Dal Beato Angelico al Botticelli

Materie:Appunti
Categoria:Storia Dell'arte

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Testo

1)Tabernacolo annunciazione e adorazione dei magi (Beato Angelico) Al 1424 risale, forse, il tabernacolo con l’ “Annunciazione” e l’ “Adorazione dei magi”. In esso, spiccano ancora forti elementi gotici. Una certa bidimensionalità e la ricchezza dell’ornamento della cuspide suggeriscono un richiamo alla pittura medievale, più senese che fiorentina. Eppure, le figure hanno un loro sviluppo volumetrico importante, carattere decisamente rinascimentale.
2) ANNUNCIAZIONE (Beato angelico) Il dipinto di cui parliamo raffigura l'Annunciazione, episodio tratto dal Vangelo di Luca, quando l'angelo Gabriele va dalla Madonna e le annuncia che partorirà il Messia; il pittore ha fermato l'attenzione nel momento in cui l'angelo è appena arrivato e si inginocchia per salutare la Vergine, che a sua volta rimane turbata dall'improvvisa apparizione. Al tempo l'iconografia prevedeva diverse possibilità per dipingere quest'episodio, ovvero si potevano rappresentare i diversi momenti dell'avvenimento, che convenzionalmente erano cinque, in questo caso l'Angelico ha immortalato, come abbiamo visto, il primo.
L'affresco è situato in un corridoio del convento, e per come è strutturato sembra una finestra che si apre su una scena reale, con personaggi veri, o così almeno doveva apparire agli occhi dei frati, che erano molto meno smaliziati di quelli di un osservatore moderno; l'impressione di verosimiglianza è accentuata anche dalle architetture dipinte (colonne, volte, archi) che riprendono esattamente quelle realizzate da Michelozzo per il convento. Scopo dei dipinti infatti era certamente quello di illustrare le scene sacre, ma soprattutto doveva aiutare il religioso a "rivivere" la scena nella sua meditazione, doveva facilitarlo nella preghiera; esistevano al tempo infatti dei veri e propri manuali che insegnavano l'orazione e che consigliavano di formarsi delle immagini mentali.
L'opera rientra pienamente nel Rinascimento fiorentino, per la prospettiva e la esatta definizione dello spazio, che si può definire senza dubbio illusionistico, la scena è quasi simmetrica, e l'inserimento dei due personaggi in due arcate contigue ricorda le ante di un polittico. Le posture sono estremamente naturali e spontanee, mentre tutto all'interno del dipinto contribuisce a creare un'atmosfera pacata e meditativa, accentuata probabilmente dal bel giardino alla sinistra del dipinto.
E' probabile che il luogo abbia influenzato le scelte dell'artista, nel senso che essendo destinata ad un convento, l'opera dà un’impressione di sobrietà, di pacatezza, di rigore come si può notare dalla compostezza delle figure e dai colori tenui e dagli abiti molto semplici, mentre vi sono altri esempi di Annunciazioni dell'Angelico in cui prevalgono i colori vivaci, i vestiti sfarzosi e ricchi di decorazioni, ed in generale rendono all'osservatore tutt'altra impressione.
L'artista ne dipinse più versioni tra cui quella conservata al Museo diocesano di Cortona e quella conservata al Museo del Prado di Madrid.

3) MONUMENTO A GIOVANNI ACUTO (Paolo Uccello): John Hawkwood, in italiano Giovanni Acuto, era un condottiero inglese che dopo aver combattuto la Guerra dei Cent’Anni, giunge in Italia e lavora come capitano di ventura al servizio dei fiorentini. Per la sua fedeltà alla signoria di Firenze, l’Opera del Duomo (dietro cui c’è Cosimo de’ Medici), dopo varie vicessitudini, commissiona a Paolo Uccello l’affresco di commemorazione che verrà collocato nella cattedrale. Il monumento equestre doveva essere monocromo e la scelta del verde terra indica una precisa intenzione ad imitare il bronzo di una statua. E’ una delle poche opere firmate dal pittore e la composizione calibrata lascia trasparire un senso aulico ed epico degno di una cultura antica. L’uso della luce è molto studiato e coincide con l’illuminazione reale della bifora della navata.

4)PAOLO UCCELLO: Ricerca continua sulla prospettiva e delle leggi geometriche che la governano. Inesauribile fantasia, che gli permette di usare la prospettiva in modo assolutamente innovativo e non compreso ai tempi, con il fine di ricreare un mondo irreale e fiabesco. Per questo motivo la pittura di Paolo Uccello è stata definita come uno "scientismo prospettico".
Secondo quanto aggiunge Vasari - sempre nelle sue celebri "Vite" - Paolo Uccello fu affascinato dallo studio della prospettiva, di cui sperimentò nelle sue opere le varie possibilità e applicandosi allo studio analitico delle leggi scientifiche che regolano la rappresentazione degli oggetti nello spazio tridimensionale. Agli Uffizi si conservano tre disegni con studi prospettici che gli sono generalmente attribuiti. In questo studio l'artista fu probabilmente affiancato dal matematico Paolo Toscanelli.
E' da notare che la prospettiva di Paolo Uccello sia stata definita da alcuni critici come simbolica poiché frutto di un'astrazione geometrica; egli ritenne infatti che la vera realtà rappresentata nel dipinto non sia la storia narrata ma bensì risieda nella costante applicazione di un sistema matematico di regole fisse. Paolo Uccello, pertanto, produce spazi teorici ed irreali: teorici, poiché puramente coerenti con la logica prospettica, ed irreali, poiché inverosomiglianti Il mondo di Paolo Uccello diviene perciò una realtà fiabesca, dove la verità non risiede nella realtà, come sosteneva peraltro Aristotele (e qui si vede come l'artista inizi già a staccarsi progressivamente dall'auctoritas) ma nella severa e rigorosa applicazione della teoria prospettica. La realtà per questo artista esiste quindi solo nelle sue opere, poiché, come nei racconti di fantasia, non si ritrova un riscontro con la verità effettiva della realtà stessa.
Un'altra caratteristica fu l'uso di cieli e sfondi scuri, su cui risaltavano luminose le figure in primo piano. I colori non sempre realistici accentuavano l'atmosfera irreale e mitica delle scene raffigurate.
5)BATTAGLIA DI SAN ROMANO, Nicolò da tolentino alla testa dei fiorentini (Paolo Uccello): La tavola celebra Niccolò da Tolentino, capitano di ventura alleato e amico di Cosimo il Vecchio de’ Medici. Tutta la narrazione si svolge intorno alla figura del capitano vittorioso: è l’inizio della battaglia, la cavalleria è concentrata alle sue spalle, i trombettieri chiamano all’assalto e davanti a lui lo scontro è già in atto. Sullo sfondo due cavalieri si allontanano per andare a chiamare i rinforzi di Micheletto da Cotignola, mentre in mezzo ai campi, alcune figure sono impegnate in scontri individuali. Il pannello è diviso in due parti: in primo piano l’azione bellica è divisa con una quinta di melograni e di rose dal fondale retrostante in cui si svolgono varie scene.

6)Battaglia di San romano, disarcionamento di Bernardino della ciarda: Nella tavola degli Uffizi è fissato il momento più intenso dello scontro e la conclusione della battaglia. La scena si fà affollata e travolgente: sulla sinistra i fiorentini con lance in resta atterrano i nemici; il gruppo di destra rappresenta i senesi in fuga e sullo sfondo; in aperta campagna, una squadra di fanti esce allo scoperto per inseguire i nemici che si stanno ritirando. Tutta l’azione dello scontro si concentra sul disarcionamento del cavaliere che simboleggia il nemico sconfitto. Anche questa tavola è divisa in due differenti piani di profondità, manca però la quinta di alberi.
7)Battaglia di San Romano, intervento di Micheletto da Cotignola: Di differente impostazione rispetto alle altre due, la tavola del Louvre raffigura Micheletto da Cotignola nell’atto di ordinare la carica ai suoi cavalieri. La figura del condottiero divide simmetricamente il dipindo in due parti: alla sua destra un gruppo di soldati aspetta l’ordine, mentre sulla sinistra alcuni cavalieri si sono già lanciati alla carica. Per l’assenza di chiari riferimenti con l’avvenimento storico e per la diversa organizzazione spaziale rispetto alle precedenti tavole alcuni storici ritengono che il dipinto non faccia parte della Rotta di San Romano, ma che sia stato commissionato per celebrare il Cotignola dopo la sua morte e per essere collocato vicino alle altre due. E’ una delle poche opere firmate dal pittore e la composizione calibrata lascia trasparire un senso aulico ed epico degno di una cultura antica. L’uso della luce è molto studiato e coincide con l’illuminazione reale della bifora della navata.
8) Caccia (Paolo Uccello): Databile intorno al 1470, è considerata l’ultima opera di P.U.Questa tavola è la meglio conservata e probabilmente rappresenta una battuta di caccia di Lorenzo il Magnifico nelle pinete vicino a Pisa. Nell’oscurità del bosco la vita brulica, la scena si movimenta e la foresta si riempie di suoni; i cani come i cavalli e cacciatori sembrano correre tutti verso la preda. La caccia è un’opera di altissima qualità che dimostra una padronanza pittorica e intellettuale raggiunta dal pittore in età avanzata. Non è stato rilevato alcun disegno preparatorio sottostante o griglie prospettiche predeterminate: è la conferma che Paolo ha dipinto direttamente sul fondo gessoso dell’imprimitura. Inoltre pochissimi sono i pentimenti e i ripensamenti.

9)Pippo Spano (Andrea Del Castagno): Un’energia umana balza da questa creazione ma non già espressa con una sensazione quasi negativa di pondo irreversibile come in Masaccio, al contrario, - e appunto perciò ho detto ‘balza’- tutto è vibrazione profilata di contorno sommamente energetico: Con quale vitalità il corpo riesce a gonfiare il bordo della corazza; quale scatto; quale curvatura ronzante! Si direbbe che il principio di tensione forzosa impressa allo spadone sia il simbolo di tutta l’inflessa archeggiatura del corpo teso. Come talora, infine, la luce invece di squadrare come in Masaccio, mira a rialzare semplicemente il profilo della forma con un rabesco luminoso marginale! (Vedete ad esempio nella gamba destra). Lo stesso stile si imprime nel viso: bioccoli incatricchiati di capelli, curva digrignante della mandibola, spazzo sinuoso di bocca, rughe uncinate! Pur di esprimere questa energia inesausta Andrea del Castagno non rifugge da una sinuosità quasi brutale di contorni umani.

10) Nicolò da tolentino (Andrea del Castagno): Vedete ancora, di lui, il Niccolò da Tolentino (in alto a sinistra) - pendant al Giovanni Acuto di Paolo Uccello (in alto a destra) – sulla parete interna del Duomo di Firenze. Un confronto fra le due opere vi può condurre a comprendere la differenza essenziale fra la linea funzionale e il sintetismo prospettico di cui Paolo Uccello fu, per l’appunto, iniziatore. Nel cavaliere di Andrea del Castagno la fonte di luce è meno risoluta e serve pià che altro ad affondarsi in guisa nell’intrico del modellato da far risaltare la muscolosità del destriero con una specie di rabesco superficiale d’anatomia (la zampa posteriore soprattutto). L’animale torce il viso verso di noi, nitrendo, così da formare altre cordonate sottocutanee espresse con altre linee: e per maggiore istantaneità di moto è immaginato sollevando già uno degli zoccoli posteriori; perfino un particolare infimo, la coda, si ritorce nervosamente come cerando di liberarsi dal nodo robusto e vincoloso. Il Tolentinate irrigidisce vibrando le gambe a calcar le staffe: mentre schioccano nell’aria il martelletto e il nastro del collarino; ma non per formare uno svolazzo calligrafico poiché - voi vedete - conservano peso e vita e già stanno per cadere.

11) FLAGELLAZIONE DI CRISTO (Piero Della Francesca): L'opera, conservata a Urbino nella Galleria Nazionale delle Marche, è danneggiata da tre lunghe fenditure orizzontali e da alcune cadute di colore. Alla base del trono, a sinistra, si legge OPUS PETRI DE BURGO S[AN]C[T]I SEPULCR[I]. A destra, sotto i tre personaggi in primo piano, almeno fino al 1839, secondo il Passavant si leggeva la scritta convenerunt in unum, tratto dal Salmo II, che fa parte del servizio del Venerdi santo, riferito alla Passione di Cristo: Adstiterunt reges terrae et principes convenerunt in unum adversus Dominum et adversus Christum eius. Si può pensare alla tavola come fosse divisa in due aree rettangolari: da sinistra alla colonna a metà piano, l'area in cui è rappresentata la flagellazione e dalla colonna all'estremità destra, l'area occupata dai tre personaggi in primo piano: le due aree stanno fra loro in un rapporto aureo, pari al numero aureo 1,618.
Profilo artistico: La luce proviene da due punti differenti, da sinistra e da destra, e illumina anche il riquadro del soffitto sotto cui è collocato il Cristo; la forza straordinaria dell'arte di Piero sta propriamente nell'avere connaturato il colore, che in lui è immediatamente luce, con la forma, fino a fargli assumere valore plastico. Quanto più guadagna in astrazione, tanto più la forma perde in movimento, dando alla rappresentazione una fissità atemporale: la realtà del fatto particolare coincide con la totalità del reale, il tempo coincide con lo spazio ed è pertanto dato una volta per sempre. Il risultato espressivo è l'impersonalità, l'assenza di emozioni, la calma solenne nella dignitosa severità manifestata dai personaggi rappresentati: "e tuttavia non esiste Flagellazione più emozionante della sua, quantunque su nessun volto si scorga un'espressione in rapporto con l'avvenimento; anzi, quasi a rendere il fatto più severamente impersonale, Piero introdusse nel meraviglioso dipinto tre maestose figure in primo piano, impassibili come macigni"

12) Il Ritratto di Battista Sforza e Federico da Montefeltro è un dittico con i ritratti di Battista Sforza e Federico da Montefeltro, opera di Piero della Francesca. (1472 ca., tempera su tavola, 47 x 33 ciascun pannello) Si trova alla Galleria degli Uffizi, a Firenze. I due dipinti, un tempo uniti da un'unica cornice, sono inseriti in un paesaggio di chiara derivazione fiamminga: la luce che proviene dalle spalle di Federico sbianca il volto di Battista, le teste mantengono un senso potente del volume e incombono sul dipinto, in special modo il profilo di Federico, grazie al copricapo dello stesso colore rosso della veste.
13) Trionfo di Federico da Montefeltro (Piero Della Francesca): un carro allegorico guidato dalle Virtù cardinali - Prudenza, Temperanza, Fortezza e Giustizia - sul quale siede il duca in armatura incoronato da un angelo. Sia il ritratto che il Trionfo si aprono sullo sfondo di magnifici paesaggi ripresi a “volo d’uccello” con una minutezza e naturalezza che derivano a Piero dalla conoscenza della pittura fiamminga, della quale lo stesso Federico era un appassionato collezionista. Una grande naturalezza è presente anche nel volto, ritratto da questo lato per motivi di decoro: egli infatti aveva perduto l’occhio destro nel 1450 in un incidente di torneo. Il dipinto costituiva un dittico con quello raffigurante il ritratto della moglie del duca, Battista Sforza, con il quale si chiudeva lasciando all’esterno i due rispettivi Trionfi.
14)LUCIANO LAURANA: Luciano Laurana (Laurana, 1420 – Pesaro, 1479) è stato un architetto italiano. Si sa poco sui suoi primi anni di formazione forse trascorsi a Napoli sul cantiere dell'arco di trionfo di Alfonso d'Aragona; è documentato a Mantova nel 1465 ove prende contatto con l'architettura di Leon Battista Alberti. Dal 1466 lo si ritrova a Urbino, incaricato dal duca Federico da Montefeltro di trasformare la sua residenza in una corte rinascimentale; concepisce un suo progetto tutto nuovo: una città in forma di palazzo e porta avanti le trasformazioni fino al 1472, quando i lavori vengono ripresi da Francesco di Giorgio Martini. Il centro del palazzo è il Cortile d'Onore ingentilito da un porticato ad archi leggeri e dalle finestre del primo piano incorniciate di marmo bianco in contrasto col tono rosato del mattone. Stupefacente ed ammirabile è la facciata verso valle detta dei Torricini ove le ariose logge dialogano con l'eleganza delle snelle torri laterali, conferendo all'insieme un nuovo carattere umanistico e cortese. A Pesaro si occupò dal 1476 della Rocca Costanza, arricchendola di nuovi motivi architettonici alla ricerca di un'accresciuta luminosità, desunti da Filippo Brunelleschi e dal pittore Piero della Francesca.
15) Palazzo ducale di Urbino (Laurana): I lavori vennero proseguiti da un altro architetto che legò il proprio nome alla realizzazione dell'opera: Luciano Laurana, originario della Dalmazia, fortemente influenzato dallo stile del Brunelleschi, che fu autore del cortile d'onore, dello scalone e della facciata resa imponente dalla presenza delle due torri (i Torricini). Nel 1472, Laurana venne sostituito da Francesco di Giorgio Martini, che riuscì quasi a completare i lavori. Sotto la sua direzione operò lo scultore milanese Ambrogio Barocci, che eseguì tutte le decorazioni interne ed esterne dell'edificio. Nel 1483, a seguito della morte del Duca di Urbino, committente dell'opera, i lavori vennero momentaneamente interrotti e ripresi solamente nella prima metà del secolo successivo da Girolamo Genga. L'architetto completò il secondo piano ed eliminò la merlatura di gusto medievale presente nella parte superiore del castello, modificando così il progetto originario. Il palazzo è stato sede del municipio di Urbino per tutto il XX secolo fino al 1985 quando dopo un attento ed importante lavoro di restauro è stato adibito museo.
16) Antonio Pollaiolo: L'attività del Pollaiolo dimostra chiaramente la sostanziale indifferenza dell'ambiente artistico fiorentino verso le influenze provenienti dall'esterno; gli artisiti locali, ad esempio, si disinteressarono quasi del tutto alle proposte di Piero della Francesca, che pure si era formato in città frequentando la bottega di Domenico Veneziano e rielaborando poi secondo i suoi personali ideali il linguaggio masaccesco. Ciò che invece caratterizza maggiormente le opere del Pollaiolo si presenta come la perfetta antitesi allo stile di Piero, che attraverso la sua ricostruzione assolutistica e simbolica del mondo, aveva cercato di offrire certezze di valori immutabili, celando quanto di mutevole possa esistere nella natura umana. Antonio tese sempre ad esaltare questa mutevolezza, il divenire incessante di ogni cosa rappresentato attraverso la riscoperta del dinamismo dell'arte classica; egli comprese infatti che gli antichi non si erano semplicemente limitati a raffigurare corpi ben proporzionati, solidi e plastici, ma anche a rendere il senso di movimento delle loro azioni, che consentiva a chi le guardava di immaginare sia cosa era successo prima che ciò che sarebbe accaduto dopo. Ecco perchè i tratti distintivi dello stile del Pollaiolo sono il marcato linearismo, in continuità con quella che era stata la corrente dominante tra gli artisti già dai tempi di Filippo Lippi ed il grande dinamismo delle figure. Egli unì allo studio delle proporzioni antiche una profonda conoscenza dell'anatomia umana, per conferire ai suoi personaggi maggiore coerenza e credibilità; un primo esempio in questo senso è dato dalla Battaglia dei nudi, un'incisione su rame, oggi conservata agli Uffizi presso il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe. La scena non ha un senso preciso, se non quello di presentare un repertorio di figure nel corso di un'azione di guerra e riunite in un insieme ben bilanciato. La propensione dell'artista verso il linerasimo risulta evidente dalle linee di contorno dei personaggi, ciascuno immortalato nell'atto di compiere il suo gesto, con particolare attenzione alla resa naturale dei corpi.
17) La Primavera (Botticelli): La Primavera di Alessandro Filipepi detto il Botticelli è un'opera realizzata a tempera su tavola di cm 203x314, di datazione incerta (fra il 1477 ed il 1490), destinata originariamente alla villa di Castello (probabile collocazione iniziale assieme alla La nascita di Venere), ed oggi alla Galleria degli Uffizi di Firenze. Tutta la critica non può che essere concorde sulla natura allegorica dell'opera impregnata di cultura umanistica e neoplatonica della corte di Lorenzo de' Medici detto il magnifico, nonostante il committente dell'opera fosse l'omonimo Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici, che non era in buoni rapporti con il cugino più grande di circa 15 anni e che in passato gli aveva fatto anche da tutore. Dibattuto è invece il significato e conseguentemente la titolazione. Se da una parte si ha una certa convergenza nella individuazione di alcuni dei nove personaggi in essa raffigurati, pareri assai contrastanti si sono sviluppati nel corso degli anni, ed in particolare a partire dalla seconda metà dell'800, sui riferimenti letterari più specifici ed i significati che l'opera nasconde. Secondo l'interpretazione che ne diedero Adolph Gaspary nel 1888, mutuate ed articolate da Aby Warburg cinque anni dopo le figure, partendo da sinistra sono: Mercurio identificato dai calzari alati e dal caduceo rivolto verso il cielo; le tre Grazie, figure mitologiche impegnate in una danza assai leggiadra; Venere che fa da asse alla composizione; Cupido che volando sul capo della figura centrale è impegnato a dardeggiare le tre fanciulle quasi nude e guarnite di acconciature elaborate e diverse; Flora che unica del gruppo guarda direttamente l'osservatore e sembra intenta a spargere i suoi fiori all'esterno della scena; la ninfa Cloris che i fiori primaverili li produce dalla bocca; ed infine Zefiro dio del vento benigno (o secondo alcuni Boreao Eolo, dio di un vento freddo) raffigurato con colori freddi mentre cerca l'amore della ninfa. L'aspetto allegorico-metaforico del dipinto non ne toglie, tuttavia, i riferimenti al mondo fisico: i visi dei personaggi sono non immaginari ma di persone esistenti all'epoca e note al pittore: ad esempio, la Grazia di destra è Caterina Sforza, che Botticelli ha ritratto anche come S. Caterina d'Alessandria (sempre di profilo), nel dipinto conservato al Lindenau-Museum di Altenburg (Germania). Quella centrale dovrebbe essere Semiramide Appiani, moglie di Lorenzo il Popolano, il quale a sua volta dovrebbe essere raffigurato come Mercurio, verso il quale guarda Semiramide. L'ipotesi più accreditata riguardo alle tre fanciulle danzanti, che costoro rappresentino le tre Grazie: quella di sinistra, dalla capigliatura ribelle, la Voluttà (Voluptas), quella centrale, dallo sguardo malinconico e dall'atteggiamento introverso, la Castità (Castitas), quella di destra, con al collo una collana che sostiene un'elegante prezioso pendente e dal velo sottile che le copre i capelli, la Bellezza (Pulchritudo). Ulteriore interpretazione meno fortunata del Gombrich suggerisce un riferimento al Giudizio di Paride tratto dall' Asino d'oro di Apuleio. Claudia Villa (italianista contemporanea) è portata a considerare che i fiori, secondo una tradizione che ha origine in Duns Scoto, costituiscono l'ornamento del discorso ed identifica il personaggio centrale nella Filologia, per cui riferisce la scena alle Nozze di Mercurio e Filologia rovesciando anche le identità dei personaggi che stanno alla nostra destra. Così la figura dalla veste fiorita è da vedersi come la Retorica la figura che sembra entrare impetuosamente nella scena come Flora generatrice di poesia e di bel dire mentre il personaggio alato, che sembra sospingere più che attrarre a sé la fanciulla, sarebbe un genio ispiratore. In tale contesto interpretativo diventa difficile giustificare i colori freddi con cui è rappresentato il personaggio, a meno che l'autore non volesse affidare a questa scelta la smaterializzazione ed il carattere spirituale dell'ispirazione poetica. Può risultare invece più comprensibile il disinteresse alla scena che sembra mostrare Mercurio dio dei Mercanti. Altre interpretazioni identificano la figura della veste fiorita come Florentia nome antico della città di Firenze. In questo caso, anche le altre figure sarebbero città legate in vario modo a Firenze: Mercurio Milano; Cupido (Amor) Roma; le Tre Grazie Pisa, Napoli e Genova; Cloris e Zefiro/Borea Venezia e Bolzano, oppure Arezzo e Forlì. Se poi Firenze fosse invece Venere, il personaggio dalla veste fiorita sarebbe invece Maggio e rappresenterebbe Mantova. Su questa linea è, ad esempio, Enrico Guidoni. Studi assai interessanti sono stati fatti sui rapporti dimensionali delle parti della scena in riferimento a regole musicali. Più intuitivamente si può notare come la composizione partecipa dello sfondo alberato, con un bosco ordinato e verticale a far da fondale (quasi piatto e severo) alla danza a girotondo, mentre la parte destra è fatta di alberi piegati dal vento o dalla forza creatrice.Giulio Carlo Argan mette in evidenza come questa tavola si pone in contrasto con tutto lo sviluppo del pensiero artistico del Quattrocento che attraverso la prospettiva identifica l'arte con l'interpretazione razionale della realtà, culminante nella grandiosa costruzione teorica di Piero (della Francesca).

18) La nascita di Venere (Botticelli): Il soggetto iconografico è l’allegoria della Nascita di Venere, abitualmente rappresentata come Dea emergente dalla spuma del mare. Nella versione proposta dall’artista rinascimentale Sandro Botticelli Venere acquista significati simbolici legati al mito classico, ma anche al culto cristiano. Qui Venere rappresenta non solo l’unione delle due nature, celeste e terrestre, della deità, ma anche l’ideale rinascita della classicità e dell’anima, purificata in seguito al battesimo. Venere nascente dalla spuma, sostenuta dalla conchiglia e sospinta dal vento fecondatore di Zefiro, divinità a cui è abbracciata la ninfa Clori, approda a riva dove l’attende la ninfa Ora, nell’atto di porgerle il mantello che la proteggerà. Tutto riconduce al principio per cui la nudità di Venere, non è solo esaltazione della bellezza classica, ma anche affermazione della bellezza pura, della semplicità dell’anima. Tra i significati nascosti di Venere compare anche la corrispondenza tra mito pagano della nascita della Dea dall’acqua del mare e quello cristiano della nascita dell’anima dall’acqua del battesimo. Vita donata dagli Zefiri e vestizione offerta da Ora, altro non sono che personificazioni dei principi di fisicità e spiritualità, poli al centro dei quali Venere si pone come simbolo di equilibrio. Nell’unione dei contrari, rappresentato dalla Dea, si ricorda l’essenziale principio della complementarietà, nella vita e nell’amore, di esperienza fisica e ascesa spirituale, qui identificabile con l’elevazione dell’intelletto alla conoscenza del vero, del buono, del giusto.

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