Dall'età della Restaurazione alla sinistra di Crispi

Materie:Riassunto
Categoria:Storia
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Testo

L’IMPOSSIBILE RESTAURAZIONE
I problemi dell’Europa postnapoleonica
Caduto Napoleone, le monarchie vincitrici cercarono di ridisegnare l’Europa sconvolta dalla Rivoluzione e dal dominio napoleonico. Vi erano due ordini di problemi:
- Sul piano internazionale, si dovevano ridefinire i confini dei diversi stati europei;
- sul piano interno, si doveva impostare un rapporto governanti/governati in grado di garantire l’ordine.
Il nuovo ordine europeo: il congresso di Vienna
Il primo problema fu risolto dal congresso di Vienna, che tra il 1814 e il 1815 vide riuniti i rappresentanti delle principali potenze europee: Austria, Russia, Gran Bretagna e Francia che, nonostante la sconfitta, poté partecipare grazie al principe di Talleyrand. Le deliberazioni del congresso si ispirarono a due princìpi fondamentali:
- Quello di equilibrio, in cui la sovranità dei territori fu restituita, dove possibile, ai monarchi regnanti prima delle conquiste napoleoniche, considerati “LEGITTIMI”.
L’impossibile Restaurazione
Con il congresso iniziò l’età della Restaurazione, che va dal 1815 fino alle rivoluzioni del 1848. Il termine “RESTAURAZIONE” indica la volontà di un ripristino dei rapporti sociali e politici propri della società di Antico Regime.
Il ritorno all’assolutismo
Anche sul piano interno la Restaurazione fu parziale. Austria, Prussia e Russia ritornarono all’assolutismo monarchico. In Francia, col princìpio di legittimità, ritornò Luigi XVIII e concesse una Costituzione ispirata al modello inglese mantenendo in gran parte la legislazione napoleonica. Fu compiuta questa scelta perché risultò evidente l’impossibilità di riportare la Francia alla situazione dell’Antico Regime.
La Restaurazione in Italia
Sempre per il princìpio di legittimità, la penisola italiana fu riportata allo stato di frantumazione politica precedente all’età napoleonica. L’Italia era così predisposta: il regno Lombardo-Veneto sotto il domino austriaco attraverso un viceré, il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla a Maria Luisa d’Asburgo-Lorena, moglie di Napoleone e sorella del re d’Austria; il Ducato di Modena, Reggio e successivamente quello di massa e Carrara a Francesco IV d’Asburgo-Este; il Granducato di Toscana a Ferdinando III d’Asburgo-Lorena, fratello dell’imperatore austriaco; il Regno di Sardegna ai Savoia con Vittorio Emanuele I; ritornò lo Stato della Chiesa al centro e il Regno delle due Sicilie nell’Italia meridionale con Ferdinando I, politicamente legato all’Austria.
La Santa alleanza
Nonostante gli aspetti trattati nel congresso, il problema principale dei monarchi era quello di impedire il riaccendersi della rivoluzione. Per questo lo zar russo Alessandro I propose la formazione di una Santa alleanza, un patto, in nome della religione cristiana, che impegnava i sovrani a mantenere gli accordi fissati a Vienna e a intervenire in reciproco aiuto nel caso in cui venisse minacciato il potere delle monarchie. Firmarono il patto gli imperatori d’Austria e Prussia, lo zar di Russia e successivamente il re di Francia.
L’opposizione alla Restaurazione
“Costituzione” e “nazione” furono i temi della lotta contro la Restaurazione:
- Per Costituzione si esprimeva la rivendicazione da parte dei ceti progressisti (borghesia e aristocrazia innovatrice) di creare regimi col potere del sovrano moderato da carte costituzionali;
- per nazione si affermava il diritto all’indipendenza e autonomia dei popoli.
Il Romanticismo
Sul piano ideologico, il tema della Costituzione fu agitato dai liberali, quello della nazione fu divulgato dal movimento romantico diffuso nei primi decenni dell’800. Il Romanticismo fu un movimento culturale con molte sfaccettature, ma anche con idee di fondo comuni:
- La critica all’esaltazione illuministica della ragione, valorizzando sentimento, fantasia e intuizione;
- visione della storia portata a valorizzare il passato rispetto al presente;
- contro il cosmopolitismo illuminista, l’esaltazione dell’identità nazionale.
IL FEDERALISMO
LE RAGIONI DEL CENTRALISMO ITALIANO
Due modelli di stato federale. Il federalismo è sia una teoria politica sia un modo di organizzare le istituzioni dello stato: i suoi obiettivi sono l’avvicinamento delle istituzioni al cittadino e di rendere la vita pubblica più democratica e partecipativa. Uno stato federale è un’ unione di diversi stati o entità politiche, ciascuna delle quali ha sovranità legislativa ed esecutiva su alcune materie, mentre altre sono di competenza dello stato “centrale”. Questo principio è stato formulato secondo deu modelli principali:
- il federalismo dualistico, come negli USA, che si basa sulla divisione delle competenze attribuite allo stato federale “centrale” e agli stati membri;
- il federalismo cooperativo, in cui i poteri locali e il governo federale intervengono insieme in molti campi politici e amministrativi.
Il centralismo dello stato italiano. L’Italia nacque come stato unitario accentrato, estendendo a tutto il paese la legislazione esistente nel Regno di Sardegna. Venne applicato il modello napoleonico che assegnava scarse o nulle autonomie ai poteri locali e si basava sull’istituzione del prefetto, rappresentante dello stato e massima autorità pubblica in ogni provincia. Ogni ipotesi federalista venne accantonata, perché prevalse la convinzione che uno stato unitario e accentrato fosse la via preferibile per garantire alla nazione, eterogenea e priva di istituzioni comuni, una guida politica sicura. Questa caratteristica si accentuò durante il fascismo. La questione delle autonomie si ripropose nel secondo dopoguerra. La nostra Costituzione, pur affermando che la repubblica è “una e indivisibile”, all’ art. 5 sosteneva la necessità di promuovere le autonomie locali, realizzando il più ampio decentramento amministrativo, il cui perno dovevano essere comuni, provincie e regioni. Il decentramento avvenne lentamente e con difficoltà. Infatti, solo nel 1970 si ebbe la prima elezione dei consigli regionali: un segno della resistenza a superare un centralismo secolare.
UNA STAGIONE DI RIFORME
Una forte ripresa della tematica federalista si è avuta alla fine del ‘900, soprattutto per iniziativa della Lega Nord. Una riforma in senso federalista della Costituzione si ebbe nel 2001 e assicurava agli enti locali autonomia finanziaria di entrate e di spese, con la possibilità di istituire tributi propri. Nel 2004 arrivò un’altra riforma: la devolution, che ha assegnato alle regioni competenza esclusiva in materia di scuola, sanità e polizia locale. In Italia, l’attuazione di riforme federaliste è difficile per l’eterogeneità del paese. Il federalismo, da noi, apre difficili problemi: per esempio, se si applica il federalismo fiscale, cioè che le regioni possano imporre tributi e fare spese in autonomia, risulta difficile evitare il divario tra regioni ricche e povere.

L’ITALIA DELLA RESTAURAZIONE
L’Italia nella prima metà dell’800 era un paese politicamente diviso e con un ritardo economico. L’economia, principalmente rurale, aveva un’agricoltura debole. Solo nella pianura padana si era sviluppata la grande azienda agricola capitalistica, mentre le condizioni di vita dei contadini rimanevano precarie, aggravate dalla sovrappopolazione. Le industrie erano circoscritte ad alcune aree e poco avanzate. L’industria tessile produceva materia prima e semilavorati da esportazione, mentre quella siderurgica e meccanica erano in ritardo rispetto alle maggiori economie europee.
Moderati e democratici
L’ideale e l’obiettivo politico dell’unità italiana si fermarono a causa dei regni francesi di Napoleone I e successivamente del riassetto territoriale della Restaurazione. Dopo i falliti moti insurrezionali del 1820-21 e del 1830-31 maturò l’idea che l’indipendenza dovesse essere connessa all’unificazione nazionale e nacquero programmi politici capaci di ottenere il consenso di una vasta opinione pubblica. Si delinearono due orientamenti: liberale-moderato e democratico-repubblicano. I moderati volevano un’evoluzione graduale verso l’unità nazionale, con uno sbocco monarchico-costituzionale; i democratici proponevano le insurrezioni popolari, con l’obiettivo di una repubblica democratica.
Il pensiero di Mazzini
Fra i maggiori esponenti democratici, Giuseppe Mazzini elaborò una proposta in cui nazionalismo e libertà erano uniti, in un quadro etico-religioso. La libertà dei popoli, per Mazzini, ha come presupposto l’indipendenza nazionale, ottenuta con una lotta che richiede fede e un’opera di educazione morale. Ai popoli e alle nazioni Dio ha affidato il compito di far avanzare il progresso dell’umanità.
Insurrezioni e fallimenti
Critico del movimento clandestino, Mazzini fondò un’organizzazione politica aperta, nazionale e pubblica, la Giovine Italia, che raccolse consensi anche se circoscritti ad alcune zone e a ceti intellettuali. I fallimenti delle insurrezioni mazziniane negli anni -30 e -40 provocarono una crisi nel movimento democratico, cui fece riscontro la maturazione di una posizione riformista e moderata, che proponeva rinnovamenti economici piuttosto che programmi politici.
Gioberti e Balbo
Un’evoluzione della riflessione dei moderati si ebbe col neoguelfismo di Vincenzo Gioberti, che prospettò un’Italia composta da una federazione di stati guidata dall’autorità politica e spirituale del Papa. In una prospettiva federale si mosse anche Cesare Balbo, che collegava il problema dell’indipendenza italiana alla creazione di nuovi equilibri internazionali che bilanciassero il ritiro dell’Austria dall’Italia con sua espansione nei Balcani.
Cattaneo
Originale fu il federalismo democratico e repubblicano di Carlo Cattaneo, che individuava nella libertà e nella repubblica l’obiettivo della lotta per l’indipendenza e in una federazione di stati il modello più adeguato a salvaguardare le autonomie e le realtà locali italiane.
Moto → E’ un’insurrezione, una reazione circoscritta geograficamente e nell’ambito politico. Non è una rivoluzione. Non ha ripercussioni oltre la circoscrizione territoriale. Questi moti sono fallimentari perché non organizzati.
LA SVOLTA DEL 1848
IL BIENNIO DELLE RIFORME E LE SPERANZE DEI MODERATI
Dal 1846 la linea moderata parve destinata al successo. In quell’anno il papa Pio IX attuò alcune riforme (amnistia per i reati politici, ammissione di membri laici nelle cariche dello stato) senza rinunciare al ruolo di “papa liberale””, convalidando l’ipotesi neoguelfa di Gioberti. Venne introdotta la libertà di stampa in Toscana da Leopoldo II e altre riforme da Carlo Alberto nel Regno di Sardegna. Solo Ferdinando II, re delle due Sicilie, non volle attuare nessuna riforma. Riforme date con cautela dato che il clima politico era in fermento: l’arroganza dell’Austria faceva temere una guerra e alimentare sentimenti patriottici e antiaustriaci.
IL PROGRAMMA MODERATO
Questa situazione tesa venne utilizzata da moderati per premere sui sovrani, proponendo loro le riforme come mezzo per evitare la rivoluzione. Esemplare è l’opuscolo di Massimo D’Azeglio che costituì una sorte di manifesto del nascente “partito” moderato. Questo programma era già superato dalle rivendicazioni costituzionali e patriottiche diffuse nell’opinione pubblica.
LA FASE DEGLI STATUTI
Nel 1848/49 cominciarono le prime rivoluzioni. Nel Regno delle due Sicilie a causa dell’atteggiamento di chiusura di Ferdinando II, il 12 gennaio 1848 Palermo insorse rivendicando la Costituzione e l’indipendenza dell’isola. Grazie al successo, la Costituzione venne promulgata il 29 febbraio. Sotto la pressione dei liberali anche Leopoldo II, Carlo Alberto e Pio IX concessero gli statuti.
GLI SVILUPPI INSURREZIONALI DEL 1848
Il carattere moderato degli statuti e la loro applicazione restrittiva non soddisfavano né i liberali avanzati, né i democratici. Così, l’eco della rivoluzione che coinvolse tutta Europa, aprì in Italia una nuova fase rivoluzionaria che cominciò dal Lombardo-Veneto. Il 17 marzo insorse Venezia: con gli austriaci cacciati fu proclamata la Repubblica di San Marco sotto un governo guidato da Daniele Manin. Il giorno dopo insorse Milano: in cinque giorni (le Cinque giornate di Milano), il popolo sconfisse le truppe di Radetzky che si rifugiarono nelle fortezze del quadrilatero (Mantova, Peschiera, Verona, Legnago).
LA DISCUSSIONE A MILANO
Qui si era costituito un governo provvisorio guidato da moderati. Nel consiglio di guerra prevalevano i democratici. Le due posizioni ebbero un conflitto: il punto di divergenza riguardava l’opportunità di richiedere l’intervento militare della monarchia sabauda (dei Savoia). Il conte Gabrio Casati (colui che propose due anni di scuola elementare obbligatoria), capo del governo provvisorio, era favorevole all’intervento e all’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna. Cattaneo no. La questione fu risolta da Carlo Alberto: da un lato non voleva dichiarare guerra all’Austria, dall’altro avrebbe avuto la possibilità di estendere i propri domini.
L’INIZIATIVA PIEMONTESE
Nonostante i dubbi, il 23 marzo fu dichiarata guerra all’Austria. Volontari ed eserciti dei cari sovrani parteciparono alla guerra. Il 26 marzo entrarono a Milano. Mazzini, pur dicendosi contrario alla fusione, era a favore di un programma indipendentista e unitario. A giugno, un plebiscito (consultazione popolare) decise l’unione della Lombardia al Regno di Sardegna.
IL FALLIMENTO DELLA PRIMA GUERRA D’INDIPENDENZA E DELLA LINEA MODERATA
Questa guerra chiamata Prima guerra di indipendenza fu deludente. Alle incompetenze militari si aggiunse una strategia incerta e attendista. Invece di approfittare delle vittorie ottenute a Goito e Peschiera, l’esercito piemontese permise al nemico di riprendere Vicenza. Nel frattempo Pio IX ritirò le truppe: era il fallimento del progetto neoguelfo. Nel Regno delle due Sicilie si verificò una rottura tra la monarchia napoletana e la Sicilia, dove il governo provvisorio, capeggiato da Ruggero Settimo, richiedeva il ritorno alla Costituzione del 1812 e la separazione del regno. Ferdinando II, nel frattempo, avviò una svolta reazionaria, sciogliendo il parlamento e bloccando le truppe inviate a nord. Nel frattempo Radetzky sconfisse i piemontesi a Custoza (Verona), riconquistando la città. Il 9 agosto il generale Salasco firmò un armistizio che impegnava i piemontesi a ritirarsi oltre il Ticino.
L’ORA DELLA SCONFITTA
La seconda fase del conflitto durò pochi giorni: Carlo Alberto venne sconfitto a Novara e abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Fu presa Brescia, Firenze e la Sicilia fu riconquistata dai Borboni. Anche in Europa il movimento rivoluzionario si andava ritirando.
LA CONQUISTA DELL’UNITA’
La strategia diplomatica di Cavour
Cavour era convinto della necessità di una guerra contro l’Austria per unificare l’Italia settentrionale. Napoleone III, le cui ambizioni espansionistiche erano destinate ad andare contro la volontà austriaca, era l’alleato “naturale” per questo progetto. Quindi, Cavour iniziò un abile lavoro diplomatico, sia per guadagnare l’interesse dell’imperatore, sia per irrigidire i rapporti con l’Austria, sino alla rottura avvenuta nel 1857. Sfruttò anche a suo vantaggio il fallito attentato compiuto dal mazziniano Orsini contro Napoleone III nel 1858: questo gesto fu utilizzato da Cavour come la prova che la tragica situazione italiana costituiva un pericolo per l’intera Europa.
L’alleanza con la Francia: Plombières
Cavour, il 20 luglio 1858, strinse segretamente con Napoleone III gli accordi di Plombières che impegnavano la Francia ad allearsi col Piemonte nel caso che quest’ultimo fosse attaccato dall’Austria. La Francia avrebbe ottenuto Nizza e Savoia. Venne anche tracciato il futuro assetto dell’Italia divisa in quattro parti:
• un Regno dell’Alta Italia (Piemonte, Lombardo-Veneto e parte dell’Emilia) affidato ai Savoia;
• lo Stato pontificio (Roma e Lazio), sotto governo papale e protezione francese;
• un Regno dell’Italia centrale (Toscana, Marche e Umbria);
• il Regno delle due Sicilie.
L’accordo era molto costoso per il Piemonte perché prefigurava per l’Italia un futuro di dipendenza dalla Francia, dato che la politica piemontese era subordinata a quella francese.
La Seconda guerra di indipendenza
Dopo la celebre frase di Vittorio Emanuele II (“Non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi”) nel discorso della Corona del 1859, l’Italia era in fermento. Dopo un ultimatum austriaco inviato al Piemonte subito respinto da Cavour, il 26 aprile 1859 l’Austria dichiarò guerra al Regno di Sardegna dando inizio alla Seconda guerra d’indipendenza. Agli eserciti franco-piemontesi si affiancarono circa ventimila volontari, parte dei quali furono visti nel corpo dei Cacciatori delle Alpi, comandato da Giuseppe Garibaldi. Egli conquistò Como e Varese e, con la battaglia di Magenta, San Martino e Solferino, l’esercito volse a suo favore le sorti del conflitto. Improvvisamente la Francia si ritirò, firmando con gli austriaci l’armistizio di Villafranca (11 luglio 1859), in cui l’Austria cedeva la Lombardia alla Francia, che a sua volta la “donava” al Regno di Sardegna. La Francia, non avendo rispettato gli accordi, rinunciò a Nizza e Savoia. Gli italiani rimasero delusi e Cavour si dimise.
Un problema aperto: la situazione dell’Italia centrale
Vi furono sviluppi imprevisti nella situazione politica dell’Italia centro-settentrionale. In Toscana e nei Ducati, dopo Magenta, i regnanti abbandonarono il paese e, nelle Legazioni non più protette dagli austriaci, una sollevazione popolare allontanò il cardinale legato. Si formarono così governi provvisori egemonizzati dai moderati.
I plebisciti del 1860
Con il consenso inglese e francese, nel 1860 in Toscana, Parma, Modena e nelle ex Legazioni si svolsero i plebisciti, preceduti da una propaganda organizzata dalla Società nazionale. Tra l’annessione al Regno di Sardegna e un “regno separato”, la maggioranza degli elettori scelse l’annessione. Seguì la cessione alla Francia di Nizza e Savoia. Dopo ciò la situazione politica italiana era la seguente:
• al nord, il Regno di Sardegna che comprendeva anche Toscana ed Emilia;
• al centro, lo Stato pontificio (con Roma presidiata dai francesi);
• al sud, il Regno delle due Sicilie con il giovane Francesco II.
L’iniziativa di Garibaldi
Nel 1860 si accese in Sicilia una rivoluzione separatista, stroncata nella capitale ma continuata nelle campagne. Nell’isola operavano due mazziniani siciliani: Crispi e Pilo che giudicavano la situazione matura per un intervento nel Mezzogiorno. Le speranze dei patrioti si appuntarono su Garibaldi, che godeva già allora di molta fama.
La spedizione dei Mille
Garibaldi organizzò la spedizione. Il programma era già delineato :. Quindi Garibaldi si muoveva in favore del progetto monarchico di unificazione. Il 5 maggio 1860 Garibaldi salpò alla volta della Sicilia da Quarto, in Liguria, con circa mille volontari. Cavour, preoccupato per il carattere democratico e mazziniano dell’impresa, tentò invano di ostacolarla.
La conquista della Sicilia e l’assunzione della dittatura
Garibaldi sbarcò a Marsala l’11 maggio 1860 e, a fine mese, liberò Palermo. Il 20 luglio, grazie anche ad altri volontari, i borbonici furono sconfitti a Milazzo e Garibaldi controllava tutta l’isola assumendo la dittatura della Sicilia e istituendo un governo provvisorio. Garibaldi non risolse il conflitto tra i contadini e i proprietari. la rivolta sociale fu molto violenta e, lo stesso generale e Crispi attuarono repressioni pesanti: a Bronte, il generale garibaldino Bixio soffocò nel sangue la rivolta popolare.
Il conflitto con Cavour e la conquista di Napoli
Sul piano politico, il successo dell’”eroe dei due mondi” dava nuovo slancio ai democratici. Arrivato in Calabria, Garibaldi conquistò Reggio il 21 agosto e poi proseguì verso nord. Il 7 settembre entrò a Napoli. L’ultimo tentativo di resistenza da parte dei Borboni fu l’offensiva sul Volturno dell’1 ottobre, che Garibaldi riuscì faticosamente a contenere.
La proclamazione del Regno d’Italia
Tra ottobre e novembre Marche, Umbria, Sicilia e il Mezzogiorno votarono l’annessione al Regno di Sardegna. Il 26 ottobre a Teano, Garibaldi concluse la sua impresa consegnando il potere al re piemontese. Il 7 marzo 1861 il parlamento nazionale acclamò Vittorio Emanuele II re d’Italia. Mancavano ancora Veneto e Roma per completare l’unificazione.
LA NUOVA ITALIA E IL GOVERNO DELLA DESTRA
La Destra storica
Il primo governo italiano fu di destra e durò per quindici anni. Questo periodo, tra il 1861 e il 1876, è indicato come il periodo della Destra storica. Gli uomini della Destra, tra cui Bettino Ricasoli, capo del governo dopo l’improvvisa morte di Cavour, erano espressione dell’aristocrazia e della borghesia liberale moderata del centro-nord. Tra i vari problemi da affrontare, primo tra tutti vi era il completamento dell’unificazione, cui mancavano Veneto, Friuli e Roma. Il primo obiettivo fu il Veneto.
Il completamento dell’unificazione: l’annessione del Veneto
Completare l’unità non significava solo far coincidere i confini politici con quelli geografici, ma anche risolvere il problema della stabilità politica. La questione del Veneto fu risolta attraverso l’alleanza con la Prussia nella guerra vinta contro l’Austria nel 1866. Per l’Italia questa guerra (la Terza guerra d’indipendenza) fu disastrosa dal punto di vista militare: l’esercito e la flotta italiana furono sconfitti rispettivamente a Custoza e Lissa; solo Garibaldi vinse a Bezzecca, ma fu fermato dall’armistizio raggiunto da prussiani e austriaci ( fu la celebre risposta di Garibaldi). Tuttavia, partecipando alla guerra, ottengono il Veneto, ceduto dagli austriaci ai prussiani e da questi a Napoleone III perché lo consegnasse all’Italia.
La “questione romana” e la Convenzione di settembre
La questione romana era più difficile da risolvere perché su Roma le possibili manovre del governo italiano erano limitate dato che l’Italia era subordinata alla Francia. Nel settembre 1864 il governo italiano e parigino firmarono una Convenzione che prevedeva il ritiro delle truppe francesi da Roma, impegnandosi a tutelare lo stato pontificio da ogni attacco e a spostare la capitale da Torino a Firenze. I democratici condannarono sia la Convenzione che il trasferimento della capitale. I democratici, Mazzini e Garibaldi in testa, volevano conquistare Roma attraverso un’azione militare e popolare. Garibaldi, invano, tentò la conquista due volte (1862 e 1867) al comando di volontari: la prima volta fu fermato sull’Aspromonte dall’esercito italiano, poi a Mentana dai francesi. Garibaldi fu arrestato e condotto a Caprera dove morì nel 1882.
La discussione all’interno della classe dirigente
Il governo italiano voleva evitare di usare la forza contro la chiesa, ma all’interno della classe dirigente vi erano diverse opinioni riguardanti il rapporto con la chiesa. I moderati della Destra seguivano il motto di Cavour , basandosi sulla laicità dello stato e sulla separazione fra stato e chiesa (potere temporale autonomo da quello spirituale). Questa posizione rifletteva il liberalismo del ceto politico del nord. In altri settori della classe dirigente si voleva il giurisdizionalismo tipico del sud: consisteva in un aperto laicismo che sosteneva la necessità di affermare i diritti dello stato e di ridurre l’influenza della chiesa (controllo dello stato sulla chiesa).
Pio IX e il Sillabo
Nel mondo cattolico si confrontavano la posizione transigente o “conciliatorista” e quella intransigente, ostile a ogni compromesso con i liberali e decisa nel difendere il dominio temporale del papa. La contrapposizione fra stato e chiesa si fece aspra. Il parlamento approvò leggi laiche come l’introduzione del matrimonio civile e l’acquisizione allo stato di beni ecclesiastici. Pio IX assunse una posizione intransigente nei confronti del nuovo stato. Nel 1864 il papa pubblicò con l’enciclica Quanta cura, il Sillabo, un elenco di teorie condannate dalla chiesa, in cui vi erano le idee socialiste e liberali e veniva rifiutato il principio dell’autonomia dello stato dalla chiesa. Nel 1869 ci fu la convocazione del concilio Vaticano I, che proclamò il dogma dell’infallibilità del papa in materia di fede e di morale.
La presa di Roma e le sue conseguenze
Il governo italiano fu d’accordo ad un’azione di forza, politicamente possibile dopo la sconfitta e la deposizione di Napoleone III. Il 20 settembre 1870 i bersaglieri entrarono a Roma attraverso la breccia di Porta Pia, ponendo fine al potere temporale dei papi, durato più di un millennio. Pio IX dichiarò l’azione , scomunicò i responsabili e si dichiarò prigioniero dello stato italiano. Il parlamento approvò nel 1871 una serie di norme (, cioè “garanzie”) che regolavano i rapporti fra stato e chiesa; nel luglio, la capitale fu trasferita da Firenze a Roma. Si assegnava al papa la sovranità sulla Città del Vaticano, conservando allo stato il diritto di controllo sulla destinazione dei beni ecclesiastici. Il papa respinse le norme e nel 1874 vietò ai cattolici di partecipare alla vita politica (non expedit, “non conviene”). Si aprì una grave frattura fra laici e cattolici.
I ritardi della nuova Italia
Altri due problemi pesavano sull’Italia unita: il ritardo economico e l’eterogeneità e frantumazione economica, politica e culturale, risultato di secoli di dominazione straniera. In Italia vi erano 21 milioni di abitanti, con un reddito pro capite a metà di quello inglese. Nel 1861, il 70% della forza-lavoro era addetto all’agricoltura, il 18% all’industria, il 12% al terziario. L’agricoltura era arretrata e l’industria era fragile. Inesistente il mercato interno, a causa delle dogane fra gli stati e dell’inefficienza delle comunicazione: nel 1861 vi erano 1700 km di ferrovie di cui 1500 in Lombardia, Piemonte, Veneto e Toscana.
Un eterogeneo assetto culturale e amministrativo
Leggi, scuola, sistemi fiscali erano diversi da una zona all’altra del paese. Un quarto di italiani sapevano leggere e scrivere (più in Lombardia che nel sud). Solo il 2-3% usavano correttamente la lingua nazionale: gli altri si esprimevano nei dialetti locali. Le condizioni di vita dei contadini e degli operai erano pessime a causa della scarsa alimentazione e delle cattive condizioni sanitarie che diffondevano più facilmente le malattie infettive già debellate altrove come tifo, colera e vaiolo. La mortalità infantile superava il 20%.
Caratteri e limiti della Destra
Questi uomini avevano elementi di base in comune:
• il culto per l’onesta e attenta amministrazione della cosa pubblica;
• la fiducia nel liberismo;
• la diffidenza nei confronti dei partiti organizzati;
• la convinzione di essere un’èlite dirigente capace di agire nell’interesse della nazione;
• un’incomprensione dei problemi della società meridionale.
Il problema della rappresentanza
L’intera classe politica rappresentava una base sociale irrilevante: estendendo all’Italia la legge elettorale sarda, basata su un suffragio censitario (diritto di voto limitato a cittadini con un determinato reddito), risultò che solo il 2% degli italiani (poco più di 400.000 elettori) aveva il diritto di voto. Potevano votare i cittadini di oltre 25 anni non analfabeti e che pagavano almeno 40 lire di imposte l’anno, cifra molto elevata. Alle prime elezioni, di questi, votarono il 57%; così, i deputati della camera rappresentavano 240.000 cittadini su 22 milioni. Operai, contadini e maggioranza del ceto medio non erano rappresentati.
Accentramento o decentramento?
La Destra estese all’Italia la legislazione vigente nel Regno di Sardegna, a partire dallo Statuto Albertino, rimasto in vigore fino al 1948. Esso accoglieva le fondamentali rivendicazioni liberali (uguaglianza giuridica, libertà civili e di stampa), ma lasciava spazio al potere del sovrano e del governo; infatti, quest’ultimi operavano spesso in autonomia dalle camere. La scelta in favore della continuità dell’ordinamento sabaudo si accompagnò all’accentramento amministrativo. Nel 1861 Minghetti presentò in parlamento un progetto che prevedeva un parziale decentramento delle funzioni di governo agli organi locali. Il progetto non arrivò neanche al voto. La Destra temeva di perdere il controllo di uno stato ancora fragile.
L’uniformazione all’ordinamento sabaudo
La legge di unificazione amministrativa del 20 marzo 1865 impose all’Italia l’ordinamento sabaudo: legge elettorale, sistema scolastico, Codice civile. Il regno fu diviso in 59 province; il governo di ognuna era rappresentato dal prefetto, massima autorità in materia di scuola, sanità e ordine pubblico. Solo il ministro dell’Interno era a conoscenza dei loro operati. I sindaci erano nominati dal governo e rispondevano ad esso.
La politica economica
Sul piano economico, la Destra cercò:
• l’unificazione economica del paese;
• la creazione di infrastrutture;
• il risanamento del bilancio statale.
Sul primo punto, il governo operò eliminando dazi e dogane interne, realizzando l’unificazione monetaria: nel 1862, la lira piemontese divenne moneta nazionale. L’apertura con l’estero iniziò con la firma nel 1863 di trattati commerciali con Francia e Inghilterra.
Conseguenze della scelta liberoscambista
Nonostante gli eventuali rischi nell’esporre l’economia italiana alla concorrenza di sistemi produttivi più evoluti, la Destra seguì il libero scambio, deciso da Cavour, per favorire lo sviluppo del paese. Questa scelta ebbe effetti contraddittori: da un lato, favorì le esportazioni di prodotti agricoli e semilavorati; dall’altro,le industrie furono danneggiate dalla concorrenza franco-inglese. Sfavorevoli furono le conseguenze dell’unificazione economica e della politica doganale liberista sull’industria meridionale, sino allora protetta dalle tariffe doganali borboniche.
: infrastrutture e debito pubblico
Come ausilio dell’unificazione economica fu necessario uno sviluppo delle infrastrutture. La Destra investì molto per . Questa spesa aggravava la situazione finanziaria dello stato, già difficile dopo i costi necessari per l’unificazione. La Destra, per affrontare le spese straordinarie, ricorse a prestiti, soprattutto francese, e alla vendita di beni del demanio pubblico ed ecclesiastico.
Pareggio del bilancio e sistema fiscale
Per le spese correnti, la Destra raggiunse il pareggio del bilancio con il ministro Quintino Sella nel 1876, grazie ad un progressivo inasprimento del prelievo fiscale. Questo prelievo fu squilibrato perché aumentò le imposte indirette. Nel 1868 fu introdotta la tassa sul macinato, detestata imposta sulla macinazione dei grani: questa tassa, che colpiva maggiormente i contadini, diede origine a forti proteste popolari. Al termine della rivolta contadina, repressa duramente, si contarono arrestati, feriti e morti.
Lo stato liberale nel Mezzogiorno
La Destra affrontò come problemi di ordine pubblico, da risolvere con la forza, le crisi sociali delle campagne a causa della miseria dei contadini. Con l’Unità, la Destra non favorì il sud. Esemplare il sistema fiscale, che sottopose i cittadini meridionali ad una tassa più pesante di quella borbonica, e quello del servizio militare, che introdusse nel sud sette anni di leva obbligatoria.
Il brigantaggio
In queste condizioni di grave disagio economico e sociale si sviluppò il brigantaggio che insanguinò il Mezzogiorno fino al 1865. Le bande dei briganti erano formate da contadini, sbandati dell’ex esercito borbonico e garibaldino, legittimisti (“nostalgici” del regime borbonico), renitenti alla leva e banditi veri e propri. Saccheggiavano i palazzi dei borghesi, incendiavano i documenti fiscali, aprivano le carceri. A ciò si mescolava la propaganda filo borbonica e clericale ostile al nuovo stato liberale. Il governo rispose con una dura repressione militare durata cinque anni. A seguito della “legge Pica” del 1863, applicata alle regioni dichiarate in , intere province furono poste in stato d’assedio: i briganti vennero giudicati nei tribunali militari e l’autorità militare si sostituì a quella civile. Nel 1865 il brigantaggio fu stroncato.
IL GOVERNO DELLA SINISTRA E L’ETA’ DI CRISPI
e : l’ascesa della Sinistra
Nel marzo 1876 la Destra storica dovette cedere il governo alla Sinistra. Minghetti fu costretto a dimettersi e Vittorio Emanuele II conferì l’incarico di formare un nuovo governo ad Agostino Depretis. La caduta della Destra fu dovuta al fatto che si avvertiva il bisogno di una nuova classe dirigente, capace di ricomporre il distacco tra ceto di governo e società civile.
Le molte anime della Sinistra
Alla Sinistra si unirono gli scontenti e gli esclusi della Destra. La Sinistra, a partire dagli anni ’70, aveva assunto posizioni sempre meno radicali. Quello che prese la guida del paese nel 1876 era un raggruppamento politico composto, che esprimeva interessi e orientamenti politici differenti. Esso raccoglieva il consenso della piccola e media borghesia settentrionale ma anche dei proprietari terrieri del Mezzogiorno. Vi erano eredi della vecchia Sinistra sabauda, come Depretis ed ex garibaldini e mazziniani, come Crispi. In esso convivevano spinte di tipo progressista, che chiedevano una modernizzazione del paese, con altre di tipo conservatore, volti a difendere gli interessi della proprietà latifondista meridionale, a un alleggerimento del carico fiscale sulla rendita agraria e a un aumento della spesa pubblica nel sud.
Programmi e realtà
Il programma della Sinistra prospettava l’ampliamento del diritto di voto, il decentramento amministrativo, l’istruzione obbligatoria e un prelievo fiscale meno gravoso. Le realizzazioni, inferiori alle promesse, furono:
• il diritto di voto, innalzato dal 2% al 7% della popolazione;
• tre anni di scuola elementare obbligatoria, da fare entro i 9 anni di età (legge Coppino del 1877). Con la Destra vi era la legge Casati in cui gli anni obbligatori erano due;
• abolizione della tassa sul macinato.
Benché varie inchieste parlamentari mettessero in luce l’arretratezza della società italiana, la Sinistra non avviò nessuna politica al riguardo: lo stato rispose agli scioperi reprimendoli.
La vita politica e parlamentare nell’età di Depretis
Il diritto di voto fu concesso a tutti gli uomini, non analfabeti, con età maggiore ai 21 anni in possesso del titolo di seconda elementare o che avessero pagato un’imposta di circa 20 lire. Gli elettori furono circa 2 milioni. Ma il diritto di voto era condizionato da forme di corruzione che si aggravarono negli anni ’80 col trasformismo, cioè la tendenza a gestire la vita parlamentare e politica attraverso accordi e scambi di favori tra maggioranza e opposizione. Così il capo del governo assunse il ruolo di ‘mediatore politico’ di fronte a un parlamento diventato ‘camera di interessi’. Questa prassi consentiva alla Sinistra di tenere sotto controllo le spinte radicali e democratiche. Queste ultime erano rappresentate in parlamento dal gruppo dell’Estrema sinistra. Essa proponeva il suffragio universale, la repubblica, l’istruzione gratuita e il decentramento amministrativo.
La crisi agraria e i suoi effetti
In economia, la Sinistra seguì, inizialmente, l’impostazione liberoscambista della Destra; ma nella seconda metà degli anni ’80 attuò una politica protezionistica. In Italia, la crisi agraria arrivò intorno al 1880: fino al 1887 l’importazione dei cereali aumentò, il prezzo e la produzione del grano diminuirono. Un primo effetto della crisi fu quello di accentuare la specializzazione colturale delle diverse aree. Favorì anche la nascita di un ‘partito degli agrari’, che esercitò pressioni sempre più forti sul governo per ottenere l’imposizione di dazi sul grano di importazione. Opposto era l’orientamento dei coltivatori di prodotti pregiati come olio e vino, che temevano le ripercussioni negative che il protezionismo avrebbe avuto sull’esportazione di questi prodotti.
La scelta protezionistica
Con l’adozione di politiche protezionistiche da parte dei maggiori stati, si rafforzò il partito degli ‘industrialisti’, che chiedevano un maggiore intervento dello stato in economia. I suoi rappresentanti ritenevano che il ritardo economico italiano si sarebbe potuto colmare proteggendo l’industria nazionale dalla concorrenza straniera. Da parte liberista si sosteneva che il protezionismo non avrebbe fatto altro che favorire le imprese più arretrate, riparandole dalla concorrenza straniera. Questa posizione venne sconfitta e il governò deliberò nel 1887 l’imposizione di un’alta tariffa doganale sul grano e su vari prodotti industriali.
Gli effetti del protezionismo
Tra gli effetti negativi vi è:
• il peggioramento delle condizioni di vita, per l’aumento del prezzo di pane e pasta;
• il danno subìto dalle colture d’esportazione meridionale, a causa della guerra commerciale apertasi con la Francia nel 1888;
• un maggiore dualismo economico, perché i settori più importanti dell’economia del sud furono danneggiati, mentre risultò favorita l’industria del nord.
Infatti gli imprenditori operarono sul mercato interno in condizioni vantaggiose rispetto alla concorrenza straniera.
La politica industriale della Sinistra
Importante fu l’impulso dato all’industria di base, in particolare alla siderurgia. L’Italia iniziò la produzione dell’acciaio. Nel 1886 fu inaugurata l’acciaieria di Terni e l’industria metalmeccanica Breda. Nel 1872 nacque, nella chimica, la Pirelli. A questo si accompagnò il completamento della rete stradale e ferroviaria. In questi anni l’Italia pose le condizioni per il ‘decollo industriale’.
La politica estera: la Triplice alleanza
Depretis si avvicinò all’Austria-Ungheria e alla Germania, stipulando la Triplice alleanza (1882, rinnovata nel 1887): questo patto prevedeva un intervento di reciproca difesa in caso di aggressione da parte di altre potenze, specialmente la Francia. Questa scelta fu fatta a causa del timore di isolamento internazionale in una fase di cattivi rapporti con la Francia. Vi fu un aumento della spesa per i bilanci militari e per la creazione di una flotta da guerra per la difesa nazionale. I lavori assorbirono metà della spesa statale.
L’esordio del colonialismo italiano
L’Italia, forte del patto stipulato, diede inizio alla propria espansione coloniale in Africa. Questa strada fu presa per ragioni di prestigio internazionale ed ebbe esiti negativi. Le truppe italiane occuparono nel 1885 Massaua, ma un ulteriore tentativo di penetrazione verso l’interno provocò la reazione del negus (‘imperatore’) dell’Etiopia: il 26 gennaio 1887 a Dogali, presso Massaua, 500 uomini italiani furono sterminati.
La figura di Francesco Crispi
Morto Depretis nel 1887, il governo fu affidato a Crispi sino al 1896. Egli seppe rappresentare quell’esigenza di un ‘uomo forte’, di una guida del paese dinamica in economia e aggressiva in politica estera, sentita dalla borghesia industriale. Depretis lasciò a Crispi una pesante eredità: la scelta protezionistica manifestava i primi effetti negativi. La diminuzione delle esportazioni aggravava il deficit del bilancio. In politica si sentiva l’insofferenza contro il trasformismo.
L’impostazione autoritaria della politica crispina
Crispi, per risolvere i problemi, volle accrescere l’autorità e il prestigio dello stato, sia interno che estero. Concentrò nelle proprie mani le cariche di presidente del consiglio, ministro degli Esteri e degli Interni. Contro il trasformismo e la corruzione dei deputati, rafforzò il potere dell’esecutivo, riducendo il ruolo del parlamento.
Riforme e accentramento
Fino al 1891, Crispi trattò la politica interna e l’ordinamento amministrativo, attuando riforme per migliorare l’efficienza dello stato accrescendo il carattere accentrato. Le riforme furono:
• l’ampliamento del diritto di voto nelle elezioni amministrative;
• l’eleggibilità dei sindaci nei comuni con più di 10.000 abitanti;
• la riforma sanitaria e quella della pubblica assistenza, che riducevano l’influenza della chiesa in questi settori prefigurando una responsabilità dello stato nella tutela dei cittadini;
• l’approvazione di un nuovo Codice pensale di impostazione liberale, a firma del ministro della giustizia Zanardelli, che aboliva la pena di morte e consentiva lo sciopero, purché pacifico.
Aumentavano le prerogative dei prefetti con estesi poteri di controllo sugli organi elettivi locali; veniva conferito all’autorità di polizia la facoltà di emanare provvedimenti come la sorveglianza speciale, il domicilio coatto, ecc.
La parentesi giolittiana
La prima fase del governo di Crispi terminò nel 1891, quando il governo fu messo in minoranza su una proposta di legge di inasprimento fiscale. La guida fu affidata a Giolitti, un esponente di un liberalismo progressista che riteneva necessario ampliare le basi del potere. Giolitti dovette affrontare un’ondata di scioperi e proteste dovuti alla crisi economica. In Sicilia, nel 1893, raggiunse il massimo sviluppo il movimento dei Fasci siciliani, lavoratori delle miniere di zolfo che chiedevano la revisione dei patti agrari e l’abolizione dei dazi. In questo movimento si espresse la ribellione dei ceti popolari, esasperati dalle conseguenze della politica protezionistica.
Il fallimento di Giolitti
Giolitti evitò di fare ricorso a misure eccezionali contro i Fasci. Questo atteggiamento indebolì la sua posizione, che fu poi travolto dallo scandalo della Banca romana. Giolitti dovette dimettersi nel 1893.
Il secondo governo Crispi: repressione interna…
Crispi, richiamato al governo, accentuò la sua immagine di uomo ‘forte’. Represse con durezza i Fasci, decretando lo stato d’assedio nell’isola, sciogliendo i Fasci stessi e assoggettandone gli esponenti al giudizio dei tribunali militari. Nel 1894 fece approvare leggi eccezionali antianarchiche, che colpirono soprattutto i socialisti, il cui partito venne sciolto con un decreto.
ed espansione coloniale…
La politica estera di Crispi fu aggressiva. La Triplice alleanza si trasformò in uno strumento per affermare la potenza italiana nel Mediterraneo. Il colonialismo italiano ebbe fu lo strumento finalizzato a creare il mito di Italia come ‘grande potenza’. Nel 1889 erano stati riconosciuti, grazie a un accordo con il nuovo negus d’Etiopia, i possedimenti italiani nel mar Rosso, che presero il nome di colonia Eritrea. Successivamente, i rapporti tra il governo italiano e quello etiope si erano deteriorati. Nel 1895 Crispi riprese la penetrazione in Etiopia, occupando il Tigré. Impreparato, la spedizione italiana subì una serie di sconfitte, la più grave ad Adua (1896), in cui morirono 7000 soldati. Crispi dovette dimettersi, terminando la sua politica.

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