Il colosseo, Esqulino, Celio

Materie:Tesina
Categoria:Storia Dell'arte

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Testo

Le caratteristiche morfologiche della depressione compresa tra i colli Oppio a Nord, Palatino a Sud-Ovest, Celio a Sud e Velia a Nord-Ovest, e la sua stessa natura paludosa, dovuta per lo più all’attraversamento del ruscello Labicano che, scendendo dal Laterano, si dirigeva a Sud verso il Circo Massimo, non favorirono certo l’insediamento umano in quella che verrà conosciuta in seguito come “valle del Colosseo”. Durante il periodo repubblicano la zona era occupata da modeste abitazioni private e alcuni magazzini che avevano guadagnato spazio edificabile grazie a una parziale opera di drenaggio delle acque di superficie e di rialzamento del terreno attraverso terrapieni. Con Augusto, dal 27 a.C. al 14 d.C., tutta l’area fu inclusa nella III regione urbana detta Isis et Serapis. Questo nome è dovuto alla presenza di un santuario iliaco, probabilmente di notevole antichità; è possibile che si tratti dell’Isium Metellicum, localizzabile forse alle pendici dell’Oppio. Questa regione venne scelta per la costruzione del primo anfiteatro stabile di Roma. Il progetto augusteo venne però ben presto abbandonato e la valle mantenne ancora per molti anni la sua natura palustre. L’area della III regione faceva già parte, probabilmente, delle più antiche organizzazioni preurbane e urbane, il Septimontium (che comprendeva il Celio e l’Oppio) e la città che era inclusa allora nelle Mura Serviane. Fu l’imperatore Nerone (54-68 d.C.) a stravolgere nel giro di pochi anni la conformazione della valle: in un primo momento con la realizzazione della sua casa, la Domus Transitoria (di cui restano ancora avanzi sul Palatino, viene detta così perché fungeva da collegamento tra le fabbriche dell’Esquilino e del Palatino, lasciando al centro un passaggio che costituiva la via pubblica); successivamente, dopo l’incendio del 64 d.C., quando Nerone decise di costruire una nuova grandiosa dimora, la Domus Aurea. L’estensione del nuovo palazzo e dei giardini annessi condizionò non poco l’aspetto dell’intera valle, la quale servì in particolare per la realizzazione del grande stagno artificiale.
Alla morte di Nerone divenne imperatore Flavio Vespasiano, di modesta origine familiare, che tenne il potere per dieci anni e diede il via alla dinastia imperiale dei Flavi. Questi, per dimostrare che i tempi erano cambiati, espropriò la villa del suo predecessore e rese l’intera area precedentemente occupata dai suoi giardini e padiglioni, di pubblico uso. Diretta conseguenza della sua politica antiaristocratica fu la costruzione di grandi edifici pubblici a destinazione popolare, ma l’opera più notevole di Vespasiano fu sicuramente il grande Anfiteatro, anche se il merito dell’inaugurazione toccò al figlio Tito che gli successe all’indomani della morte, avvenuta nel 79. Il principato di questo ultimo durò appena tre anni, ma fu un periodo di intensa attività politica, militare e sociale, grazie alla quale l’imperatore conquistò i massimi livelli della stima e dell’amore popolare. Nel suo breve regno Tito riuscì a portare a termine molte opere paterne fra cui proprio il Colosseo, che inaugurò con 100 giorni di spettacoli e feste nell’estate dell’80.
Contrariamente ai precedenti anfiteatri romani realizzati in legno, il Colosseo doveva suscitare un’impressione di solidità e di potenza, consacrando con le sue stesse dimensioni il potere ideologico dello stato romano. La responsabilità dell’esecuzione venne affidata a una personalità certamente geniale, destinata purtroppo a rimanere sconosciuta, mancando a suo riguardo citazioni delle fonti antiche e tradizione storica. Alcuni hanno voluto riconoscere nel costruttore Rabirio, l’architetto di Domiziano autore del palazzo sul Palatino; altri invece, sulla base di un’epigrafe cristiana proveniente dal cimitero di S. Agnese sulla via Nomentana, lo identificarono come tal Gaudenzio, ucciso dallo stesso Vespasiano per la sua fede in Cristo; altri ancora vedrebbero nel grande edificio lo stile provinciale di un liberto germanico. Nessuna di queste ipotesi può tuttavia ritenersi attendibile, pertanto il nome dell’architetto e le ragioni di un totale silenzio da parte delle fonti rimangono sconosciute. È vero che, a parte rare eccezioni, le architetture romane sono anonime, gicchè il progettista era per l’imperatore solo uno dei tanti funzionari impegnati a glorificarlo.
La costruzione di un Anfiteatro rispondeva a precise esigenze ideologiche e demagogiche, e si prestava al costume tipicamente romano dello spettacolo realizzato con combattimenti gladiatori (ludi gladiatorii) e caccia di animali (venationes). L’anfiteatro di Roma, per adempiere ai suoi compiti funzionali e ideologici, doveva non solamente rispettare tutti i canoni dettati dalla tipologia, ma anche superare nelle dimensioni gli edifici similari fino ad allora realizzati.
La grande costruzione venne progettata di forma ellittica, con i due assi di 188 x 156 metri all’esterno e un’arena di forma analoga con gli assi di 87.30 x 54,30. La cavea doveva avere una base costante di 51 metri per un’inclinazione di 37°, mentre l’intera struttura avrebbe avuto, nel parametro esterno, un’altezza di 48,60 metri.
Per innalzare il Colosseo fu necessario approvvigionarsi di vari materiali, soprattutto travertino, tufo e laterizi, e mantenere costantemente al lavoro oltre una dozzina di corporazioni di operai specializzati. Il travertino proveniva dalle grandi cave tiburtine che, per l’occasione, vennero unite a Roma da una strada larga 20 piedi (circa 6metri). Questo espediente era più che necessario, se si considera che per la costruzione dell’intero edificio si misero in opera più di 100 mila metri cubi di travertino lavorati in diverse dimensioni e rifiniti al momento della posa. Ogni blocco veniva unito a quelli vicini e ancorato ai sottostanti attraverso numerose grappe e perni di ferro bloccati col piombo per i quali occorsero circa 300 tonnellate di metallo. In particolare, nelle parti inferiori dell’edificio si fece largo uso dell’opera quadrata di tufo, mentre quasi tutte le murature di elevazione e di divisione vennero realizzate in laterizio. Per procedere con rapidità il progettista applicò un rivoluzionario concetto di divisione del lavoro su quattro cantieri indipendenti, uno per ogni quadrante. Il cemento fu usato in quantità senza precedenti: per le volte portanti della cavea, per le murature e soprattutto per le imponenti fondazioni. Senza precedenti fu anche l’utilizzo delle armature e delle centine lignee, nonché il quantitativo di macchine elevatorie impiegate.
Intorno all’anfiteatro girava un’area lastricata in lavertino larga 17.60 metri. La mole si eleva sopra uno stilobate di due gradini e sviluppa quattro piani in altezza; i primi tre presentano archi inquadrati da un ordine, l’attico finestre rettangolari.
Gli archi sono ottanta in ogni ordine, intramezzati da pilastri a semicolonne rispettivamente di ordine tuscanico, ionico e corinzio. Fra un ordine e l’altro corre una cornice sormontata da un attico poco sporgente che fa da base all’ordine superiore. Il quarto piano, scandito da lesene corinzie, presenta finestre rettangolari ogni due scomparti per un totale di quaranta. Il cornicione introduce robuste mensole nel fregio ed è decorato a mo’ di architrave con tre fasce e una cimasa terminante in alto con un enorme gocciolatoio. I capitelli dei vari ordini, così come le cornici, sono lavorati in maniera approssimativa giacché la distanza dal punto di osservazione non avrebbe permesso di distinguere i dettagli. I fornici del piano terreno sono numerati, eccetto i quattro che si trovano in corrispondenza degli assi, dei quali i due sull’asse maggiore rappresentano i grandi ingressi all’arena, mentre i secondi, relativi all’asse minore, erano riservati ai seggi imperiali. Un quesito rimasto purtroppo insoluto: se di fronte a ciascun arco si trovasse una statua: nell’iconografia tradizionale i fornici appaiono animati da figure, ma in sito, sul pavimento, non restano tracce di imperniature o piedistalli. La decorazione dell’attico era affidata a quaranta scudi di bronzo dorato, appesi alla parete in alternanza con le finestre quadrangolari, rappresentanti forse teste di divinità. La ripetizione del gruppo arco-pilastro-semicolonna lungo tutta la superficie dell’ellissi determina, per il continuo mutare della curvatura, una graduale variazione del chiaroscuro.
All’interno la mancanza pressoché totale dei gradini della cavea permette oggi di vedere la spoglia geometria della costruzione, così come sono visibili gli ambienti sottostanti l’arena, in origine coperti da un tavolato ligneo, sul quale belve e gladiatori davano spettacolo.
I primi due ordini architettonici presentavano due ambulacri anulari, coperti con una volta a botte impostata su una cornice di travertino leggermente sporgente. Il terzo, corinzio, possiede pure i due corridoi, ma più bassi. L’aspetto interno della cavea è soltanto ipotizzabile mancando quasi del tutto i gradini e le ripartizioni dei diversi settori. L’area ellittica interna era separata dalla cavea da un podio alto 3,60 metri, adorno di nicchie e marmi e protetto da una balaustra dietro alla quale sedevano i personaggi di rango, sopra si disponevano due o tre file di sedili marmorei per senatori o rappresentanti del mondo politico e religioso. Tale podio si interrompeva solo in corrispondenza delle due porte alle estremità dell’asse maggiore, e al centro dei due bracci curvi, agli estremi dell’asse minore, si trovavano due palchi; quello a sud-ovest, verso il palatino, era il pulvinar, dove sedeva l’imperatore quando presiedeva ai giochi; esattamente di fronte ad esso, verso il Celio, si ergeva il palco del magistrato delegato dall’imperatore a presiedere agli spettacoli in sua sostituzione. Sotto il podio imperiale si trovava un criptoportico, coperto a volta e decorato sulle pareti da stucchi e lastre marmoree, detto “passaggio di comodo”; metteva in comunicazione diretta gli edifici claudiani sul Celio con il podio stesso, decorato con fregi marmorei rappresentanti tripodi e are; le bocche delle scale erano ornate invece di balaustre scolpite con animali in corsa. Poiché gli spettatori illustri che vi prendevano posto erano i più esposti alle fiere, tra il podio e l’arena era tesa una robustissima rete metallica dorata, munita nella sua parte più alta di una serie di zanne di elefante rivolte verso l’arena e di speciali rulli di avorio che rendevano vano il tentativo di appiglio da parte delle fiere (desumiamo questi particolari dalla testimonianza del poeta Calpurnio nell’Egloga VII). In ogni caso, nelle nicchie poste sotto il podio due arcieri avevano il compito perentorio di uccidere qualunque animale che avesse fatto anche solo il tentativo di scavalcare la rete. La gradinata che costitutiva la prima cavea contava quattordici vomitoria ed era riservata ai rappresentanti dell’ordine equestre. Quindi seguiva la media cavea, dotata in cima di ventotto finestre atte ad illuminare il corridoio posteriore, ed infine la summa cavea. Ognuno di questi tre settori era composto di un iter con un diverso numero di gradini (dodici per la prima, diciannove per la media e sette per la summa), chiuso in alto da un muro continuo detto praecinctio. Coronava la cavea un portico di ottanta colonne di cipollino e granito sormontate da capitelli di ordine composito e corinzio. Da un’epigrafe recante gli Atti del Collegio Sacerdotale degli Arvali sappiamo che esso ospitava una gradinata lignea di undici gradini nota come maenianum summum, vi prendevano posto le donne, mentre tutto il resto della cavea era destinato al pubblico maschile diviso per censo. Questione molto dibattuta è il numero complessivo degli spettatori che l’Anfiteatro Flavio poteva contenere. I Cataloghi Regionari di epoca costantiniana assegnano all’edificio loca LXXXVII milia, quindi 87 mila posti. Di recente si è però proposto di identificare in questo numero lo sviluppo lineare delle gradinate in piedi; pertanto, assegnando a ogni spettatore lo spazio di un piede e mezzo, i posti a sedere scendono a circa 58 mila, molto più convenienti alle reali possibilità architettoniche del monumento. È però probabile che sul portico entrassero in piedi altri 4 o 5 mila spettatori. Dal IV secolo l’assegnazione dei posti non avvenne più per categoria, ma per famiglia: ogni ceppo familiare aveva il nome iscritto sul gradino di sua competenza, nome che veniva opportunamente abraso e sostituito nel caso di rassegnazione dei posti a nuove stirpi. Come la maggioranza degli anfiteatri anche il Colosseo era coperto dal “velario”, più che altro per proteggere gli spettatori dal sole durante la stagione calda. Gli annunci di spettacoli gladiatori rinvenuti ci mostrano come questo accessorio fosse reclamizzato (vela erunt), conseguenza certa di una richiesta da parte del pubblico.
Nel tardo Impero fu restaurato da Severo Alessandro, che rifece il colonnato della “summa cavea”. Nel Medioevo, dopo che svariati terremoti lo avevano danneggiato, fu trasformato in fortezza (appartenente ai Frangipane e agli Annibaldi), per passare nel 1312 al Senato e al Popolo romano. Divenuto una cava di materiali per cantieri edilizi, con Benedetto XIV, che lo consacrò alla Passione di Gesù (attorno all’arena furono costruite 14 stazioni della Via Crucis), si pose fine alla devastazione della struttura, anche se solo al ministero di Guido Baccelli risalgono i lavori per l’isolamento dell’esterno e lo scavo delle strutture interne sotterranee.

Situato tra il Colosseo e l'Arco di Tito sulla strada romana percorsa per i trionfi, l'Arco di Costantino è il più grande arco onorario giunto fino a noi.
L'arco venne eretto per celebrare il trionfo dell'imperatore Costantino su Massenzio dopo la battaglia di Ponte Milvio avvenuta il 28 ottobre del 312 d.C. e venne solennemente dedicato dal Senato a Costantino il 25 luglio del 315 d.C. in ricordo della vittoria e in occasione dei decennalia dell'Impero. L'iscrizione situata sopra il fornice centrale recita le seguenti parole:
All'imperatore Cesare Flavio Costantino Massimo Pio Felice Augusto, il Senato e il Popolo Romano, poiché per ispirazione divina e grande saggezza con il suo esercito e con giuste armi ha liberato lo stato dal tiranno e da ogni fazione, dedicarono un arco decorato di rappresentazioni trionfali. L'iscrizione citata è riportata su entrambe i lati ed è da notare alla terza riga le parole instinctu divinitatis che è stato ricollegato all'apparizione della croce a Costantino. Il monumento venne sottoposto a restauri e a diversi studi fin dalla fine del Quattrocento e nel 1733 ha avuto dei consistenti lavori di integrazione delle parti mancanti. Si tratta di un arco a tre fornici (quello centrale, che è il più grande, è lungo 6,5 metri e alto 11,45) inquadrati sulle due facciate da quattro colonne corinzie su alti plinti e addossate alle pareti, sormontate da una ricca trabeazione al di sopra della quale è situato un attico a una altezza di 25 metri, e scandito in tre settori da statue di prigionieri barbari. L'intero arco è decorato da sculture per la maggior parte provenienti da monumenti di epoche precedenti (età di Traiano, di Adriano e di Commodo) andati probabilmente distrutti per gli incendi del 283 e del 307 d.C. Vennero riutilizzati anche altri elementi come colonne, capitelli, cornici ef altro. Sono riconducibili all'epoca della costruzione dell'arco (età costantiniana) le seguenti sculture situate sulle due facciate: quelle situate sui plinti delle colonne (1) scolpiti sui tre lati che ritraggono delle Vittorie; quelle presenti sugli archivolti del fornice centrale (2) sempre ritraenti delle Vittorie; quelle sugli archivolti dei fornici minori (3) che ritraggono divinità fluviali; quelle presenti sulle chiavi degli archi (4), con figure allegoriche sfortunatamente molto rovinate; quelle presenti sulle pareti interne dei fornici minori, con 8 grossi busti di imperatori in rilievo anche questi rovinati; quelle presenti sopra gli stessi fornici minori e, alla medesima altezza, sui due lati corti (5-10), con sei lunghi pannelli che illustrano la campagna contro Massenzio. In questi, iniziando dal lato corto occidentale (verso il Palatino), si susseguono i seguenti episodi: partenza dell’esercito di Costantino da Milano (5), assedio di Verona (6), battaglia di Ponte Milvio (7), entrata di Costantino a Roma (8), discorso di Costantino dai Rostri del Foro Romano (9), distribuzione di denaro al popolo nel Foro di Cesare (10). Sui due lati corti sono infine di epoca costantiniana i due tondi con la rappresentazione della Luna, nel lato ovest (11), e del Sole, nel lato est (12). Appartengono invece all'età di Traiano, provenienti dal Foro di quell'imperatore: le otto statue di Daci prigionieri (con le teste rifatte nel Settecento) nell'attico sui plinti sopra le colonne (13-20), i due pannelli sui lati minori dell'attico con scene di battaglia (21-22) e gli altri due che sono all'interno del fornice centrale (23-24), tutti e quattro appartenenti a un unico grande fregio (alto circa 3 metri e in origine lungo oltre 35) che forse decorava l'attico della Basilica Ulpia. Appartengono all'età di Adriano, forse provenienti da un arco quadrifronte, gli otto tondi (25-32), alti più di due metri, che rappresentano: nella facciata meridionale, la partenza per la caccia (25), un sacrificio a Silvano (26), la caccia all’orso (27), un sacrificio a Diana (28); nella facciata settentrionale, la caccia al cinghiale (29), un sacrificio ad Apollo (30), la caccia al leone (31), un sacrificio ad Ercole (32). In questi rilievi, che debbono riferirsi a episodi reali, appare Antinoo ragazzo e poi giovane mentre le teste di Adriano sono state rilavorate al momento della costruzione dell'arco e trasformate in ritratti di Costantino, nelle scene di caccia, e del suo collega Licinio, nelle scene di sacrificio (i due ultimi sono ancora incorniciati da lastre di porfido andate invece perdute attorno agli altri). Sono infine dell'età di Commodo e provenienti (insieme ad altri tre che si trovano nel Palazzo dei Conservatori) da un arco onorario dedicato a Marco Aurelio, gli otto pannelli dell'attico (alti più di tre metri) ai lati dell'iscrizione (33-40) che rappresentano episodi relativi all'impero di Marco Aurelio (con le teste dell’imperatore rilavorate nel Settecento): nella facciata meridionale, presentazione di un capo barbaro all’imperatore (33), prigionieri condotti davanti all’imperatore (34), discorso dell’imperatore ai soldati (35), sacrificio nell’accampamento (36); nella facciata settentrionale, arrivo a Roma dell’imperatore (37), partenza da Roma dell'imperatore (38), distribuzione di denaro al popolo (39), resa di un capo barbaro (40).
Grazie ad un disegno eseguito sul parterre, tra il Colosseo e il Tempio di Venere e Roma si può vedere l’ubicazione della base in muratura, demolita negli anni 30, che un tempo sosteneva la colossale statua bronzea di Nerone. In origine essa si trovava nel vestibolo della Domus Aurea ed era nota col nome di Colossus Neronis. Opera dello scultore greco Zenodoros, raggiungeva l’altezza di 30 metri e rappresentava l’imperatore nelle sembianze del dio Sole. L’enorme statua non ebbe di sicuro vita facile: Vespasiano ne mutò l’effigie facendovi aggiungere una corona di sette raggi lunghi sette metri ciascuno. Adriano la fece spostare presso il Colosseo per permettere, sembra, la realizzazione del Tempio di Venere e Roma, mentre l’imperatore Comodo sostituì di nuovo la testa con la sua immagine sotto le spoglie di Ercole, mutate ancora, dopo la sua morte, in quelle del dio Sole. In questa veste rimase fino al medioevo, quando ancora si svolgevano processioni al Colosseo per coronare la statua di fiori l’8 giugno, giorno dedicato alla sua festa.
Il Ludus Magnus, la più grande ed importante palestra gladiatoria dell'antica Roma, fu costruito nella valle tra l'Esquilino (Colle Oppio) ed il Celio dall'imperatore Domiziano (81-96 d.C.). Collegato all'Anfiteatro Flavio (Colosseo) attraverso un passaggio coperto, era costituito da un complesso di edifici di servizio: armeria, infermeria, camera mortuaria, magazzino per l'attrezzatura scenica, caserma dei marinai della flotta di Miseno. I resti attualmente visibili appartengono però ad una seconda fase del monumento, attribuita all'imperatore Traiano nella quale il piano del Ludus venne rialzato di circa un metro e mezzo. La posizione topografica del monumento, pur apparendo nella Forma Urbis Severiana (III sec. d. C.), rimase incerta per secoli, fino agli scavi del 1937. A quella data risalgono i lavori che ne riportarono alla luce i resti, collocati fra la via Labicana, la via di San Giovanni in Laterano e la Piazza del Colosseo. La vera struttura del Ludus Magnus ci è pervenuta tramite un frammento della Forma Urbis (la pianta marmorea di Roma di età severiana che è giunta fino a noi in frammenti): l'edificio era composto da un'arena di forma ellittica (asse maggiore 62 metri, asse minore 45 metri) circondato dalle gradinate di una piccola cavea che in origine era rivestita di marmo; gli ingressi principali dell'arena erano sull'asse maggiore, mentre all'altezza dell'asse minore erano previsti dei palchi per le autorità.
Intorno alla cavea era situato un portico a due ordini di colonne in travertino con agli angoli delle fontane (una di queste fontane è stata ricostruita nell'angolo nord-ovest); in corrispondenza del lato settentrionale sono ancora visibili, in discreto stato di conservazione, delle celle provviste anche di scale per salire ai piani superiori. Del colonnato rimangono solo pochi resti in travertino che sono stati rialzati nel posto presumibilmente occupato in origine dalle colonne. Sul portico a pianta quadrata si affacciavano una serie di ambienti perimetrali, riservati all'alloggio dei gladiatori ed ai servizi per gli spettacoli; lo spazio fra il quadriportico e la càvea venne utilizzato come cortile e, negli spazi di risulta tra il muro curvo della cavea ed il colonnato, furono costruite quattro fontane triangolari. Le strutture dell'edificio, in laterizi, erano originariamente rivestite con lastre marmoree, che furono oggetto di spoliazioni durante le fasi di abbandono del monumento. Gli accessi al Ludus erano sugli assi principali: si ipotizza che l'ingresso al centro del lato nord fosse riservato alle autorità, cui era destinata anche la tribuna d'onore che si apriva sulla cavea in quel punto. Con il declino dell'Anfiteatro Flavio e la cessazione degli spettacoli gladiatori,si concluse anche la vita del Ludus Magnus: prima della metà del VI sec. d.C. il monumento era, infatti, in stato di completo abbandono. Intorno al Ludus Magnus dovevano esserci altri edifici simili fatti costruire da Domiziano e tutti del medesimo tipo con arena e cavea e con ambienti eventualmente porticati: il Ludus Matutinus destinato all'allenamento dei venatores (le grandi cacce che si svolgevano di mattina) e situato sul Celio, il Ludus Dacicus e il Ludus Gallicus (quest'ultimo situato sul Celio) che devono il loro nome al luogo d'origine dei gladiatori che vi alloggiavano. Nelle immediate vicinanze della scuola per gladiatori erano situate tutte quelle strutture collegate per la loro funzione al Colosseo come ad esempio: lo spoliarium, dove venivano sistemati i cadaveri dopo gli scontri e spogliati delle loro armature; il saniarium, un piccolo "pronto soccorso" che serviva per il ricovero e la cura dei gladiatori feriti; il summum choragium, il magazzino dove venivano conservati gli "scenari", le macchine, i costumi e ogni genere di attrezzi e apparati destinati alla realizzazione delle scenografie per il Colosseo; infine da segnalare l'armamentarium, il deposito dove erano sistemate le armi utilizzate dai gladiatori ed erano situate anche le officine destinate alla riparazione di queste.

Verso la fine del I secolo d.C. nei pressi del Colosseo venne realizzata una strana fontana di forma tronco-conica simile alle metae, (piccoli obelischi che sorgevano ai punti estremi delle spine dei circhi come punti di partenza e di arrivo nelle corse con le bighe) per cui essa venne detta “Meta sudante”. Strutturalmente era costituita da un alto cilindro rivestito di marmi pregiati e ornato di nicchie contenenti statue, il quale sosteneva un cono centrale alto circa 12 metri che conferiva all’insieme un aspetto alto e slanciato. Il cono era rivestito di lastre metalliche o forse marmoree, mentre alla sua sommità si trovava un ornamento a forma di pigna o di fiore architettonico da cui fuoriusciva l’acqua che scivolando lungo le pareti del cono faceva apparire la fontana quasi trasudante (da cui, appunto, il nome). Presso quella fontana, secondo la leggenda, andavano a dissetarsi o a lavarsi le ferite i gladiatori sopravvissuti alle fatiche del circo. Costantino durante il suo impero la restaurò e, a breve distanza dal suo corpo centrale, fece realizzare un muro anulare che serviva a contenere un’eccedenza di acqua dovuta al non perfetto funzionamento dei canali. Nel 1936, per motivi urbanistici e di viabilità, ciò che rimaneva della famosa fontana venne ingiustamente demolito fino alla base. I resti furono ricoperti con cemento armato e la sua ubicazione e dimensione furono indicate sull’asfalto con sampietrini bianchi. Da qualche anno sono iniziati i lavori di scavo archeologico volti a recuperare le fondazioni e il sistema di canalizzazione dell’acqua.

In summa Sacra via sorse per volontà dell’imperatore Adriano uno dei più grandi templi mai edificati nell’Urbe, dedicato alla dea Venere, progenitrice della stirpe romana, e alla dea Roma, qui per la prima volta celebrata come simbolo della grandezza dell’impero. Il tempio ha un impianto particolarissimo, unico a Roma, in cui le due celle sono addossate, quella dedicata alla dea Roma guarda verso occidente, verso il Foro ed il Campidoglio, quella dedicata a Venere verso oriente, in direzione della Valle del Colosseo. Durante l’impero di Massenzio, nel 307 d.C., il tempio venne restaurato in quanto destinato a far parte del grande progetto per il nuovo Foro, dedicato alla celebrazione dell’ultimo rappresentante del mondo pagano e della tradizione romana, prima che la nuova forza emergente del Cristianesimo si sovrapponesse alla cultura antica. Della grande, quasi frenetica attività edilizia di Adriano il tempio di Venere e Roma, che sorge tra l’Anfiteatro Flavio e il Foro Romano, rappresenta il documento più grandioso. Il dissenso definitivo con Apollodoro sarebbe stato causato proprio dai progetti per questo edificio, che doveva essere costruito in luogo delle demolite costruzioni neroniane e repubblicane esistenti e che implicava lo spostamento del Colosso di Nerone, non ancora ultimato all’epoca della sua morte, avvenuta nel 138 d. C. L’originalità della pianta del tempio, con le due celle addossate, disposte su di uno stesso asse, costituisce una rarità a Roma e nel mondo occidentale, ma ben si intona con il carattere profondamente innovatore della personalità di Adriano architetto, in antitesi con la tradizione ufficiale traianea, rappresentata da Apollodoro di Damasco. L’inaugurazione del tempio di Venere e Roma avvenne nel 121 d.C., il giorno del Natale di Roma, con un chiaro scopo celebrativo; nel momento di massima espansione dell’impero, la dea Venere, progenitrice dell’impero, e la grandezza della città di Roma divenuta la guida del mondo, vengono collegate da un asse simbolico e al tempo stesso topografico, lungo il quale si deve intendere il duplice sviluppo della storia e della legenda di Roma e dell’impero. La divinizzazione di una città era un concetto che apparteneva alla cultura orientale-ellenistica e non certo alla tradizione romana, pertanto il fatto che l’imperatore facesse propria tale consuetudine è il segno di un’avvenuta integrazione culturale, ormai consolidata all’epoca di Adriano. Il tempio si attesta su un caposaldo di alto valore simbolico, in quanto luogo sacro ai Penates, già scelto da Nerone per la sua Domus Transitoria, in virtù di questa posizione assume la duplice valenza di punto limite e al tempo stesso elemento di collegamento e continuità; questa doppia valenza è da interpretare soprattutto come una visione originale ed intellettuale che Adriano vuole attribuire al suo imperio. Lo esercita richiamandosi alle tradizioni più antiche come la festa delle Paliliae, a cui dà nuova vita, ma non esita parimenti ad accogliere ed incoraggiare l’osmosi tra questa cultura e quella del mondo ellenistico. Inoltre il tema del doppio su cui è incentrato il disegno del tempio ha prodotto anche un rigido condizionamento dell’impianto, tutto giocato sulla simmetria e sul raddoppio delle celle, visti come elementi decisivi e fondamentali dell’architettura. La superficie che il tempio copre non ha paragoni nell’Urbe, eguaglia quella del vicino Anfiteatro Flavio (circa un ettaro) da cui lo separa un podio, in gran parte artificiale, che integra quello già esistente naturale; da cui è possibile guardare non solo il Foro e la valle del Colosseo, ma anche i colli circostanti. L’area era delimitata da un recinto di colonne di granito grigio venuto dalle cave d’Egitto, doppie sui lati S e O che confinano con la via Sacra e col Foro, e in fila unica sui restanti lati. Attraverso i propilei si accedeva all’enorme area sacra, pavimentata con marmo di un bianco candido. Il tempio sorgeva al centro, su una struttura articolata in sette scalini e una duplice fila di colonne- ventidue sul lato maggiore e dieci sul minore- alte circa venti metri, due di diametro, racchiudeva le celle. I pronai da cui si accedeva a queste erano conclusi da colonne di uguali dimensioni, in numero di sei. All’interno delle celle lo spazio era suddiviso in tre navate, quella centrale maggiore delle laterali, e colonne di porfido, su tre ordini, delimitavano gli spazi laterali. Il tempio era rivestito di marmo e finemente decorato secondo il gusto classico, similmente al tempio di Traiano; si pensa da maestranze provenienti da Afrodisia, presenti a Roma in quel periodo. Lo schema costruttivo segue quello classico delle strutture trilitiche, che si può riassumere schematicamente in due piedritti che sostengono la trave. Nel caso del tempio siamo di fronte ad una struttura di sostegno, i muri delle celle, che ha spessore assai esiguo, m.1,80, a fronte di una luce davvero considerevole m. 28 circa. La snellezza di questi muri, sebbene realizzati con blocchi di resistente peperino, non potrebbe far fronte al poderoso carico della copertura se non entrasse a far parte del sistema dei sostegni anche il robusto doppio colonnato della peristasi e quello di minore dimensione, su tre ordini, interno alle celle. Solo avvalendosi della collaborazione di tutti questi appoggi, da intendere come un unico insieme, è stato possibile coprire il tempio; la logica dell’assemblaggio funziona come se le colonne ed il muro fossero qualcosa di simile ad una muratura continua, meglio un sistema di archi. L’intervento di restauro compiuto da Massenzio per riparare ai danni del dissesto statico, che si era venuto a creare secondo le fonti, in seguito ad un grande incendio, è incentrato sostanzialmente sulle celle, quindi nella parte più interna; è plausibile pensare che la copertura fosse crollata, schiantando le colonne interne più fragili del sistema dei piedritti, mentre le altre avevano offerto maggiore resistenza. Non possiamo dire lo stesso delle murature perimetrali delle celle, eccezionalmente snelle, che vengono “svestite” in questa fase dei preziosi marmi che le coprivano per essere consolidate con spessa muratura di rinforzo. Ed è proprio questo “spessore”, cioè la distanza che intercorre tra il colonnato a più ordini e il muro della cella che viene “riempito” con la poderosa fodera di calcestruzzo e cortina. Il sofisticato equilibrio di una struttura agile, semplice nello schema ma complessa al tempo stesso per il calcolo impegnativo della resistenza dei materiali e delle spinte, a questo punto è completamente stravolta, trasformata. In questa opera innovativa l’imperatore ha trasformato l’architettura del tempio greco classico, calibrata sulla dimensione e sulla percezione dell’uomo, in una architettura di dimensioni gigantesche, emblematica della grandezza di Roma. I rapporti canonici sono conservati ma solo formalmente, dal momento che il raddoppio dello schema tipologico – questo è il tema sostanziale dell’impianto- fa saltare ogni tipo di commisurazione con la dimensione dell’uomo. Il nuovo gigantismo, con una formula fortunata, si coniuga con il concetto del “doppio”, ed il rammarico è che nulla è pervenuto a noi del parere di Apollodoro sull’argomento (a proposito delle famose volte “a zucca” (a ombrello), un noto passo di Cassio Dione riferisce che Apollodoro avrebbe risposto ad Adriano che gli aveva chiesto un parere sui suoi disegni per il Tempio di Venere e Roma “torna a disegnare le tue zucche; tu non sai nulla di questi problemi”). Un interessante tentativo di restauro del tempio, dopo la spoliazione di Onorio, si ebbe intorno al 1930 per opera dell’architetto Antonio Munoz, a cui si deve l’allestimento della platea. Egli vi sistemò basi e colonne ritrovate, mentre ricostruì il disegno iconografico con fusti di piante sempreverdi (bosso) tagliate come colonne.
La basilica di S.Maria Maggiore occupa la sommità del Cispio, una delle tre sommità del colle Esquilino. Scavi effettuati sotto il pavimento della basilica, negli anni '60, hanno evidenziato tratti di un edificio, costituito essenzialmente da un grande cortile porticato, lungo 37 metri e largo 30, sul quale si affacciavano alcuni ambienti. L'ingresso avveniva dal lato dell'abside della basilica. La struttura muraria, i pavimenti, le basi delle colonne ritrovate permettono di attribuire l'edificio all'età augustea. La storia della fondazione della basilica di S.Maria Maggiore, detta anche "Liberiana" dal nome del suo fondatore, viene tradizionalmente legata alla leggenda secondo la quale, nel 352, papa Liberio sognò la Madonna che gli ordinava di costruire una chiesa là dove avesse trovato la neve. Quando il mattino del 5 agosto, nel mezzo di una torrida estate romana, nevicò sull'Esquilino, il papa ubbidì. Il miracolo della neve viene ricordato ogni anno, il 5 agosto, in una funzione durante la quale petali bianchi vengono fatti cadere dal soffitto dell'edificio. Dell'antica basilica non resta traccia, se non alcuni stupendi mosaici ancora esistenti nonostante numerosi restauri. La struttura attuale è dovuta a Sisto III (432-440), che, probabilmente, commissionò i 36 riquadri raffiguranti scene bibliche, la più interessante documentazione di arte musiva del Basso Impero. In quegli anni la basilica assunse il nome di Sancta Maria ad praesepe, per la commovente reliquia che ospita, ossia alcune parti della mangiatoia ove fu deposto il Bambino Gesù, conservata in una cappella sotterranea. I successivi cambiamenti avvennero nel XIV secolo, quando il cardinale d'Estouteville fece aprire le due porte laterali oppure quando Alessandro VI, ancora cardinale, fece completare il meraviglioso soffitto a cassettoni, opera di Giuliano da Sangallo, che dicesi dorato con il primo oro arrivato dall'America appena scoperta. Benedetto XIV, nel 1743, fece la facciata attuale con la loggia delle benedizioni, che, purtroppo, copre alla vista i bellissimi mosaici della facciata antica. Numerose le sepolture importanti che la basilica conserva: Sisto V (la sua Cappella è opera di Domenico Fontana ed i materiali utilizzati provengono dal Septizodium), Paolo V, San Pio V, Clemente VIII, Clemente IX, ma certamente la tomba più caratteristica è quella di Antonio Emanuele Funta, soprannominato "Nigrita", ambasciatore di Alvarez II, re del Congo, che nel 1604 lo inviò a Roma per ottenere l'invio di missionari nelle sue terre. Il papa Paolo V lo accolse con grandi festeggiamenti, ma il povero Nigrita morì prima di essere ricevuto dal papa; il monumento reca la testa del Nigrita in pietra nera sulla quale spiccano due bianchissimi occhi ed una falsa epigrafe: il monumento fu fatto per ordine di Paolo V, ma l'epigrafe fu fatta cambiare, più tardi, da Urbano VIII, per arrogarsi il merito di aver onorato il congolese. Il campanile, il più alto di Roma (75 metri), risale al 1370 per volontà di Gregorio XI, anche se fu portato a termine grazie ai finanziamenti del cardinale d'Estouteville quasi un secolo dopo. La copertura piramidale si deve invece a Giulio II. Nel XVI secolo vi fu collocato un orologio per le ore latine, che fu sostituito da un altro dalle dodici ore: ci pensò poi Ferdinando Fuga a toglierlo nel fare la nuova facciata nel 1741. Fino al secolo scorso il campanile conservava una campana chiamata "della Sperduta", poiché si racconta che una pellegrina, venendo a Roma a piedi, perse la strada e si raccomandò alla vergine per essere aiutata. Subito udì i rintocchi della campana, seguendo i quali raggiunse la basilica di S.Maria Maggiore e in tal modo si salvò. In ricordo del fatto, la pellegrina lasciò una rendita affinché alle due di notte venissero perpetuamente suonati i rintocchi di questa campana, oggi sostituita da altra donata da Leone XIII, mentre l'antica, opera di Guidotto e Andrea Pisano nel 1289, si conserva in Vaticano. Sulla piazza antistante l'ingresso della basilica, in piazza S.Maria Maggiore, sorge (vedi foto a destra) l'unica colonna di marmo rinvenuta integra nella basilica costantiniana o di Massenzio, che costituiva, insieme ad altre sette, la grandiosa volta centrale. Fu fatta collocare qui da Paolo V nel 1615 per porvi una statua della Vergine con Bambino, in bronzo. Si racconta che tale opera fu compiuta in tale brevissimo tempo e senz'altro danno che la caduta, senza conseguenze, di una guardia svizzera dall'alto di un'impalcatura, che il pontefice, entusiasta, elargì grandi premi ai lavoratori che avevano preso parte ai lavori. Sul retro della basilica, in piazza Esquilino, sorge un obelisco (nella foto a sinistra), di granito, alto 14,75 metri, privo di geroglifici, quindi non databile e d'ignota provenienza. Giaceva in pezzi accanto alle rovine del Mausoleo di Augusto, dove era stato eretto (insieme all'altro obelisco che si trova oggi in piazza del Quirinale). All'inizio del 1587, Domenico Fontana cominciò i lavori per collocarlo nella sede attuale, all'inizio cioè della "strada Felice", il lungo rettifilo che congiungeva l'Esquilino a Trinità dei Monti: Felice è il nome laico di papa Sisto V Peretti, che commissionò l'opera.
Fu edificata da papa Silvestro nella prima metà del IV sec. Ma venne interamente rifatta verso il 1509 da papa Simmaco. Fu restaurata una prima volta nell’844 da Sergio II e poi da Leone IV. Ma il grande restauro che le diede la forma attuale risale al 1650 e si deve al generale dei carmelitani Antonio Filippini che vi impiegò 80 000 scudi del proprio patrimonio. La facciata a due ordini a timpano, con stucchi di Stefano Castelli, fu realizzata tra il 1664 e il 1676; il campanile a vela venne innalzato nel 1714; il pavimento, in marmo e mattoni, su disegno di Francesco Belli, fu rifatto nel 1787. Nell’interno, a pianta basilicale, divisa in tre navate, ci sono: Paesaggi e storie di Elia, di Gaspard Dughet; Battesimo di Cristo, di Antonio Cavallucci; S. Maria Maddalena de’ Pazzi, tela di Matteo Piccione; Il Battista ad Elia, del fiammingo Daniele Latre; Estasi di Carlo Borromeo, di Filippo Ghepardi. Da notare la spettacolare cripta del Gagliardi, che usò colonne doriche: visi conservano i resti di molti martiri “i cui nomi sa Iddio”. Sotto la chiesa, con ingresso dalla cripta, c’è l’antico Titolo di Equizio, di pianta rettangolare, diviso in vani minori da una duplice fila di grossi pilastri. Venne restaurato e migliorato da Sergio II e ristrutturato nel XIII secolo. Dal 1637 vennero eseguiti dei lavori tra cui l’adattamento di una stanza a cappella di S. Silvestro.
La basilica deve il suo nome alle catene o vincoli che, secondo la tradizione, furono utilizzate per legare S.Pietro durante la sua prigionia nel carcere Mamertino. Nel V secolo, l'imperatrice Eudossia di Teodosio ebbe in dono queste catene durante un viaggio a Costantinopoli: l'imperatrice le inviò alla figlia, Eudossia anch'essa, che le recò personalmente a papa Leone I. Questi, però, un pò dubbioso dell'autenticità delle catene, volle mostrare alla pia donna le catene già in possesso della Chiesa, ritrovate da S.Balbina, la figlia di Quirino, il carceriere battezzato da S.Pietro durante la prigionia nel carcere Mamertino. Le due catene, giunte a contatto, si fusero miracolosamente e nulla poté più disgiungerle. In memoria di questo fatto, fu edificata, nell'anno 442, la chiesa di S.Pietro in Vincoli: le catene sono ancora qui, esposte sotto l'altare (nella foto a destra). La chiesa venne più volte restaurata, da papa Adriano nel 790 circa, da Sisto IV e da Giulio II. L'ingresso della basilica è preceduto da uno splendido portico a cinque colonne del Quattrocento, opera di Meo del Caprino. L'interno è a tre navate divise da colonne a capitello dorico. La chiesa, inoltre, conserva insigni memorie artistiche: un antico mosaico nel quale S.Sebastiano è ritratto con la barba e il volto da vecchio, pitture del Domenichino, del Guercino e di altri sommi artisti, ma senza alcun dubbio il capolavoro è il famosissimo Mosè di Michelangelo, che era destinato ad ornare la tomba di Giulio II. Quando la tomba gli fu commissionata, nel 1505, Michelangelo trascorse otto mesi a Carrara alla ricerca di blocchi di marmo perfetti, ma, al suo ritorno, il papa aveva spostato il suo interesse al rifacimento di S.Pietro e, quindi, il progetto venne accantonato. Dopo la morte del papa, nel 1513, Michelangelo riprese il lavoro alla tomba, ma completò solo il Mosè e i Prigioni prima che papa Paolo III lo convincesse a lavorare al Giudizio Universale nella Cappella Sistina. La tomba fu terminata dai suoi allievi e consiste in una semplice facciata con sei nicchie per le statue, ben poca cosa rispetto all'originario progetto dell'artista che avrebbe voluto realizzare una tomba con 40 statue. I Prigioni sono ora a Parigi e a Firenze ma il Mosè è qui conservato, come possiamo apprezzare dalla foto sotto il titolo. Le curiose corna che adornano la testa di Pietro dovrebbero essere dei raggi di luce, ma in seguito ad un'errata traduzione dal testo ebraico del Vecchio Testamento si sono tramutati in corna. Dopo il 1870, con il pericolo incombente di vedersi confiscare il convento, secondo la nuova legislazione dello Stato Italiano, i Canonici Regolari escogitarono una finta vendita con la condiscendente famiglia milanese dei Vimercati. Scoperto l'inganno, però, le autorità competenti espropriarono l'intero convento e obbligarono i Vimercati a lasciare la città. Il complesso divenne quindi proprietà dello Stato, che destinò la parte destra a regia Scuola di Ingegneria e affittò l'altra ala agli stessi Canonici.
La chiesa prende il nome da S. Prassede, sorella di S. Pudenziana e figlia del senatore romano Pudente, discepolo di S.Paolo. Un'antica leggenda narra che Prassede e Pudenziana vennero uccise perché davano sepoltura ai martiri delle persecuzioni di Antonino Pio nei pozzi situati nel vasto terreno di proprietà del padre. La chiesa, situata in via di S.Prassede, fu fondata nel IX secolo da papa Pasquale I; ma esisteva un titulus Praxaedis assai prima, alla fine del V secolo, anche se la tradizioni lo fanno risalire addirittura al II secolo. E’ dubbio però se esso fosse qui: si suppone, infatti, che dovesse sorgere nel vicus Lateranus, nei pressi dell'attuale via di S.Giovanni. Pasquale I cambiò di posto alla chiesa, ricostruendola nel luogo attuale nell'822. Questa subì vari restauri nei secoli XV, XVII e XIX, che ne alterarono alquanto il primitivo carattere, anche se oggi conserva ancora la struttura medioevale. L'interno era costituito da tre navate divise originariamente da 12 colonne di granito a trabeazione rettilinea; quindi sei di queste furono ridotte a pilastri, cui si appoggiano archi trasversali nelle navate minori. Nel centro del rifatto pavimento un disco ricopre il pozzo nel quale la santa raccolse i resti ed il sangue dei martiri: si parla di diverse migliaia e proprio per questo la chiesa è una delle più venerate di Roma. Artisti bizantini decorarono la chiesa di mosaici dorati. Quelli nell'abside e nel coro raffigurano gli antenati in vesti bianche, gli eletti che guardano giù dall'alto dei cieli, agnelli dalle zampe sottili, palme dal bel ciuffo piumato e vivaci papaveri rossi. Nell'abside, S.Prassede e S.Pudenziana stanno ai lati di Cristo, circondate dal paterno abbraccio di S.Paolo e S.Pietro. A metà della navata destra, la Cappella di S.Zenone (nella foto sotto il titolo), uno dei più importanti monumenti bizantini in Roma, eretta da Pasquale I come mausoleo della madre Teodora. Le due colonne di granito nero del portale e la ricca cornice curva provengono da edifici pagani e sono sormontate da un doppio giro di mosaici: nel giro interno, Madonna col Bambino, Prassede, Pudenziana e altre Sante; nel giro esterno Cristo con gli Apostoli e 4 Santi, di cui 2 forse aggiunti nel secolo XIII. L’interno della Cappella, a volta, con colonne angolari, è interamente ricoperto da mosaici e così splendente da essere stato chiamato “il Giardino del Paradiso”. In una nicchia a destra dell’ingresso è custodita una colonna portata da Gerusalemme nel 1223: la tradizione vuole che sia un frammento della colonna alla quale fu legato Gesù per essere flagellato. Altre tradizioni legate a questa chiesa ci dicono che la lunga tavola di marmo posta a sinistra della navata serviva da letto alla santa che vi dormiva per penitenza, mentre l'urna posta sotto l'architrave d'ingresso racchiuda le ossa di S.Valentino, protettore degli innamorati.
Si tratta della grande colonna, alta 14, 30 metri, di marmo imenio, scanalata, unica superstite delle otto che appartenevano alla Basilica di Massenzio al Foro. E’ sormontata da una Madonna col Bambino, bronzo di Guglielml Berthelot. Ai piedi della colonna è collocata un’antica fontana eseguita dallo stesso Maderno con la collaborazione di Gaspare de’ Vecchi.
Nei primi anni del suo regno, Nerone aveva fatto costruire la Domus Transitoria, destinata a collegare i possessi imperiali del Palatino con gli Horti Maecenatis sull'Esquilino. Nel corso del terribile incendio del 64 d.C., la casa bruciò interamente (alcuni resti sono stati rinvenuti al di sotto della Domus Flavia sul Palatino). Di conseguenza, Nerone si fece costruire la più ampia delle dimore imperiali, la Domus Aurea. Svetonio ci narra che "una statua colossale alta 120 piedi (rappresentante Nerone), poteva entrare nel vestibolo della casa; l'ampiezza di questa era tale da includere tre portici lunghi un miglio e uno stagno, anzi quasi un mare, circondato da edifici grandi come città. Alle spalle ville con campi, vigneti e pascoli, boschi pieni di ogni genere di animali selvatici e domestici. Nelle altre parti tutto era coperto di oro, ornato di gemme e di conchiglie. Le sale da pranzo avevano soffitti coperti da lastre di avorio mobili e forate in modo da permettere la caduta di fiori e di profumi. La più importante di esse era circolare e ruotava continuamente, giorno e notte, come la terra. I bagni erano forniti di acqua marina e solforosa. Quando Nerone inaugurò la casa alla fine dei lavori, se ne mostrò soddisfatto e disse che finalmente cominciava ad abitare in una casa degna di un uomo". Tutta questa maestosità occupava un'area immensa: dal Palatino e dalla Velia (dove era il vestibolo, più tardi occupato dal Tempio di Venere e Roma) si estendeva fino all'attuale chiesa di S. Pietro in Vincoli, seguiva via delle Sette Sale e, seguendo le Mura Serviane, arrivava fino al Celio, dove era il Tempio di Claudio, trasformato in ninfeo, per poi raggiungere nuovamente il Palatino. Architetti ne erano stati Severo e Celere, che compirono l'opera in soli quattro anni. Per poco tempo l'imperatore godette del lusso e della ricchezza della dimora da lui ideata; infatti, poco tempo dopo la conclusione dei lavori, Nerone fu condannato a morte ed i suoi successori, volendo cancellare il ricordo dell'odiato imperatore, secondo un rito pressoché identico nei secoli, distrussero le opere da lui volute. Il palazzo fu parzialmente demolito e ricoperto di macerie per fare da fondamenta a nuove costruzioni. Tito e Traiano diedero l'incarico di erigere delle terme sopra il palazzo. L'inglobamento della Domus Aurea nelle nuove costruzioni delle terme, con il conseguente interramento di molte delle sue parti, ne ha reso possibile la conservazione quasi intatta fino al Rinascimento, quando se ne fecero le prime scoperte. Vespasiano fece drenare lo stagno e vi costruì al suo posto l'Anfiteatro Flavio, che verrà in seguito denominato Colosseo proprio a causa del trasferimento, innanzi all'edificio, di quel Colosso in bronzo dorato, raffigurante Nerone, che si ergeva dinanzi al vestibolo della Domus Aurea. Di tutto questo enorme complesso, che aveva l'aspetto più di una villa che di un palazzo, resta soltanto uno dei padiglioni, quello sul Colle Oppio. Proprio questa zona è stata considerata come il punto focale del complesso, dal momento che una delle sale, la "sala ottagona" (nella foto a sinistra), sarebbe stata orientata sulla posizione del sole al momento dell'equinozio dell'autunno del 64. Il settore occidentale si articola su un grande cortile porticato su tre lati mentre quello settentrionale prendeva l'aspetto di un criptoportico, dalla chiara funzione di sostegno per il retrostante terrapieno. Sul lato meridionale del cortile si aprivano gli ambienti più importanti, al centro dei quali si trovava una doppia sala con due alcove sui lati, nelle quali si sono voluti identificare i cubiculi, ossia le stanze da letto, della coppia imperiale; altri ambienti si disponevano a fianco delle alcove e due di essi dovevano essere ornati di statue, indicate dalla presenza di basi in mattoni nelle absidi. Tutto questo settore, chiaramente privato, si apriva con grandi porte su un portico che si affacciava sulla valle sottostante; oggi questa ricerca di punti di fuga visivi è completamente alterata dagli interventi di età traianea, che hanno murato le porte di queste stanze, così come il grande ninfeo sito a est risulta diviso a metà da un muro di fondazione delle terme. I nomi con cui sono in genere chiamate queste stanze traggono origine dagli elementi pittorici più significativi in esse contenuti, come la "sala della volta delle civette", così detta dai motivi decorativi della volta, riprodotta nei disegni e nelle incisioni del Settecento, la "sala della volta nera" e la famosa "sala della volta dorata" (nella foto a destra), con la sua sfarzosa decorazione a stucchi policromi. Proprio a proposito di pittura, dobbiamo ricordare il livello altissimo della decorazione, fornitoci dagli scarsi frammenti di pittura conservati, che si possono integrare con i disegni degli artisti rinascimentali. Molti di questi venivano ad ispirarsi, infatti, in queste grotte (da qui nacque l'idea della pittura "grottesca") e vi hanno lasciato spesso la loro firma: artisti famosissimi, come Raffaello, Pinturicchio, Ghirlandaio, Giovanni da Udine e altri, le cui firme graffite o tracciate a nerofumo sulle pareti della domus testimoniano ancora oggi il ricordo della visita, trassero ispirazione dalle pitture e dagli stucchi neroniani per decorare le logge e le stufette di cardinali e aristocratici romani, nei Palazzi Vaticani, a Castel Sant’Angelo, a Palazzo Madama. Nel 1506, nello scavare in una vigna del colle Oppio, venne disseppellito il gruppo del Laocoonte, una delle opere scultoree più famose dell’antichità, che divide con il Toro Farnese il privilegio di essere citato nella Storia naturale di Plinio il Vecchio, secondo cui la scultura, raffigurante l’estremo sacrificio del sacerdote troiano e dei suoi figli, condannati dal fato ad una fine terribile per essersi opposti all’ingresso nella natia Troia del cavallo dell’inganno acheo, era posta ad ornamento della domus di Tito. La presenza del celebre gruppo nell’area della Domus Aurea non sorprende se si considera che le fonti antiche più volte sottolineano le manie collezionistiche di Nerone, che aveva compiuto razzie in tutta la Grecia per adornare i saloni della sua reggia, vero e proprio museo di capolavori classici ed ellenistici, tra i quali probabilmente le statue bronzee dei Galati vinti, più tardi trasferite, insieme al resto, nel Tempio della Pace di Vespasiano per essere restituite al pubblico godimento. I soggetti raffigurati rivelano una netta predilezione per i personaggi e gli episodi della saga troiana (come l'affresco riportato qui a lato, rappresentante la saga troiana), forse un omaggio alla città che aveva dato le origini a Roma e alla famiglia giulio-claudia. La fama degli stucchi e delle pitture della Domus Aurea resta legata al nome di Fabullo, l’artista ricordato da Plinio il Vecchio per il suo stile severo e per la mania di dipingere in toga anche sulle impalcature di cantiere. Le decorazioni dipinte, gli stucchi e alcuni frammenti di mosaico sono quel che resta del lusso e della ricchezza originaria. Gli affreschi, che ricoprono intere pareti dei corridoi e degli ambienti di passaggio, lasciando il posto nelle sale principali ai rivestimenti in pregiati marmi di importazione, sono tutti ascrivibili al cosiddetto quarto stile pompeiano, il sistema decorativo che caratterizza l’ultima fase di vita della città vesuviana e che, ispirandosi alle scenografie teatrali, scandisce le pareti con esili e finte architetture, sovrapposte su più registri, popolate da figure e animali fantastici. La storia degli scavi della Domus Aurea inizia nel XVI secolo, quando artisti e appassionati di antichità si calano dall’alto dei giardini delle Terme di Traiano nelle "grotte" di Nerone, per copiare i motivi decorativi a fresco e a stucco delle volte. Nel XVII secolo Pietro Sante Bartoli liberò dalla terra alcune stanze del complesso neroniano e pubblicò una serie di disegni tratti dalle decorazioni pittoriche antiche. Negli anni compresi tra il 1758 e il 1769 papa Clemente XIII svolse i primi scavi regolari nella Domus Aurea, affidati alla direzione dell’architetto inglese O.Cameron. Nel 1774 l’antiquario romano Mirri fece sgombrare dalla terra sedici stanze, pubblicando un album di sessanta incisioni tratte dai disegni delle decorazioni eseguite da vari artisti. Negli anni 1811-1814 vennero effettuati gli scavi dall’architetto Antonio De Romanis, che esplorò e liberò dalla terra una cinquantina di stanze, pubblicando subito dopo una planimetria e una relazione delle scoperte. Ad un secolo di distanza le ricerche vennero riprese da Antonio Muñoz, direttore della Regia Soprintendenza ai Monumenti del Lazio e degli Abruzzi. Gli scavi nella Domus Aurea ripresero nel 1939, sotto la direzione della Soprintendenza ai Monumenti del Lazio, e successivamente negli anni 1954-1957. Nel 1969 la Soprintendenza Archeologica di Roma promosse l’esplorazione del piano superiore e avviò un programma di impermeabilizzazione delle volte. Agli inizi degli anni Ottanta, la Domus Aurea venne chiusa al pubblico per consentire i lavori di restauro e di conservazione delle strutture e degli affreschi. Urgeva, infatti, eseguire immediati e accurati controlli sulla sicurezza statica delle strutture murarie, sullo stato di degrado delle pitture e degli stucchi, sui pericoli derivanti dalle acque piovane. A ciò si aggiungeva l’eccezionale dimensione del complesso antico, formato da 150 stanze per la maggior parte coperte da volte a botte alte tra i 10 e gli 11 metri, che apparve straordinaria agli occhi dei contemporanei di Nerone e che appare straordinaria ancora oggi a noi. Solamente pochi anni fa il grandioso complesso è stato riaperto completamente al pubblico. L'ingresso si trova in viale della Domus Aurea, nei giardini del Colle Oppio.
Posto di fronte all’abside barocca della basilica di S. Maria Maggiore, vi fu innalzato il 13 agosto 1587: si tratta di uno dei due obelischi che anticamente ornavano l’ingresso al mausoleo di Augusto. Urbanisticamente fu sistemato per abbellire il cancello della villa del papa, che però scomparve alla fine del secolo scorso. (Villa Montalto )
La via conserva il nome originario, Clivus Scauri, testimoniato da fonti medioevali a partire dall'VIII secolo, ma anche da un'iscrizione imperiale. L'apertura della strada va attribuita a un membro della importantissima famiglia degli Aemilii Scauri (si pensa a M.Emilio Scauro, censore nel 109 a.C.). La strada è affiancata, in alcuni punti, da abitazioni dell'età imperiale: si possono notare, passando sotto gli archi medioevali, i fori delle porte e delle finestre delle abitazioni e delle botteghe che vi si affacciavano. Nella foto qui accanto, l'ingresso di una abitazione scoperta nel 1887 e ritenuta quella dei Ss.Giovanni e Paolo, come indica la lapide: difatti, questa casa è addossata alle mura della chiesa dei Ss.Giovanni e Paolo.

La basilica sorge sul pendio occidentale del Celio, nell'omonima piazza dei Ss.Giovanni e Paolo. È dedicata a due soldati romani martirizzati, Giovanni e Paolo, ufficiali sotto l'imperatore cristiano Costantino. Chiamati a servire sotto l'imperatore Giuliano l'Apostata, i due ufficiali, a seguito di un rifiuto di ordine religioso, furono uccisi nella loro stessa casa nel 362 d.C. Gli scavi sotto la Chiesa hanno effettivamente evidenziato due case romane, accostate, del II e del III secolo. Già dal IV secolo, la casa (nel frattempo, le due strutture si erano unificate) aveva ormai preso una destinazione differente da quella originaria: affreschi cristiani e la presenza di un altare rivelano l'utilizzazione dell'ambiente per assemblee liturgiche dei cristiani e, forse, anche come luogo di sepoltura. La basilica, costruita verso la fine del IV secolo, poggiava sugli edifici preesistenti. Il portico ionico risale al XII secolo, così come l'abside e il campanile, che furono aggiunti da Nicholas Breakspeare, l'unico papa inglese, Adriano IV (1154-9). La base dello splendido campanile romanico, così come il convento della chiesa stessa, faceva parte del tratto occidentale del grandioso Tempio del Divo Claudio. Il campanile, come molti campanili romanici, ha pareti decorate con intarsi in marmo e tondi in ceramica. L'interno della chiesa, rimodellato nel 1718, ha colonne e pilastri in granito. Una lastra tombale nella navata segna il punto in cui furono sepolti i due martiri, i cui resti sono conservati in un'urna sotto l'altare maggiore.
La chiesa di S.Giovanni a Porta Latina fu fondata da Gelasio I nel V secolo, riedificata da Adriano I nel 772 e restaurata nel 1191. È una delle più pittoresche tra le antiche chiese romane. È altamente suggestiva, specialmente dopo i restauri del 1940 che gli hanno ridonato l'antica forma, ripristinando il pavimento settile dell'XI secolo, il portico medioevale, sostenuto da colonne classiche, e lo slanciato campanile del XII secolo. Nel cortile, ombreggiato da un alto e vetusto cedro, è posto un antico pozzo del distrutto atrio che risaliva al X secolo. Il pozzo reca incise intorno all'imboccatura le parole di Isaia: "Omnes sitientes venite ad aquas", ossia: "Venite alle acque tutti voi che avete sete". L'interno è stato restaurato di recente e conserva la semplice e antica armonia di forme originaria, con colonne di vari stili che separano le navate. Degli antichi affreschi medioevali rimangono solo delle tracce. Gli affreschi del XII secolo, con 46 differenti scene del Vecchio e del Nuovo Testamento, sono tra i più belli nel loro genere. La chiesa sorgerebbe a ricordo dell'evento miracoloso per cui S.Giovanni subì la prova dell'olio bollente uscendone illeso; il miracolo è ricordato da una cappellina situata sulla via di Porta Latina, S.Giovanni in Oleo.
Questa cappellina ottagonale, in stile rinascimentale, situata in via di Porta Latina, risale al XVI secolo (si dice che su questo luogo sorgesse, in precedenza, una cappella ancora più antica) per un progetto attribuito sia al Bramante sia ad Antonio da Sangallo il Giovane. Venne restaurata in seguito dal Borromini, che modificò il tetto, installandovi una croce sostenuta da una sfera decorata con rose e vi aggiunse anche un fregio in terracotta con rose e palme. Sulla porta, stemma del prelato francese Benedetto Adam (XVI secolo), con il motto "Au plaisir de Dieu". All'interno vi è un affresco che mostra S.Giovanni immerso nell'olio. Infatti, la tradizione vuole che in questo luogo San Giovanni Evangelista, ottantenne, fosse stato gettato in una caldaia di olio bollente. Era l'anno 92 e al supplizio assistette l'imperatore Domiziano in persona. Ma dopo qualche minuto il venerando vecchietto era ancora vivo, senza neppure una scottatura e la folla, terrorizzata, convinta di avere a che fare con un potentissimo mago, chiese che gli fosse fatta salva la vita, contentandosi di esiliarlo lontano. Così S.Giovanni fu estratto dall'olio e mandato in esilio a Patmos, dove ebbe la visione dell'Apocalisse e da dove, poi, poté tornare alla propria comunità di Efeso, per morirvi quasi centenario.
La Porta Latina, da dove esce dalla città la via omonima, è una delle più belle e meglio conservate. La porta ricorda gli antichi traffici con il sud sottoposti a gabelle che si pagavano in moneta sonante presso appositi appalti di riscossione. La facciata di travertino è ancora sostanzialmente quella Aureliana, un poco rimaneggiata nel rifacimento Onoriano: la porta originaria, notevolmente più grande, della quale si distinguono ancora chiare tracce, fu allora ridotta. Nelle parte superiore, forse rialzata da Onorio, si aprono cinque piccole finestre ad arco della camera di manovra. Queste furono, poi, chiuse, probabilmente nel corso della guerra gotica. La torre semicircolare di sinistra è ancora in gran parte quella originale di Aureliano, mentre quella di destra è un rifacimento medioevale. Sulla chiave dell'arco è ancora visibile il monogramma costantiniano, una croce iscritta in un circolo. La chiusura, come sempre nelle porte principali, era duplice: una porta a due battenti all'esterno e una a saracinesca all'interno, che scorreva dall'alto in basso entro una scanalatura, che poteva bloccare istantaneamente l'accesso in caso di necessità. La corte fortificata interna, con la controporta, ora interamente scomparsa, è più volte rappresentata in stampe e disegni dal Rinascimento al XVIII secolo. Una porticina antica, collocata dietro la torre occidentale della porta, dà accesso al camminamento e alla camera di manovra, la cui muratura è moderna, del XVII secolo. Alla porta è legata l'antica leggenda secondo la quale questa fu sicuro riparo al dio Saturno detronizzato da suo figlio Giove e fuggiasco per le campagne del Lazio. Sotto questa porta c'è ancora il "rumore della peste" che ne determinò la chiusura per precauzioni sanitarie nel giugno del 1576, fatto che si ripeté nel 1656. Anche nel settembre del 1870 la porta fu chiusa, talmente bene che le truppe italiane, che contemporaneamente operavano a Porta Pia, non riuscirono ad abbatterla.
L'arco fu costruito nel 10 d.C. dai consoli Cornelio Dolabella e Gaio Giunio Silano, come si legge (a malapena) sull'attico della facciata esterna: "P. Cornelius P. f. Dolabella / C. Iunius C. f. Silanus flamen Martial(is) / co(n)s(ules) / ex S(enatus) c(onsulto) / faciundum curaverunt idemque probaver(unt)" - "P. Cornelio Dolabella, figlio di Publio, e Gaio Giunio Silano, figlio di Gaio, flamine di Marte, consoli, per decreto del Senato appaltarono (quest'opera) e ne fecero il collaudo". Sul lato destro dell'arco, sotto il muro di mattoni, sono ancora visibili alcuni blocchi di tufo di Grotta Oscura, strettamente collegati all'arco stesso. Quest'ultimo non è altro che una porta delle Mura Serviane, ricostruita da Augusto e identificabile con la Porta Caelimontana. L'arco fu utilizzato per sostenere l'Acquedotto Neroniano: dall'Acquedotto Claudio, all'altezza di Porta Maggiore, si staccava un ramo che, su arcate, seguendo più o meno il percorso dell'Acqua Appia, si dirigeva verso il Celio. Gli archi visibili, oltre a quello di Dolabella, sono quelli in via Statilia, in via D.Fontana, in piazza S.Giovanni in Laterano, lungo la via di S.Stefano Rotondo e al centro di piazza della Navicella: da qui essi si dirigevano al Tempio di Claudio, alimentando il ninfeo neroniano sul lato orientale di questo.
Sull'omonima piazza di S.Gregorio sorge la bella chiesa di S.Gregorio Magno, un elegante esempio del Seicento romano. Fu fondata nel 575 d.C. dallo stesso San Gregorio, che trasformò la sua casa di famiglia, che qui sorgeva, in un monastero. Nato a Roma nel 535 dalla nobile famiglia degli Anici (in una casa, secondo la tradizione, dove oggi sorge la chiesa di S.Gregorio della Divina Pietà) fu praefectus urbis prima di diventare monaco nel 575. Divenne papa il 3 novembre 590, quando a Roma c'era la peste e per questa organizzò una grande processione alla fine della quale, secondo la leggenda, sarebbe apparso nel cielo l'arcangelo Michele che rinfoderava la spada, a significare la fine dell'epidemia, posandosi sul Mausoleo di Adriano, che da allora fu chiamato Castel S.Angelo. La chiesa fu ricostruita nel Medioevo e restaurata nel 1633 da G.B.Soria, quando il cardinale Scipione Borghese ne fece rifare la facciata e l'atrio. L'aspetto attuale lo deve alla successiva restaurazione del 1725 operata dall'architetto Ferrari. La chiesa è raggiungibile tramite una stupenda scalinata. L'interno, anch'esso rimodellato dal Ferrari, in stile barocco, ha, in fondo alla navata laterale destra, la cappella di San Gregorio e, accanto, un'altra piccola cappella, che potrebbe essere stata la cella del santo, in cui si trova il suo seggio episcopale in marmo, del I secolo a.C. Nell'orto adiacente alla chiesa, si trovano le tre piccole cappelle di S.Silvia, S.Barbara e S.Andrea: quest'ultima, è l'oratorio primitivo del monastero fondato dal santo. Anche la cappella di S.Barbara, dal punto di vista storiografico, è molto importante, perché contiene "il Triclinio", la tavola di marmo sulla quale San Gregorio serviva personalmente il pranzo a dodici poveri Un giorno, però, apparve un tredicesimo commensale: si trattava di un angelo, al quale Gregorio servì ugualmente il pranzo. In memoria di questo fatto, ogni Giovedì Santo, il papa serviva su questa tavola il pranzo a tredici poveri, ma l'uso cessò dopo il 1870. Dal fatto miracoloso discende, si dice, la superstizione dell'evitare di essere tredici a tavola: in origine, lo si fece per rispetto religioso all'angelo, non volendo ripetere ciò che era accaduto per origine divina, ma, in seguito, la cosa prese significato di malocchio e sfortuna. Vari ruderi sono sparsi nella zona circostante la chiesa: un tratto di criptoportico sotto la casa del portiere, a destra della chiesa; resti di una casa d'abitazione a più piani, dell'inizio del III secolo, sotto la cappella di S.Barbara, dove sono ancora visibili, come si può notare nella foto qui a sinistra, le mensole in travertino che sorreggevano un balcone al I piano; un tratto di mura in opera quadrata di tufo, che riveste un nucleo cementizio, resto di una costruzione di età repubblicana, sulla destra dell'oratorio di S.Silvia. Particolarmente interessante, poi, nella zona più in alto, dietro l'oratorio di S.Andrea, un'aula basilicale absidata, la cui muratura denuncia un'epoca assai tarda. L'edificio è stato identificato con la biblioteca di papa Agapito I (535-536), sulla cui esistenza siamo informati da una lettera di Cassiodoro e dall'iscrizione dedicatoria, copiata dall'Anonimo di Einsiedeln.
La chiesa fu fatta ricostruire nel IX secolo da Pasquale I su un'antica diaconia romana, eretta, quest'ultima, secondo un'antica tradizione, sulla casa di Santa Ciriaca, ma più verosimilmente sui resti di un antico edificio pubblico del VII secolo, i praedia dominica, aree di pertinenza imperiale. Ciò spiegherebbe anche l'appellativo "in domnica" arrivato fino a noi. L'elegante facciata rinascimentale, preceduta da un ampio portico, fu fatta costruire da papa Leone X nel XVI secolo. Gli splendidi mosaici dell'arco trionfale e dell'abside (commissionato, questo, da papa Pasquale I che, con l'aureola quadrata dei vivi, appare ai piedi della Madonna con il Bambino) rappresentano l'esempio meglio conservato della cosiddetta "rinascenza carolingia" a Roma. La chiesa si affaccia su piazza della Navicella (a Roma, anche la chiesa è chiamata S.Maria alla Navicella), così chiamata per la fontana a forma di nave romana che la decora (nella foto a destra). È un ex voto dedicato a Iside, la protettrice dei naviganti: fu dedicata o da marinai egizi di passaggio a Roma (qui sorgevano i castra peregrinorum, cioè le caserme dei militari non di stanza nell'urbe ma solo di transito) o dai marinai della flotta di Capo Miseno che qui risiedevano, essendo adibiti alla manovra del velarium, la grandiosa tenda che serviva a riparare i romani che assistevano agli spettacoli nel vicino Colosseo. È anche assai incerto se l'attuale fontanina sia l'originale oppure una copia cinquecentesca, poiché reca l'arme di Leone X sul basamento, ma potrebbe anche darsi che il pontefice abbia soltanto fatto costruire il basamento o restaurare la fontana.
Il nome di questo convento si riferisce ai quattro soldati martirizzati ("coronati" cioè dal lauro del martirio) Severo, Severiano, Carpoforo e Vittorino, uccisi perché si rifiutarono di adorare la statua di Esculapio, riaffermando, così, la loro fede cristiana. La chiesa ha l'aspetto di un fortilizio circondato da imponenti mura, la sua alta abside domina le case sottostanti, mentre all'entrata si erge una torre campanaria carolingia (nella foto sotto). Il nucleo originario risale al IV secolo, ma nel IX secolo Leone IV la sottopose ad un radicale restauro. Distrutta dai Normanni nel 1084, che misero a ferro e fuoco tutta la zona fra Colosseo e Laterano, fu restaurata con lunghi lavori subendo una drastica riduzione con l'eliminazione delle navate laterali. In tempi più recenti, Pio IV (1559-65) la restaurò di nuovo, concedendo il monastero annesso alle povere orfane trasferitesi qui dall'Isola Tiberina: fu questo il più antico dei conservatori per zitelle che sorgesse a Roma. Per secoli fu il bastione di Palazzo del Laterano e residenza papale: nel 1265 vi dimorò Carlo d'Angiò. Bellissimo è il chiostro costruito intorno al 1220, formato da un quadriportico ad arcate strette sorrette da colonne binate, con al centro un cantaro romanico come fontana. Nella Cappella di Santa Barbara vi sono i resti di affreschi medioevali, ma la principale attrattiva del convento rimane la Cappella di San Silvestro, costruita nel 1246, di forma rettangolare con volta a botte e pavimento di tipo cosmatesco. Notevoli gli affreschi che narrano la leggenda della conversione di Costantino da parte di Silvestro I, papa dal 314 al 335: all'imperatore, colpito dalla peste, venne prescritto un bagno nel sangue di un bambino, ma questi, incapace di obbedire, si rivolse a Silvestro, in seguito ad una visione di S.Pietro e S.Paolo. Il papa lo curò e lo battezzò e l'imperatore, nella scena finale, è raffigurato in ginocchio davanti al papa, implicito riferimento del papato quale erede dell'Impero romano. Sotto l'altare maggiore riposano i Quattro e le reliquie di San Sebastiano, il cui capo fu ritrovato entro un bellissimo vaso d'argento smaltato e contrassegnato da un'iscrizione votiva di papa Gregorio IV. La chiesa sorge sull'omonima via dei Ss. Quattro, che corrisponde al tratto iniziale dell'antica Via Tusculana, la quale proveniva dal Colosseo, fiancheggiava a sud il Ludus Magnus, usciva dalle Mura Serviane dalla Porta Querquetulana (all'altezza della nostra chiesa) e, dopo essersi incrociata con la Via Caelimontana, usciva dalla posterula presso S.Giovanni in Laterano e si dirigeva verso Tuscolo (Frascati).
I Duchi della famiglia Mattei acquistarono quest'area nel 1553 e trasformarono la vigna, che ricopriva i fianchi della collina, in un giardino in stile classico. Villa Mattei, costruita intorno al 1580, è oggi nota come Villa Celimontana. Il piazzale livellato dove sorge la villa non è naturale: esso, infatti, è sostruito da grandiose murature antiche, in gran parte di età flavia, i resti delle quali sono visibili soprattutto sul lato meridionale. Entro l'area della villa, a sinistra dell'attuale ingresso di piazza della Navicella, vi era la caserma della V coorte dei Vigili, vista negli scavi del 1820, del 1931 e del 1958, i cui resti appartenevano al periodo traianeo. I Mattei aprivano il parco al pubblico nel giorno della Visita delle Sette Chiese (S.Pietro, S.Giovanni in Laterano, S.Maria Maggiore, S.Paolo fuori le mura, S.Lorenzo fuori le mura, S.Sebastiano all'Appia Antica e S.Croce in Gerusalemme), una cerimonia annuale istituita da San Filippo Neri nel 1552 (pratica religiosa che, poi, diede il nome alla via delle Sette Chiese), che si effettuava nel mese di maggio, entro il giorno che precedeva l'Ascensione. Nell'occasione, i Mattei offrivano ospitalità ai numerosi romani provati dal cammino, i quali venivano anche rifocillati con pane, vino, salame, formaggio, un uovo e due mele. La Villa, dopo essere passata in proprietà del principe di Bassano, Emanuele Godoy, e di molti altri fino all'ultima, la principessa di Bauffremont, entrò a far parte, nel 1925, del patrimonio del Comune di Roma, che lo adibì a parco pubblico. Si accede attraverso un grandioso portale (nella foto sotto il titolo) in un meraviglioso giardino ricco di vegetazione e attraversato da viali ombrosi. A proposito del portale, c'è da notare che esso apparteneva alla famosa Villa Montalto di papa Sisto V e che venne qui ricostruito nel 1931. Alla fine del viale centrale si trova un obelisco (come si vede nella foto qui accanto, in uno stato piuttosto precario) che, nel 1582, fu donato a Ciriaco Mattei dal Consiglio capitolino. La parte inferiore del fusto, più grande, è eterogenea, di origine ignota; soltanto la parte superiore, di 2,68 metri, reca geroglifici con il nome di Ramsete II (1304-1236 a.C.). L'obelisco fu innalzato, insieme a quello che si trova in piazza della Rotonda, nel Tempio del Sole a Eliopoli. Poi, furono sistemati, insieme a quelli che si trovano in piazza della Minerva e in via delle Terme di Diocleziano, nei pressi del tempio di Iside (la zona dell'attuale via di Pie' di Marmo), il famoso santuario della comunità egizia. Nel XIV secolo, l'obelisco della Villa ornava la scalinata del Campidoglio, accanto ad una palma: si diceva che il globo sulla cima contenesse le ceneri di Augusto e che fosse stato alzato sul Campidoglio da Cola di Rienzo, come simbolo della libertà romana. Triste la vicenda che accadde nel collocare nell'attuale posizione il basamento dell'obelisco: un canapo si ruppe ed un povero operaio vi rimise le mani e parte di un braccio, amputati d'urgenza e rimasti sotto l'obelisco fino ad oggi.

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