Appunti introduttivi sulla storia dell'arte

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Categoria:Storia Dell'arte
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Data:02.10.2001
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Testo

APPUNTI DI LEZIONI INTRODUTTIVE ALLA STORIA DELL’ARTE.

L’approccio all’arte figurativa, come approccio all’arte in genere, deve essere essenzialmente un momento di consapevolezza, un momento non solo gratificante - l’arte quasi mai gratifica - ma un momento in cui la nostra attenzione, particolarmente viva, non corra il rischio di ridurre le immagini a “narcosi” come accade nel nostro quotidiano. La consapevolezza è un bene da ricercare, insieme all’indispensabile sensibilità, è da educare, coltivare. Bisogna imparare a riconoscere i segni significanti. Bisogna imparare a qualificare l’esistenza con un “bello” che non risponde ad un numero telefonico, ma che è da ricercare continuamente ed ostinatamente nel nostro quotidiano.
Bisogna, insomma, organizzare la “visione” senza che qualche parte di essa ci scivoli via perdendosi.
La Storia dell’Arte, se usata correttamente, è un magnifico strumento che serve a chiarire ed approfondire la realtà autentica, autentica in quanto supera le contingenze del quotidiano e perché è costituita da un insieme di giudizi di valore che gravitano intorno al problema delle forme.
La Storia dell’Arte è un linguaggio “tout court” dove il prima si confonde con il dopo, dove c’è un’unica tensione rivolta a recuperare la totalità perduta. Il problema più importante allora è quello che riguarda le forme per vedere come queste significano.
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1. Forma come linguaggio totale
2. Distinzione tra forma e contenuto
3. Rapporto società/arte e costanti linguistiche.
a) Astrattismo, Naturalismo, Realismo.
b) Classico / Anticlassico
4. Il valore delle forme artistiche è nell’estetica.
5. Arte come educazione dell’individuo.

1. Forma come linguaggio totale
In genere alla domanda .”E’ più importante la forma od il contenuto?” arriva una risposta che come una fucilata colpisce a morte secoli di performances artistiche, consegnando la vittoria al contenuto. Come mai? Evidentemente perché lo studio in genere è strumentale e la poesia nasce dai maltrattamenti fisici e morali e dalle ulcere gastroduodenali di "sfigatissimi" uomini chiamati poeti. Un esercito di malumori e di astio si abbatte contro di noi con l’unico scopo di complicare la nostra esistenza con date e versi da ricordare. Un altro equivoco per cui i ragazzi vedono nell’autorità del contenuto il veicolo principe della nostra cultura è forse l’esercizio della parafrasi, questa smodata ed insana esigenza di tradurre continuamente parole con altre parole, tralasciando completamente il problema della connotazione. Ad esempio, “Guido, vorrei che tu, Lapo ed io fossimo presi per incantamento”: nel più fortunato dei casi troviamo nelle antologie incantamento "sostituito" con magia. Ma incantamento e magia denotano gli stessi significati? Non credo, perché non ho mai sentito dire: “Questa sera si terrà uno spettacolo di incantamento”. Credo anzi, con Barilli, che l’esercizio della parafrasi conduca ad una frantumazione in piccoli segmenti della bellezza dell’intero testo. La parafrasi distrugge la forma come totalità d’espressione, a favore di tanti più abbordabili contenuti. . Roland Barthes in un piccolo saggio, Leçon, afferma polemicamente che la lingua è fascista, non perché vieta di dire, ma perché obbliga a dire. Evidentemente sta parlando della rigidità del codice, dell’osservazione delle sue leggi, alle quali tutti noi dobbiamo obbedire se vogliamo comunicare.
Tutto questo può rappresentare una "trappola" perché siamo sempre costretti ad esprimerci seguendo determinate regole (maschile, femminile, singolare, plurale, etc.). E’ lo stesso autore che ci indica un’altra strada, che ci aiuta a superare la comunicazione per entrare nella significazione. Questa è la trasgressione del codice, cioè violazione della norma linguistica, uso libero della parola, che diventa forma d’arte per eccellenza nella poesia. A questo punto pare che non si possa tralasciare oltre lo schema della comunicazione:

CANALE

EMITTENTE CODICE RICEVENTE

CONTESTO

La comunicazione è riferita ad un preciso oggetto e perché vi sia bisogna che queste voci siano tutte soddisfatte. La significazione interviene proprio quando si mette in crisi uno degli elementi della comunicazione. Ad esempio, “Mi illumino d’immenso” (Ungaretti). La bellezza di questo testo nasce proprio dalla sua ambiguità. Il poeta non ci informa circa la fonte di luce, o se sia luce l’oggetto di cui sta parlando, ma ci offre un’ampia serie di connotazioni dell’immagine, di possibili letture.
L’Arte non comunica, significa, proprio perché ogni volta che si da una nuova prestazione artistica si è scritto un nuovo codice.
Nel mondo della significazione ci si esprime per forme, per forme, per forza di cose, totali. Che significa? Significa che noi siamo divisi in una parte razionale, sempre pronta ad affrontare l’esistenza seguendo regole logiche, ed un’altra parte irrazionale, la parte dei sensi, che percepisce la vita ed affronta il problema della conoscenza attraverso il "piacere". Questa separazione, chiamata alienazione, ha prodotto, insieme all’accelerazione data dall’evoluzione tecnologica, la perdita della totalità che era dominio della civiltà greca.
Per perdita della totalità si intende proprio l’impossibilità di esprimersi con le due parti nello stesso momento (si veda il paragrafo Classico /Anticlassico). Oggi noi, per recuperare tutto questo, dobbiamo necessariamente, ripercorrendo il cammino a ritroso, ritrovare quell’equilibrio, quella misura tra le parti, che connota il periodo classico del quale parleremo più avanti nelle forme d’arte.

2. Distinzione tra forma e contenuto
Che differenza c’è tra uno spot pubblicitario firmato da un famoso regista e la Gioconda di Leonardo? La differenza, o meglio, le differenze stanno a vari livelli e piani. La più importante, comunque, è la seguente: nello spot prevale l’esigenza di veicolare, di proporre il prodotto e tanto meglio se il messaggio viene costruito su un testo straniante. Ad esempio nello spot girato da Fellini per Campari qualche anno fa, non c’è nessuna relazione tra le immagini (una ragazza in treno che cambia il paesaggio usando un telecomando) ed il prodotto reclamizzato.
In sostanza lo spot ha come prima esigenza l’aspetto pratico. La Gioconda invece, come testo incredibilmente ambiguo (la scelta non è stata casuale), non finisce mai di raccontarsi. I significati, sciolti da qualsiasi schema precostituito, vanno liberi, liberi perché non hanno un messaggio finale da veicolare.
In sostanza, la Gioconda non ha nessun aspetto pratico. Non ci dice che prodotto usare, non ci ripara dal freddo, non ci disseta, etc. L’Arte non ha funzioni pratiche, quindi “non serve a niente”, è un libero gioco, quel libero gioco che superando i ruoli imposti ci porta in luoghi inusitati che sono la nostra “fantasia”. Non serve a niente se non ad educare. Stiamo parlando di educazione con la "e" maiuscola, perché l’oggetto del suo educare è l’individuo nella sua totalità di essere sociale. Tornando alla distinzione tra forma e contenuto, guardiamo un attimo alla scienza.
Allo scienziato interessa che l’esperimento riesca sempre, tanto da confermare l’ipotesi. Ad
Archimede non interessava il "come" ma il "quanto", cioè che un corpo immerso in un liquido ricevesse una spinta dal basso verso l’alto pari al suo peso specifico e che l’esperimento riuscisse sempre. A Giotto, invece, interessava "come" le sue figure, mai eguali, prendessero forma. . Cennini scriveva della pittura “ (...) la pittura ... l’arte di trovare cose non vedute (cacciandosi sotto ombre di naturali) e formar con la mano, dando a dimostrare quello che non è sia”
Quindi, mentre nella scienza, come nella vita quotidiana, i contenuti sono la parte predominante, nell’arte c’è spazio solo per le forme. Scriveva Lukàcs: “ Nella scienza ci impressionano i contenuti, nell’arte le forme; la scienza ci offre i fatti e le loro connessioni, l’arte invece ci offre anime e destini”. Con questa affermazione non si vuole dire però che nell’arte non c’è contenuto, ma che esso è veicolato, messo in evidenza dalle forme. Altro esempio per chiarire il rapporto tra forma e contenuto lo possiamo prendere dal quotidiano, con una frase molto semplice del tipo “Buon giorno, ragazzi”. La posso dire in tanti modi (cordiale, adirato, indifferente) connotando ogni volta significati diversi, attribuendole, quindi, contenuti ogni volta diversi.

3. Rapporto società - arte e costanti linguistiche.
a) Linguaggi artistici: Astrattismo, Naturalismo e Realismo.
Alla domanda che cos’è e dove si trova l’arte, in genere viene data una risposta alquanto disarmante che recita più o meno così: “ma sì, cioè, però, ...la sensibilità dell’artista, l’ispirazione, il bisogno
dell’artista si esprime...” e via dicendo, collocando, comunque, l’arte in un limbo troppo lontano da noi per prenderlo e troppo vicino per metterlo a fuoco.
L’arte è, insomma, un qualcosa che c’è ma non si vede e che non ci appartiene, è qualcosa di superfluo. Far comprendere che l’arte nasce dal nostro quotidiano e che sia vicina a noi più di quanto non riusciamo ad immaginare, è difficile. E’ difficile come dire che la poesia è in tutti i nostri gesti, anche in quelli a cui non prestiamo mai attenzione. L’arte, la bellezza e la verità partono dal quotidiano, dalla vita di tutti i giorni e odiano i giorni di festa, quelli in cui si mette il vestito "bello", L’arte parte dalla società, ma è un linguaggio scritto fuori dal tempo e dallo spazio. Le forme sono frutto di una determinata società, nascono da questa e quando si fermano sulle tavole, sui muri e sulle tele, non fanno altro che scrivere la storia della società che le ha generate. Ad esempio quando una società è "aristocratica", ci troveremo sicuramente di fronte a forme astratte che hanno il loro referente lontano dalla natura, nel pensiero.
In una società aristocratica la struttura sociale è organizzata rigidamente (es., la civiltà egiziana, dove il faraone è anche Dio, è il capo assoluto di una piramide di stratificazioni sociali); di conseguenza i codici espressivi, e con essi quelli artistici, si allontanano dalla natura, perché a tutti fin troppo accessibile, per rifugiarsi in un linguaggio fisso, immutabile, atemporale e pertanto simbolico.
Questo linguaggio è detto Astrattismo. Un chiaro esempio è dato dal concetto di successione dinastica. Il re, l’imperatore o il faraone non regnano perché eletti dal popolo per le loro qualità, ma per una precisa regola il titolo passa di padre in figlio.
L’uomo comune non prende parte attivamente alla storia ed al tempo in cui essa si svolge, ma come unico punto di riferimento ha un insieme di simboli impostogli dall’alto. Mancando gli elementi spazio e tempo, e quindi la "storia", nella pittura, ad esempio, le figure saranno schiacciate sul fondo, come proiettate su un piano immaginario dove c’è spazio solo per il pensiero, che può salire o scendere, andare e ritornare sul piano senza tentare mai la terza dimensione.
Un’altra forma di linguaggio artistico è quella “naturale”. Il referente in questo caso è la natura, la quale è sì fonte ispiratrice, ma è filtrata dall’idea e quindi, attraverso l’idealizzazione, diviene universale (Fidia, Piero della Francesca).
Questa scrittura appartiene ad una società in movimento, ad una società borghese impegnata a costruire materialmente che trova la sua poetica, il suo fare, proprio nel mettere insieme il tempo e lo spazio. Una società che abbisogna della Storia per giustificare se stessa, per tratteggiare i confini delle proprie conquiste. Tutto ciò è reso palese nell’arte da come le figure abitano lo spazio, non potendo fare a meno della terza dimensione. Ad esempio, l’incredibile profondità dei paesaggi di Leonardo, la miracolosa successione di piani perfettamente scanditi in profondità in Piero della Francesca.
Per società borghese si intende una società omogenea, che a differenza di quella aristocratica, non si struttura dall’alto verso il basso, ma, pur conservando la forma gerarchica, apre spazi più democratici di partecipazione alla gestione della cosa pubblica, perché il cardine su cui si impernia è economico - tecnologico (si vedano l’invenzione della stampa ad opera di Gutemberg nel 1450 e l’invenzione degli assegni bancari nel 1401 a Firenze).
Qui l’uomo comune partecipa attivamente alla sua storia e quindi, nella pittura, spazio e tempo prendono le forme del verosimile.
C’è ancora un linguaggio da indagare, una forma più incidente, capace più delle altre di segnare, scuotere, impressionare lo spettatore: il Realismo.
Il Realismo, scritto da osservatori critici di una società borghese che è andata sempre più acquistando consapevolezza dell’esistenza di classi ben differenziate (mercanti, artigiani, nobili, contadini), entra nelle pieghe più nascoste del naturalismo facendolo urlare. Pur partendo dalla natura, di questa mette a fuoco solo un aspetto: la degenerazione del dato naturale.
Il realismo guarda più all’Uomo, più al soggetto che all’oggetto. Ad esso interessa il nucleo del discorso, senza troppi incisi; il suo modo di esprimersi è essenziale, duro.
Nelle opere di questa corrente, malgrado si parta dal naturalismo è proprio la natura, quella natura intesa come scenario nel quale le "belle figure" si muovono, che viene eliminata. Tutte le energie sono impegnate invece a guardare un momento particolare in cui le figure agiscono, fanno, e poco importa se non sono aggraziate e se il paesaggio intorno è ridotto a pochi, scarni elementi.
Il realismo è quello stile che serve a “denunciare”, a “provocare”, a “scuotere”, a far prendere coscienza con violenza di una realtà che vede l’Uomo, vincitore, collocarsi al centro dell’universo con la dignità di chi ha saputo costruirsi una sua Storia. Oppure, lo vede in balia della Storia che corregge la sua rotta malgrado la sua forza. Una Storia che diventa maligna compagna, sempre pronta a tradire l’umana illusione di ordine e misura, riducendo la prospettiva, che sempre l’esprime, ad una entità precaria. Il realismo è l’azione, il gesto che si compie, è l’attimo, quell’attimo. Da Giotto a Goya, passando per Masaccio e poi fino a Caravaggio, il carattere del realismo è sempre lo stesso: con le sue forme costringe gli individui alla consapevolezza della propria esistenza, a formarsi una coscienza politica, in una parola a prendere nei confronti della realtà una posizione.

b) Classico e Anticlassico
Ora, visto in quale misura la società sia in grado di determinare degli stili, bisogna guardare più da vicino alle forme e cercare di individuare un qualcosa che chiameremo costanti linguistiche.
Le forme con le quali si scrivono i vari stili sono sostanzialmente due: Classico ed Anticlassico e/o Romantico. Questa opposizione dialettica è alla base di qualsiasi analisi critica. Capire a quali mondi rimandano questi due giudizi di valore, significa avere a portata di mano la chiave per rendere intelligibili le forme.
Tutto quello che è classico è equilibrio e misura; tutto quello che è anticlassico e/o romantico è perdita dell’equilibrio. Il linguaggio classico è un linguaggio totale, un linguaggio che ha in sé quell’equilibrio tra la parte razionale ed irrazionale dell’uomo. Classico è equilibrio tra uomo e natura, tra soggetto e oggetto, tra uomo e uomo tra forma e contenuto.
Anticlassico è, al contrario, la perdita dell’equilibrio, della misura; è tutto quello che rompe l’armonia spingendo le forme ora verso l’irrazionale, ora verso il razionale, e comunque sempre in una sola direzione, spezzando l’unità, la fusione di questi due elementi che è tipica del Classico.
Se dovessimo porre il Classico in una categoria, lo metteremmo in quella del "Bello"; invece, per l’Anticlassico e/o Romantico, la categoria è il "Sublime". Per la definizione di questi due termini, citiamo un brano da Osservazioni sul sentimento del Bello e del Sublime di Kant:
“ (...) Il sentimento raffinato che ora vogliamo analizzare si distingue anzitutto in due specie: il sentimento del sublime e il sentimento del bello. Ambedue provocano nell’animo una deliziosa commozione, ma in modo completamente diverso. La visione di un monte le cui cime innevate si levano sopra le nubi, la descrizione dell’infuriare di una tempesta, oppure la rappresentazione del regno infernale di Milton suscitano piacere misto a terrore; invece, l’occhio che spazia su prati in fiore, valli percorse da rivi serpeggianti, disseminate di greggi al pascolo, la descrizione dell’Eliso oppure la raffigurazione della cintura di Venere in Omero, procurano anch’esse sensazioni deliziose, però liete e aperte al sorriso. Per far sì che le impressioni del primo tipo possano verificarsi in noi con la dovuta intensità, dobbiamo avere un sentimento del sublime; per godere quelle del secondo tipo in modo adeguato, un sentimento del bello. “
Il problema, la spaccatura tra razionale ed irrazionale, nasce con l’Ellenismo, quando l’unità tra pensiero e parola, che ha dato origine al pensiero mitico, viene spezzata. Come una mano che sta sicura col pugno chiuso e poi le dita si sciolgono aprendosi a ventaglio, così il linguaggio prende varie forme e dalla tragedia si passa al dramma.
Il linguaggio della tragedia è quello che vede Apollo, dio della bellezza e della misura (parte razionale), e Dioniso, dio dell’ebbrezza, dei sensi, dell’eccesso (parte irrazionale), dare forma vivente nel loro incontrarsi e scontrarsi alla totalità.
Succede con Alessandro il Macedone che la "polis" (insieme civile e politico) decade ed il "cittadino" diventa "suddito". Nella polis di Pericle (V secolo a.C.) il cittadino era attore della sua esistenza.
Gli Ateniesi potevano partecipare alla cosa pubblica, venivano educati e responsabilizzati. Quindi è anche e soprattutto da questa armonia che si legge quell’unità di cui si è parlato precedentemente.
Questa connotazione sociale viene a perdersi appunto con Alessandro il Macedone (IV secolo a.C.), quando il cittadino subisce la volontà di chi gestisce il potere diventando "suddito".
Anticlassico è tutto quello che rompe la misura, che in qualche modo in preda a "furor" dionisiaco, è alla ricerca della perduta totalità. Le forme che lo denunciamo sono quelle che prendono distanza dalla natura, che astratte o fin troppo reali, descrivono una sola parte della realtà: o quella dettata dalla ragione o quella dettata dai sensi.
Nelle arti figurative l’Anticlassico si palesa quando si incrina l’ortogonalità, quando la simmetria, spezzata, favorisce diagonali che tagliano lo spazio del quadro; e quando la prospettiva, sistema simbolico per eccellenza di ordine e misura, viene contraddetta, cancellata, dimenticata; e quando infine le figure rappresentate, in preda ad un andirivieni senza inizio e fine nello spazio loro assegnato (muro, tavola, tela), danno origine ad un circolo, ad un caos dal quale, per incanto, nasce una nuova ragione, la ragione del dubbio.

4. Il Valore delle forme artistiche è nell’Estetica
Con il termine estetica indichiamo la filosofia o la disciplina dell’arte, ossia il percepire l’oggetto attraverso i sensi. La funzione estetica, comunque, ha un campo d’azione più vasto della sola arte, in quanto qualsiasi evento o fatto può essere portatore dell’esperienza estetica. Però è nell’arte che essa è dominante. Il fine della funzione estetica è di destare il piacere estetico. Questo piacere estetico non lo troviamo contenuto nell’oggetto preso in considerazione (non è inerente all’oggetto), ma si scatena nel momento in cui il soggetto fruitore ne riceve emozioni tali da spezzare la routine dell’esperienza quotidiana. La funzione estetica agisce profondamente sulla vita della società e dell’individuo, muta con essa in quanto segue l’evoluzione socioculturale ed i suoi cambiamenti.
Quello che era considerato ‘bello’ ai primi del Novecento oggi fa sorridere, perché con lo sviluppo anche tecnologico il gusto cambia.
Per comodità, trattando questo argomento, seguiremo la divisione per voci operata da Mukarovsky, parlando di quegli elementi che della funzione estetica sono parte integrante e manifestazione: norma e valore.
Nel passato la norma estetica veniva intesa come quella legge che dettava le condizioni generalmente obbligatorie della bellezza. L’estetica moderna manifesta, invece, una chiara sfiducia nella obbligatorietà illimitata della norma. Se consideriamo la norma estetica come fatto storico, cioè la sua variabilità nel tempo, noteremo che essa si trasforma con l’applicazione; lo possiamo constatare, ad esempio, osservando le norme linguistiche ed i loro mutamenti.
Per l’Arte in particolare il ‘trasgredire’ la norma è uno strumento fondamentale ed intenzionale da parte dell’artista. Non si intende, però, una violazione e/o trasgressione nel senso di cancellazione netta dei principi estetici, ma di cambiamento graduale. Per violazione intendiamo il rapporto tra una norma precedente nel tempo e la nuova, diversa ed ancora in formazione.
Non dobbiamo mai pensare che la trasgressione di una norma sia brusca e repentina, sempre nelle opere d’arte troviamo una mescolanza tra vecchio e nuovo: l’opera oscilla tra passato e futuro. Di primo acchito le violazioni sembrano le parti più influenti, ma con il passare del tempo verranno comprese e ridotte a norma. L’opera d’arte entrerà così nella storia dell’arte e se le nuove norme formeranno in corpo unitario saranno dette canone. Le nuove norme estetiche passano dall’arte alla vita quotidiana e qui acquistano una validità quasi obbligatoria, diventando dei veri criteri di misurazione dei valori. Si veda, ad esempio, quanto importanti siano la pubblicità o la moda nel determinare ciò che vale o meno, ciò che è importante o no per l’individuo. Ora esaminiamo il concetto di ‘valore estetico’. Per determinarlo occorre la forza della funzione estetica e le regole dettate dalla norma. Quanto più forte sarà la trasgressione dalla norma vigente, tanto più elevato sarà il grado di valore estetico dell’opera. Ma il valore estetico non è immutabile, infatti una stessa opera può essere valutata in maniera diversa in epoche diverse. Ad esempio, il tema dell’amor cortese nelle opere letterarie medievali pur conservando oggi valore estetico, ne ha avuto un altro senz’altro più alto nel Medioevo in quanto rispecchiava pienamente gli ideali del pubblico contemporaneo: era nella ‘norma’ dell’epoca.
Per riassumere possiamo dire che l’estetica ci insegna a vedere in un oggetto non solo la sua mera utilità, ma anche a considerarne la materia, la forma, etc., imparando ad accostare funzione (uso dell’oggetto) a forma.
E’ quindi l’unica disciplina in grado di scrivere un nuovo codice, raccontando un’esperienza totalizzante in cui le nostre esperienze sensoriali e razionali sono simultaneamente coinvolte.

5. L’arte come educazione dell’individuo.
“L’arte non ha funzioni pratiche, ...l’arte non comunica ma significa, ... l’arte è la trasgressione del codice, ... l’arte è ....” Con tutte queste affermazioni dal sapore categorico e poco discorsivo, si potrebbe dare l’idea che l’arte sia davvero un "dannato silenzio" ingombrante e inutile. Ma non è così, e basta ad esempio riflettere sul concetto di gioco teorizzato da Schiller alla fine del ‘700.
Se l’arte è, come abbiamo visto, superamento della norma, per fruirla bisogna necessariamente essere in grado di uscire dai canoni vigenti, in parole semplici, rendersi liberi. “ (...) Essendo libertà da ogni obbligo, l’arte è gioco; il gioco contraddice la serietà dell’agire unitario, ma poiché la libertà è il supremo dei valori, soltanto giocando si è veramente seri” (C.G.Argan)
Ma che importanza ha la libertà per l’individuo? Libertà da cosa? Oggi essere liberi non può certo significare “fare quello che ci pare”, ma non dimenticare che libertà è essere consapevoli della realtà che ci circonda, fatta di ruoli, di divisione in classi, di bisogni imposti da un consumo sfrenato.
La consapevolezza di questa realtà si esplica proprio nel comprendere i meccanismi che la governano, nel prendere coscienza del loro funzionamento, non nel rifiutarla o sottrarsi sa essa.
Bisogna tendere alla totalità, riconquistare se stessi completamente, bisogna operare, come dice Schiller, una rivoluzione: quella dell’individuo. Bene e male, razionale ed irrazionale convivono in noi e per essere liberi dobbiamo imparare a lasciarli esprimere senza mortificarne nessuno.
In quest’epoca di sconsiderata omologazione verso il basso, ci troviamo tutti ‘uniti’ e ‘uguali’ nel segno dei consumi. La cultura di massa è intervenuta a pianificare, producendo in sempre maggiore quantità e risparmiando sulla qualità. Non si può passivamente affermare che “siamo tutti uguali”, costringendoci ad un rispetto più che imposto, quasi ossessivamente ripetuto dai giornali e dalla televisione. E’ necessario prendere coscienza delle differenze culturali tra popoli ed individui e da queste far nascere il rispetto per l’altro.
La pianificazione di questi anni ha prodotto vuoti pericolosi perché riempiti da etichette. Funzione dell’arte è permettere all’individuo di rimuovere le etichette per dare spazio alla coscienza e guardare alla realtà da più punti di vista.
Bello e brutto sono relativi e se smettessimo di avere pregiudizi egocentrici potremmo anche credere che quello che è brutto per alcuni è bello per altri. Dobbiamo misurarci con noi stessi e cercare nella coscienza dei nostri limiti quella “sola autenticità” che, come afferma Lukàcs, è concessa all’uomo e attraverso essa saper superare i ruoli imposti, scoprire la gioia di fare, proprio come fanno i bambini quando si inventano adulti e giocano alla guerra.
L’arte, proprio perché è libera, abbatte i muri dei luoghi comuni e delle cose scontate ... niente per l’arte è scontato.
Il nostro quotidiano è ricco di gesti significanti, basta portarli alla luce, basta saper tenere la vita tra le mani senza sciuparla, prestando un po’ di attenzione per scoprire che la poesia è parte integrante della nostra realtà.
L’arte ci insegna la commozione perché ‘parla’ alla nostra anima un linguaggio vero, autentico, suggerendoci un determinato atteggiamento verso le cose.
Ma da parte nostra per riuscire ad esaltare questi atteggiamenti dobbiamo arricchire le nostre capacità di espressione entrando dentro le parole, usandole per quello che sono, libere da ogni tentativo di parafrasi che le travesta.
L’Arte è verità, è bellezza e queste non possono essere che strumenti insostituibili alla nostra educazione.

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