Il Cenacolo

Materie:Appunti
Categoria:Storia Dell'arte

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Testo

Su una delle pareti minori del refettorio è rappresentata una lunga tavola rettangolare apparecchiata e imbandita di vari tipi di vivande, entro una sala con soffitto a cassettoni, pareti laterali adorne di arazzi a motivi floreali e tre finestre nella parete di fondo aperte su un paesaggio naturale. 1 commensali, che si offrono alla vista dell’osservatore sul medesimo lato della tavola, sono in tutto tredici: uomini di età e di fisionomia diverse, vestiti genericamente all'antica.
Grazie ad un uso assai sofisticato della costruzione prospettica dello spazio, questo ambiente appare all'osservatore come il prolungamento dei refettorio stesso in cui si trova, in modo che egli si senta coinvolto nell'evento che si dispiega davanti ai suoi occhi, come se vi fosse presente. Concorrono a questa immanenza dell'avvenimento rappresentato rispetto all'osservatore la dimensione gigantesca dei personaggi, ben superiore a quella naturale, la loro collocazione in primo piano rispetto alla profondità dello spazio disponi bile e il punto di 'vista prescelto, di sotto in su: tutto ciò ottiene l'effetto di far sentire l'osservatore molto vicino alla scena e, insieme, alla presenza di un evento di portata grandiosa.
Il commensale al centro della tavola - che si staglia contro la finestra centrale della parete di fondo, di dimensioni maggiori - e isolato rispetto agli altri che, pur protendendosi verso di lui, si arrestano ad una certa distanza, lasciando alla sua destra e alla sua sinistra uno spazio vuoto: è giovane e il suo volto, bello e dai lineamenti delicati ma intensamente dolente, rivela uno stato d’animo di profonda tristezza; le braccia sono aperte e quasi abbandonate verso il piano della tavola, in un gesto che sembra esprimere una sofferta accettazione, difficile ma consapevole, dell'evento doloroso che turba il suo animo.
Gli altri dodici commensali sono tutti rivolti verso di lui, diversamente atteggiati in espressioni e pose che rivelano stupore, incredulità, sgomento e addirittura orrore, in vari gradi di intensità a seconda della sensibilità e della personalità di ciascuno. Nell’insieme pare che una fortissima scossa emotiva abbia il suo epicentro nel personaggio centrale e si propaghi con andamento sussultorio - i dodici non sono seduti a distanza regolare l'uno dall'altro ma si raggruppano a tre a tre, legandosi con gesti di dialogo o di sostegno reciproco - verso le estremità della composizione.
Il dipinto presenta l’Ultima Cena di Gesù con i suoi dodici apostoli (Mt 26, 17-29; Me 12-25; Le 22, 7-23; Gv 13-17): salito a Gerusalemme per visitare il Tempio in occasione della festa più solenne del calendario liturgico ebraico, la Pasqua, Cristo condivide con i suoi amici più stretti la cena rituale che ricordava la liberazione del popolo &Israele dalla schiavitù in Egitto e la concomitante immolazione degli agnelli, consumati prima della partenza (Es 12, 1-28).
Il momento della Cena prescelto per essere rappresentato coincide con la drammatica rivelazione da parte di Gesù dell'imminente tradimento da parte di uno dei presenti, che lo consegnerà ai Sommi Sacerdoti perché sia condannato a morte: «Ora mentre erano a tavola e stavano mangiando, Gesù disse: "In verità vi dico: uno di voi mi tradirà". Allora cominciarono ad affliggersi e a domandargli uno dopo l’altro: "Sono forse io, Signore?» (Mt 26, 21-22; Me 14, 18-19; Le 22, 21-22).
Tale scelta è stata messa a fuoco per la prima volta a dipinto appena ultimato, nel 1498, da Luca Pacioli, insigne matematico ospite della corte milanese di Ludovico il Moro, nella dedica al duca dei suo trattato De Divina Proportione ("quando disse: unus vestrum me traditurus est"); la confermano le prime incisioni che riproducono il Cenacolo (fine XV - inizi XVI secolo), sulle quali è apposto sopra la tovaglia, in corrispondenza della persona di Gesù, un grande cartiglio con il medesimo versetto evangelico.
Lo stesso Pacioli, però, nota anche un secondo ordine di significati nel dipinto, non soltanto psicologico-espressivi, ma anche di forte connotato salvifico, definendolo: "legiadro de l'ardente desiderio de nostra salute simulacro" e cioè commovente immagine dei desiderio ardente da parte di Cristo della nostra salvezza. Gesù, dunque, non solo rivela il tradimento ma è presentato quale Redentore che, per amore dell'umanità e in piena accettazione della volontà del Padre, anticipa, nel sacramento dell'Eucarestia, il sacrificio del Calvario. Si può notare, infatti, che mentre stende la mano destra verso Giuda - e dunque sta per rivelare il traditore, nella modalità descritta dai Vangeli, con la sinistra indica il pane e il vino che si appresta ad off-rire, mutandoli nel proprio corpo e nel proprio sangue.
i Quando, nel 1817, il grande poeta tedesco Johann Wolfgang Goethe visitò Santa Marìa delle Grazie ebbe ad annotare con felice intuizione: "Cristo doveva celebrare la sua ultima cena a Milano fra i Domenicani".
Molta parte del contenuto, e in particolare la dimensione più propriamente eucaristica del Cenacolo, infatti, si devono con ogni probabilità ai suggerimenti dell'allora priore domenicano, Vincenzo Bandello. La reciproca corrispondenza fra la mensa di Gesù, con la sua concitata animazione, e quella dei frati, calma e discreta, e la sottolineatura del momento istitutivo del più grande fra i Sacramenti ben si inseriscono nella spiritualità domenicana.
Il culto eucaristico era stato esaltato innanzitutto da San Tommaso d’Aquino (1225-1274), massima e imprescindibile autorità nella storia dell'Ordine, e, in un momento storico più ravvicinato, era stato riaffermato, assieme al suo strettissimo legame con l’imminente sacrificio della Croce, da un altro grande teologo domenicano, Sant’Antonino, arcivescovo di Firenze dal 1446 al 1459, nell'ambito del movimento dell'Osservanza, cioè di quella riforma interna degli ordini mendicanti - compresi, appunto, i domenicani - che intendeva ritornare alla purezza dell'osservanza della Regola.
Vincenzo Bandello, che diverrà negli anni immediatamente successivi generale dell'Ordine (1500), prosegue, come è documentato in molti suoi scritti, in questa riaffermazione dell'Eucarestia sia sul piano esegetico - cioè dell'approfondimento delle Sacre Scritture - che teologico.
Uno scambio di lettere del 1497 testimonia, però, anche la profonda stima stabilitasi fra il priore e il duca Ludovico il Moro, che si era accresciuta a seguito della prematura morte della duchessa Beatrice d'Este, avvenuta in quello stesso anno, e della conseguente crisi spirituale del duca. Ludovico, che aveva commissionato la nuova tribuna della chiesa delle Grazie perché diventasse il mausoleo della dinastia sforzesca, e che aveva fatto apporre i propri emblemi araldici nelle tre lunette soprastanti la parete del Cenacolo, è da considerare senz'altro co-protagonista della commissione: il sacrificio di Cristo, insieme sacerdote e vittima, illumina i suoi drammatici interrogativi sul significato della vita e del suo destino.

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