ad arrendersi.
Per i tedeschi quello di Stalingrado rappresentò il più grave rovescio subito dall’inizio della guerra.
Per i sovietici e per gli antifascisti di tutto il mondo, Stalingrado divenne immediatamente un simbolo di riscossa, il segno più evidente della svolta intervenuta nel corso della guerra.
Negli stessi anni in cui i tedeschi e sovietici combattevano attorno a Stalingrado, un’altra decisiva battaglia vedeva l’esercito britannico impegnato nel deserto del nord Africa contro il contingente italo-tedesco del generale Rommel che era giunto ad “El Alamein” a soli 80 Km da Alessandria.
A fine ottobre il generale Montgomery, comandante delle forze britanniche, poteva lanciare la controffensiva disponendo di una notevole superiorità in uomini e mezzi.
Ai primi di novembre gli italo- tedeschi avevano perso la battaglia e cominciavano la lunga ritirata che li avrebbe portati, in tre mesi, a ripercorrere a ritroso tutto il litorale fino alla Tunisia.
Frattanto nel novembre 1942, un contingente alleato era sbarcato in Algeria e in Marocco.
Le truppe dell’Asse prese da due fuochi dovettero arrendersi, nel maggio 1943, alle preponderanti forze alleate.
Una volta chiuso il fronte nordafricano, con la definitiva cacciata di italiani e tedeschi, gli angloamericani potevano prepararsi ad attaccare le fortezze d’Europa.
LO SBARCO IN SICILIA E LA CADUTA DELL’ITALIA FASCISTA
Tovatisi a combattere dalla stessa parte più per scelta altrui che per propria volontà, gli angloamericani e i sovietici si posero subito il problema di elaborare una strategia comune per sconfiggere le potenze fasciste.
Lo fecero per la prima volta nella conferenza che si tenne a Washington fra il dicembre 1941 e il gennaio 1942, nella quale tutte le 26 nazioni in guerra contro il patto Tripartito fra le quali oltre alle tre grandi USA URSS e Gran Bretagna, c’erano anche i paesi del Commonwealth e numerosi rappresentanti degli stati occupati dai tedeschi, sottoscrissero il patto detto delle “Nazioni Unite”: i contraenti si impegnavano a tener fede ai principi della “Carta Atlantica”, a combattere le potenze fasciste, a non concludere armistizi o paci separate.
L’impegno comune però non bastava però a cancellare né le divergenze ideologiche ne i contrasti strategici.
Il contrasto più grave riguardava i tempi e i modi con cui procedere all’apertura di un “secondo fronte” in Europa.
Stalin lo avrebbe voluto subito, possibilmente nell’Europa del Nord, per alleggerire la pressione tedesca all’URSS.
Churchill, invece, voleva prima chiudere la partita in Africa e pensava ad un successivo sbarco nell’Europa del Sud. Prevalse alla fine il punto di vista inglese.
Nella “conferenza di Casablanca” in Marocco nel gennaio 1943 inglesi e americani decisero che, una volta chiuso il fronte africano, lo sbarco sarebbe avvenuto in Italia, considerato l’obbiettivo più facile, sia per la vicinanza della Sicilia dalle coste della Tunisia, sia per ragioni politico – militari: lo stato di crisi in cui versavano le forze armate italiane e lo stesso regime fascista.
Nella stessa conferenza fu deciso che il conflitto si sarebbe concluso solo con la “resa incondizionata”.
La campagna in Italia ebbe inizio il 12 giugno 1943 con la conquista dell’isola di Pantelleria.
Un mese dopo, il 10 luglio, i primi contingenti anglo – americani sbarcavano in Sicilia e in poche settimane si impadronivano dell’isola, mal difesa dalle truppe italiane, ormai convinte dell’inevitabilità della sconfitta.
Anche la popolazione locale non oppose alcuna resistenza ed anzi accolse gli alleati come liberatori.
I successi alleati provocarono la caduta del regime fascista, che aveva già da tempo, fino dagli scioperi operai del marzo 1943, perso la fiducia popolare.
Mussolini fu invitato dal Re a dimettersi e il 25 luglio fu arrestato, lasciando la carica di capo del governo all’ex comandante delle forze armate Pietro Badoglio.
L’annuncio della caduta di Mussolini fu accolto dalla popolazione con esultanza e l’apparato fascista, che per vent’anni aveva riempito la scena politica italiana, si dissolse nel nulla.
Inizialmente Badoglio proclamò che non sarebbe cambiato nulla nell’impegno bellico italiano, ma il 3 settembre, dopo trattative segrete con gli anglo – americani, firmò l’armistizio, reso noto solo l’8 settembre, in coincidenza con lo sbarco alleato ad Anzio.
L’armistizio e la conseguente fuga del Re e del governo a Brindisi provocarono lo sbandamento delle truppe italiane ed il paese cadde nel caos completo, diventando oltretutto il campo di battaglia principale tra tedeschi e alleati.
I tedeschi si sentirono traditi e infierirono più volte in modo brutale sulla popolazione e sui resti dell’esercito (più di 600.000 soldati furono deportati).
LA RESISTENZA E LA LOTTA POLITICA IN ITALIA
Le conseguenze dal disastro dell’8 settembre si ripercossero anche sull’andamento della campagna d’Italia.
Attestatisi su una linea difensiva, la “Linea Gustav”, che andava da Gaeta a poco a sud di Pescara e che aveva il suo punto nodale nella zona di cassino, i tedeschi riuscirono a bloccare l’offensiva alleata fino alla primavera dell’anno successivo.
A partire dal dell’autunno 1943, l’Italia fu non solo divisa di fatto da un fronte, ma anche spezzata da due entità di stati distinte, in guerra l’una contro l’altra.
Mentre nel sud il vecchi stato monarchico sopravviveva con il suo governo e la sua burocrazia, esercitando la sua sovranità sotto controllo alleato, nell’Italia settentrionale il fascismo risorgeva dalle sue ceneri sotto la protezione degli occupanti nazisti.
Il 12 settembre 1943, un commando di aviatori e paracadutisti tedeschi liberò Mussolini dalla prigionia di campo imperatore sul Gran Sasso.
Pochi giorni dopo, il duce annunciò la sua idea di dar vita, nell’Italia occupata dai tedeschi, a un nuovo stato fascista, la “Repubblica Sociale Italiana” (RSI), a un nuovo partito “Fascista Repubblicano” e ad un nuovo esercito che continuasse a combattere a fianco degli antichi alleati.
La RSI che stabilì la sua capitale a Salò si proponeva di combattere contro gli artefici del “tradimento” del 25 luglio: monarchici e badogliani e fascisti moderati.
L’unica funzione effettivamente svolta dal governo repubblicano fu quella di reprimere e combattere il “Movimento Partigiano” che si stava sviluppando nell’Italia occupata.
Le prime formazioni armate di partigiani si raccolsero sulle montagne dell’Italia centro-settentrionale dopo l’8 settembre e nacquero dall’incontro di piccoli movimenti antifascisti già attivi nel paese e militari sbandati che non volevano consegnarsi ai tedeschi.
I partigiani agivano soprattutto fuori dai centri abitati, con attacchi improvvisi ai reparti tedeschi e con azioni di sabotaggio e di disturbo.
Ad ogni attacco i tedeschi rispondevano con spietate rappresaglie: particolarmente feroce fu quella messa in atto a Roma, nel marzo 1944 quando, in risposta ad un attentato che aveva causato la morte di 32 militari tedeschi, furono fucilati alle “Fosse Ardeatine” 335 detenuti, ebrei, antifascisti e militari badogliani.
Dopo una prima fase di aggressione spontanea e spesso casuale i gruppi di partigiani si andarono ad organizzare in brigate, più organizzate e legate con i partiti antifascisti fra cui il “Partito d’Azione” (PDA) di tendenze socialiste e la “Democrazia Cristiana” (DC).
Subito dopo il 25 luglio si formò anche il “Partito Librale” (PLI) e rinacque il “Partito Repubblicano” (PRI).
Quanto ai “Comunisti”, da sempre presenti nel paese con nuclei clandestini e già attivi negli scioperi di marzo, riuscirono a ricostruire buona parte del loro gruppo dirigente.
Nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre, gli alti rappresentanti dei sei partiti reazionari più importanti (PCI, PSIUP, DC, PLI, PDA e la “Democrazia del lavoro” appena fondata da Ivanoe Bonomi) si riunirono a Roma e si costituirono in “Comitato di liberazione nazionale” (CLN), incitando la popolazione alla lotta e alla resistenza per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni.
I partiti antifascisti si proponevano così come guida e rappresentanza dell’Italia democratica, in contrapposizione non solo agli occupanti tedeschi ma anche allo stesso sovrano, corresponsabile della dittatura e della guerra e al governo Badoglio di cui il CLN chiese la sostituzione.
Il contrasto fra CLN e governo fu sbloccato solo nel marzo 1944 dall’inattesa iniziativa del leader comunista “Palmiro Togliatti”, giunto in Italia dall’URSS dopo un esilio durato quasi vent’anni.
Appena sbarcato a Napoli ,Togliatti, scavalcando la posizione ufficiale del CLN, propose di accantonare ogni pregiudizio contro il re e contro Badoglio e di formare un governo di unità nazionale capace di concentrare le sue energie nella lotta contro il fascismo.
La scelta togliattiana, criticata dai socialisti e gli azionisti, consentì comunque di formare il primo governo di unità nazionale, presieduto sempre da Badoglio e comprendente i rappresentanti del CLN.
Da parte sua Vittorio Emanuele III si impegnò, nel 1944 poco dopo la liberazione Roma e Firenze, a trasmettere i suoi poteri al figlio Umberto, in attesa che a guerra finita fosse il popolo a decidere la sorte dell’istituzione monarchica.
Nel 1944 l’avanzata angloamericana dopo aver stroncata la linea Gustav e successivamente la “Linea Hitler” venne frenata dalla costruzione di una nuova linea: la “Linea Gotica” compresa fra Rimini e La Spezia.
L’offensiva riprese solo nella primavera del 1945 e portò al conclusivo cedimento delle forze tedesche e alla riconquista definitiva e dell’Italia.

LE VITTORIE SOVIETICHE E LO SBARCO IN NORMANDIA
Fra il 1943 e il 1944, mentre gli angloamericani erano impegnati nella lunga campagna d’Italia, i sovietici riprendevano l’iniziativa sul fronte orientale.
Dopo aver respinto nel luglio 1943 l’ultimo attacco tedesco, l’Armata rossa iniziò una lenta ma inarrestabile avanzata che si sarebbe conclusa solo nel maggio 1945 con la conquista di Berlino.
Le vittorie sovietiche, ottenute a prezzo di un’eccezionale sforzo organizzativo e di un’enorme sacrificio di vite umane, consentirono all’Unione Sovietica di accrescere notevolmente il suo peso contrattuale in seguito alla “Grande Alleanza”.
Il nuovo ruolo dell’URSS emerse chiaramente nel dicembre 1943 alla conferenza di Teheran, la prima in cui i tre presidenti alleati Roosvelt, Stalin e Churchill si incontrarono personalmente.
Questa volta Stalin ottenne dagli angloamericani l’impegno, da tempo sollecitato, per uno sbarco in forze sulle coste francesi, da attuarsi nella primavera del 1944.
Si trattava di un’operazione rischiosa, anche perché i tedeschi avevano munito tutta la zona costiera con imponenti fortificazioni difensive.
Per attuare il piano, che precedeva lo sbarco sulle coste settentrionali della Normandia, furono necessari n lungo lavoro di preparazione ed un’eccezionale spiegamento di mezzi, tale da assicurare agli alleati che agivano sotto comando unificato del generale Eisenhower una schiacciante superiorità aeronavale.
“L’Operazione Overlord”, questo il nome in codice dello “Sbarco in Normandia”, scattò all’alba del 6 giugno 1944, preceduta da un’impressionante serie di bombardamenti e da un nutrito lancio di paracadutisti.
Nonostante l’accanita resistenza tedesca, gli attaccanti riuscirono a far sbarcare in territorio francese, nelle successive 4 settimane, oltre un milione e mezzo di uomini.
Alla fine di luglio, dopo due mesi di combattimenti, gli alleati riuscirono a sfondare le linee tedesche e a dilagare nel nord della Francia.
Il 25 agosto, gli angloamericani e i reparti di De Gaulle entravano a Parigi, già liberata dai partigiani.
L’esercito tedesco logorato dalla tattica suicida imposta da Hitler, che pretendeva ovunque la resistenza ad oltranza, era in piena crisi.
Ma però, per una serie di errori dei comandanti alleati l’offensiva si arrestò e i tedeschi poterono riorganizzare le forze su un linea molto vicina al confine del 1939. Il crollo del Terzo Reich era però soltanto rinviato.
LA FINE DEL TERZO REICH
Nell’autunno 1944 la Germani poteva considerarsi ormai virtualmente sconfitta.
Il fronte dei suoi alleati si stava sfaldando: la Romania aveva cambiato schieramento, seguita a breve distanza dalla Bulgari, tra agosto e ottobre Finlandia e Ungheria avevano chiesto l’armistizio all’URSS e sempre in ottobre i russi ed i partigiani jugoslavi erano entrati in Belgrado, mentre gli inglesi erano sbarcati in Grecia.
Il territorio del Reich non era ancora stato toccato da eserciti stranieri, ma era sottoposto a continui bombardamenti da parte degli alleati, che disponevano ormai del dominio dell’aria.
Ma malgrado le 900.000 tonnellate di bombe piovute nel 1944, che avevano seminato il terrore nella popolazione, Hitler rifiutava ogni ipotesi di resa, continuando ad illudersi di poter rovesciare la situazione bellica, grazie anche all’impiego delle nuove armi segrete, quali i razzi telecomandati V1 e V2, che furono in effetti lanciati contro le città inglesi, ma con risultati tutt’altro che decisivi.
Inoltre sperava che l’innaturale e fragile alleanza tra URSS e potenze occidentali si spezzasse da un momento all’altro.
Nel frattempo a Yalta i tre grandi tornarono ad incontrarsi nel febbraio 1945; in questa occasione fu stabilito, tra l’altro, che la Germania una volta sconfitta sarebbe stata divisa in quattro zone di occupazione e sottoposta a una radicale misura di denazificazione.
Mentre i grandi discutevano ad Yalta, era già scattata l’offensiva finale che, nel giro di pochi mesi avrebbe portato al crollo del terzo Reich.
A metà gennaio, dopo un’ultima disperata controffensiva tedesca nelle Ardenne, gli alleati riprendevano l’iniziativa su tutti i fronti.
I sovietici, dopo aver conquistato Varsavia, attraversavano il restante territorio polacco e, in febbraio, erano già a poche decine di chilometri da Berlino.
Frattanto gli angloamericani attaccavano sul Reno e penetravano nel cuore della Germania incontrando, per la prima volta dall’inizio della guerra, una scarsissima resistenza.
Il 25 aprile le avanguardie alleate raggiungevano l’Elba e si congiungevano con i sovietici, accerchiando Berlino.
Contemporaneamente il CLN lanciava l’ordine di insurrezione generale contro il nemico in ritirata.
Mussolini, che tentava di fuggire in Svizzera, travestito da soldato tedesco, fu catturato e fucilato a Dongo dai partigiani e il suo corpo fu esposto impiccato per i piedi a piazzale Loreto, a Milano, insieme ad altri gerarchi fascisti.
Il 30 aprile, mentre i russi stavano entrando a Berlino, Hitler si suicidò nel bunker sotterraneo dove era stata trasferita la sede del governo, lasciando la presidenza del Reich all’ammiraglio Karl D(nitz, che chiede immediatamente la resa, firmata il 7 maggio nel quartier generale alleato di Reims.
La guerra europea si concludeva così dopo cinque anni e sei mesi dall’inizio, mentre in Estremo Oriente, dove il Giappone continuava a combattere.
LA SCONFITTA DEL GIAPPONE E LA FINE DELLA II GUERRA MONDIALE
A partire dal 1943, nonostante la priorità accordata sul fronte europeo, gli Stati Uniti avevano iniziato una lenta riconquista delle posizioni perdute nel Pacifico, valendosi di una superiorità che si faceva sempre più netta man mano che l’industria statunitense dispiegava tutto il suo enorme potenziale.
Decisivo fu soprattutto l’apporto delle grandi portaerei, capaci di trasportare fino a cinquanta apparecchi, e dei bombardamenti strategici effettuati con le cosiddette “Fortezze volanti” che, dalla fine del 1944 cominciarono a bombardare incessantemente il territorio nipponico.
Nell’estate 1945 gli alleati, ormai liberi da impegni bellici in Europa, erano pronti a portare l’attacco al territorio nemico.
Un nemico che però continuava a combattere con eccezionale accanimento, rifiutando di arrendersi anche nelle condizioni più disperate e facendo ampio ricorso all’azione dei “Kamikaze”, aviatori suicidi che si gettavano sulle navi nemiche con i loro aerei carichi di esplosivo.
Fu a questo punto che il nuovo presidente americano “Henry Truman”, che successe Roosvelt morto il 12 aprile 1945, decise di impiegare contro il Giappone la nuova “Arma totale”, la bomba a fissione nucleare o “Bomba Atomica”, che ara stata appena messa a punto da un gruppo di studiosi e sperimentata per la prima volta in luglio nel deserto del Messico.
La decisione di Truman serviva innanzitutto ad abbreviare una guerra che si preannunciava ancora
lunga e sanguinosa, ma aveva anche lo scopo di offrire al mondo e soprattutto agli alleati-rivali russi una dimostrazione della potenza americana.
Il 6 agosto 1945, il bombardiere americano “Enola Gay” sganciava la prima bomba atomica sulla città di Hiroshima.
Tre giorni dopo l’operazione fu ripetuta a Nagasaki.
In entrambi i casi le conseguenze furono spaventose, non solo per il numero dei morti (100.000 a Hiroshima e 60.000 a Nagasaki) e per la distruzione totale della città, ma anche per gli effetti di lungo periodo su quanti erano stati contaminati dalle radiazioni.
Il 15 agosto dopo che l’URSS, aveva anch’essa dichiarato guerra al Giappone, l’imperatore Hiroito offri agli alleati la rasa senza condizioni.
Con la firma dell’armistizio, il 2 settembre 1945 si concludeva così il secondo conflitto mondiale.

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